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la questione della nobiltà della lingua nel De Vulgari Eloquentia di

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LATINO, EBRAICO E VOLGARE ILLUSTRE: LA QUESTIONE DELLA<br />

NOBILTÀ DELLA LINGUA NEL DE VULGARI ELOQUENTIA DI<br />

DANTE. 1<br />

ALESSANDRO RAFFI<br />

Il problema <strong>di</strong> fondo attorno al quale ruotano le riflessioni del <strong>De</strong><br />

vulgari eloquentia può essere riassunto <strong>nel</strong><strong>la</strong> domanda: in quali<br />

con<strong>di</strong>zioni strutturali e a che livello del suo sviluppo storico il volgare<br />

d'Italia può assurgere al rango <strong>di</strong> <strong>lingua</strong> nobile? L'idea <strong>di</strong> <strong>nobiltà</strong> e <strong>la</strong><br />

realtà del volgare sembrano infatti collidere in una sorta <strong>di</strong> ossimoro<br />

da cui parrebbe non esserci via d'uscita. È dal<strong>la</strong> molteplicità <strong>di</strong><br />

implicazioni che sono legate a questa domanda che nasce <strong>la</strong><br />

complessità del <strong>De</strong> vulgari eloquentia, un trattato polimorfo e<br />

irriducibile al<strong>la</strong> fisionomia <strong>di</strong> un determinato genere letterario, un<br />

testo <strong>di</strong> grande respiro specu<strong>la</strong>tivo che accoglie le istanze delle<br />

<strong>di</strong>scipline più <strong>di</strong>sparate: dal<strong>la</strong> poetica al<strong>la</strong> retorica, dal<strong>la</strong> grammatica<br />

al<strong>la</strong> logica, dal<strong>la</strong> esegesi esameronale, che fornisce <strong>la</strong> cornice teorica<br />

ai capitoli riguardanti l'origine del <strong>lingua</strong>ggio, al<strong>la</strong> specu<strong>la</strong>zione<br />

metafisica sostenuta dall'Auctoritas del Filosofo. A nostro avviso, per<br />

inquadrare correttamente <strong>la</strong> <strong>questione</strong> del<strong>la</strong> <strong>nobiltà</strong> <strong>nel</strong> <strong>De</strong> vulgari<br />

eloquentia è imprescin<strong>di</strong>bile una lettura approfon<strong>di</strong>ta del blocco<br />

costituito dai capitoli I- VIII del primo libro, che troppo spesso si<br />

1 Le citazioni presenti <strong>nel</strong> testo fanno riferimento alle seguenti e<strong>di</strong>zioni critiche:<br />

Convivio, in: Dante Alighieri, Opere Minori, tomo I parte II, a cura <strong>di</strong> C. Vasoli e D.<br />

<strong>De</strong> Robertis, Ricciar<strong>di</strong>, Mi<strong>la</strong>no – Napoli, 1988; <strong>De</strong> vulgari eloquentia, in: Opere


tende a considerare coma una introduzione <strong>di</strong> maniera, spiegabile col<br />

gusto tutto me<strong>di</strong>evale per le origini remote, una sorta <strong>di</strong> prelu<strong>di</strong>o<br />

ornamentale al nocciolo duro del trattato. In realtà, è proprio in questi<br />

primi otto capitoli che Dante forgia, sul<strong>la</strong> scorta <strong>di</strong> autorità teologiche<br />

e filosofiche, gli strumenti teorici che impiegherà <strong>nel</strong>le sue analisi<br />

successive. A partire da una duplice <strong>questione</strong>: in che cosa consista<br />

l'essenza del<strong>la</strong> <strong>lingua</strong>; e quale sia l'origine del <strong>lingua</strong>ggio.<br />

Il problema dell'essenza del<strong>la</strong> <strong>lingua</strong> rinvia al<strong>la</strong> natura del segno,<br />

costituito da un supporto sensibile, un significante, portatore <strong>di</strong> un<br />

significato intelligibile. La duplice natura del segno linguistico<br />

<strong>di</strong>mostra per Dante che <strong>nel</strong><strong>la</strong> compagine del cosmo “soli homini<br />

datum fuit ut loqueretur” (<strong>De</strong> vulgari eloquentia I, iv, 1). Duplice,<br />

infatti, è <strong>la</strong> natura dell'uomo, animale razionale in quanto sinolo <strong>di</strong><br />

materia e forma. È da escludersi, pertanto, l'esistenza <strong>di</strong> una <strong>lingua</strong><br />

degli angeli: dato che lo spirito delle intelligenze celesti non è<br />

nascosto dallo spessore <strong>di</strong> un corpo mortale, esse non hanno bisogno<br />

<strong>di</strong> segni sensibili per comunicare i loro pensieri. La comunicazione tra<br />

gli angeli assume l'aspetto <strong>di</strong> una visione silenziosa da mente a mente,<br />

dove ciascuno si rive<strong>la</strong> totalmente all'altro perdendosi <strong>nel</strong><strong>la</strong><br />

contemp<strong>la</strong>zione dello Specchio del<strong>la</strong> Sapienza <strong>di</strong> Dio (<strong>De</strong> vulgari<br />

eloquentia I, ii, 3 - 4). Per motivi opposti, Dante esclude anche<br />

l'esistenza <strong>di</strong> un <strong>lingua</strong>ggio degli animali. In questo caso, dato che le<br />

bestie non hanno nul<strong>la</strong> da comunicare, essendo creature prive <strong>di</strong><br />

ragione, i loro versi non possono essere intesi come significanti<br />

Minori, tomo II, a cura <strong>di</strong> P.V. Mengaldo, Ricciar<strong>di</strong>, Mi<strong>la</strong>no – Napoli, 1979, pp. 3 –<br />

300


intenzionalmente mirati al<strong>la</strong> trasmissione <strong>di</strong> un contenuto intelligibile.<br />

Soltanto l'uomo, in quanto creatura interme<strong>di</strong>a tra l'angelo e il bruto, è<br />

un animale linguistico. Lo schema dal quale Dante procede costituisce<br />

un topos dell'antropologia me<strong>di</strong>evale, e ci permette <strong>di</strong> trarre <strong>di</strong>versi<br />

corol<strong>la</strong>ri. Il regno degli angeli è il trionfo del Silenzio, dell'Ineffabile,<br />

e del Significato puro che si trasmette per un atto <strong>di</strong> intuizione<br />

intellettuale senza <strong>la</strong> me<strong>di</strong>azione <strong>di</strong> alcun significante sensibile.<br />

Configura l'utopia <strong>di</strong> una comunicazione trasparente e senza residui<br />

che corrisponde al<strong>la</strong> concor<strong>di</strong>a assoluta in seno al<strong>la</strong> Civitas <strong>De</strong>i. Il<br />

regno animale è invece il trionfo del "verso", del significante<br />

degradato a materia fonica, a manifestazione imme<strong>di</strong>ata dell'istinto<br />

bruto. Tra animali del<strong>la</strong> stessa specie vige una sorta <strong>di</strong> intesa<br />

prelinguistica basata sul<strong>la</strong> conoscenza dei <strong>di</strong>versi actus et passiones<br />

con<strong>di</strong>visi da ciascun esemp<strong>la</strong>re, mentre tra animali <strong>di</strong> specie <strong>di</strong>fferenti<br />

<strong>la</strong> presenza del <strong>lingua</strong>ggio oltre che inutile sarebbe stata dannosa, dato<br />

che fra loro sussiste un rapporto <strong>di</strong> costante inimicizia (<strong>De</strong> vulgari<br />

eloquentia I, ii, 5). Le <strong>di</strong>verse specie del regno animale costituiscono<br />

quin<strong>di</strong> l'esatto opposto del<strong>la</strong> Civitas angelica, il dominio del<strong>la</strong> guerra<br />

<strong>di</strong> tutti contro tutti e del<strong>la</strong> <strong>di</strong>scor<strong>di</strong>a assoluta. Non è <strong>di</strong>fficile accorgersi<br />

del fatto che quando Dante <strong>di</strong>segna i due poli estremi del<strong>la</strong> con<strong>di</strong>zione<br />

angelica e del<strong>la</strong> con<strong>di</strong>zione bestiale, stia alludendo ai due possibili<br />

termini asintotici verso i quali tende <strong>la</strong> città dell'uomo, animale<br />

linguistico in quanto politico e viceversa. La lezione aristotelica è<br />

altrettanto evidente. Questa possibile linea <strong>di</strong> sviluppo del<strong>la</strong> riflessione<br />

237.<br />

301


dantesca verrà esplicitamente al<strong>la</strong> luce <strong>nel</strong> momento in cui si tratterà<br />

<strong>di</strong> esaminare le conseguenze del<strong>la</strong> confusione delle lingue, punizione<br />

<strong>di</strong>vina al tentativo umano <strong>di</strong> e<strong>di</strong>ficare <strong>la</strong> torre <strong>di</strong> Babele.<br />

L'essenza del<strong>la</strong> <strong>lingua</strong> come insieme <strong>di</strong> segni costituiti da un<br />

significante sensibile che rinvia a un significato ideale, <strong>di</strong>scende<br />

quin<strong>di</strong> dall'essenza del<strong>la</strong> natura umana. Come l'angelo, e a <strong>di</strong>fferenza<br />

dell'animale bruto, l'uomo è dotato <strong>di</strong> una mente razionale in grado <strong>di</strong><br />

enucleare concetti. Come il bruto, e a <strong>di</strong>fferenza dell'angelo, l'uomo è<br />

dotato <strong>di</strong> un corpo materiale, ed è quin<strong>di</strong> impe<strong>di</strong>to a quel<strong>la</strong><br />

comunicazione trasparente e silenziosa che caratterizza le intelligenze<br />

celesti. Partendo da questo presupposto, Dante procede a <strong>di</strong>scutere il<br />

problema del<strong>la</strong> struttura originaria del<strong>la</strong> <strong>lingua</strong> adamitica introducendo<br />

<strong>la</strong> nozione <strong>di</strong> forma locutionis. Egli premette, innanzi tutto, che<br />

quando Dio creò l'anima del primo uomo concreò, insieme ad essa,<br />

una determinata forma locutionis. Il legame intrinseco che fa<br />

dell'uomo un "animale significante" <strong>di</strong>venta ancora più perspicuo: allo<br />

stesso modo per cui l'anima è forma e principio strutturante del corpo,<br />

anche <strong>la</strong> <strong>lingua</strong> è costituita da una struttura formale e da un elemento<br />

materiale. Quanto al<strong>la</strong> nozione <strong>di</strong> forma, Dante ne dà una definizione<br />

<strong>di</strong> questo tipo: “Dico autem "formam" et quantum ad rerum vocabu<strong>la</strong>,<br />

et quantum ad vocabulorum constructionem et quantum ad<br />

constructionis pro<strong>la</strong>tionem” (<strong>De</strong> vulgari eloquentia I, vi, 4).<br />

Utilizzando formule ricorrenti nei grammatici me<strong>di</strong>evali, Dante qui<br />

delinea i tre elementi costitutivi del<strong>la</strong> <strong>lingua</strong>: lessico, sintassi, e<br />

morfologia. Possiamo affermare che <strong>la</strong> nozione <strong>di</strong> forma locutionis si<br />

302


presta a una duplice possibilità <strong>di</strong> lettura. In una accezione forte,<br />

Dante <strong>la</strong> utilizza in riferimento al<strong>la</strong> <strong>lingua</strong> originaria par<strong>la</strong>ta da Adamo<br />

e dall'intera umanità fino al<strong>la</strong> confusione delle lingue. In una<br />

accezione debole, <strong>la</strong> nozione <strong>di</strong> forma locutionis in<strong>di</strong>vidua gli aspetti<br />

strutturali potenzialmente presenti in ogni i<strong>di</strong>oma storico ricreato dalle<br />

convenzioni umane dopo Babele. Forma locutionis in senso forte fu<br />

quin<strong>di</strong> <strong>la</strong> struttura del<strong>la</strong> <strong>lingua</strong> primor<strong>di</strong>ale che Dio stesso concreò<br />

<strong>nel</strong>l'anima <strong>di</strong> Adamo (<strong>De</strong> vulgari eloquentia I, vi, 4). Una struttura<br />

perfetta, cristallina, trasparente, in cui il senso delle parole rifletteva il<br />

senso ultimo delle cose. Com'è noto, Dante identifica <strong>la</strong> <strong>lingua</strong><br />

adamitica con l'ebraico, sul<strong>la</strong> scorta <strong>di</strong> una tra<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> lunga durata<br />

risalente per lo meno a Sant'Agostino. Forma locutionis degradata, in<br />

quanto ricostruita artificialmente da ogni popolo dopo il <strong>di</strong>sastro del<strong>la</strong><br />

torre <strong>di</strong> Babele, è da considerarsi invece <strong>la</strong> struttura "semantico -<br />

sintattico - morfologica" degli i<strong>di</strong>omi storici, instabili e soggetti a un<br />

continuo <strong>di</strong>venire.<br />

A fronte <strong>di</strong> questo primo versante del<strong>la</strong> ricerca "archeologica",<br />

re<strong>la</strong>tivo al problema del<strong>la</strong> struttura originaria del<strong>la</strong> <strong>lingua</strong>, Dante<br />

affronta <strong>la</strong> <strong>questione</strong> dell'origine del <strong>lingua</strong>ggio chiedendosi quale sia<br />

stato l'atto <strong>di</strong> paro<strong>la</strong> iniziale (il primiloquium) con cui l'uomo ha<br />

cominciato concretamente ad esprimersi. La <strong>di</strong>stinzione tra il concetto<br />

<strong>di</strong> forma locutionis - <strong>la</strong> struttura del<strong>la</strong> <strong>lingua</strong> - e il concetto <strong>di</strong> actus<br />

locutionis - che Dante introduce per in<strong>di</strong>viduare <strong>la</strong> <strong>di</strong>mensione del<br />

<strong>lingua</strong>ggio come estrinsecazione concreta degli atti <strong>di</strong> paro<strong>la</strong>, sembra<br />

preludere al<strong>la</strong> celebre <strong>di</strong>stinzione tra <strong>la</strong>ngue e parole co<strong>di</strong>ficata dal<strong>la</strong><br />

303


linguistica saussuriana. È a questo livello dell'analisi, all'altezza dei<br />

capitoli quarto e quinto del primo libro del <strong>De</strong> vulgari eloquentia, che<br />

Dante affronta <strong>la</strong> <strong>questione</strong> dell'origine del <strong>lingua</strong>ggio, e lo fa<br />

formu<strong>la</strong>ndo una teoria innovativa, e<strong>la</strong>borata attraverso un commento<br />

al libro del<strong>la</strong> Genesi che non trova precedenti <strong>nel</strong><strong>la</strong> letteratura<br />

esameronale. Il problema viene impostato attraverso il metodo<br />

sco<strong>la</strong>stico del<strong>la</strong> quaestio <strong>di</strong>sputata ed è artico<strong>la</strong>to in sei punti. Occorre<br />

chiarire chi sia stato il primo par<strong>la</strong>nte <strong>nel</strong><strong>la</strong> storia dell'umanità, che<br />

cosa <strong>di</strong>sse, a chi dove e quando parlò, e in quale <strong>lingua</strong> si espresse (<strong>De</strong><br />

vulgari eloquentia I, iv, 1). Benché il primo atto linguistico attestato<br />

dal<strong>la</strong> Genesi sia il <strong>di</strong>alogo intercorso tra Eva e il serpente tentatore,<br />

Dante sostiene che sia più razionale credere che un così eccellente atto<br />

del genere umano quale dev'essere il primiloquium, sia stato proferito<br />

dall'essere umano p<strong>la</strong>smato dal<strong>la</strong> mano <strong>di</strong> Dio, piuttosto che dal<strong>la</strong><br />

donna indotta in tentazione: “Rationabiliter ergo cre<strong>di</strong>mus ipsi Ade<br />

prius datum fuisse loqui ab Eo qui statim ipsum p<strong>la</strong>smaverat” (<strong>De</strong><br />

vulgari eloquentia I, iv, 3). In Adamo l'intera specie umana è nata al<br />

<strong>lingua</strong>ggio, prima del<strong>la</strong> cacciata dall'Eden, al <strong>di</strong> qua del<strong>la</strong> Storia e del<br />

dolore. Non c'è dubbio pertanto che <strong>la</strong> prima paro<strong>la</strong> proferita da<br />

Adamo, l'evento linguistico che costituisce il nobilissimo actus<br />

locutionis da cui ha tratto origine il <strong>lingua</strong>ggio umano <strong>nel</strong><strong>la</strong><br />

<strong>di</strong>mensione del<strong>la</strong> parole, sia stato l'esc<strong>la</strong>mazione gioiosa del Nome <strong>di</strong><br />

Dio. Allo stesso modo per cui, dopo <strong>la</strong> cacciata dal para<strong>di</strong>so terrestre,<br />

ogni essere umano accede al <strong>lingua</strong>ggio con un grido <strong>di</strong> dolore (“[…]<br />

post prevaricationem humani generis quilibet exor<strong>di</strong>um sue locutionis<br />

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incipit ab "heu"”; in: <strong>De</strong> vulgari eloquentia I, iv, 4) è ragionevole<br />

affermare che l'uomo creato in statu innocentiae, iniziasse a par<strong>la</strong>re<br />

con una esc<strong>la</strong>mazione <strong>di</strong> gioia. In virtù del<strong>la</strong> logica del contrappasso<br />

se ne deduce che l'origine ontogenetica del <strong>lingua</strong>ggio umano è<br />

l'esatto contrario del<strong>la</strong> sua origine filogenetica. E poiché non vi è gioia<br />

alcuna fuori <strong>di</strong> Dio, ne consegue che Adamo, ancor prima <strong>di</strong> proferire<br />

qualsiasi altra paro<strong>la</strong>, iniziò a par<strong>la</strong>re esc<strong>la</strong>mando El, quel nome<br />

ebraico che <strong>la</strong> tra<strong>di</strong>zione me<strong>di</strong>evale risalente a San Giro<strong>la</strong>mo<br />

considerava il più originario dei nomi <strong>di</strong> Dio. La risposta al<strong>la</strong><br />

domanda circa l'origine del <strong>lingua</strong>ggio non va cercata <strong>nel</strong> livello<br />

letterale del<strong>la</strong> Genesi, che non <strong>di</strong>ce nul<strong>la</strong> <strong>di</strong> esplicito a proposito <strong>di</strong><br />

questa esc<strong>la</strong>mazione primor<strong>di</strong>ale, ma può essere ricostruita<br />

razionalmente a partire dai medesimi presupposti teologici che il testo<br />

sacro ci offre. Se dopo <strong>la</strong> caduta "nascemmo al pianto", <strong>nel</strong> dolore<br />

dell'esilio dal<strong>la</strong> Patria primor<strong>di</strong>ale, prima del<strong>la</strong> caduta Adamo inizia a<br />

par<strong>la</strong>re <strong>nel</strong> segno del<strong>la</strong> gioia, rivolgendosi <strong>di</strong>rettamente al Creatore. La<br />

<strong>di</strong>stinzione dantesca tra forma e actus locutionis fornisce gli strumenti<br />

per rispondere al duplice problema affrontato in questo primo blocco<br />

del <strong>De</strong> vulgari eloquentia: <strong>la</strong> struttura originaria del<strong>la</strong> <strong>lingua</strong> è quel<strong>la</strong><br />

forma locutionis, concreata da Dio <strong>nel</strong>l'anima <strong>di</strong> Adamo, che si<br />

concretizzò <strong>nel</strong><strong>la</strong> <strong>lingua</strong> ebraica; l'evento primor<strong>di</strong>ale che costituisce<br />

l'origine del <strong>lingua</strong>ggio umano è l'actus locutionis con cui il padre<br />

dell'intera umanità ha esultato esc<strong>la</strong>mando il Nome <strong>di</strong> Dio. 2 A questo<br />

2 Su questo punto Dante non in<strong>di</strong>etreggia nemmeno <strong>nel</strong><strong>la</strong> celebre ritrattazione del<br />

ventiseiesimo canto del Para<strong>di</strong>so, dove lo spirito <strong>di</strong> Adamo rive<strong>la</strong> a Dante che <strong>la</strong><br />

<strong>lingua</strong> primor<strong>di</strong>ale fu “tutta spenta/innanzi che a l’ovra inconsummabile/ fosse <strong>la</strong><br />

305


punto, occorrerà adesso verificare in che misura e secondo quali<br />

modalità, le nozioni <strong>di</strong> forma locutionis e actus locutionis vengano<br />

riutilizzate da Dante per rispondere al<strong>la</strong> domanda circa <strong>la</strong> <strong>nobiltà</strong> del<br />

volgare.<br />

La domanda intorno al<strong>la</strong> <strong>nobiltà</strong> <strong>di</strong> una <strong>lingua</strong>, assieme al<strong>la</strong><br />

in<strong>di</strong>viduazione delle con<strong>di</strong>zioni necessarie e sufficienti affinché tale<br />

rango venga riconosciuto a un i<strong>di</strong>oma è un problema a cui il Convivio<br />

e il <strong>De</strong> vulgari eloquentia sembrano dare soluzioni opposte. In<br />

Convivio I, v, 7 Dante afferma che il <strong>la</strong>tino “è sovrano per <strong>nobiltà</strong>,<br />

vertù, e bellezza”; in <strong>De</strong> vulgari eloquentia I, i, 4 egli stabilisce a mo'<br />

<strong>di</strong> assioma: “Harum quoque duarum, nobilior est vulgaris”. Se <strong>nel</strong><br />

trattato italiano, il confronto si configura dualisticamente nei termini<br />

<strong>di</strong> una tenzone tra <strong>la</strong>tino e volgare del sì, le analisi compiute dal<br />

trattato <strong>la</strong>tino non possono essere lette prescindendo dai risultati<br />

dell’indagine esameronale condotta nei capitoli introduttivi. In questo<br />

caso il problema del<strong>la</strong> <strong>nobiltà</strong> del<strong>la</strong> <strong>lingua</strong>, sebbene ancora impostato<br />

come <strong>di</strong>lemma, implica un confronto a tre. Da una parte il <strong>la</strong>tino,<br />

gente <strong>di</strong> Nembròt attenta” (Para<strong>di</strong>so, canto XXVI, versi 125 - 126). E continua:<br />

“Pria ch’i’ scendessi a l’infernale ambascia/ I s’appel<strong>la</strong>va in terra il sommo bene/<br />

onde vien <strong>la</strong> letizia che mi fascia;/ e El si chiamò poi: e ciò convene,/ ché l’uso d’i<br />

mortali è come fronda/ in ramo, che sen va e altra vene” (Ivi, versi 133 - 138).<br />

Caduto il mito del<strong>la</strong> <strong>lingua</strong> adamitica, perfetta e immutabile, riba<strong>di</strong>to il concetto<br />

del<strong>la</strong> ra<strong>di</strong>cale storicità <strong>di</strong> tutte le lingue in quanto prodotti convenzionali<br />

dell'invenzione umana, resta saldo il principio secondo cui <strong>la</strong> funzione prioritaria del<br />

<strong>lingua</strong>ggio consiste <strong>nel</strong>l'invocare il Nome del Padre. Che questo nome, a <strong>di</strong>fferenza<br />

<strong>di</strong> quanto sostenuto <strong>nel</strong> <strong>De</strong> vulgari eloquentia, stavolta sia in<strong>di</strong>viduato <strong>nel</strong><strong>la</strong> vocale<br />

"I" anziché <strong>nel</strong> consueto "El", che da San Giro<strong>la</strong>mo in poi tutti i me<strong>di</strong>evali<br />

considerano come primum <strong>De</strong>i nomen, non cambia nul<strong>la</strong> <strong>di</strong> essenziale. Per ulteriori<br />

approfon<strong>di</strong>menti su questo tema specifico mi permetto <strong>di</strong> rinviare al mio recente<br />

volume: A. Raffi, La gloria del volgare. Ontologia e semiotica in Dante dal<br />

"Convivio" al "<strong>De</strong> vulgari eloquentia", Soveria Man<strong>nel</strong>li, Rubbettino, 2004.<br />

306


<strong>lingua</strong> veico<strong>la</strong>re del<strong>la</strong> cultura e <strong>lingua</strong> ufficiale delle massime<br />

istituzioni me<strong>di</strong>evali, Impero e Chiesa; nobilitato dal<strong>la</strong> pratica degli<br />

antichi vati che hanno prodotto i loro capo<strong>la</strong>vori in questa <strong>lingua</strong><br />

"rego<strong>la</strong>ta", il <strong>la</strong>tino si identifica con quel<strong>la</strong> gramatica inventata allo<br />

scopo <strong>di</strong> ricreare artificialmente, sul<strong>la</strong> base del comune consenso <strong>di</strong><br />

molti popoli, una <strong>lingua</strong> inalterabile <strong>nel</strong>lo spazio e <strong>nel</strong> tempo. Dante<br />

chiarisce che il <strong>la</strong>tino nasce dal<strong>la</strong> necessità <strong>di</strong> ancorare <strong>la</strong><br />

comunicazione tra i popoli ad uno strumento veico<strong>la</strong>re unico, a fronte<br />

del proliferare dei molteplici i<strong>di</strong>omi, nazionali e locali, subentrati al<strong>la</strong><br />

per<strong>di</strong>ta del<strong>la</strong> <strong>lingua</strong> unica avvenuta dopo Babele. Il secondo termine <strong>di</strong><br />

paragone è il volgare illustre, una sorta <strong>di</strong> terminus ad quem <strong>di</strong>stinto<br />

dal<strong>la</strong> realtà effettuale delle quattor<strong>di</strong>ci par<strong>la</strong>te correnti, al <strong>di</strong> qua e al <strong>di</strong><br />

là del<strong>la</strong> linea appenninica; nobilitato dall’esperienza poetica dei più<br />

egregi versificatori d’Italia questa <strong>lingua</strong> ancora in gestazione, che<br />

come una pantera nascosta irra<strong>di</strong>a ovunque il suo profumo, è<br />

comunque destinata ad assumere un'importanza sempre maggiore<br />

rispetto al suo ruolo subalterno <strong>di</strong> mera "<strong>lingua</strong> d’amore". Il terzo<br />

termine <strong>di</strong> paragone, che sembra rimanere sullo sfondo, è infine<br />

l’ebraico, <strong>la</strong> <strong>lingua</strong> sacra par<strong>la</strong>ta da Adamo <strong>nel</strong>l’Eden, costruita su una<br />

forma locutionis che fu Dio stesso a concreare <strong>nel</strong>l’anima del primo<br />

uomo. È ovvio che nessuno potrà mai mettere in <strong>di</strong>scussione i titoli <strong>di</strong><br />

<strong>nobiltà</strong> del<strong>la</strong> <strong>lingua</strong> adamitica: anzi, le caratteristiche peculiari <strong>di</strong><br />

quest’ultima ci possono fornire un para<strong>di</strong>gma e quin<strong>di</strong> dei criteri utili<br />

proprio per <strong>di</strong>rimere <strong>la</strong> controversia tra <strong>la</strong>tino e volgare. All’approccio<br />

esclusivamente <strong>di</strong>lemmatico del primo libro del Convivio, dovuto al<br />

307


fatto che in questo caso Dante si sente chiamato a e<strong>la</strong>borare una<br />

excusatio tesa a giustificare <strong>la</strong> scelta sovversiva del "pane <strong>di</strong> biado"<br />

del volgare, al posto del "pane <strong>di</strong> frumento" del <strong>la</strong>tino, subentra, <strong>nel</strong><br />

<strong>De</strong> vulgari eloquentia, un processo <strong>di</strong> ulteriore approfon<strong>di</strong>mento:<br />

sollecitato da nuove istanze specu<strong>la</strong>tive, il trattato <strong>la</strong>tino espande lo<br />

spazio del<strong>la</strong> <strong>di</strong>scussione premettendo al confronto tra <strong>la</strong>tino e volgare<br />

una trattazione sul tema del<strong>la</strong> <strong>lingua</strong> originaria; e inoltre, <strong>la</strong> <strong>questione</strong><br />

del<strong>la</strong> <strong>lingua</strong> letteraria pone altresì il problema <strong>di</strong> <strong>di</strong>stinguere tra il<br />

volgare alto e "nazionale" (definito attraverso <strong>la</strong> celebre tetrade:<br />

illustre, curiale, car<strong>di</strong>nale e aulico) e <strong>la</strong> molteplicità dei volgari<br />

partico<strong>la</strong>ri, che <strong>nel</strong><strong>la</strong> loro rudezza rimandano al localismo delle<br />

singole par<strong>la</strong>te d'Italia.<br />

Il ruolo che Dante assegna all'ebraico, <strong>nel</strong> tracciare i lineamenti <strong>di</strong><br />

una storia linguistica del genere umano, è conforme a un topos<br />

<strong>la</strong>rgamente con<strong>di</strong>viso dalle Auctoritates. Che l’ebraico si identifichi<br />

con <strong>la</strong> <strong>lingua</strong> primigenia par<strong>la</strong>ta <strong>nel</strong>l’Eden è stabilito da Sant'Agostino<br />

<strong>nel</strong> se<strong>di</strong>cesimo libro del <strong>De</strong> civitate <strong>De</strong>i, dove si legge che <strong>la</strong> <strong>lingua</strong> un<br />

tempo con<strong>di</strong>visa dall’umanità intera prese poi il nome dal<strong>la</strong> tribù <strong>di</strong><br />

Eber, in seguito al<strong>la</strong> confusio <strong>lingua</strong>rum con cui Dio punì l’arroganza<br />

<strong>di</strong> quanti osarono e<strong>di</strong>ficare <strong>la</strong> torre <strong>di</strong> Babele. Tuttavia, mentre <strong>la</strong><br />

trattazione <strong>di</strong> Agostino descrive soltanto <strong>la</strong> sequenza dei fatti accaduti,<br />

circoscrivendo il quid degli eventi del<strong>la</strong> storia sacra, Dante si sforza <strong>di</strong><br />

introdurre una doppia eziologia adducendo una causa efficiente e una<br />

causa finale onde spiegare <strong>la</strong> filiazione dell’ebraico dal<strong>la</strong> <strong>lingua</strong><br />

adamitica. In primo luogo, egli afferma che gli Ebrei non furono<br />

308


puniti in quanto deprecarono l’infame progetto babelico e si astennero<br />

dal partecipare all’e<strong>di</strong>ficazione del<strong>la</strong> torre. Per questi motivi il popolo<br />

eletto si meritò un ulteriore beneficio dal<strong>la</strong> grazia <strong>di</strong>vina, <strong>di</strong>ventando<br />

l’unico erede del<strong>la</strong> <strong>lingua</strong> primor<strong>di</strong>ale:<br />

Quibus autem sacratum y<strong>di</strong>oma remansit nec aderant nec<br />

exercitium commendabant, sed graviter detestantes stoli<strong>di</strong>tatem<br />

operantium deridebant. Sed hec minima pars, quantum ad numerum,<br />

fuit de semine Sem, sicut conicio, qui fuit tertius filius Noe: de qua<br />

quidem ortus est populus Israel, qui antiquissima locutione sunt usi<br />

usque ad suam <strong>di</strong>spersionem (<strong>De</strong> vulgari eloquentia I, vii, 8).<br />

Il primo b<strong>la</strong>sone dell'ebraico consegue dall’identità tra l’i<strong>di</strong>oma del<br />

popolo <strong>di</strong> Israele e <strong>la</strong> <strong>lingua</strong> <strong>di</strong> Adamo, almeno fino al tempo del<strong>la</strong><br />

<strong>di</strong>aspora. Il secondo b<strong>la</strong>sone lo si evince da una lettura soteriologica<br />

degli eventi del<strong>la</strong> storia sacra: <strong>la</strong> medesima <strong>lingua</strong> in cui si era<br />

espresso il primo uomo, creato in statu innocentiae per <strong>di</strong>morare<br />

accanto al Padre, sarebbe sopravvissuta al<strong>la</strong> confusione babelica in<br />

conformità al piano del<strong>la</strong> Provvidenza, onde conservarsi integra fino<br />

all’incarnazione <strong>di</strong> Cristo. Il fulgore del<strong>la</strong> <strong>lingua</strong> <strong>di</strong> Adamo si sarebbe<br />

<strong>di</strong>spiegato <strong>nel</strong><strong>la</strong> paro<strong>la</strong> del Figlio, come vangelo <strong>di</strong> salvezza per tutta<br />

l’umanità:<br />

Hac forma locutionis locutus est Adam; hac forma locutionis<br />

locuti sunt omnes posteri eius usque ad e<strong>di</strong>ficationem turris Babel,<br />

309


que “turris confusionis” interpretatur; hanc formam locutionis<br />

here<strong>di</strong>tati sunt filii Heber, qui ab eo <strong>di</strong>cti sunt Hebrei. Hiis solis post<br />

confusionem remansit, ut Redemptor noster, qui ex illis oriturus erat<br />

secundum humanitatem, non <strong>lingua</strong> confusionis, sed gratie frueretur.<br />

Fuit ergo hebraicum y<strong>di</strong>oma illud quod primi loquentis <strong>la</strong>bia<br />

fabricarunt. (<strong>De</strong> vulgari eloquentia I, vi, 5 – 7)<br />

Da questa ricostruzione, conforme al<strong>la</strong> strategia esegetica del<br />

trattato <strong>la</strong>tino, <strong>nel</strong> suo costante riproporsi in veste <strong>di</strong> commento al<strong>la</strong><br />

Genesi, si ricavano i titoli <strong>di</strong> <strong>nobiltà</strong> che sono appannaggio esclusivo<br />

dell’ebraico, titoli non con<strong>di</strong>visi da nessun volgare. Innanzitutto<br />

l’ebraico è l'unica <strong>lingua</strong> in cui rifulge <strong>la</strong> forma locutionis deposta da<br />

Dio <strong>nel</strong>l’anima del padre del genere umano. La forma locutionis del<strong>la</strong><br />

<strong>lingua</strong> adamitica corrisponde a un modello <strong>di</strong> perfezione<br />

"grammaticale" sconosciuto all’umanità posteriore, destinata a vivere<br />

<strong>nel</strong>l’oscurità del<strong>la</strong> con<strong>di</strong>zione post<strong>la</strong>psaria e a par<strong>la</strong>re il caos del<strong>la</strong><br />

confusione babelica. Ulteriore corol<strong>la</strong>rio, <strong>di</strong> non poco momento<br />

quando si tratterà <strong>di</strong> confrontare <strong>la</strong>tino e volgare, è il fatto che<br />

l’ebraico si configura come una <strong>lingua</strong> pressoché immutabile, una<br />

sorta <strong>di</strong> <strong>lingua</strong> perenne immune dal <strong>di</strong>venire. Ecco allora che il<br />

secondo b<strong>la</strong>sone <strong>di</strong> <strong>nobiltà</strong> <strong>di</strong>scende dal medesimo rapporto "figurale"<br />

esistente tra Adamo e Cristo, un tema centrale delle epistole <strong>di</strong> San<br />

Paolo che Dante introduce per spiegare in termini provvidenzialistici<br />

le ragioni per cui <strong>la</strong> <strong>lingua</strong> originaria si mantenne intatta presso i<br />

<strong>di</strong>scendenti <strong>di</strong> Eber. La curvatura cristologica che il problema del<strong>la</strong><br />

310


<strong>lingua</strong> adamitica assume in questo partico<strong>la</strong>re segmento del<strong>la</strong><br />

riflessione dantesca, riecheggia nuovamente i termini del<strong>la</strong><br />

me<strong>di</strong>tazione agostiniana. L’umanità muore in Adamo e risorge in<br />

Cristo: se tramite Adamo, formato dal<strong>la</strong> terra, <strong>la</strong> morte fece ingresso<br />

<strong>nel</strong> mondo, Cristo, alter Adam "p<strong>la</strong>smato dal cielo" ha trionfato sul<strong>la</strong><br />

morte ed è fonte <strong>di</strong> vita eterna. 3 Per <strong>la</strong> logica del contrappasso, il<br />

Vangelo <strong>di</strong> vita e salvezza doveva essere annunciato <strong>nel</strong><strong>la</strong> stessa<br />

<strong>lingua</strong> in cui <strong>la</strong> morte, con le parole del serpente tentatore, aveva fatto<br />

ingresso <strong>nel</strong> mondo. Dante procede incastonando lo stesso tema topico<br />

del<strong>la</strong> letteratura esameronale in una doppia eziologia e<strong>la</strong>borata ante<br />

rem e post festum: l’ebraico è <strong>la</strong> proto<strong>lingua</strong> ere<strong>di</strong>tata dal popolo <strong>di</strong><br />

Israele, l’unico ad aver condannato l’impresa del<strong>la</strong> torre <strong>di</strong> Babele e<br />

ad essersi astenuto dal parteciparvi; l’ebraico è <strong>la</strong> <strong>lingua</strong> in cui sarà<br />

annunciato il Vangelo <strong>di</strong> Cristo, essendo inconcepibile che il Figlio <strong>di</strong><br />

Dio, nato dal<strong>la</strong> stirpe <strong>di</strong> Davide secondo <strong>la</strong> sua umanità, annunciasse<br />

<strong>la</strong> salvezza in una <strong>lingua</strong> <strong>di</strong> per<strong>di</strong>zione erede del<strong>la</strong> confusione<br />

babelica. La doppia eziologia, pertanto, contribuisce a rafforzare<br />

l’idea secondo cui l’ebraico è l’unica <strong>lingua</strong> <strong>di</strong> grazia, l’unico i<strong>di</strong>oma<br />

sacro dell’umanità, là dove per <strong>la</strong> tra<strong>di</strong>zione me<strong>di</strong>evale le lingue sacre<br />

sono le tre che compaiono sul<strong>la</strong> Croce: ebraico, appunto, ma anche<br />

greco e <strong>la</strong>tino. 4 A questi primi due b<strong>la</strong>soni <strong>di</strong> <strong>nobiltà</strong>, che Dante<br />

3 Prima Lettera ai Corinzi 15, 21 – 22. Il tema <strong>di</strong> Cristo come alter Adam è<br />

e<strong>la</strong>borato da Sant'Agostino <strong>nel</strong>l’un<strong>di</strong>cesimo libro del <strong>De</strong> civitate <strong>De</strong>i.<br />

4 “Tres sunt autem <strong>lingua</strong>e sacrae: Hebreaea, Graeca, Latina, quae toto orbe<br />

maxime excellunt. His enim tribus linguis super crucem Domini a Pi<strong>la</strong>to fuit causa<br />

eius scripta. Unde et propter obscuritatem sanctarum scripturarum harum trium<br />

<strong>lingua</strong>rum cognitio necessaria est, ut ad alteram recurratur, dum siquam<br />

dubitationem nominis vel interpretationis sermo unius <strong>lingua</strong>e adtulerit” (Isidoro <strong>di</strong><br />

311


ie<strong>la</strong>bora sul<strong>la</strong> base delle tra<strong>di</strong>zioni esegetiche confluite <strong>nel</strong><strong>la</strong><br />

letteratura esameronale cristiana, se ne aggiunge un terzo, stavolta<br />

frutto <strong>di</strong> una lettura innovativa del<strong>la</strong> Genesi orientata su concezioni<br />

ampiamente <strong>di</strong>ffuse <strong>nel</strong><strong>la</strong> mistica ebraica: <strong>la</strong> <strong>lingua</strong> <strong>di</strong> Adamo è l’unica<br />

che ha avuto inizio dal<strong>la</strong> invocazione gioiosa del Nome <strong>di</strong> Dio. 5<br />

Attraverso questo nobilissimo atto linguistico è l’umanità intera, <strong>nel</strong><strong>la</strong><br />

sua forma originaria <strong>di</strong> perfetta icona del Padre, che nasce al<strong>la</strong><br />

<strong>di</strong>mensione del<strong>la</strong> paro<strong>la</strong>. Adamo è terra che risponde gau<strong>di</strong>osamente<br />

glorificando il nome del Padre da cui ha ricevuto <strong>la</strong> luce. Adamo è<br />

l’uomo che non è mai stato fanciullo, a cui è ignoto il balbettio<br />

dell’infante che apprende <strong>la</strong> <strong>lingua</strong> materna imitando <strong>la</strong> nutrice. La<br />

prossimità tra Dio e uomo che contrad<strong>di</strong>stingue <strong>la</strong> con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong><br />

Adamo prima del peccato si riflette imme<strong>di</strong>atamente <strong>nel</strong><strong>la</strong> <strong>nobiltà</strong><br />

dell'actus locutionis con cui <strong>la</strong> creatura comunica con il Creatore. La<br />

risposta <strong>di</strong> Adamo all’appello del Padre che lo ha chiamato all’essere<br />

come specie interme<strong>di</strong>a tra l’angelo e l’animale, determina l’explicatio<br />

tantae dotis a ringraziamento per i doni ricevuti: <strong>la</strong> vita, <strong>la</strong> coscienza,<br />

<strong>la</strong> paro<strong>la</strong> e il corpo. In questo caso, le due <strong>di</strong>mensioni del<strong>la</strong> <strong>la</strong>ngue e<br />

del<strong>la</strong> parole sono strettamente collegate: <strong>la</strong> <strong>nobiltà</strong> del<strong>la</strong> <strong>lingua</strong><br />

edenica non deriva solo dal fatto <strong>di</strong> incarnare compiutamente <strong>la</strong> forma<br />

locutionis concreata da Dio, ma anche dall’eccellenza del<br />

Siviglia, Etymologiae IX, 1, 3). L’equiparazione delle tre lingue sacre, presenti sul<strong>la</strong><br />

croce <strong>di</strong> Cristo, è tratta, come noto, dal Vangelo <strong>di</strong> Luca (Luca, 23, 38).<br />

5 Per ulteriori chiarimenti sul possibile rapporto tra <strong>la</strong> mistica ebraica e <strong>la</strong> concezione<br />

dantesca del nome <strong>di</strong> Dio come origine del <strong>lingua</strong>ggio, cfr. A. Raffi, La gloria del<br />

volgare. Ontologia e semiotica in Dante dal "Convivio" al "<strong>De</strong> vulgari eloquentia",<br />

cit., pp. 129 – 160.<br />

312


primiloquium, purissimo movimento <strong>di</strong> ritorno all'Origine con cui<br />

Adamo accede al<strong>la</strong> <strong>di</strong>mensione del <strong>lingua</strong>ggio. Se <strong>la</strong> <strong>di</strong>vina soli<strong>di</strong>tà<br />

del<strong>la</strong> forma garantisce all’ebraico una stabilità ignota ai volgari<br />

posteriori a Babele, <strong>la</strong> risplendente luce dell’actus originario ne fa <strong>la</strong><br />

più nobile <strong>lingua</strong> che sia mai esistita, <strong>la</strong> <strong>lingua</strong> del colloquio faccia a<br />

faccia tra <strong>la</strong> creatura e il Creatore.<br />

La cacciata dall’Eden, il <strong>di</strong>luvio universale, e <strong>la</strong> confusione delle<br />

lingue sono le tre gran<strong>di</strong> vergogne dell’umanità, che Dante, <strong>nel</strong><br />

capitolo VII del<strong>la</strong> prima parte del <strong>De</strong> vulgari eloquentia, raccoglie<br />

sotto il segno <strong>di</strong> un tragico cammino <strong>di</strong> per<strong>di</strong>zione destinato a oscurare<br />

sempre <strong>di</strong> più lo specchio luminoso del<strong>la</strong> <strong>lingua</strong> primor<strong>di</strong>ale. Le tre<br />

vergogne <strong>di</strong> cui si è macchiata l’umanità sono l’emblema <strong>di</strong> un<br />

progressivo allontanamento dal Padre: l’uomo resta pur sempre<br />

l’essere fatto a immagine <strong>di</strong> Dio, ma <strong>nel</strong><strong>la</strong> <strong>di</strong>ssomiglianza crescente,<br />

<strong>nel</strong><strong>la</strong> selva selvaggia <strong>di</strong> una regio <strong>di</strong>ssimilitu<strong>di</strong>nis sempre più cupa.<br />

Quanto più si <strong>di</strong>storce l’immagine del Padre impressa <strong>nel</strong>l’anima<br />

dell’uomo, tanto più deforme <strong>di</strong>viene il <strong>lingua</strong>ggio: <strong>la</strong> purezza<br />

dell’originaria forma locutionis è ormai compromessa, e<br />

all'esc<strong>la</strong>mazione <strong>di</strong> giubilo con cui Adamo inizia a par<strong>la</strong>re "<strong>nel</strong> nome<br />

del Padre" subentra il vagito <strong>di</strong> dolore con cui l'infante rievoca<br />

inconsciamente il peccato originale. All’unica <strong>lingua</strong> sacra, assicurata<br />

dal<strong>la</strong> prossimità e dal colloquio tra Dio e Adamo, subentrano le<br />

molteplici lingue profane del<strong>la</strong> confusione, proprie <strong>di</strong> una umanità<br />

ormai ridotta a massa dannata. <strong>De</strong>l resto, nemmeno l’antichissima<br />

<strong>lingua</strong> originaria custo<strong>di</strong>ta dagli Ebrei dopo Babele può essere<br />

313


considerata eterna: <strong>nel</strong><strong>la</strong> conclusione del VII capitolo, Dante precisa<br />

che il sacratum y<strong>di</strong>oma in cui par<strong>la</strong>rono Adamo e Cristo si mantenne<br />

presso il popolo <strong>di</strong> Israele fino al<strong>la</strong> <strong>di</strong>aspora: “populus Israel, qui<br />

antiquissima locutione sunt usi usque ad suam <strong>di</strong>spersionem […]” (<strong>De</strong><br />

vulgari eloquentia I, vii, 8). In questo modo, <strong>la</strong> storia linguistica del<br />

genere umano appare <strong>di</strong>visibile in due sequenze simmetriche: tutte le<br />

nazioni del mondo par<strong>la</strong>rono un solo i<strong>di</strong>oma “usque ad e<strong>di</strong>ficationem<br />

turris Babel” (Ivi I, vi, 5); il popolo ebraico conservò il retaggio del<strong>la</strong><br />

<strong>lingua</strong> adamitica “usque ad suam <strong>di</strong>spersionem” (Ivi, I, vii, 8).<br />

L’epoca compresa tra i due termini ad quem, <strong>la</strong> confusione delle<br />

lingue e <strong>la</strong> <strong>di</strong>aspora <strong>di</strong> Israele, delimita lo spazio <strong>di</strong> sopravvivenza<br />

del<strong>la</strong> <strong>lingua</strong> adamitica presso gli Ebrei: quest’ultima può essere<br />

considerata plurimillenaria, ma non eterna. La tragica storia del genere<br />

umano viene sussunta sotto il segno <strong>di</strong> una incurabile coazione a<br />

ripetere il peccato, peculiarità del<strong>la</strong> creatura che in principio era stata<br />

fatta per <strong>di</strong>morare accanto al Padre, tra lo splendore delle coorti<br />

angeliche e le schiere degli animali soggetti al suo dominio. La storia<br />

acquisisce un significato unitario a partire dal progressivo<br />

oscuramento del<strong>la</strong> luce irra<strong>di</strong>ata dal volgare adamitico: <strong>di</strong> questa<br />

trage<strong>di</strong>a del<strong>la</strong> fragilità umana, Babele e <strong>la</strong> <strong>di</strong>aspora sono i momenti<br />

conclusivi. La crescente aversio a <strong>De</strong>o, per <strong>di</strong>r<strong>la</strong> in termini<br />

agostiniani, definisce il vettore principale del<strong>la</strong> storia secondo un<br />

duplice oscuramento, che intacca innanzi tutto l’immagine <strong>di</strong> Dio<br />

<strong>nel</strong>l’uomo, e in secondo luogo <strong>la</strong> forma locutionis concreata in<br />

Adamo. Lo spa<strong>la</strong>ncarsi <strong>di</strong> una <strong>di</strong>stanza crescente tra Dio e l’uomo,<br />

314


lungo il percorso che inizia dal peccato originale e culmina con<br />

Babele, determina infatti un insieme <strong>di</strong> mutazioni antropologiche <strong>la</strong><br />

cui importanza non ci può sfuggire se rammentiamo <strong>la</strong> collocazione<br />

dell’uomo come essere interme<strong>di</strong>o tra l’angelo e l’animale bruto,<br />

termini asintotici che delimitano lo spazio esistenziale dell’unica<br />

creatura che per Dante ha il potere <strong>di</strong> esprimersi attraverso segni.<br />

L’angelo in<strong>di</strong>vidua l’utopia <strong>di</strong> una comunicazione assoluta e<br />

imme<strong>di</strong>ata tra esseri razionali privi <strong>di</strong> corpo, l’utopia <strong>di</strong> un significato<br />

che si trasmette da mente a mente senza essere veico<strong>la</strong>to da un<br />

significante sensibile. Il bruto costituisce <strong>la</strong> <strong>di</strong>stopia <strong>di</strong> un significante<br />

ridotto a "verso", inerte materia fonica che non trasmette alcun senso<br />

intelligibile. Al<strong>la</strong> Civitas delle coorti angeliche, in cui le singole<br />

creature razionali sono reciprocamente trasparenti e riescono a leggere<br />

i loro pensieri <strong>nel</strong>lo Specchio del Verbo Divino, fa riscontro <strong>la</strong><br />

molteplicità delle specie animali chiuse le une alle altre da limiti che<br />

<strong>la</strong> natura ha reso insormontabili. Leggendo <strong>la</strong> storia delle vergogne<br />

umane al<strong>la</strong> luce <strong>di</strong> questo schema, ci accorgiamo che l’esistenza <strong>di</strong> un<br />

unico i<strong>di</strong>oma prima del<strong>la</strong> confusione garantiva agli animali razionali<br />

una situazione <strong>di</strong> reciproca trasparenza comunicativa simile a quel<strong>la</strong><br />

delle intelligenze separate. Non si può negare infatti che l’umanità<br />

prebabelica, par<strong>la</strong>ndo un solo i<strong>di</strong>oma dotato del<strong>la</strong> medesima forma, ci<br />

appare più prossima agli angeli che ai bruti. D’altro canto, con <strong>la</strong><br />

rottura dell’unità linguistica originaria e il subentrare <strong>di</strong> una sempre<br />

maggiore <strong>di</strong>fferenziazione tra gli i<strong>di</strong>omi, l’asse del<strong>la</strong> me<strong>di</strong>etas umana<br />

sembra spostarsi progressivamente verso quel<strong>la</strong> con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong><br />

315


incomunicabilità reciproca che caratterizza le <strong>di</strong>verse specie animali.<br />

L’importanza che Dante conferisce all’episo<strong>di</strong>o del<strong>la</strong> torre <strong>di</strong> Babele<br />

<strong>di</strong>pende tutta dagli effetti <strong>di</strong> abbrutimento semiotico arrecati dal<strong>la</strong><br />

per<strong>di</strong>ta dell’i<strong>di</strong>oma edenico: <strong>nel</strong> momento in cui si accresce <strong>la</strong> <strong>di</strong>stanza<br />

tra Dio e uomo si incrementano, in misura corrispondente, <strong>la</strong> <strong>di</strong>visione<br />

e l'incomprensione tra i membri del genere umano. Babele rappresenta<br />

<strong>la</strong> più incresciosa delle tre vergogne in cui l’umanità è precipitata,<br />

perché l’inau<strong>di</strong>to peccato <strong>di</strong> superbia che ha ispirato l’e<strong>di</strong>ficazione<br />

del<strong>la</strong> torre ha determinato <strong>la</strong> degradazione dell’uomo verso <strong>la</strong><br />

bestialità.<br />

Vi è un altro aspetto del<strong>la</strong> riflessione su Babele, che ci <strong>di</strong>mostra<br />

quale forte valenza orientativa abbia <strong>nel</strong> pensiero dantesco lo schema<br />

tripartito che colloca il <strong>lingua</strong>ggio umano, e quin<strong>di</strong> anche <strong>la</strong> città<br />

dell'uomo, in una sorta <strong>di</strong> oscil<strong>la</strong>zione continua fra l'asintoto del<strong>la</strong><br />

Gerusalemme celeste e l'asintoto dello "stato <strong>di</strong> natura" bestiale.<br />

Infatti, tra <strong>la</strong> con<strong>di</strong>zione propria dell'animale bruto e quel<strong>la</strong> che<br />

connota l’umanità postbabelica sussiste uno stretto isomorfismo.<br />

Dante aveva affermato che gli animali appartenenti al<strong>la</strong> stessa specie<br />

possono conoscersi reciprocamente in base ad atti e passioni propri,<br />

mentre tra esemp<strong>la</strong>ri <strong>di</strong> specie <strong>di</strong>verse non esiste alcun mezzo <strong>di</strong><br />

espressione comune, dato che tra loro non si dà alcun rapporto <strong>di</strong><br />

negoziazione amichevole. Ora, l’effetto del<strong>la</strong> confusione babelica fu <strong>la</strong><br />

nascita <strong>di</strong> tante comunità linguistiche, quante erano le categorie <strong>di</strong><br />

<strong>la</strong>voratori che <strong>nel</strong> cantiere <strong>di</strong> Babele col<strong>la</strong>boravano al<strong>la</strong> stessa opera.<br />

Tante erano le corporazioni dei <strong>la</strong>voratori, tante sarebbero state le<br />

316


lingue posteriori al<strong>la</strong> punizione <strong>di</strong>vina. La comunicazione trasparente<br />

e quasi angelica assicurata dall’impiego <strong>di</strong> una so<strong>la</strong> <strong>lingua</strong>, fondata<br />

sul<strong>la</strong> forma locutionis che Dio aveva concreato <strong>nel</strong>l'anima <strong>di</strong> Adamo,<br />

svanì per effetto <strong>di</strong> un repentino proliferare dei segni: all'originaria<br />

corrispondenza biunivoca tra significanti e significati, sopraggiunse<br />

una fol<strong>la</strong> <strong>di</strong> significanti <strong>di</strong>versi per il medesimo significato. L’identità<br />

linguistica che prima era patrimonio comune dell’intera umanità si<br />

restrinse a gruppi omogenei <strong>di</strong> <strong>la</strong>voratori:<br />

Siquidem pene totum humanum genus ad opus iniquitatis coierat:<br />

pars imperabant, pars architectabantur, pars muros moliebantur, […]<br />

partesque <strong>di</strong>verse <strong>di</strong>versis aliis operibus indulgebant; cum celitus<br />

tanta confusione percussi sunt ut, qui omnes una eademque loque<strong>la</strong><br />

deserviebant ad opus, ab opere multis <strong>di</strong>versificatis loquelis<br />

desinerent et numquam ad idem commertium convenirent. Solis<br />

etenim in uno convenientibus actu eadem loque<strong>la</strong> remansit […].<br />

Quot quot autem exercitii varietates tendebant ad opus, tot tot<br />

y<strong>di</strong>omatibus tunc genus humanum <strong>di</strong>sgiungitur; et quanto<br />

excellentius exercebant, tanto ru<strong>di</strong>us nunc barbariusque locuntur. (<strong>De</strong><br />

vulgari eloquentia I, vii, 6 – 7)<br />

Rileggendo il mito biblico del<strong>la</strong> torre <strong>di</strong> Babele, Dante traccia un<br />

quadro storico - antropologico <strong>di</strong> sorprendente potenza. La <strong>di</strong>visione<br />

del <strong>la</strong>voro produce all’interno dell’umana semenza <strong>di</strong>visioni analoghe<br />

a quelle che <strong>la</strong> natura determina tra le specie del regno animale. Se <strong>la</strong><br />

317


<strong>di</strong>fferenziazione degli animali in specie va ascritta all’or<strong>di</strong>namento<br />

metastorico del<strong>la</strong> natura, <strong>la</strong> <strong>di</strong>stinzione all’interno del genere umano è<br />

una risultante dei processi storici connessi allo sviluppo del<strong>la</strong><br />

<strong>di</strong>visione sociale del <strong>la</strong>voro: questi ultimi introducono in seno<br />

all’umanità gli stessi effetti <strong>di</strong> separazione, frammentazione,<br />

incomunicabilità, chiusura – in definitiva, <strong>di</strong> abbrutimento – che <strong>la</strong><br />

"naturale" <strong>di</strong>visione in specie produce <strong>nel</strong> mondo animale. Le singole<br />

corporazioni <strong>di</strong> <strong>la</strong>voratori dotati <strong>di</strong> un identico i<strong>di</strong>oma si pongono in<br />

analogia con le specie animali: <strong>di</strong>etro <strong>la</strong> vergogna del<strong>la</strong> confusione<br />

babelica traspare evidente <strong>la</strong> critica dantesca a Firenze, e più in<br />

generale al<strong>la</strong> società comunale del suo tempo, <strong>di</strong>visa in fazioni che si<br />

combattono proprio perché prive <strong>di</strong> valori e "<strong>lingua</strong>ggi" con<strong>di</strong>visi. Gli<br />

effetti bestiali del<strong>la</strong> confusione babelica riaffiorano <strong>nel</strong>le <strong>di</strong>scor<strong>di</strong>e<br />

del<strong>la</strong> società comunale, sempre sull'orlo del<strong>la</strong> guerra civile, in una<br />

con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> guerra permanente <strong>di</strong> tutti contro tutti. Il nesso tra storia<br />

linguistica e prospettiva etico - politica permette a Dante <strong>di</strong><br />

tratteggiare i lineamenti <strong>di</strong> una storia universale dell'umanità: se per<br />

un istante guar<strong>di</strong>amo all'insieme dell'opera dantesca abbracciando con<br />

un solo sguardo d’insieme il tragitto che va dal <strong>De</strong> vulgari eloquentia<br />

al<strong>la</strong> Comme<strong>di</strong>a, potremmo affermare che lo spazio del<strong>la</strong> barbarie<br />

linguistica è compreso tra due estremi. Da una parte, <strong>la</strong> più nobile<br />

delle lingue rimase l’i<strong>di</strong>oma sacro <strong>di</strong> Adamo e <strong>di</strong> Cristo, retaggio dei<br />

<strong>di</strong>scendenti <strong>di</strong> Eber che si astennero dal partecipare all’impresa <strong>di</strong><br />

Babele; al polo opposto si colloca l’i<strong>di</strong>oma del gigante Nembrot,<br />

titanico ispiratore del<strong>la</strong> sca<strong>la</strong>ta al cielo, che <strong>nel</strong> trentunesimo canto<br />

318


dell’Inferno verrà condannato al più completo iso<strong>la</strong>mento: come una<br />

sorta <strong>di</strong> barbarico <strong>di</strong>o del rumore, Nembrot si esprime in una <strong>lingua</strong><br />

che soltanto lui è in grado <strong>di</strong> intendere e par<strong>la</strong>re. 6 Nell’economia<br />

complessiva del <strong>De</strong> vulgari eloquentia <strong>la</strong> caduta del<strong>la</strong> torre <strong>di</strong> Babele<br />

segna l’inizio del<strong>la</strong> storia linguistica del genere umano. I popoli del<br />

mondo, una volta privati dell’i<strong>di</strong>oma sacro che li aveva resi un’unica<br />

comunità linguistica internazionale, simile in questo al<strong>la</strong> Civitas<br />

angelica, furono gettati <strong>nel</strong><strong>la</strong> regio <strong>di</strong>ssimilitu<strong>di</strong>nis delle par<strong>la</strong>te<br />

volgari, instabili e soggette al <strong>di</strong>venire come tutto ciò che appartiene<br />

al<strong>la</strong> <strong>di</strong>mensione seco<strong>la</strong>re. All'evento da cui sortì <strong>la</strong> per<strong>di</strong>ta del<strong>la</strong> <strong>lingua</strong><br />

originaria si sommano cause <strong>di</strong> or<strong>di</strong>ne antropologico rinvianti al<strong>la</strong><br />

strutturale "instabilità" propria dell'animale umano:<br />

Dicimus ergo quod nullus effectus superat suam causam, in<br />

quantum effectus est, quia nil potest efficere quod non est. Cum<br />

igitur omnis nostra loque<strong>la</strong> – preter il<strong>la</strong>m homini primo concreatam a<br />

<strong>De</strong>o – sit a nostro benep<strong>la</strong>cito reparata post confusionem il<strong>la</strong>m que<br />

nil aliud fuit quam prioris oblivio, et homo sit instabilissimus atque<br />

variabilissimum animal, nec durabilis nec continua esse potest, sed<br />

sicut alia que nostra sunt, puta mores et habitus, per locorum<br />

6 Inferno, XXXI, versi 77 – 81: “questi è Nembrotto per lo cui mal coto/ pur un<br />

<strong>lingua</strong>ggio <strong>nel</strong> mondo non s’usa./ <strong>la</strong>sciànlo stare e non parliamo a vòto;/ ché così è a<br />

lui ciascun <strong>lingua</strong>ggio/ come’l suo ad altrui, ch’a nullo è noto”. Per una<br />

ricostruzione storica del<strong>la</strong> leggenda me<strong>di</strong>evale <strong>di</strong> Nembroth, gigante, astronomo, e<br />

architetto del<strong>la</strong> Torre <strong>di</strong> Babele cfr. P. Dronke, Dante e le tra<strong>di</strong>zioni <strong>la</strong>tine<br />

me<strong>di</strong>evali, Bologna, Il Mulino, 1990, pp. 65 – 96.<br />

319


temporumque <strong>di</strong>stantias variari oportet. (<strong>De</strong> vulgari eloquentia I, ix,<br />

6)<br />

Obliata l’antica forma locutionis che Dio aveva donato ad Adamo,<br />

gli uomini dovettero ricostruire ad p<strong>la</strong>citum i loro strumenti <strong>di</strong><br />

comunicazione verbale. E siccome <strong>la</strong> potenza dell’effetto non supera<br />

mai quel<strong>la</strong> del<strong>la</strong> causa, le lingue inventate dagli uomini risentono del<strong>la</strong><br />

mutabilità che contrad<strong>di</strong>stingue le convenzioni umane, destinate a<br />

<strong>di</strong>fferenziarsi <strong>nel</strong>lo spazio e <strong>nel</strong> tempo come ogni costume o abitu<strong>di</strong>ne.<br />

Dopo Babele l’uomo <strong>di</strong>venta l’animale simbolico abitato da una<br />

pluralità <strong>di</strong> logoi <strong>di</strong>fferenti e irriducibili all’unità <strong>di</strong> una stessa, <strong>di</strong>vina,<br />

immutabile forma locutionis. Il para<strong>di</strong>so del<strong>la</strong> <strong>lingua</strong> originaria è<br />

perduto per sempre: lo specchio primor<strong>di</strong>ale si è spezzato in mille<br />

frammenti, e il <strong>di</strong>venire ha fatto il suo ingresso anche <strong>nel</strong> mondo dei<br />

segni. Ormai si è realizzato il definitivo trionfo dell’opacità del<br />

significante sul<strong>la</strong> c<strong>la</strong>ritas del significato.<br />

Dopo aver stabilito che <strong>la</strong> per<strong>di</strong>ta dell’i<strong>di</strong>oma sacro è un evento<br />

irreversibile, conseguenza <strong>di</strong> una mutazione antropologica che ha<br />

l’effetto <strong>di</strong> spingere l’uomo verso <strong>la</strong> <strong>di</strong>mensione dell’animale bruto,<br />

<strong>di</strong>stanziandolo in misura corrispondente dal<strong>la</strong> con<strong>di</strong>zione angelica, si<br />

presenta un problema ulteriore. Si tratta <strong>di</strong> un momento decisivo per<br />

comprendere in che modo l’utopia del<strong>la</strong> <strong>lingua</strong> originaria costituisca<br />

per Dante un punto <strong>di</strong> riferimento fondamentale per <strong>di</strong>rimere <strong>la</strong><br />

controversia sul<strong>la</strong> maggiore <strong>nobiltà</strong> del <strong>la</strong>tino o del volgare. Come è<br />

possibile qui ed ora, recuperare almeno una scintil<strong>la</strong> <strong>di</strong> quel<strong>la</strong> <strong>lingua</strong> <strong>di</strong><br />

320


luce par<strong>la</strong>ta dall’umanità prebabelica? Quale i<strong>di</strong>oma potrà ripristinare<br />

al meglio <strong>la</strong> con<strong>di</strong>zione anteriore al<strong>la</strong> confusione delle lingue? Quale<br />

evento "pentecostale" permetterà al genere umano <strong>di</strong> riavvicinarsi al<strong>la</strong><br />

<strong>di</strong>mensione angelica superando le barriere <strong>di</strong> spazio e <strong>di</strong> tempo che<br />

<strong>di</strong>vidono i popoli e le generazioni? La nozione <strong>di</strong> "<strong>lingua</strong> rego<strong>la</strong>ta" che<br />

<strong>la</strong> retorica me<strong>di</strong>evale consegna a Dante permette <strong>di</strong> in<strong>di</strong>viduare <strong>nel</strong><br />

<strong>la</strong>tino e <strong>nel</strong> volgare illustre, entrambi nobilitati dal<strong>la</strong> pratica poetica, le<br />

due sole strade praticabili per ricomporre <strong>la</strong> perduta universalità<br />

linguistica del genere umano. Il <strong>la</strong>tino, innanzitutto:<br />

Hinc moti sunt inventores gramatice facultatis: que quidem<br />

gramatica nichil aliud est quam quedam inalterabilis locutionis<br />

ydemptitas <strong>di</strong>versis temporibus atque locis. Hec cum de comuni<br />

consensu multarum gentium fuerit regu<strong>la</strong>ta, nulli singu<strong>la</strong>ri arbitrio<br />

videtur obnoxia, et per consequens nec variabilis esse potest. (<strong>De</strong><br />

vulgari eloquentia I, ix, 11)<br />

Il <strong>la</strong>tino è <strong>la</strong> <strong>lingua</strong> veico<strong>la</strong>re che grazie ad una nomenc<strong>la</strong>tura<br />

stabilita ad p<strong>la</strong>citum sul<strong>la</strong> base del consensus multarum gentium,<br />

ristabilisce il rapporto biunivoco tra significante e significato,<br />

con<strong>di</strong>zione imprescin<strong>di</strong>bile affinché si realizzi <strong>la</strong> comunicazione. In<br />

questo caso, l’universalità dei par<strong>la</strong>nti viene ripristinata in base ad una<br />

convenzione: istituendo una <strong>lingua</strong> severamente co<strong>di</strong>ficata e quin<strong>di</strong> al<br />

riparo dall’arbitrio dei singoli par<strong>la</strong>nti, i grammatici offrono all’intera<br />

umanità uno strumento per ripristinare <strong>la</strong> con<strong>di</strong>zione anteriore al<strong>la</strong><br />

321


confusione babelica. L’ydemptitas locutionis menzionata <strong>nel</strong> passo<br />

citato è il surrogato dell’originaria forma locutionis propria del<strong>la</strong><br />

<strong>lingua</strong> adamitica: se quest’ultima fu creata <strong>di</strong>rettamente da Dio e<br />

infusa <strong>nel</strong>l’anima <strong>di</strong> Adamo, l’ydemptitas locutionis è una invenzione<br />

umana, un prodotto dell’arte anziché del<strong>la</strong> natura. Lo scarto esistente<br />

tra l’ydemptitas locutionis e <strong>la</strong> forma primor<strong>di</strong>ale è ciò che misura <strong>la</strong><br />

<strong>di</strong>stanza tra l’umano e il <strong>di</strong>vino, <strong>la</strong> copia e l’archetipo, il surrogato<br />

conso<strong>la</strong>torio e il para<strong>di</strong>gma perduto. Il primo è un miserabile rime<strong>di</strong>o<br />

del "frattempo" in cui camminiamo come viatores in attesa del<br />

compimento dei tempi, il secondo è l’ineffabile dono che il Padre<br />

consegnò ad Adamo <strong>nel</strong> sesto giorno del<strong>la</strong> creazione, a suggello del<br />

suo Disegno. Grazie all’adozione <strong>di</strong> una semantica univoca e <strong>di</strong> una<br />

sintassi rigorosamente co<strong>di</strong>ficata <strong>la</strong> <strong>lingua</strong> <strong>la</strong>tina è dotata <strong>di</strong> un elevato<br />

grado <strong>di</strong> stabilità che rimane precluso ai volgari correnti ere<strong>di</strong> del<strong>la</strong><br />

confusione babelica. La stabilità che caratterizza <strong>la</strong> gramatica è<br />

appunto ciò che permette anche al<strong>la</strong> cultura <strong>di</strong> <strong>di</strong>ffondersi superando<br />

le <strong>di</strong>stanze <strong>di</strong> tempo e <strong>di</strong> luogo. Proprio in virtù delle sue pecu<strong>la</strong>rità il<br />

<strong>la</strong>tino è in grado <strong>di</strong> fondare lo spazio del<strong>la</strong> tra<strong>di</strong>zione e del<strong>la</strong><br />

comunicazione internazionale, <strong>di</strong>ventando <strong>la</strong> <strong>lingua</strong> dell’Impero e<br />

del<strong>la</strong> Chiesa. Da questo punto <strong>di</strong> vista, il <strong>la</strong>tino viene celebrato in<br />

quanto si prospetta come una sorta <strong>di</strong> novello ebraico, essendo l’unica<br />

<strong>lingua</strong> transnazionale e pluriseco<strong>la</strong>re <strong>di</strong> cui possiamo avvalerci dopo<br />

Babele. Dal "<strong>la</strong>voro del lutto" per <strong>la</strong> per<strong>di</strong>ta dell’i<strong>di</strong>oma adamitico,<br />

nasce una sorta <strong>di</strong> "<strong>lingua</strong> <strong>di</strong> copertura" che ci avvicina nuovamente<br />

al<strong>la</strong> con<strong>di</strong>zione degli angeli, a quell’aperta trasparenza del comunicare<br />

322


appannaggio delle intelligenze separate. La riflessione sul <strong>la</strong>tino è<br />

inscin<strong>di</strong>bile dai presupposti teologici fissati nei paragrafi iniziali del<br />

<strong>De</strong> vulgari eloquentia: l’utopia del<strong>la</strong> comunicazione incorporea da<br />

mente a mente fornisce al tempo stesso un limite asintotico e un<br />

canone <strong>di</strong> interpretazione storica al<strong>la</strong> riflessione dantesca sulle lingue<br />

postbabeliche. Tuttavia, il tentativo <strong>di</strong> ricostruire a posteriori l’identità<br />

linguistica del genere umano attraverso l’istituzionalizzazione del<br />

<strong>la</strong>tino è una strategia che mostra fin da subito molti limiti. Un sistema<br />

<strong>di</strong> segni istituito ad p<strong>la</strong>citum con il consenso del<strong>la</strong> comunità<br />

internazionale rimane un mero surrogato conso<strong>la</strong>torio. Se è vero che<br />

l’universalità del<strong>la</strong> gramatica garantisce una comunicazione in grado<br />

<strong>di</strong> azzerare barriere localistiche e <strong>di</strong>stanze temporali, <strong>di</strong> fondare una<br />

tra<strong>di</strong>zione univoca per <strong>la</strong> Cristianità europea, e <strong>di</strong> rendere possibili gli<br />

scambi tra gli intellettuali delle tre religioni monoteistiche, ciò non<br />

toglie che essa rimanga prigioniera del<strong>la</strong> <strong>di</strong>visione del <strong>la</strong>voro, perché<br />

il <strong>la</strong>tino è appannaggio esclusivo dei dotti. La <strong>lingua</strong> dei clerici e<br />

degli antichi vati permette <strong>di</strong> abbattere le barriere <strong>di</strong> tempo e <strong>di</strong> spazio<br />

soltanto a una parte molto esigua dell’umanità: le c<strong>la</strong>ssi emergenti <strong>di</strong><br />

cui Dante tesse le lo<strong>di</strong> soprattutto <strong>nel</strong> Convivio, i nuovi destinatari<br />

del<strong>la</strong> cultura filosofica e teologica, sono inesorabilmente esclusi da<br />

ogni banchetto ammannito col pane <strong>di</strong> frumento del <strong>la</strong>tino. L’adozione<br />

del<strong>la</strong> gramatica si mantiene ancora all’interno dell’orizzonte<br />

postbabelico in quanto non solo non abbatte le barriere create dal<strong>la</strong><br />

<strong>di</strong>visione del <strong>la</strong>voro, ma le rafforza, riproponendole <strong>nel</strong><strong>la</strong> forma del<strong>la</strong><br />

separazione tra clerici e <strong>la</strong>ici, dove questi ultimi tendono a restare<br />

323


esclusi dal<strong>la</strong> circo<strong>la</strong>zione del<strong>la</strong> cultura. In quanto <strong>lingua</strong> veico<strong>la</strong>re, <strong>la</strong><br />

gramatica può permetterci <strong>di</strong> ripristinare l’originaria unità prebabelica<br />

delle genti abbattendo le barriere linguistiche tra le nazioni, ma al<br />

prezzo <strong>di</strong> rendere ancora più rigida <strong>la</strong> separazione tra chi ha accesso ai<br />

canali del<strong>la</strong> cultura e chi ne è escluso. Sotto questo punto <strong>di</strong> vista il<br />

<strong>la</strong>tino si configura ad<strong>di</strong>rittura come una <strong>lingua</strong> babelica in più, che va<br />

ad aggiungersi ai volgari restando il mezzo linguistico <strong>di</strong> cui si avvale<br />

soltanto una parte ristretta dell’umanità. La scelta del<strong>la</strong> gramatica non<br />

fa che consolidare <strong>la</strong> "bestiale" separazione tra chi è dentro è chi è<br />

fuori dai circuiti istituzionali del sapere. La comunità internazionale<br />

dei dotti che si intendono con questo strumento veico<strong>la</strong>re è ben poca<br />

cosa rispetto al<strong>la</strong> comunità dei nobili illitterati ai quali Dante si<br />

rivolge <strong>nel</strong>l’imban<strong>di</strong>re il suo convivio filosofico. L’esaltazione del<br />

volgare e <strong>la</strong> sua adozione come strumento <strong>di</strong> <strong>di</strong>ffusione del sapere<br />

corrispondono all’esigenza <strong>di</strong> una <strong>lingua</strong> che abbatta le barriere<br />

prodotte dal<strong>la</strong> <strong>di</strong>visione del <strong>la</strong>voro. Su questo punto il Convivio è<br />

esplicito fino all’irriverenza: gli uomini <strong>di</strong> lettere che scrivono<br />

esclusivamente in <strong>la</strong>tino molto spesso non sono altro che ignobili<br />

lenoni. E a chi volesse far valere <strong>la</strong> superiorità del <strong>la</strong>tino appel<strong>la</strong>ndosi<br />

al fatto che quest’ultimo sarebbe servito ai molti “litterati fuori <strong>di</strong><br />

<strong>lingua</strong> italica” Dante risponde: “lo <strong>la</strong>tino averebbe a pochi dato suo<br />

beneficio, ma lo volgare servirà veramente a molti” (Convivio I, ix,<br />

4). Tutto il paragrafo ix del primo libro ruota attorno al<strong>la</strong><br />

contrapposizione tra i “principi, baroni, cavalieri, e molt’altra nobile<br />

gente, non so<strong>la</strong>mente maschi, ma femmine”, caratterizzati da autentica<br />

324


ontà d’animo, e quegli uomini <strong>di</strong> lettere “che non acquistano <strong>la</strong><br />

lettera per lo suo uso, ma in quanto per quel<strong>la</strong> guadagnano denari o<br />

<strong>di</strong>gnitate” (Ibidem). Se il <strong>la</strong>tino risponde all’esigenza <strong>di</strong> assicurare il<br />

più ampio grado possibile <strong>di</strong> universalità in <strong>di</strong>rezione<br />

dell’internazionalizzazione del sapere, <strong>la</strong> preferenza accordata al<br />

volgare come mezzo <strong>di</strong> trasmissione del<strong>la</strong> cultura è l’esito <strong>di</strong> una<br />

scelta etica e politica <strong>di</strong> segno <strong>di</strong>ametralmente opposto: Dante<br />

smaschera <strong>la</strong> falsa universalità del <strong>la</strong>tino in quanto funzionale al<br />

mantenimento dei privilegi culturali dei litterati, e si schiera a favore<br />

del volgare perché quest’ultimo incarna una <strong>di</strong>versa concezione<br />

dell’universalità del sapere, interc<strong>la</strong>ssista, "popo<strong>la</strong>re" <strong>nel</strong> senso<br />

trecentesco del termine, e dunque trasversale a quelle barriere sociali<br />

prodotte dal<strong>la</strong> <strong>di</strong>visione del <strong>la</strong>voro intellettuale. Dopo <strong>la</strong> per<strong>di</strong>ta del<strong>la</strong><br />

<strong>lingua</strong> adamitica subentrata al<strong>la</strong> confusione babelica, l’universalità<br />

linguistico – culturale del genere umano può essere ristabilita soltanto<br />

attraverso due opposte strategie. Chi sceglie il <strong>la</strong>tino, gramatica e<br />

pane <strong>di</strong> frumento per i litterati, decide a favore <strong>di</strong> una circo<strong>la</strong>zione<br />

orizzontale del<strong>la</strong> cultura e per l’internazionalità del sapere, incurante<br />

dell’esclusione sociale che essa comporta, se non ad<strong>di</strong>rittura<br />

favorevole a una conseguenza <strong>di</strong> questo tipo; chi sceglie il volgare,<br />

<strong>lingua</strong> del popolo e pane <strong>di</strong> biado per i nobili illitterati decide a favore<br />

<strong>di</strong> una circo<strong>la</strong>zione verticale del<strong>la</strong> cultura, che abbatta <strong>la</strong> <strong>di</strong>visione tra i<br />

professionisti del sapere e i profani, ben sapendo che tale scelta può<br />

costituire un ostacolo al<strong>la</strong> <strong>di</strong>ffusione internazionale delle conoscenze.<br />

Il <strong>la</strong>tino e il volgare non possono cancel<strong>la</strong>re gli effetti del<strong>la</strong> trage<strong>di</strong>a <strong>di</strong><br />

325


Babele, e ci mettono <strong>di</strong> fronte a un aut aut: o una <strong>lingua</strong> veico<strong>la</strong>re,<br />

internazionale, ma specialistica; o una <strong>lingua</strong> <strong>di</strong> popolo, ma<br />

circoscritta all'ambito <strong>di</strong> una so<strong>la</strong> nazione. L’unità originaria del<br />

genere umano, assicurata da una <strong>lingua</strong> che era, ad un tempo,<br />

internazionale e interc<strong>la</strong>ssista, non è più proponibile dopo Babele. Il<br />

Convivio e il <strong>De</strong> vulgari eloquentia concordano entrambi <strong>nel</strong><strong>la</strong><br />

supremazia etico – politica del volgare – ché <strong>di</strong> questo, in definitiva si<br />

tratta, e non certo <strong>di</strong> una mera <strong>questione</strong> <strong>di</strong> stile – con l’unica<br />

<strong>di</strong>fferenza che il primo traduce in pratica sperimentale <strong>di</strong> scrittura ciò<br />

che il secondo fonda e teorizza. È il caso <strong>di</strong> <strong>di</strong>re che per Dante il <strong>la</strong>tino<br />

è davvero una <strong>lingua</strong> morta: una <strong>lingua</strong> morta sul nascere proprio per<br />

il suo carattere specialistico, ad onta <strong>di</strong> quel<strong>la</strong> inalterabilità che<br />

sembrerebbe privilegiar<strong>la</strong> nei confronti del<strong>la</strong> pulsante storicità delle<br />

lingue volgari. Se <strong>nel</strong>l’analizzare gli effetti del<strong>la</strong> confusio <strong>lingua</strong>rum<br />

abbiamo accostato, i brani del Convivio a quelli del trattato <strong>la</strong>tino, lo<br />

abbiamo fatto <strong>nel</strong>l'intento <strong>di</strong> <strong>di</strong>mostrare che <strong>la</strong> riflessione dantesca sul<br />

volgare presenta una coerenza <strong>di</strong> fondo inoppugnabile, anche in<br />

merito al<strong>la</strong> vexata quaestio su quale delle due lingue sia <strong>la</strong> più nobile.<br />

A questo punto siamo in grado <strong>di</strong> chiarire meglio in che senso il<br />

<strong>di</strong>lemma <strong>la</strong>tino aut volgare sottenda una riflessione tripartita che in<br />

Dante nasce dall’assumere l’ebraico come modello <strong>di</strong> assoluta<br />

perfezione linguistica. La confusione babelica costituisce <strong>la</strong> trage<strong>di</strong>a<br />

che ha dato inizio al<strong>la</strong> storia degli i<strong>di</strong>omi umani. Obliata <strong>la</strong> forma<br />

locutionis che avrebbe assicurato al<strong>la</strong> <strong>lingua</strong> originaria un carattere<br />

imperituro, l’umanità fu costretta a trovare dei rime<strong>di</strong> onde riparare<br />

326


agli effetti del<strong>la</strong> <strong>di</strong>spersione. Il mondo del<strong>la</strong> cultura ritrovò <strong>la</strong> sua<br />

universalità sovranazionale attraverso l’istituzione del <strong>la</strong>tino. Nobile<br />

in un senso aristotelico, in quanto sottratto all’alterna vicenda <strong>di</strong><br />

generazione e corruzione che affligge gli enti del mondo sublunare, <strong>la</strong><br />

base grammaticale del <strong>la</strong>tino fu assicurata da una ydemptitas<br />

locutionis in grado <strong>di</strong> surrogare l’originaria forma donata da Dio. Se<br />

confrontato con l’ebraico, il <strong>la</strong>tino con<strong>di</strong>vide due b<strong>la</strong>soni <strong>di</strong> <strong>nobiltà</strong>: <strong>la</strong><br />

stabilità <strong>nel</strong> tempo, e il carattere sacrale, in quanto <strong>lingua</strong> del<strong>la</strong> Chiesa.<br />

E tuttavia, <strong>la</strong> gramatica rimane un espe<strong>di</strong>ente conso<strong>la</strong>torio rispetto<br />

all’unità linguistica che l'ebraico garantiva all'intero genere umano. Il<br />

<strong>la</strong>tino ha un carattere ecumenico, piuttosto che universale. È una<br />

<strong>lingua</strong> che non ripara agli effetti del<strong>la</strong> <strong>di</strong>visione del <strong>la</strong>voro, ma anzi li<br />

ripropone <strong>nel</strong><strong>la</strong> forma <strong>di</strong> una separazione del mondo del<strong>la</strong> cultura da<br />

quel<strong>la</strong> società civile emergente al<strong>la</strong> quale è invece in<strong>di</strong>rizzata l’opera<br />

dantesca, <strong>nel</strong><strong>la</strong> convinzione che il vero segno del<strong>la</strong> <strong>nobiltà</strong> sia il<br />

desiderio <strong>di</strong> sapere proprio <strong>di</strong> ogni singolo in<strong>di</strong>viduo. È a questo punto<br />

che si profi<strong>la</strong> <strong>la</strong> seconda possibile via <strong>di</strong> uscita dal<strong>la</strong> <strong>di</strong>spersione<br />

babelica, <strong>la</strong> via offerta dal volgare come canale e strumento finalizzato<br />

all’e<strong>di</strong>ficazione <strong>di</strong> una cultura nazionale e popo<strong>la</strong>re al tempo stesso.<br />

L’unità dell’i<strong>di</strong>oma d’Italia, superiore al localismo delle singole<br />

par<strong>la</strong>te, si afferma innanzitutto <strong>nel</strong>le opere dei più egregi versificatori<br />

del tempo, che attraverso il nodo poetico hanno conferito anche a<br />

questa <strong>lingua</strong> una bellezza e una rego<strong>la</strong>rità insospettate. A tal punto<br />

che <strong>nel</strong> confronto tra <strong>lingua</strong> d’oc, <strong>lingua</strong> d’oil, e <strong>lingua</strong> del sì, Dante<br />

327


attribuisce a quest’ultima un primato proprio in considerazione delle<br />

prove che essa ha dato <strong>di</strong> sé <strong>nel</strong> poetare dulcius subtiliusque:<br />

Tertia quoque, Latinorum est, se duobus privilegiis<br />

actestatur praeesse: primo quidem quod qui dulcius subtilisque<br />

poetati vulgariter sunt, hii familiares et domestici sui sunt, puta<br />

Cynus Pistoriensis et amicus eius; secundo quia magis videntur initi<br />

gramatice que comunis est, quod rationabiliter inspicientibus videtur<br />

gravissimum argumentum. (<strong>De</strong> vulgari eloquentia I, x, 2) 7<br />

Nobile <strong>nel</strong> senso del<strong>la</strong> metafisica neop<strong>la</strong>tonica, in quanto <strong>lingua</strong><br />

atta a <strong>di</strong>ffondere i benefici del sapere al<strong>la</strong> maniera del Sole<br />

intelligibile, il volgare illustre viene esplicitamente paragonato a Dio:<br />

[…] inter que nunc potest illud <strong>di</strong>scerni vulgare quod superius<br />

venebamur, quod in qualibet redolet civitate nec cubat in ul<strong>la</strong>. Potest<br />

tamen magis in una quam in alia redolere, sicut simplicissima<br />

substantiarum, que <strong>De</strong>us est, in homine magis redolet quam in bruto,<br />

in animali quam in p<strong>la</strong>nta, in hac quam in minera, in hac quam in<br />

7 Ricor<strong>di</strong>amo che secondo l’intepretazione <strong>di</strong> Maria Corti, <strong>nel</strong> passo citato “Dante<br />

non vuol <strong>di</strong>re che il volgare del sì si model<strong>la</strong> <strong>di</strong> più sul <strong>la</strong>tino; vuol <strong>di</strong>re altro. Il<br />

volgare del sì si model<strong>la</strong>, in quanto <strong>lingua</strong> poetica, <strong>di</strong> più sul<strong>la</strong> gramatica que<br />

comunis est, cioè sul<strong>la</strong> grammatica come scientia comunis <strong>di</strong> cui par<strong>la</strong>no i filosofi<br />

del <strong>lingua</strong>ggio, gli specu<strong>la</strong>tivi, il che rationabiliter inspicientibus ("a quelli che<br />

riflettono razionalmente, che pensano filosoficamente") videtur gravissimum<br />

argumentum ("appare argomento gravissimo, <strong>di</strong> gran<strong>di</strong>ssimo peso")”. (M. Corti,<br />

Percorsi dell’invenzione. Il <strong>lingua</strong>ggio poetico e Dante, Torino, Einau<strong>di</strong>, 1993, p.<br />

103).<br />

328


elemento, in igne quam in terra; […] (<strong>De</strong> vulgari eloquentia I, xvi, 4<br />

– 5).<br />

La <strong>di</strong>vinità del volgare deriva dal<strong>la</strong> sua essenza semplicissima e<br />

"so<strong>la</strong>re", illustre <strong>nel</strong><strong>la</strong> accezione ontologica del termine: da qui il suo<br />

valore normativo rispetto ad ogni altra realtà linguistica locale. La<br />

ricerca induttiva operata attraverso <strong>la</strong> rassegna delle quattor<strong>di</strong>ci par<strong>la</strong>te<br />

d'Italia assume quasi l’aspetto <strong>di</strong> un mistico itinerarium in <strong>De</strong>um, un<br />

movimento anagogico che risale dalle tracce <strong>di</strong>ffuse in ogni vernacolo<br />

peninsu<strong>la</strong>re verso <strong>la</strong> semplice essenza <strong>di</strong> quel volgare <strong>la</strong>tium che il<br />

trattato <strong>la</strong>tino definisce attraverso i quattro tratti <strong>di</strong>stintivi: illustre;<br />

car<strong>di</strong>nale, perché car<strong>di</strong>ne attorno al quale ruotano tutti gli altri volgari<br />

municipali; aulico, perché adatto al<strong>la</strong> reggia d’Italia ove ne esistesse<br />

una; e curiale, “quia curialitas nil aliud est quam librata regu<strong>la</strong> eorum<br />

que peregenda sunt” (<strong>De</strong> vulgari eloquentia I, xviii, 4). Se confrontato<br />

con l’ebraico con<strong>di</strong>vide due b<strong>la</strong>soni: è una <strong>lingua</strong> che trae origine<br />

dal<strong>la</strong> natura anziché dall’arte; e dato che <strong>la</strong> natura è opera <strong>di</strong> Dio, ne<br />

consegue che il volgare è assimi<strong>la</strong>bile a Dio in una misura che al<br />

<strong>la</strong>tino resta ignota. In secondo luogo, così come il volgare è <strong>la</strong> prima<br />

<strong>lingua</strong> che appren<strong>di</strong>amo dalle <strong>la</strong>bbra del<strong>la</strong> nutrice, esso è anche <strong>la</strong><br />

prima <strong>lingua</strong> par<strong>la</strong>ta dal genere umano. Si ritorna ai principi<br />

fondamentali che Dante aveva esposto all'inizio del trattato:<br />

Harum quoque duarum nobilior est vulgaris: tum quia prima fuit<br />

humano generi usitata; tum quia totus orbis ipsa perfruitur, licet in<br />

329


<strong>di</strong>versas pro<strong>la</strong>tiones et vocabu<strong>la</strong> sit <strong>di</strong>visa; tum quia naturalis est<br />

nobis, cum il<strong>la</strong> potius artificialis existat. (<strong>De</strong> vulgari eloquentia I, i,<br />

4)<br />

È rimarchevole il fatto che l'ebraico, pur costituendo un caso unico<br />

<strong>nel</strong><strong>la</strong> storia linguistica dell'umanità, rientri per Dante <strong>nel</strong><strong>la</strong> categoria<br />

dei volgari, in quanto <strong>lingua</strong> "naturale". E sebbene attualmente in tutto<br />

il mondo vi siano tante lingue <strong>di</strong>verse per lessico e morfologia, il<br />

volgare è quel<strong>la</strong> <strong>di</strong> cui tutto il mondo fruisce (perfruitur). Dante non a<br />

caso utilizza il termine del lessico teologico con cui si designa <strong>la</strong><br />

beatitu<strong>di</strong>ne degli angeli in Para<strong>di</strong>so. Di fronte al<strong>la</strong> Babele <strong>di</strong> una realtà<br />

linguistica qual è l’Europa <strong>di</strong> inizio Trecento, dominata dal<br />

progressivo affermarsi dei volgari, gli intellettuali si trovano <strong>di</strong> fronte<br />

a un aut aut: imboccare <strong>la</strong> via dei litterati, incapaci <strong>di</strong> vedere<br />

alternative al dominio del <strong>la</strong>tino, considerato come l’unico mezzo <strong>di</strong><br />

comunicazione alta; oppure eleggere il volgare, esplorando con esso <strong>la</strong><br />

possibilità <strong>di</strong> e<strong>di</strong>ficare una cultura al<strong>la</strong>rgata agli uomini "sanza<br />

lettere". Tertium non datur. Come Ercole al bivio ogni intellettuale<br />

deve scegliere se adottare ancora il <strong>la</strong>tino, consolidando l’idea<br />

ecumenica del<strong>la</strong> cultura come appannaggio del<strong>la</strong> comunità<br />

internazionale dei dotti, o se affrontare le sfide del volgare,<br />

promuovendo una concezione dell'universalismo fondata sul<strong>la</strong> natura,<br />

sul<strong>la</strong> nazione e sul popolo.<br />

A questo punto occorre anche rivedere l’apparente <strong>di</strong>ssi<strong>di</strong>o che<br />

sembra contrapporre il Convivio al <strong>De</strong> vulgari eloquentia<br />

330


e<strong>la</strong>tivamente al<strong>la</strong> domanda sul<strong>la</strong> superiorità del <strong>la</strong>tino rispetto al<br />

volgare. Nel primo libro del Convivio Dante si sente chiamato ad<br />

introdurre una excusatio per giustificare un’operazione decisamente<br />

ar<strong>di</strong>ta rispetto alle convenienze letterarie dell’epoca: lo sconfinamento<br />

del volgare <strong>nel</strong>l’area del<strong>la</strong> cosiddetta alta cultura, fino ad allora<br />

in<strong>di</strong>scusso appannaggio del <strong>la</strong>tino. Appel<strong>la</strong>rsi al fatto che il<br />

destinatario dell’opera è un pubblico <strong>di</strong> illitterati non è sufficiente per<br />

motivare una scelta così ra<strong>di</strong>cale. La principale giustificazione addotta<br />

da Dante si avvale <strong>di</strong> un altro argomento: il Convivio è un trattato<br />

filosofico costruito in forma <strong>di</strong> commento a canzoni che fin da<br />

principio sono state concepite e scritte in volgare; tra il commento e il<br />

testo da commentare sussiste una sorta <strong>di</strong> rapporto vassal<strong>la</strong>tico; dato<br />

che il <strong>la</strong>tino è sovrano in confronto all’umile volgare, ne consegue che<br />

il commento alle canzoni dovrà essere scritto <strong>nel</strong> loro stesso i<strong>di</strong>oma, a<br />

meno che non si voglia ridurre il <strong>la</strong>tino a vassallo <strong>di</strong> un suo sottoposto,<br />

con l’esecrabile risultato <strong>di</strong> capovolgere una gerarchia dal carattere<br />

sacro e invio<strong>la</strong>bile. In questo primo segmento del chiasmo Dante<br />

assume un atteggiamento "ironico", <strong>nel</strong><strong>la</strong> accezione socratica del<br />

termine: finge <strong>di</strong> assecondare il senso comune, dando per scontata <strong>la</strong><br />

superiorità del<strong>la</strong> <strong>lingua</strong> <strong>di</strong> scuo<strong>la</strong>. Poi, appel<strong>la</strong>ndosi a un principio<br />

universalmente con<strong>di</strong>viso, <strong>di</strong>mostra il carattere i<strong>nel</strong>uttabile del<strong>la</strong><br />

propria scelta. Se avesse osato commentare in <strong>la</strong>tino una serie <strong>di</strong><br />

canzoni scritte in volgare avrebbe commesso un atto <strong>di</strong> lesa maestà.<br />

Tuttavia è soltanto <strong>nel</strong> contesto retorico <strong>di</strong> questo primo segmento<br />

dell'excusatio che Dante fa suo il luogo comune del<strong>la</strong> maggiore<br />

331


<strong>nobiltà</strong> del <strong>la</strong>tino. A conclusione del percorso con cui il Convivio<br />

introduce i lettori al<strong>la</strong> sua mensa filosofica, l'iniziale celebrazione del<br />

<strong>la</strong>tino si capovolge in un inno al volgare esaltato come <strong>la</strong> nuova fonte<br />

<strong>di</strong> luce del<strong>la</strong> cultura nascente:<br />

Così rivolgendo li occhi a <strong>di</strong>etro, […] puotesi vedere questo pane,<br />

col quale si deono mangiare le infrascritte canzoni, essere<br />

sufficientemente purgato da le macule, e da l’essere <strong>di</strong> biado […].<br />

Questo sarà quello pano orzato del quale si satolleranno a migliaia, e<br />

a me ne soperchieranno le sporte piene. Questo sarà luce nuova, sole<br />

nuovo, lo quale surgerà là dove l’usato tramonterà, e darà lume a<br />

coloro che sono in tenebre e in oscuritade per lo usato sole che a loro<br />

non luce. (Convivio I, xiii, 11 – 12)<br />

La transustanziazione del volgare da umile pane <strong>di</strong> biado a pane<br />

orzato in grado <strong>di</strong> saziare migliaia <strong>di</strong> convitati, in analogia con il<br />

miracolo evangelico del<strong>la</strong> moltiplicazione dei pani, sfocia in un<br />

climax dai toni messianici. L’inferiore capacità semantica del volgare<br />

rispetto al <strong>la</strong>tino, non va assunta come un dato aprioristico avulso<br />

dal<strong>la</strong> storia: il primo è una <strong>lingua</strong> giovane, ancora in attesa <strong>di</strong> una<br />

prova decisiva in cui si parrà <strong>la</strong> sua nobilitade; il secondo gode <strong>di</strong> una<br />

tra<strong>di</strong>zione pluriseco<strong>la</strong>re. Dichiarandosi amico del volgare, e volendo<br />

<strong>di</strong>fenderne il valore contro quei detrattori, che magari preferiscono<br />

scrivere in <strong>lingua</strong> d’oc privilegiando l’altrui volgare al proprio, Dante<br />

si accinge ad accogliere i nobili convitati del banchetto filosofico<br />

332


offrendo loro <strong>la</strong> possibilità <strong>di</strong> apprezzare <strong>la</strong> <strong>lingua</strong> del sì in tutta <strong>la</strong> sua<br />

potenza espressiva ancora inesplorata. Consapevole <strong>di</strong> aver effettuato<br />

una scelta temeraria, Dante riven<strong>di</strong>ca a se stesso un ruolo quasi<br />

demiurgico. Come una sorta <strong>di</strong> novello Adamo, egli si accinge ad una<br />

opera <strong>di</strong> fondazione sperimentando <strong>la</strong> potenza del<strong>la</strong> nuova <strong>lingua</strong><br />

<strong>nel</strong>l’arengo del<strong>la</strong> prosa, là dove <strong>la</strong> sfida si fa più <strong>di</strong>fficile e rischiosa:<br />

Ché per questo comento <strong>la</strong> gran bontade del volgare <strong>di</strong> sì [si<br />

vedrà]; però che si vedrà <strong>la</strong> sua vertù, sì com’è per esso altissimi e<br />

novissimi concetti convenevolmente, sufficientemente e<br />

acconciamente, quasi come per esso <strong>la</strong>tino, manifestare; [<strong>la</strong> quale<br />

non si potea bene manifestare] ne le cose rimate, per le accidentali<br />

adornezze che quivi sono connesse, cioè <strong>la</strong> rima e lo ri[ti]mo e lo<br />

numero rego<strong>la</strong>to: sì come non si può bene manifestare <strong>la</strong> bellezza<br />

d’una donna, quando li adornamenti de l’azzimare e de le vestimenta<br />

<strong>la</strong> fanno più ammirare che essa medesima. (Convivio I, x, 12)<br />

Il confronto tra Convivio e <strong>De</strong> vulgari eloquentia in merito al<strong>la</strong><br />

<strong>questione</strong> del<strong>la</strong> maggiore <strong>nobiltà</strong> del <strong>la</strong>tino o del volgare non può<br />

pertanto essere affrontato giustapponendo due affermazioni iso<strong>la</strong>te,<br />

avulse dal contesto delle loro argomentazioni - rispettivamente, come<br />

si è già visto sopra: Convivio I, v, 7, dove Dante afferma che il <strong>la</strong>tino<br />

“è sovrano per <strong>nobiltà</strong>, vertù, e bellezza”; e <strong>De</strong> vulgari eloquentia I, i,<br />

4 dove si stabilisce: “Harum quoque duarum, nobilior est vulgaris”. I<br />

due trattati, seppure con strategie <strong>di</strong>verse e non senza tensioni irrisolte<br />

333


a livello <strong>di</strong> coerenza specu<strong>la</strong>tiva, svolgono una sorta <strong>di</strong> riflessione<br />

pentecostale sulle possibili vie attraverso le quali l'umanità possa<br />

riparare al<strong>la</strong> per<strong>di</strong>ta del<strong>la</strong> <strong>lingua</strong> originaria seguita al<strong>la</strong> catastrofe<br />

babelica. Sulle possibili vie attraverso cui si possa riscattare,<br />

attraverso lo specchio <strong>di</strong> una <strong>lingua</strong> nobilitata dal<strong>la</strong> poesia, quel<strong>la</strong><br />

trasparenza del comunicare che se da un <strong>la</strong>to costituisce il privilegio<br />

assoluto delle intelligenze angeliche, dall'altro permetterebbe <strong>di</strong><br />

revocare l'imbarbarimento bestiale in cui l'uomo è precipitato <strong>nel</strong><br />

corso del tempo. La <strong>lingua</strong> illustre auspicata dal <strong>De</strong> vulgari<br />

eloquentia, analogamente a quel pane orzato <strong>di</strong> cui si satolleranno<br />

migliaia, profetizzato dal Convivio, ha <strong>la</strong> funzione <strong>di</strong> restituire<br />

all'umanità l'ubi consistam che si è smarrito <strong>nel</strong><strong>la</strong> selva oscura del<strong>la</strong><br />

storia. Seppur consapevoli del fatto che sarebbe vano illudersi <strong>di</strong><br />

resuscitare l'i<strong>di</strong>oma adamitico, i poeti hanno il compito <strong>di</strong> re<strong>di</strong>mere <strong>la</strong><br />

<strong>lingua</strong> e <strong>di</strong> ricostituire un doppio circuito comunicativo: tra uomo e<br />

uomo, e tra uomo e Dio. La confusione delle lingue, infatti, ha<br />

spezzato il legame simbolico tra Creatore e creatura <strong>nel</strong>lo stesso<br />

momento in cui ha introdotto una congerie <strong>di</strong> <strong>di</strong>visioni bestiali in seno<br />

al<strong>la</strong> stessa umanità. Affrontare <strong>la</strong> <strong>questione</strong> del<strong>la</strong> <strong>lingua</strong> da questa<br />

prospettiva, significa tornare a ripensare ancora una volta le nozioni <strong>di</strong><br />

forma e actus locutionis.<br />

La coscienza <strong>di</strong> una vocazione demiurgica nei confronti <strong>di</strong> una<br />

<strong>lingua</strong> ancor giovane, i cui precedenti letterari non sono in grado <strong>di</strong><br />

fondare una tra<strong>di</strong>zione anche minimamente paragonabile a quel<strong>la</strong> dei<br />

vati <strong>la</strong>tini, è presente in Dante fin dai tempi del<strong>la</strong> Vita Nova. Questo<br />

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atteggiamento convive senza contrad<strong>di</strong>zione con l'umiltà dello scriba<br />

ispirato che nota ciò che Amore gli detta dentro. 8 La poesia ha il<br />

compito <strong>di</strong> produrre un passaggio dal<strong>la</strong> potenza all'atto <strong>di</strong> quel volgare<br />

illustre <strong>la</strong>tente in ogni angolo del<strong>la</strong> realtà linguistica peninsu<strong>la</strong>re. Dal<br />

punto <strong>di</strong> vista del "legame musaico" evocato dal Convivio i poeti<br />

hanno il compito <strong>di</strong> p<strong>la</strong>smare una <strong>lingua</strong> che assicuri <strong>nobiltà</strong> e<br />

stabilità al<strong>la</strong> realtà grezza e magmatica dei volgari correnti,<br />

recuperando in tal modo un barlume <strong>di</strong> quel<strong>la</strong> forma locutionis<br />

primor<strong>di</strong>ale donata da Dio al primo uomo. 9 È attraverso questo<br />

processo <strong>di</strong> fondazione che <strong>la</strong> <strong>lingua</strong> può aspirare ad essere l'elemento<br />

unificante <strong>di</strong> una collettività non più <strong>di</strong>spersa <strong>nel</strong><strong>la</strong> bestiale <strong>di</strong>visione<br />

dei regionalismi. Ma sotto un altro profilo i poeti devono mirare a<br />

un'autentica opera <strong>di</strong> redenzione che restituisca al<strong>la</strong> paro<strong>la</strong> <strong>la</strong> sua<br />

<strong>di</strong>gnità <strong>di</strong> mezzo espressivo attraverso cui l'uomo comunica con Dio.<br />

È in questa prospettiva che il tema del primiloquium torna ad imporsi<br />

in tutta <strong>la</strong> sua rilevanza: l'invocazione del nome <strong>di</strong> Dio proferita da<br />

Adamo "in principio" è <strong>la</strong> funzione fàtica che custo<strong>di</strong>sce l'essenza del<br />

<strong>lingua</strong>ggio <strong>nel</strong><strong>la</strong> sua più alta <strong>nobiltà</strong>. La paro<strong>la</strong> ci è stata donata<br />

8 “Da una sorta <strong>di</strong> equazione fra Dio che par<strong>la</strong> all'anima <strong>nel</strong>l'aff<strong>la</strong>to mistico e il<br />

<strong>di</strong>ttatore Amore che par<strong>la</strong> al poeta può nascere, complice l'allegoria in factis<br />

adamitica, un'altra equazione tra <strong>lingua</strong> universale e naturale adamitica e <strong>lingua</strong><br />

universale e naturale poetica” (M. Corti, Percorsi dell’invenzione. Il <strong>lingua</strong>ggio<br />

poetico e Dante, cit., p. 95).<br />

9 “E però sappia ciascuno che nul<strong>la</strong> cosa per legame musaico armonizzata si può de<br />

<strong>la</strong> sua loque<strong>la</strong> in altra transmutare, sanza rompere tutta sua dolcezza e armonia. E<br />

questa è <strong>la</strong> cagione per che Omero non si mutò <strong>di</strong> greco in <strong>la</strong>tino, come l’altre<br />

scritture che avemo da loro. E questa è <strong>la</strong> cagione per che li versi del Salterio sono<br />

sanza dolcezza <strong>di</strong> musica e d’armonia; ché essi furono transmutati d’ebreo in greco e<br />

<strong>di</strong> greco in <strong>la</strong>tino, e ne <strong>la</strong> prima transmutazione tutta quel<strong>la</strong> dolcezza venne meno”.<br />

(Convivio I, vii, 14).<br />

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innanzi tutto per lodare il Creatore riconoscendo <strong>la</strong> paternità del suo<br />

Amore infinito, e il cantare dei poeti è intonato sul<strong>la</strong> medesima<br />

<strong>di</strong>mensione eucologica che è risuonata <strong>nel</strong> primiloquium <strong>di</strong> Adamo,<br />

padre <strong>di</strong> tutti i giul<strong>la</strong>ri <strong>di</strong> Dio. Il progenitore dell'umanità assurge ad<br />

allegoria figurale <strong>di</strong> Davide, Salomone, e Francesco d'Assisi:<br />

invocazione e lode, inno e preghiera, bene<strong>di</strong>zione e ringraziamento,<br />

gau<strong>di</strong>o ed esultanza, sono i poli attorno ai quali si strutturano i Salmi, i<br />

Cantici e più in generale ogni "sacrato poema". Nel<strong>la</strong> simplicitas che<br />

lo contrad<strong>di</strong>stingue il primiloquium è come un Punto che racchiude in<br />

sé tutto ciò che si squaderna <strong>nel</strong><strong>la</strong> <strong>nobiltà</strong> del <strong>di</strong>re poetico. Ecco allora<br />

che <strong>la</strong> poesia non è soltanto un'opera <strong>di</strong> fondazione che mira a<br />

restaurare, per quanto possibile, <strong>la</strong> struttura del<strong>la</strong> <strong>lingua</strong> sul<strong>la</strong> base <strong>di</strong><br />

una forma locutionis e<strong>la</strong>borata attraverso le regole del legame<br />

musaico; essa deve bensì tenere desta <strong>la</strong> memoria dell’evento da cui il<br />

<strong>lingua</strong>ggio ha tratto origine. In questo senso poesia e redenzione<br />

linguistica sono tutt'uno. A ben vedere, il volgare illustre così inteso è<br />

l’unica <strong>lingua</strong> degli angeli che Dante sia <strong>di</strong>sposto ad ammettere.<br />

Alessandro Raffi<br />

alesraffi@libero.it<br />

http://web.infinito.it/utenti/a/alexraffi/<br />

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