Marco Polo - Luglio/Agosto 2017

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© <strong>2017</strong> Mark Tobey / Seattle Art Museum, Artists Rights Society (ARS), New York Il fascino dell'astrazione Gli ipnotici lavori di Tobey conquistano con la ricchezza di rimandi e la raffinatezza estetica, come aveva intuito una certa Peggy... Testo di Lorenzo Ciompi Si chiama Luce filante la bella esposizione alla Fondazione Guggenheim, in contemporanea con la Biennale. Qui l’imprevedibile Mark Tobey dà il meglio di sé. Un “Espressionismo Astratto” che strizza un occhio alla tradizione artistica e filosofica cinese e giapponese, un artista scoperto dalla lungimirante antesignana della verità e del genio pittorici: Peggy Guggenheim, che ne acquistò un dipinto per incrementare la collezione della sua galleria nel 1966. “Opere a scrittura bianca, come tracce nella neve, composizioni a tutto campo di delicati intrecci di linee simili a merletti” quando già gli artisti d’oltreoceano cominciavano a liberarsi della pesante eredità cubista. Graffiti che permettono alla luce di “respirare in silenzio”, come nella Notte bianca del 1942, o in produzioni più figurative come il Ritratto di Callahan del ‘44. Un vocabolario visivo spezzato in frammenti corporei, ispirato dal Nudo che scende le scale del 1912 a firma Duchamp. Evoluzioni pittoriche e stilistiche nella Strada di San Francisco del ‘41, in Fata Morgana e in Eventualità, entrambi del ‘44. Dello stesso anno Città dell’ovest, dove si evince un crogiuolo sinestetico di sensazioni ed emozioni e dove la “scrittura bianca” diventa maggiormente patinata e assume toni e scale cromatiche tortora e salvia. Ma è con Occhio magico del ’66 che l’artista rasenta la perfezione. Soffermatevi su Gotico, del ‘43; qui Tobey gioca con virtuosismi di linee, iperboli, cosinusoidi, parabole con un effetto strepitoso e dirompente. Le forme derivano dall’uomo è una tempera su cartone del ‘43. L’impatto è notevole, allusioni religiose, e come l’artista scrive: “...pittura legata al tempo, al luogo, alla storia. E sempre connessa alle convinzioni e ai dubbi dell’uomo, alle sue affermazioni e contestazioni”. Linee del- Sopra, "Campo selvatico" (1959). Sotto, "Incrinatura rossa" (1962) la città e Città radiosa, rispettivamente del ‘45 e del ‘44, sono ragnatele imperscrutabili, crogiuoli tridimensionali di luci, inestricabili micromatasse pittoriche come gangli cerebrali e sinapsi neuroniche, mentre in New York, del ‘44, Tobey si cimenta in un gioco eclettico di una delicatezza e raffinatezza senza pari. Elegante e mai banale, se non avessimo timore di offendere diremmo altamente decorativo, come in Senza titolo del '44: un delicato alveare di tasselli che compongono quasi una città, un grattacielo, come nei migliori olii di Fenninger, una potenza estetica sublime. Lo stesso Pollock così si esprimeva: “Cinque o sei miei coetanei a New York fanno un lavoro molto importante, e la tendenza sembra essere quella di allontanarsi dal cavalletto per arrivare a una specie di pittura murale”. Del resto i due si somigliano non poco. L’uno nell’apparente casualità del “dripping” morbido e scivoloso, quasi inafferrabile nelle curve eleganti. L’altro nelle curvilinee più spigolose e nelle sagome criptiche, severe ma delicate, dure e tenere al tempo stesso. Il quadro che più di tutti avvicina i due artisti è Fosforescenza, un olio, smalto e alluminio su tela del ‘47 di Pollock. Un variegatissimo linguaggio pittorico che spazia in stili dissimili tra loro, come in Paesaggio americano, del ‘29, quasi un Sironi con qualcosa di de Chirico e di Hopper. L’innovazione dei due sfocia in apporti pittorici ed estetici di rara eleganza, e come scriveva Greenberg nel 1948: “Dopo Mondrian, nessuno ha portato la pittura da cavalletto così lontano dalle origini. Una cultura, una tendenza che ha portato con sé una maggiore concentrazione sulla tessitura della superficie e sulle qualità tattili, per bilanciare il rischio di monotonia dovuta al disegno uniforme, a tutto campo, che è diventato prassi costante”. Osservate Linee nello spazio del ‘53: non vi sembra un “dripping” di Pollock? Non vi pare un raro “concetto spaziale” dipinto su vetro di Lucio Fontana, tra le altre cose eseguito nello stesso anno? La raffinatezza estetica raggiunta negli anni ‘50 conferisce a Tobey, ed a noi di conseguenza, inaspettate illuminazioni, come in Frammenti nel tempo e nello spazio del ‘56. A modesto avviso di chi vi scrive è però un imperdibile olio su tela del ‘58 che da solo vale l’esposizione: Luce-Aurora profetica, un viaggio nell’ignoto, un sogno catartico, un pulviscolo luminoso, sensazioni che percepirete, meno fortemente, in Campo selvatico e in Mondo del '59 e in Spazio tremolante del ‘61. Viene voglia di cogliere i fiocchi di cotone dalla tela, così materici e tridimensionali, osservando Muro vivo e segno del ‘65, come in Andirivieni del ‘70, nel Mondo bianco e in Spazio argenteo entrambi del ‘69, nonché in Fuga dalla staticità del ‘68. Dipinti in cui l’artista anela alla perfezione e che il suo genio raggiunge poco prima di morire nel 1976. “Uno dei maggiori artisti americani emersi negli anni ‘40, il decennio che vede l’ascesa dell’Espressionismo astratto, viene ora riconosciuto universalmente come una figura di avanguardia che anticipa le innovazioni formali di esponenti della scuola di New York come Pollock. Reticoli leggeri e intricati di linee delicate, audaci, unicità di astrazione, sintesi a cui giunge con ideogrammi e scritture cuneiformi, esecuzioni calligrafiche come integrazioni liriche della filosofia della storia visiva orientale e occidentale, con riferimenti culturali a tradizioni astratte che spaziano dai dipinti cinesi su rotolo al cubismo europeo”. Illuminazione perfetta, catalogo 10, personale 8, location stellare. Venezia Mark Tobey 123
Venezia Hotel Kempiski L'isola glamour Un ex-monastero ricco di fascino, trasformato in hotel di lusso a 5 stelle della famiglia Leading Hotels of the World, è la destinazione esclusiva di pace e tranquillità a soli dieci minuti in barca da Piazza San <strong>Marco</strong> Testo e foto di Lorenzo Ciompi Se volete trascorrere un soggiorno veneziano diverso dal solito, vi consigliamo il San Clemente Palace Kempinski sull’isola privata di San Giorgio che si estende per 7 ettari. Edificato sul palazzo di San Clemente, ex ospedale psichiatrico (i veneziani più sagaci ed invidiosi ironicamente lo chiamano San demente), è una meravigliosa struttura con un grande parco mirabilmente tenuto che percorre tutta l’isola e dove sono incastonate sculture ed installazioni artistiche contemporanee. 190 camere e suite in 17 categorie differenti. Pace e tranquillità con un pizzico di romanticismo, servizio impeccabile, cucina eccellente; come navette per Venezia dei Riva Acquarama lustratissimi. Il bar a bordo piscina è un’esperienza irrinunciabile, magari sorseggiando un Bellini “pied dans l’eau”. Il relax è garantito e la quiete assoluta. Un percorso di jogging di quasi 2 km intorno all’isola offre la vista unica della laguna e lo skyline di una Venezia inedita. Il ristorante Acquerello vi proporrà una vasta selezione di portate, mentre la prima colazione viene servita in una deliziosa piazzetta sul sagrato della chiesa privata prospiciente il monastero. Il primo insediamento dell’isola è del 1131 quando i mercanti veneziani fondarono la chiesa ed un ospizio per i pellegrini ed i soldati. Il nome è dedicato al Papa Clemente I che morì martire. L’isola subì un periodo di decadimento dopo la caduta della Repubblica di Venezia nel 1797, inoltre la soppressione degli ordini religiosi voluti da Napoleone nel 1810 fece sì che i monaci camaldolesi fossero costretti ad abbandonarla. La struttura divenne così alloggio di una guarnigione militare. Dal 1873 il monastero ospitò un ospedale che fu chiuso nel 1992 e finalmente nel 2003 tutto il complesso è stato riconvertito in un luxury hotel. La posizione è as- 124
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