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la questione della nobiltà della lingua nel De Vulgari Eloquentia di

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punto, occorrerà adesso verificare in che misura e secondo quali<br />

modalità, le nozioni <strong>di</strong> forma locutionis e actus locutionis vengano<br />

riutilizzate da Dante per rispondere al<strong>la</strong> domanda circa <strong>la</strong> <strong>nobiltà</strong> del<br />

volgare.<br />

La domanda intorno al<strong>la</strong> <strong>nobiltà</strong> <strong>di</strong> una <strong>lingua</strong>, assieme al<strong>la</strong><br />

in<strong>di</strong>viduazione delle con<strong>di</strong>zioni necessarie e sufficienti affinché tale<br />

rango venga riconosciuto a un i<strong>di</strong>oma è un problema a cui il Convivio<br />

e il <strong>De</strong> vulgari eloquentia sembrano dare soluzioni opposte. In<br />

Convivio I, v, 7 Dante afferma che il <strong>la</strong>tino “è sovrano per <strong>nobiltà</strong>,<br />

vertù, e bellezza”; in <strong>De</strong> vulgari eloquentia I, i, 4 egli stabilisce a mo'<br />

<strong>di</strong> assioma: “Harum quoque duarum, nobilior est vulgaris”. Se <strong>nel</strong><br />

trattato italiano, il confronto si configura dualisticamente nei termini<br />

<strong>di</strong> una tenzone tra <strong>la</strong>tino e volgare del sì, le analisi compiute dal<br />

trattato <strong>la</strong>tino non possono essere lette prescindendo dai risultati<br />

dell’indagine esameronale condotta nei capitoli introduttivi. In questo<br />

caso il problema del<strong>la</strong> <strong>nobiltà</strong> del<strong>la</strong> <strong>lingua</strong>, sebbene ancora impostato<br />

come <strong>di</strong>lemma, implica un confronto a tre. Da una parte il <strong>la</strong>tino,<br />

gente <strong>di</strong> Nembròt attenta” (Para<strong>di</strong>so, canto XXVI, versi 125 - 126). E continua:<br />

“Pria ch’i’ scendessi a l’infernale ambascia/ I s’appel<strong>la</strong>va in terra il sommo bene/<br />

onde vien <strong>la</strong> letizia che mi fascia;/ e El si chiamò poi: e ciò convene,/ ché l’uso d’i<br />

mortali è come fronda/ in ramo, che sen va e altra vene” (Ivi, versi 133 - 138).<br />

Caduto il mito del<strong>la</strong> <strong>lingua</strong> adamitica, perfetta e immutabile, riba<strong>di</strong>to il concetto<br />

del<strong>la</strong> ra<strong>di</strong>cale storicità <strong>di</strong> tutte le lingue in quanto prodotti convenzionali<br />

dell'invenzione umana, resta saldo il principio secondo cui <strong>la</strong> funzione prioritaria del<br />

<strong>lingua</strong>ggio consiste <strong>nel</strong>l'invocare il Nome del Padre. Che questo nome, a <strong>di</strong>fferenza<br />

<strong>di</strong> quanto sostenuto <strong>nel</strong> <strong>De</strong> vulgari eloquentia, stavolta sia in<strong>di</strong>viduato <strong>nel</strong><strong>la</strong> vocale<br />

"I" anziché <strong>nel</strong> consueto "El", che da San Giro<strong>la</strong>mo in poi tutti i me<strong>di</strong>evali<br />

considerano come primum <strong>De</strong>i nomen, non cambia nul<strong>la</strong> <strong>di</strong> essenziale. Per ulteriori<br />

approfon<strong>di</strong>menti su questo tema specifico mi permetto <strong>di</strong> rinviare al mio recente<br />

volume: A. Raffi, La gloria del volgare. Ontologia e semiotica in Dante dal<br />

"Convivio" al "<strong>De</strong> vulgari eloquentia", Soveria Man<strong>nel</strong>li, Rubbettino, 2004.<br />

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