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Libri<br />
delle sue amiche più care, Micol, sparire<br />
nel nulla dopo i rastrellamenti delle SS al<br />
ghetto; vede morte e fame, viltà e paura.<br />
Ma vede anche, a Centocelle, pulsare<br />
— come prima, come sempre — la vita<br />
nuda degli umili, indifesa e irriducibile:<br />
gli amori, le amicizie, le cure quotidiane<br />
di case affidate alla silenziosa tenacia e al<br />
coraggio delle donne, i ricordi d’infanzia,<br />
la nostalgia per i genitori e le sorelle rimaste<br />
in Sardegna, gli occhi azzurri e i<br />
riccioli neri di Antonio. Sino alle ultime<br />
pagine: l’atrocità della morte di un bambino<br />
ucciso da due tedeschi sbandati, il<br />
giorno prima dell’arrivo degli Alleati.<br />
Nella festa della liberazione, il 4 giugno,<br />
Ida vede annullata la felicità per la fine<br />
della guerra da un’infelicità personale,<br />
solo sua, che s’intreccia con il tradimento<br />
delle ragioni ideali della Resistenza. Ida<br />
volta le spalle alla festa di popolo, fugge<br />
dall’alba di un’era che nasce vecchia<br />
mentre promette di essere nuova. Si perde<br />
in una città che le diventa improvvisamente<br />
estranea.<br />
La Storie e le storie, dunque. Traccia talmente<br />
tante volte seguita dalla letteratura<br />
che intorno ad essa si potrebbe quasi definire<br />
un genere. Per «Dove finisce Roma»,<br />
tra i tanti, il riferimento letterario forse<br />
più pertinente ci sembra «La piazza del<br />
Diamante» (1962) di Mercé Rodoreda.<br />
Ida come Natàlia, la protagonista del libro<br />
della scrittrice catalana, la donna che<br />
nella Barcellona della Repubblica e poi<br />
della guerra civile trova nella dimensione<br />
intima degli affetti un possibile percorso<br />
di resistenza. Si avverte il lascito di Rodoreda<br />
nell’attenzione al flusso minuto<br />
dell’esistenza e nello sguardo privilegiato<br />
rivolto all’universo femminile (Soriga<br />
dedica il libro «alle donne della mia famiglia»).<br />
A dire, invece, di un secondo lascito, «La<br />
Storia» (1974) di Elsa Morante, siamo<br />
in qualche modo portati dall’autrice di<br />
«Dove finisce Roma». Portati, non solo<br />
perché il romanzo di Morante ha come<br />
teatro lo stesso luogo e si svolge in parte<br />
nello stesso arco temporale del romanzo<br />
di Soriga, ma anche perché le protagoniste<br />
dei due racconti hanno il medesimo<br />
nome: Ida ragazzina sarda (Soriga), Ida<br />
maestrina calabrese (Morante). Una scelta<br />
che Paola Soriga certamente non ha<br />
compiuto a caso.<br />
Ci interessa poco, di fronte ad un libro<br />
d’esordio, fare il confronto diretto con il<br />
testo di Elsa Morante (diciamo solo, per<br />
inciso, che, mentre il registro cronachistico<br />
de «La Storia» trova nella distanza<br />
del tono e della scrittura lo strumento<br />
principale per penetrare la dimensione<br />
tragica di esistenze perse nel tempo, il registro<br />
di Paola Soriga è invece connotato<br />
da un realismo che percorre vie molto<br />
più dirette verso i territori della commozione).<br />
Ci interessa di più dire che<br />
il richiamo di Paola Soriga ad un ramo<br />
della tradizione del Novecento italiano<br />
è positivo in sé, a fronte di un ambiente<br />
letterario contemporaneo sempre più<br />
popolato da narratori che scrivono (con<br />
esiti poverissimi) in una sorta di deserto<br />
della memoria. Tanto più positivo, poi,<br />
troviamo quel richiamo perché il «ramo<br />
Morante» è uno dei più alti del nostro<br />
Novecento. Che un’esordiente nata nel<br />
1979 guardi sin lassù è un buon segno.<br />
Con un’avvertenza, però (doverosa, anche<br />
a costo di sembrare paternalistici): a<br />
quell’altezza l’impegno richiesto impone<br />
che non si ceda mai a niente dell’attuale<br />
«mainstream» editoriale. A quell’altezza<br />
lo sguardo arriva a ciò che Pier Paolo<br />
Pasolini aveva visto già nella «Meglio<br />
gioventù» (1953): «Signore, siamo soli,<br />
non ci chiami più/Per il nostro male non<br />
hai né collera né compassione/Niente<br />
da trenta secoli, niente è cambiato/si è<br />
unito il popolo e unito combatte/ma il<br />
nostro male è il male di ognuno di noi/e<br />
spartire male e bene lo sai solo Tu». Una<br />
preghiera, anche questa sottovoce, simile,<br />
nella comune radice di desolazione, al<br />
mormorio inudibile della Ida morantiana<br />
prima di finire in manicomio, quando<br />
la donna prende a lagnarsi «con una<br />
voce bassissima, bestiale: non voleva più<br />
appartenere alla specie umana». Ecco:<br />
la parola si spegne di fronte ad un male<br />
che non è mai solo storico. Dopo «La<br />
Storia», da Elsa Morante arriva il terribile<br />
immenso «Aracoeli» (1982). E dopo<br />
«Aracoeli», il silenzio, sino alla morte<br />
(1985). «Scrivo — diceva Elsa Morante<br />
— da una distanza che pareggia i vivi e i<br />
morti». Accettare questa altezza significa<br />
sapere che nessun gioco dei sentimenti<br />
— per quanto sapientemente costruito<br />
— ci può consolare.<br />
Ieri tra Pavia e Barcellona<br />
Oggi Seneghe e Argentiera<br />
Giovanni Soma, nato a Buddusò nel 1947, una vita a Orune, istruttore della Scuola<br />
Alpina delle Fiamme Gialle, tra i creatori dell’alpinismo in Sardegna, tracciatore di venti<br />
vie alpinistiche nuove col suo amico Ben Laritti accademico del Cai, “inventore” anche<br />
delle vie per scalare – tra le altre - Monte Corrasi e Punta Cusidore nella catena del Corràsi<br />
di Oliena, è morto lo scorso 18 gennaio dopo quattro anni passati in coma vegetativo in<br />
seguito a un banale un incidente stradale. È stata una figura-mito per quanti lo hanno<br />
conosciuto in Sardegna, in Valle d’Aosta e in Trentino e uno dei leader indiscussi delle<br />
Fiamme Gialle. Un suo amico, Mario Calaresu, fotografo tra i più profondi conoscitori<br />
delle montagne del Supramonte tra Oliena e Urzulei, lo ha voluto ricordare con questo<br />
scritto che integralmente pubblichiamo.<br />
marzo 2012<br />
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