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Le interviste di <strong>Sardinews</strong><br />
zione che sta investendo l’Italia. «L’attuale<br />
perdita di produzione – osserva Vaciago –,<br />
dipende dalla somma di tre cose: un credit<br />
crunch imputabile alla crisi finanziaria<br />
che ha investito anche l’Italia dall’agosto<br />
2011 (cioè le banche hanno tagliato il<br />
credito dopo aver perso la raccolta a causa<br />
della perdita di reputazione del Tesoro);<br />
una caduta di domanda finale causata<br />
dall’aumento della pressione fiscale (giustificata<br />
dal tentativo di “salvare l’Italia”);<br />
e una mancata crescita della produttività.<br />
Attenzione, quest’ultimo fattore è<br />
in corso da 15 anni e rappresenta il costo<br />
della mancata modernità del Paese».<br />
Come rimediare, allora?<br />
«I rimedi a questi tre problemi avvengono<br />
man mano che cessano le cause (e questo<br />
vale soprattutto per i primi due aspetti)<br />
– siamo nel pieno del credit crunch e la<br />
pressione fiscale non accenna a diminuire<br />
(ndr) –. Ma è necessario anche fare<br />
le riforme grazie alle quali il Paese possa<br />
tornare a crescere. In più, il discorso che<br />
vale per l’intera Nazione è più grave nelle<br />
parti meno sviluppate del Paese, Sardegna<br />
compresa. Zone di cui ci siamo sostanzialmente<br />
dimenticati negli ultimi 20 anni».<br />
Nel parlare di mancata modernità del<br />
Paese lei fa riferimento anche alla differenza<br />
tra l’industria assistita che è stata<br />
sviluppata nella nostra Regione e quella<br />
che invece ha messo radici nelle economie<br />
emergenti. Cosa ha bloccato da noi<br />
lo sviluppo industriale e quali fattori<br />
hanno fatto sì che in altre economie appena<br />
nate l’industria mettesse radici?<br />
«I Paesi emergenti hanno iniziato a crescere<br />
quando hanno fortemente voluto<br />
crescere, cioè diventare “attraenti”. È<br />
questa la necessaria ricetta: la nostra mancata<br />
crescita è dimostrata-causata dal fatto<br />
che il resto del mondo sta... abbandonando<br />
l’Italia. Non sappiamo essere ospitali<br />
e tanto meno attraenti dal punto di vista<br />
degli investimenti. Se cambiamo prospettiva<br />
e lavoriamo su “come tornare a essere<br />
attraenti” possiamo operare attraverso un<br />
elenco di priorità. La prima è senz’altro<br />
la legalità, ovvero la certezza del diritto<br />
e della sua applicazione, che presuppone,<br />
tra le altre cose, una buona e onesta amministrazione.<br />
Poi bisogna lavorare sulla<br />
meritocrazia e questo già dalla scuola;<br />
con esami scritti e corretti in modo anonimo,<br />
per esempio, o cacciando chi viene<br />
sorpreso a copiare. Un’altra priorità è l’efficienza:<br />
grazie alle moderne tecnologie,<br />
la produttività del Paese può raddoppiare<br />
in pochi anni (sempre che l’organizzazione<br />
sia ridisegnata per consentirlo). Non<br />
abbiamo alternative, perché altrimenti la<br />
competizione a prezzi stracciati da parte<br />
dei paesi emergenti ci strozza».<br />
Un esempio di competizione potrebbe<br />
essere rappresentato dal dumping (la vendita<br />
all’estero di prodotti a costi inferiori<br />
a quelli di produzione) cinese nel settore<br />
fotovoltaico. In Italia il solare (e le rinnovabili<br />
in generale) hanno attratto molti<br />
investimenti negli ultimi anni, senza necessariamente<br />
però parlare dello spettro di<br />
una bolla speculativa, l’attrattività si sta<br />
spostando verso mercati meno cari. Come<br />
la Cina, appunto. E la creazione di leggi<br />
(come il decreto Romani del marzo 2011<br />
– Dl 28/2011 – che prevedeva un premio<br />
del 10 per cento sulle tariffe incentivanti<br />
per quanti avessero costruito moduli fotovoltaici<br />
con almeno il 60 per cento dei<br />
componenti europei) risultano essere soltanto<br />
palliativi che non vanno a centrare<br />
il cuore del problema: lo sviluppo di una<br />
filiera industriale innovativa, salda e “attraente”.<br />
Un modello come quello che ha<br />
accompagnato lo sviluppo della new economy,<br />
per esempio.<br />
Professore, ha parlato di un modello Silicon<br />
Valley. Crede che questo possa avvenire<br />
in Italia (e in Sardegna) e, in tal<br />
caso, come potrebbe essere incentivato?<br />
«Per “Silicon Valley” si intende un modello<br />
di diffusione della conoscenza e dell’innovazione<br />
a cerchi concentrici. Questa<br />
struttura - che ha come esempio principale<br />
proprio l’Università californiana di<br />
Stanford dove dagli anni ’70 iniziarono<br />
a svilupparsi numerose industrie specializzate<br />
nella produzione di chip di silicio<br />
(ndr.) –, vede nel suo centro una grande<br />
Università attorno alla quale ci sono i centri<br />
di ricerca, pubblici e privati, e attorno<br />
a questi ultimi ci sono laboratori e fabbriche.<br />
E c’è interdipendenza tra il sapere,<br />
il fare, e il saper fare. Questo modello in<br />
Italia non è mai seriamente nato: se ne è<br />
parlato molto, questo è vero, e qualcosa è<br />
stato fatto a Genova, a Padova, a Torino<br />
e forse da qualche altra parte. Ma da noi<br />
manca l’idea di una precisa scala gerarchica<br />
(primo, secondo, e così via: anche<br />
a scuola, il primo della classe è un’invenzione<br />
letteraria, perché la legge vieta votazioni<br />
ordinali). Il risultato finale è sconfortante:<br />
risorse distribuite a pioggia, che<br />
non consentono mai di raggiungere soglie<br />
significative. Anche i buoni cervelli - che<br />
pure nascono in questo Paese - non sono<br />
favoriti a mettersi insieme, far squadra, e<br />
competere alla pari con l’altrui meglio».<br />
Quali guai, quali rimedi?<br />
“Non riusciamo a creare un circolo virtuoso<br />
che favorisca la mobilità, non solo<br />
amministrativa, ma anche “di pensiero”<br />
che possa dare un nuovo input all’industria<br />
italiana. Abbiamo i cervelli ma non<br />
siamo in grado di fargli fare network e intanto<br />
continuano i dibattiti sterili sull’importanza<br />
di essere “flessibili”. Quasi una<br />
parola d’ordine per le generazioni attuali<br />
che in realtà va a giustificare un’incertezza<br />
sociale e normativa che potrà avere effetti<br />
devastanti non ancora misurabili”<br />
Si parla tanto di flessibilità nel mondo del<br />
lavoro ma se non ci sono aziende in grado<br />
di inserire gli operai come facciamo?<br />
«Le imprese in Italia non mancano, anzi,<br />
ce ne sono fin troppe. Il problema è un altro:<br />
perché queste imprese non crescono?<br />
E qui dovremmo fare un ragionamento<br />
simile, mutatis mutandis, a quello sulla<br />
crescita: perché i problemi e le difficoltà<br />
delle imprese crescono al crescere della<br />
loro dimensione? Sono più visibili e quindi<br />
più ostacolabili? Sono più dipendenti<br />
dalla inefficienza sistemica? Valgono nei<br />
loro confronti molte delle ragioni per cui<br />
le grandi altrui ci evitano. Se fossimo “attraenti”<br />
saremmo anche in grado di “trattenere”<br />
qui la crescita delle nostre migliori<br />
aziende, che negli ultimi quindici anni è<br />
avvenuta ovunque meno che in Italia».<br />
marzo 2012<br />
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