Assemblea Internazionale 2011 DISCORSI - Rotary International
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L’immagine pubblica<br />
Jennifer Jones<br />
Istruttrice del RI<br />
Esattamente due anni fa ho affrontato una delle più ardue sfide della mia vita. Insieme a<br />
mio marito Nick e a due vostri colleghi, Michael e Shelly Duben, ho raggiunto la vetta del<br />
Kilimanjaro, a 5.800 metri di altezza. Oltre alla soddisfazione personale, l’obiettivo della<br />
spedizione era di raccogliere fondi per il <strong>Rotary</strong>.<br />
Ci sono voluti cinque giorni di cammino – il primo in una foresta lussureggiante, il secondo<br />
nella brughiera, il terzo in una zona di cespugli più bassi e il quarto in un paesaggio quasi<br />
lunare di crateri senza alcun segno di vita. Devo dirvi che scalare il Kilimanjaro non comporta<br />
difficoltà tecniche come l’Everest. La sfida è rappresentata dall’altitudine; per me si è<br />
trattato di un viaggio nelle profondità del pensiero positivo.<br />
Arrivando al campo base, a 4.500 metri, due nostri compagni cominciarono ad avvertire i<br />
primi sintomi del mal di montagna. Avremmo dovuto continuare? Per l’ascensione finale<br />
ci vogliono sei, sette ore di cammino; si parte a mezzanotte quando la temperatura arriva a<br />
meno 28 gradi e il terreno gelato offre una trazione migliore. Ogni spedizione è assistita da<br />
un team di guide – un lavoro ambito perché retribuito con generose mance.<br />
È a questo punto che la storia si fa personale. Mentre salivo in vetta quella notte, con il solo<br />
aiuto di una torcia da minatori, ero dibattuta tra il senso di euforia e la paura che potesse<br />
succedere una tragedia. Al nostro ritorno ci fu detto che la guida di un’altra spedizione era<br />
deceduta e un giovane inglese di 22 anni era in arresto cardiaco.<br />
Durante la salita le nostre guide cantavano canzoni natalizie in swahili e il ritmo della musica<br />
ci aiutava a tenere il passo. Polepole, cioè “adagio, adagio”, suggerivano le guide. Il<br />
modo migliore per combattere il mal di montagna è bere molto e abituarsi gradualmente<br />
all’altezza procedendo molto lentamente – polepole. Vi confesso di essermi buttata nell’impresa<br />
con una certa incoscienza, senza essere veramente consapevole dei pericoli. Probabilmente<br />
ne ero al corrente, ma ero troppo presa dall’avventura, troppo assorbita dal pensiero<br />
di poter raggiungere il punto più alto del continente africano.<br />
Ci sembrava di aver camminato da un’infinità di tempo quando una delle nostre guide ci<br />
fece sapere che avevamo percorso solo un quarto del sentiero che ci separava dalla vetta.<br />
L’acqua che avevamo con noi, nonostante i contenitori isolati, si era congelata e l’unica<br />
cosa che riuscivo a fare a quel punto era avanzare per inerzia, un passo dietro l’altro. Mi<br />
interrogavo sui motivi che mi avevano spinto a quell’impresa e cercavo di mantenere un<br />
atteggiamento positivo. Più di una volta fui sul punto di rinunciare – ma come? Non era più<br />
possibile tornare indietro.<br />
L’ultima ora fu la più difficile, con lunghi tratti di roccia da scalare. Raggiungemmo la vetta<br />
con il sole che cominciava a spuntare all’orizzonte e con il cielo, sino a poco prima uno<br />
spesso tappeto di stelle, che si tingeva di arancione.<br />
Vi ho parlato questa mia esperienza perché si tratta della storia di una scalata. E il <strong>Rotary</strong><br />
non è forse una storia che dovremmo gridare a pieni polmoni dalla vetta di una montagna?<br />
Fare buone relazioni vuol dire saper raccontare la nostra storia. Questa scalata per me rappresenta<br />
una metafora della vita e della prospettiva con cui dobbiamo vedere le cose che<br />
sono importanti per noi. Quali sono le storie dei vostri club e dei vostri distretti che contribuiscono<br />
a mostrare la vitalità del <strong>Rotary</strong>?<br />
Oggi vi parlo dell’importanza delle pubbliche relazioni per la nostra associazione. Un tempo<br />
noi Rotariani eravamo incoraggiati a svolgere la nostra opera in silenzio, senza cercare<br />
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