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La grande crisi sarda<br />
Lo sciopero generale in Sardegna del 13 marzo con operai e giovani che chiedono sviluppo<br />
Abbiamo finito i buchi della cinghia<br />
Vogliono darci davvero il colpo finale?<br />
difficile trovare un’immagine così potente<br />
da racchiudere l’urlo di dispera-<br />
È<br />
zione di un intero territorio, figlio bistrattato<br />
di un’Isola in balia di se stessa. Una<br />
sintesi efficace, per il Sulcis, non c’è: per<br />
capire le ragioni di una provincia al collasso<br />
e della sua ennesima marcia, bisogna sforzarsi<br />
di guardare tutte le sue facce. Quelle<br />
degli operai in mobilità a 500 euro, che<br />
non sono sufficienti a nulla ma devono bastare<br />
per tutto, quelle di chi alla mobilità<br />
neppure ha diritto, quelle dei single per<br />
forza, perché una famiglia è un sogno irrealizzabile,<br />
e quelle di chi una famiglia se<br />
l’è fatta, tanti anni fa, e ora non sa come<br />
mandarla avanti perché non è più né carne<br />
né pesce, senza più lavoro e senza ancora<br />
una pensione. “Abbiamo finito i buchi della<br />
cinta”, scherza ma fino a un certo punto<br />
Giorgio Virdis, di Iglesias, che una pensione<br />
ogni mese ce l’ha, ma ha anche tre<br />
figli di trent’anni a carico, che “non riescono<br />
a rendersi autonomi e vanno sostenuti”.<br />
Ecco, il simbolo del Sulcis in ginocchio,<br />
della Sardegna in ginocchio, forse sono<br />
proprio le troppe famiglie che hanno un<br />
papà, una mamma, un figlio senza lavoro<br />
e senza futuro. Le famiglie che la crisi la<br />
vedono a tavola tutti i giorni e il 13 marzo<br />
hanno di nuovo deciso di mandare in piazza<br />
a Cagliari almeno un rappresentante in<br />
processione per dire che basta, così non si<br />
può più andare avanti. Molti, visto che si<br />
trattava del quarto sciopero indetto in tre<br />
anni da Cgil, Cisl e Uil, paventavano l’effetto<br />
stanchezza. A smentirli, 20 mila persone<br />
in carne e ossa, arrivate nel capoluogo<br />
da tutta l’Isola con una voglia matta di farsi<br />
sentire.<br />
“A me piacerebbe costruirmi una famiglia<br />
ma da gennaio, dopo tre anni di cassa integrazione,<br />
sono stato messo in mobilità a<br />
635 euro al mese”, grida Damiano Mei,<br />
39 anni, di Iglesias, ex dipendente della<br />
Rockwool, in marcia con i 56 ex compagni<br />
di fabbrica per chiedere alla Regione di<br />
mantenere le promesse. “Noi eravamo l’unico<br />
impianto in Italia a produrre lana di<br />
roccia, un coibentante per l’edilizia. Un bel<br />
giorno, però, l’azienda ha deciso di smontare<br />
tutto e aprire due nuove fabbriche in<br />
Croazia e in India e noi abbiamo cominciato<br />
il solito calvario: prima la cassa integrazione<br />
e poi la mobilità”. “La Regione<br />
Lorenzo Manunza<br />
ha promesso di riassorbirci nel giro di due<br />
anni, collocandoci nel ramo delle bonifiche<br />
ambientali – spiega il collega Matteo<br />
Lobina – ma il protocollo d’intesa firmato<br />
in viale Trento finora è rimasto carta straccia”.<br />
Insieme agli altri 54 ex compagni di<br />
lavoro, Damiano e Matteo da mesi sono in<br />
presidio permanente a bordo del “rockbus”<br />
davanti alla sede dell’Igea, l’ente che si occupa<br />
di bonificare le miniere dismesse e<br />
che dovrebbe assumerli. Lo sciopero del 13<br />
marzo per loro è un’occasione di visibilità.<br />
“Siamo stufi di scendere in piazza per rivendicare<br />
qualcosa che ci spetta – dicono<br />
in coro – ma senza lottare qui purtroppo<br />
non si ottiene nulla”.<br />
In piazza, poco distanti, ci sono proprio i<br />
lavoratori dell’Igea. Molti sono ex minatori<br />
ora impegnati nelle bonifiche, che rivendicano<br />
un futuro stabile non solo per sé<br />
ma per le decine di ragazzi che potrebbero<br />
trovare sbocco in un settore da rilanciare.<br />
“Forse qualcuno non capisce che le bonifiche,<br />
se opportunamente finanziate, potrebbero<br />
dare da mangiare a tante famiglie del<br />
Sulcis e non solo”, spiega Mario Podda, di<br />
Iglesias, anche lui con un passato in miniera.<br />
“Bonificare un territorio significa non<br />
solo impiegare dei lavoratori nell’immediato<br />
ma anche consentire in futuro a quelle<br />
stesse terre di ospitare nuove attività economiche<br />
– ribadisce il collega Gigi Pintau –.<br />
In sostanza, non solo buste paga ora e subito,<br />
ma anche possibili altri posti di lavoro<br />
domani e allora noi che un lavoro grazie a<br />
Dio ce l’abbiamo, dobbiamo lottare per far<br />
vedere che c’è un modo per dare una prospettiva<br />
ai tanti giovani che ora non sanno<br />
dove sbattere la testa”.<br />
Ne è convinto anche Giovanni Porru, 65<br />
anni, di Villamassargia, ex operaio dello<br />
stabilimento Alcoa di Portovesme. “Forse<br />
a qualcuno potrò sembrare un privilegiato<br />
perché ho lavorato per trent’anni nella stessa<br />
fabbrica e ora prendo la pensione tutti i<br />
mesi – dice Porru – ma proprio per questo<br />
sono sceso in piazza: per stare vicino a<br />
questi ragazzi che lottano con le unghie e<br />
con i denti per difendere il posto di lavoro.<br />
Perché bisogna stare uniti, fare casino<br />
e protestare in tutte le sedi per impedire<br />
che si prendano decisioni stupide sulle<br />
teste degli operai e i soldi pubblici vengano<br />
buttati al cesso”. Non è dato sapere se<br />
nel novero delle “decisioni stupide” rientri<br />
anche l’imminente riforma del mercato<br />
del lavoro, ma tra gli scioperanti di sicuro<br />
c’è molta preoccupazione per le scelte del<br />
governo Monti in fatto di ammortizzatori<br />
sociali e articolo 18. “Se cambiano le regole<br />
sulla cassa integrazione e la mobilità, c’è il<br />
serio rischio che finiamo per stare peggio<br />
di prima”, avverte Marco Puddu, 48 anni,<br />
operaio nei cantieri Enel di Portovesme.<br />
Da quattro anni anche lui, come molti<br />
colleghi, è in mobilità a 500 euro al mese:<br />
poco, pochissimo, ma meglio di niente.<br />
“Se il ministro Fornero ci toglie anche<br />
la miseria che percepiamo adesso, non so<br />
dove andiamo a finire. Io devo mantenere<br />
4 marzo 2012