Ottobre - Sardinews
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“Il più bel vizio è la vita”, interno di una famiglia complicata nella Torino del dopoguerra<br />
Libri<br />
Elisabetta Chicco, bambina invisibile<br />
tra artisti seduttori ed eretiche samaritane<br />
Ripiegati su sé stessi, anestetizzati dalla paura di amare e vivere,<br />
incapaci di riconoscere quale sia il vizio per il quale valga la<br />
pena esistere: al termine del romanzo, Elisabetta Chicco Vitzizzai<br />
offre al lettore una chiave di lettura della sua ultima opera “Il più<br />
bel vizio è la vita” (InstarLibri, pagine 142, € 13,50), in virtù delle<br />
figure diametralmente opposte, al limite del reale e del fantasioso,<br />
che si muovono veloci e appassionanti, in un incredibile mèlange<br />
familiare di una memoria e di un’epoca torinese. L’autrice piemontese,<br />
cavalcando l’onda del ricordo e dell’immaginazione più<br />
specificatamente creativa, dipinge personaggi, figure e macchiette<br />
sullo sfondo della Torino dagli anni quaranta agli anni sessanta,<br />
dalla fame della guerra e del dopoguerra sino al boom economico,<br />
passando attraverso le prime elezioni repubblicane e le ambizioni,<br />
poi concretizzate, di villeggiatura nei più famosi stabilimenti balneari<br />
della Liguria.<br />
Si delineano così brevi e intensi aneddoti della famiglia Chicco, con<br />
egual contemplazione del ramo paterno e di quello materno, in base<br />
a un procedimento narrativo che avanza secondo fronti descrittivi<br />
paralleli: la sfera materna e paterna dell’io narrante, scevra del proprio<br />
ruolo genitoriale ma fortemente individuata attraverso azioni,<br />
comportamenti e soprattutto minuziose descrizioni fisiche. Lui,<br />
pittore anticonformista, bon vivant e politically innocent. “Fondamentalmente<br />
era un esteta, accessoriamente un amante, sempre<br />
un seduttore. Ma voleva anche essere un poeta, un musicista, un<br />
uomo di mondo, un dandy, un arredatore, un commediografo, un<br />
romanziere. Era un cinico sentimentale, a volte scostante, sovente<br />
ironico, sempre molto preso da sé stesso.” Lei, una delle donne<br />
più eleganti di Torino, più orientata all’effimero mondo sartoriale<br />
che alla buona tavola, onnipresente nei salotti letterari quanto<br />
nei luoghi di villeggiatura. “Mia madre meditava sul quotidiano<br />
logorio di scarpe, calze, biancheria, costosissime da rimpiazzare. I<br />
vestiti davano maggiore soddisfazione.” “… come tutti in famiglia<br />
era dotata di talento artistico. Ogni tanto calzava lunghi guanti di<br />
camoscio e si metteva a dipingere. Ci mise all’incirca tutta la vita<br />
ad affinare e rendere impeccabile la propria immagine…”.<br />
Nell’ambito di questo bipolarismo, si alimenta un magma vulcanico<br />
di personaggi e storie, intimamente correlati all’ambito parentale<br />
(nonni, cugini, zie e prozie) o semplicemente conoscenti e vicini<br />
di casa. C’è chi nasconde ipocrisie più o meno velate come la zia<br />
Titina “…sufficientemente acida e spigolosa, si è sempre concessa<br />
tutto quello che ha disapprovato e represso nelle altre donne…”; ci<br />
sono coloro che vivono in preda a manie e deliri inconfessabili come<br />
il “cocottino Gino B.”, mediocre personaggio determinato a vivere<br />
di rendita sposando ricche e anziane donne, rivelatore “della stupidità<br />
di massa di una certa élite intellettuale femminile dell’epoca”<br />
o anche quelli che alternano inquietudini dell’animo poi palesate<br />
dall’ordinarietà della vita quotidiana “ …nonno Zaverio, non era<br />
certo il nonno che ti prende sulle ginocchia, ti racconta le fiabe, ti<br />
regala gli zuccherini…” “Zia Eva odiava i grassi e il cibo, perché le<br />
ricordavano che era stata grassottella da ragazza e soltanto con la sua<br />
dieta di whisky e sigarette era riuscita a diventare magrissima.” E<br />
prosegue ancora una vera e propria sfilata di vizi, tutti degnamente<br />
interpretati ed espressi alla massima potenza: “…magna Mentina<br />
spingeva la spilorceria fino a risparmiare le parole.” “L’indole<br />
Elvira Usai<br />
sospettosa e l’eccessiva precisione erano un’altra caratteristica di<br />
famiglia…nonno Pietro, maniaco della puntualità…”.<br />
A fronte di tutto ciò lo sguardo spietato, ironico, sarcastico della<br />
voce narrante, in un continuo scambio di ruoli tra l’adulta e la<br />
bambina, che con dovizia di particolari illustra quel mondo dove è<br />
nata e in cui sta crescendo e nel contempo al quale cerca di opporsi;<br />
una variegata compagine di adulti, lontani e ostili, a tratti impenetrabili<br />
a cui la protagonista contrappone grazie a piccoli stratagemmi<br />
un’infanzia creativa, un’innocenza indistruttibile. A partire<br />
dal disincanto: “ La guerra la guardavo assieme a mio padre come<br />
fossimo al cinema dal terzo piano di casa mia, seduta sul davanzale<br />
della finestra, con le gambe di fuori.”, la consapevolezza della morte<br />
“…di morti ne avevo già visti parecchi… Sentivo, sapevo, che della<br />
morte gli adulti non volevano parlare, e tacevo.”, i rapporti intrisi<br />
di equivoci paradossali con la maestra Barberis, per poi innescare<br />
una psicologia comportamentale estremamente disarmante per<br />
una bambina di soli sei anni che si ritrova spesso circondata da<br />
eretiche samaritane. “Mi misi allora d’impegno, come Pinocchio<br />
alla fine delle sue avventure, per adattarmi all’ideale pedagogico<br />
dell’ambiente conformista e bigotto in cui vivevo… fui ubbidiente,<br />
noiosa e molto pia…la mia strategia di sopravvivenza si fondava<br />
sull’essere il più possibile invisibile, onde sottrarmi a un’attenzione<br />
tendenzialmente punitiva”.<br />
ottobre 2010<br />
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