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Letteratura italiana: dalle Origini alla morte di ... - Claudio Giunta

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<strong>Letteratura</strong> <strong>italiana</strong>: <strong>dalle</strong> <strong>Origini</strong> <strong>alla</strong> <strong>morte</strong> <strong>di</strong> Boccaccio<br />

Premessa<br />

[Il Basso Me<strong>di</strong>oevo: dal latino al volgare] Il Basso Me<strong>di</strong>oevo – ossia il periodo, che qui<br />

consideriamo, compreso tra i secoli XI e XIV – è caratterizzato da un grande fermento negli àmbiti<br />

più <strong>di</strong>versi della vita culturale: <strong>dalle</strong> arti alle scienze, d<strong>alla</strong> filosofia <strong>alla</strong> letteratura. In quest’ultimo<br />

settore, il fermento è legato soprattutto a un evento, o piuttosto a un processo, davvero epocale: il<br />

passaggio dal latino ai volgari nazionali, o meglio l’affiancarsi dei volgari nazionali al latino come<br />

lingue della scrittura. Se fino all’incirca al secolo XI gli intellettuali e i poeti si esprimevano per<br />

iscritto usando soltanto il latino, <strong>di</strong> qui in poi essi hanno facoltà <strong>di</strong> scelta, e la scelta più naturale<br />

sarà per molti, per molto tempo ancora, quella <strong>di</strong> usare entrambi gli i<strong>di</strong>omi a seconda del pubblico<br />

che hanno <strong>di</strong> fronte e a seconda del ‘genere letterario’ cui appartiene l’opera: si pensi al<br />

bilinguismo non solo <strong>di</strong> Dante, Petrarca, Boccaccio, ma anche degli umanisti più tar<strong>di</strong> come Alberti<br />

o Poliziano. Benché, dunque, la tra<strong>di</strong>zione latina resti vitale, e ad<strong>di</strong>rittura predominante (o<br />

esclusiva, nelle cancellerie, nella Chiesa, nelle università), l’evento o processo <strong>di</strong> cui va sottolineata<br />

l’importanza è la nascita delle letterature nazionali in volgare.<br />

[Il pubblico della letteratura volgare] Se si guarda <strong>alla</strong> cronologia, la prima fioritura della<br />

letteratura in volgare si registra in Francia. Qui, nell’ambiente ricco e raffinato delle corti, andò<br />

formandosi un pubblico interessato <strong>alla</strong> letteratura non più come mezzo <strong>di</strong> e<strong>di</strong>ficazione e<br />

d’istruzione ma come libera forma d’intrattenimento, assimilabile ad altri generi <strong>di</strong> spettacolo come<br />

il canto o la danza: un pubblico laico, spesso ignaro <strong>di</strong> latino, e – per la prima volta nella tra<strong>di</strong>zione<br />

occidentale – composto anche e soprattutto da donne. Tra i laici, in effetti, sono soprattutto loro ad<br />

avere il tempo e il gusto necessari per apprezzare le opere letterarie; e sono loro le committenti che<br />

amano circondarsi <strong>di</strong> romanzieri e poeti: <strong>alla</strong> corte <strong>di</strong> Maria <strong>di</strong> Champagne (ultimo quarto del sec.<br />

XII), per esempio, Andrea Cappellano scrive il libro in cui viene co<strong>di</strong>ficata l’etica dell’amore<br />

cortese, il De amore (in latino), e Chrétien de Troyes il suo romanzo Il cavaliere della carretta (Le<br />

chevalier de la charrette). Anche in Italia la nascita della letteratura volgare è strettamente legata<br />

<strong>alla</strong> civiltà cortese. La prima scuola poetica della nostra tra<strong>di</strong>zione si riunisce infatti, nella prima<br />

metà del Duecento, attorno all’imperatore e re <strong>di</strong> Sicilia Federico II. Ma il fenomeno sociale più<br />

significativo <strong>di</strong> questo lungo periodo storico – lo sviluppo dei comuni – ha riflessi importantissimi<br />

anche sul piano della produzione culturale. Nella Toscana e nella Emilia tardo-duecentesche cambia<br />

infatti la composizione sociale sia dei produttori sia dei consumatori <strong>di</strong> letteratura. Gli uni e gli altri<br />

sono ora i ‘nuovi’ professionisti che reggono le sorti del comune: i notai, i giuristi, i me<strong>di</strong>ci, e presto<br />

anche i mercanti – un’élite economica e intellettuale <strong>di</strong>versa da quella nobiliare che dominava nel<br />

mondo cortese.<br />

[I caratteri della poesia e della prosa] Con la scuola siciliana inizia una tra<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> poesia<br />

lirica che per ampiezza e qualità dei risultati non avrà rivali in Europa sino al Rinascimento. Alla<br />

fine del Duecento, in Toscana, un gruppo <strong>di</strong> giovani intellettuali recupera le forme e i contenuti che<br />

erano stati propri dei poeti provenzali (i trovatori), ma dà <strong>alla</strong> lirica un’impronta più marcatamente<br />

personale e autobiografica: sono i cosiddetti stilnovisti, e tra loro c’è anche il giovane Dante, il<br />

quale <strong>di</strong> lì a poco, nei primi anni del Trecento, inizierà a scrivere la Comme<strong>di</strong>a. All’esempio degli<br />

stilnovisti, e soprattutto <strong>alla</strong> Vita nova <strong>di</strong> Dante, guarderà il massimo lirico del Trecento, Francesco<br />

Petrarca, che col suo Canzoniere offrirà all’Europa un modello <strong>di</strong> confessione in versi la cui<br />

influenza, profon<strong>di</strong>ssima nei due secoli successivi, perdurerà almeno sino <strong>alla</strong> rivoluzione<br />

romantica. Il quadro per ciò che riguarda le forme del narrare è meno trionfale. La novella e il<br />

romanzo sono generi soprattutto francesi: e <strong>alla</strong> tra<strong>di</strong>zione francese e a quella me<strong>di</strong>olatina dovrà<br />

guardare infatti il massimo narratore del Me<strong>di</strong>oevo, Giovanni Boccaccio, quando <strong>alla</strong> metà del<br />

Trecento lavorerà alle novelle del Decameron. Prima <strong>di</strong> quell’opera, è raro che chi scrive in prosa lo<br />

faccia per il puro gusto del narrare: quasi sempre vi è <strong>alla</strong> base un interesse educativo o moralistico<br />

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– interessi che, piuttosto che attraverso le ‘libere’ forme del racconto, vengono sod<strong>di</strong>sfatti attraverso<br />

i sermoni, le leggende, gli aneddoti esemplari.<br />

[La società bassome<strong>di</strong>evale] A questa pro<strong>di</strong>giosa vitalità culturale fa riscontro un quadro<br />

socio-politico altrettanto movimentato. Tra il X e il XIV secolo la popolazione <strong>italiana</strong> raddoppia. È<br />

questo il segno più importante e vistoso <strong>di</strong> un progresso sociale che ha molteplici aspetti, i quali si<br />

possono interpretare ora come effetti ora come cause dell’esplosione demografica. Da un lato,<br />

migliorano le con<strong>di</strong>zioni alimentari e quelle igieniche: fino <strong>alla</strong> metà del Trecento non si registrano<br />

epidemie tanto gravi quanto quelle che avevano afflitto perio<strong>di</strong>camente l’Europa nell’Alto<br />

Me<strong>di</strong>oevo. Dall’altro lato, migliorano le con<strong>di</strong>zioni economiche me<strong>di</strong>e, e ciò soprattutto in<br />

conseguenza <strong>di</strong> due fatti. In primo luogo, l’ampliamento della rete dei commerci. I mercanti italiani<br />

non si muovono più soltanto in un àmbito locale o nazionale ma viaggiano in tutta Europa<br />

acquistando ben presto sulla concorrenza straniera un primato commerciale e finanziario: ricche<br />

famiglie toscane e lombarde aprono cre<strong>di</strong>ti alle maggiori <strong>di</strong>nastie regnanti europee facendo nascere<br />

così le prime banche. Insieme, allo scopo <strong>di</strong> tutelare l’attività mercantile, nascono le prime<br />

compagnie assicurative. Tutto ciò, a sua volta, è conseguenza del fiorire dell’industria<br />

manifatturiera: le merci italiane (i tessuti pregiati in modo particolare) hanno grande successo nelle<br />

fiere che perio<strong>di</strong>camente si tengono per esempio nella regione francese della Champagne.<br />

[Il nuovo rapporto tra città e campagna] Ma all’origine dell’espansione economica c’è<br />

soprattutto un rapporto più <strong>di</strong>namico tra le città e la campagna. Il modello feudale, fatto <strong>di</strong> microunità<br />

economicamente in<strong>di</strong>pendenti in cui il contado è al servizio esclusivo del vassallo e della sua<br />

corte, cessa <strong>di</strong> essere l’unico modello possibile. Nel corso dell’XII e del XIII secolo i nuovi soggetti<br />

politici, i comuni, conquistano il contado riducendo il potere dell’aristocrazia feudale: la produzione<br />

agricola entra così a far parte <strong>di</strong> un più aperto sistema economico fondato non sull’esazione (quella<br />

imposta dal proprietario terriero al servo o al mezzadro) ma sulla compraven<strong>di</strong>ta. Frattanto, si<br />

affinano le tecniche agricole – cioè quel complesso <strong>di</strong> pratiche legate, per esempio, all’aratura, <strong>alla</strong><br />

ferratura dei cavalli, <strong>alla</strong> macina – e si amplia la superficie coltivabile, onde numerose opere <strong>di</strong><br />

bonifica, <strong>di</strong>ssodamento, colonizzazione: nel giro <strong>di</strong> pochi secoli, questa umanizzazione della natura,<br />

specialmente in aree ricche come la Toscana, cambia profondamente l’aspetto del paesaggio<br />

italiano.<br />

1. Il periodo storico e i movimenti culturali<br />

1.1 Il quadro storico-politico<br />

[L’Italia alle soglie del secondo millennio] II quadro politico italiano dopo l’anno Mille<br />

appare <strong>di</strong>viso in quattro gran<strong>di</strong> aree <strong>di</strong> influenza. Al centro-nord, il cosiddetto Regno italico è<br />

soggetto all’autorità dell’imperatore tedesco, e uno dei fili conduttori della storia politica sino <strong>alla</strong><br />

fine del Me<strong>di</strong>oevo sarà appunto il conflitto tra questa lontana autorità (la sede imperiale era a<br />

Aquisgrana, nella Germania settentrionale) e i comuni italiani del nord desiderosi <strong>di</strong> in<strong>di</strong>pendenza.<br />

Il Mezzogiorno d’Italia è in parte sotto il controllo dell’Impero bizantino, in parte (la Sicilia) in<br />

mano agli arabi. Il dominio longobardo, un tempo esteso a larga parte della penisola, persiste<br />

soltanto nell’attuale Campania. Questa frammentazione implica che non si possa parlare, per questo<br />

periodo, <strong>di</strong> una anche solo idealmente unitaria storia <strong>italiana</strong>. Se la mappa dei poteri ‘<strong>di</strong> <strong>di</strong>ritto’ è<br />

quella appena delineata, il potere effettivo è nelle mani <strong>di</strong> gran<strong>di</strong> proprietari terrieri che organizzano<br />

i loro posse<strong>di</strong>menti come piccoli sistemi autosufficienti scarsamente comunicanti l’uno con l’altro:<br />

il castello domina sul contado sfruttandone i prodotti e assicurando in cambio protezione contro gli<br />

attacchi provenienti dall’esterno.<br />

[Il conflitto tra papato e impero nell’XI e nel XII secolo] Nel corso del secolo XI si<br />

verificano due eventi politici fondamentali. Al centro-nord si acuisce il conflitto tra l’Impero<br />

germanico e il Papato, che, pur senza detenere ancora un grande stato territoriale, d<strong>alla</strong> sua sede<br />

romana influenza profondamente la vita e le idee dei popoli cristiani. Da un lato, secondo il modello<br />

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cesaropapista per cui l’autorità religiosa dev’essere sottomessa all’autorità politica, l’imperatore<br />

pretende <strong>di</strong> avere voce in capitolo nella elezione del papa. Dall’altro, l’imperatore intende avocare a<br />

sé la nomina dei vescovi: carica importantissima, in quanto ai vescovi era attribuita non soltanto<br />

un’autorità <strong>di</strong> guida spirituale ma anche un concreto potere politico-amministrativo. È la cosiddetta<br />

lotta per le investiture, che si prolungherà per più <strong>di</strong> un secolo. Alle pretese imperiali risponderà<br />

infatti nel 1073 papa Gregorio VII emanando il Dictatus Papae, che annulla le investiture imperiali<br />

e co<strong>di</strong>fica l’ideologia della teocrazia (ovvero la superiorità del potere religioso su quello politico).<br />

Seguiranno quasi cinquant’anni <strong>di</strong> conflitti tra i papi e gli imperatori. Nel 1076 l’imperatore Enrico<br />

IV è a Canossa, a implorare dal papa il ritiro della scomunica che gli era stata inflitta (e ben a<br />

ragione il provve<strong>di</strong>mento era temuto, dato che implicava per i sud<strong>di</strong>ti cristiani l’obbligo <strong>di</strong> non<br />

obbe<strong>di</strong>re all’imperatore che ne fosse stato colpito). Ma nel 1086 lo stesso Enrico occupa Roma ed<br />

elegge un anti-papa. Solo con il concordato <strong>di</strong> Worms, nel 1122, la vertenza potrà <strong>di</strong>rsi conclusa<br />

con un compromesso sostanzialmente favorevole <strong>alla</strong> Chiesa: la nomina dei vescovi viene<br />

<strong>di</strong>chiarata pertinenza dell’autorità ecclesiastica ma – limitatamente al territorio tedesco – previo<br />

‘gra<strong>di</strong>mento’ da parte dell’imperatore.<br />

[I normanni] Al sud, le lotte fra gli ultimi prìncipi <strong>di</strong> stirpe longobarda e i bizantini vennero<br />

arbitrate e spente, all’inizio del secolo XI, dai cavalieri normanni giunti dal nord della Francia e<br />

inse<strong>di</strong>atisi nelle contee <strong>di</strong> Melfi e Aversa. Ma, da pacificatori che erano, costoro si trasformarono<br />

presto in conquistatori e, col benestare del papa, nel corso <strong>di</strong> un secolo estesero il loro dominio a<br />

tutta l’Italia meri<strong>di</strong>onale, giungendo anche a liberare la Sicilia dall’occupazione araba. Alla fine del<br />

secolo XII la corona normanna passò a Costanza, figlia del re Ruggero II; il matrimonio tra<br />

Costanza e l’imperatore Enrico VI portò il regno <strong>di</strong> Sicilia (comprendente l’isola e buona parte<br />

dell’Italia del sud) nelle mani della casa <strong>di</strong> Svevia. Di qui in poi, l’Italia intera sarà il teatro del<br />

conflitto tra l’Impero - titolare <strong>di</strong> questo amplissimo territorio, d<strong>alla</strong> Germania <strong>alla</strong> Sicilia – e il<br />

Papato.<br />

[La nascita dei comuni] Il fenomeno socio-politico cruciale dei secoli XI e XII è la nascita e<br />

lo sviluppo dei Comuni nell’Italia centro-settentrionale: fenomeno originale <strong>di</strong> quest’area, perché<br />

nulla <strong>di</strong> simile accade, a quest’altezza cronologica, in altre zone d’Europa. Dopo la <strong>di</strong>ssoluzione<br />

dell’impero carolingio, il potere politico reale era andato concentrandosi, come si è accennato, nelle<br />

mani dell’aristocrazia terriera e, soprattutto, dei vescovi (e le due categorie solitamente<br />

coincidevano, nel senso che i possidenti occupavano anche i ranghi più alti della gerarchia<br />

ecclesiastica). Ma la crescita demografica, l’intensificarsi dei commerci, la nascita <strong>di</strong> nuove<br />

professioni legate <strong>alla</strong> manifattura e allo scambio – tutto ciò fece sì che, progressivamente, le città si<br />

ingran<strong>di</strong>ssero e prendessero il sopravvento sul contado, dotandosi anche <strong>di</strong> istituzioni <strong>di</strong> governo<br />

laiche: i consules, nominati dal popolo del comune, subentrano ai vescovi nell’amministrazione<br />

pubblica. Una nuova e <strong>di</strong>namica classe, la borghesia dei commerci, delle manifatture e delle banche,<br />

conquista, oltre al potere economico, quello politico, e si inse<strong>di</strong>a nelle magistrature comunali. Nel<br />

corso del Duecento, soprattutto in Toscana e in Emilia, questo nuovo sistema <strong>di</strong> governo evolverà in<br />

maniera autenticamente democratica da un lato con la moltiplicazione degli organi amministrativi<br />

(così che una percentuale sempre più alta <strong>di</strong> citta<strong>di</strong>ni sarà coinvolta nel governo della cosa<br />

pubblica), dall’altro con l’estensione del <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> voto e <strong>di</strong> rappresentanza ai membri del ceto<br />

popolare. Tale tendenza <strong>alla</strong> ‘democratizzazione’ finirà anzi per portare talvolta ad una specie <strong>di</strong><br />

sovvertimento del principio del censo: come quando <strong>alla</strong> fine del Duecento, nella Firenze <strong>di</strong> Dante,<br />

le leggi antimagnatizie decreteranno l’ineleggibilità dei citta<strong>di</strong>ni più ricchi (i magnati, come<br />

l’amico <strong>di</strong> Dante Guido Cavalcanti) alle cariche pubbliche.<br />

[Le lotte tra i comuni e l’impero] Il conflitto tra i nuovi soggetti politici, i comuni, e<br />

l’imperatore, scoppia <strong>alla</strong> metà del secolo XII. Federico I Barbarossa scende in Italia, chiamato<br />

dal papa a da alcuni comuni lombar<strong>di</strong> preoccupati dall’espansionismo <strong>di</strong> Milano. Ma presto la<br />

situazione si ribalta, e Milano riesce a trovare alleati che, coalizzati nella Lega Lombarda (1167),<br />

sconfiggono l’imperatore a Legnano nel 1176. Nel 1183, la pace <strong>di</strong> Costanza segna un progresso<br />

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significativo sulla strada dell’autonomia comunale: la tutela imperiale sarà d’ora in poi quasi solo<br />

un fatto formale.<br />

[Papato e impero nel Duecento] Il figlio del Barbarossa, Enrico VI, avendo sposato la<br />

normanna Costanza d’Altavilla è incoronato re <strong>di</strong> Sicilia nel 1194. Muore però pochi anni dopo, e<br />

gli succede il giovanissimo Federico II, il quale, raggiunta la maggiore età, assumerà su <strong>di</strong> sé le due<br />

<strong>di</strong>gnità <strong>di</strong> re <strong>di</strong> Sicilia (comprendente, ripetiamo, anche il Mezzogiorno d’Italia) e <strong>di</strong> Imperatore. È<br />

lui, senza dubbio, la figura <strong>di</strong> maggior rilievo politico del Duecento. Un lungo conflitto, spesso<br />

cruento, lo opporrà al papa e ai comuni centro-settentrionali. Quanto al papa, il Duecento è il secolo<br />

in cui si consolida lo stato pontificio: le mire <strong>di</strong> Innocenzo III (1198-1216) e dei suoi successori <strong>di</strong><br />

estendere il dominio papale a tutto il centro Italia urtano contro la volontà <strong>di</strong> Federico II <strong>di</strong><br />

controllare, sia pure in<strong>di</strong>rettamente, l’intero territorio della penisola. Quanto ai comuni, la lotta si<br />

acuisce e si <strong>alla</strong>rga a tal punto che i comuni italiani finiscono per dover prendere partito: chi<br />

risolutamente a favore dell’imperatore (i cosiddetti ghibellini, dal casato tedesco dei Wibelin) e chi<br />

risolutamente contro <strong>di</strong> lui e favorevole invece al papa (i cosiddetti guelfi, dal casato tedesco, a<br />

quello contrario, dei Welf: altro nome della stirpe Bavarese). Sicché nella storia <strong>italiana</strong> duetrecentesca<br />

sarà costante da un lato la speranza nella <strong>di</strong>scesa degli imperatori, che pacifichino e<br />

gui<strong>di</strong>no la penisola (è questo, per esempio, l’auspicio <strong>di</strong> Dante); dall’altro la fedeltà al papa e<br />

l’orgogliosa riven<strong>di</strong>cazione dell’autonomia comunale (ed è il caso per esempio <strong>di</strong> Firenze, sempre<br />

fierissima nemica degli imperatori).<br />

[La crisi dell’impero] Il dominio svevo in Italia non va molto oltre la <strong>morte</strong> <strong>di</strong> Federico II<br />

(1250). I tentativi dei suoi ere<strong>di</strong>, Corra<strong>di</strong>no e Manfre<strong>di</strong>, <strong>di</strong> conservare agli Svevi il regno <strong>di</strong> Sicilia<br />

falliscono per l’alleanza tra il papa e il regno <strong>di</strong> Francia, protettore ‘storico’, da allora in poi, dello<br />

stato pontificio. Il cugino del re <strong>di</strong> Francia, Carlo I d’Angiò, sconfigge l’esercito imperiale<br />

capeggiato da Manfre<strong>di</strong> a Benevento (1266), e a lui il papa consegna il regno <strong>di</strong> Sicilia.<br />

[Il nuovo assetto italiano nel Trecento] L’unità del Regno <strong>di</strong> Sicilia sotto il governo <strong>di</strong> Carlo<br />

d’Angiò durò soltanto pochi anni. Nel 1282 si scatenò in Sicilia una rivolta <strong>di</strong> popolo contro<br />

l’occupante francese, rivolta entrata nella storia col nome <strong>di</strong> Vespri siciliani. Nel ventennio<br />

successivo, i rivoltosi ricevettero l’aiuto della casa d’Aragona, che si inse<strong>di</strong>ò nell’isola. La pace <strong>di</strong><br />

Caltabellotta, nel 1302, sancì questa spartizione: la Sicilia agli Aragonesi, l’Italia del sud agli<br />

Angiò. Dopo che si era conclusa la lotta tra angioini e aragonesi nel sud, l’imperatore tedesco<br />

Enrico VII riprese l’iniziativa al nord, proponendosi <strong>di</strong> riaffermare il potere imperiale sui comuni e<br />

<strong>di</strong> contrastare l’alleanza tra il Papato e gli Angiò. Enrico riuscì a superare le resistenze oppostegli da<br />

alcune città italiane – soprattutto da Firenze, che capeggiava la Lega guelfa – e rivolse il suo<br />

esercito verso sud, ma morì improvvisamente in Toscana nel 1313. Benché non completata, la<br />

missione dell’imperatore in Italia ebbe conseguenze politicamente importanti. I casati che si erano<br />

schierati d<strong>alla</strong> sua parte acquistarono prestigio e potere: in città come Verona, Mantova, Milano, si<br />

profilò quel passaggio dal comune <strong>alla</strong> signoria (rispettivamente gli Scaligeri, i Gonzaga, i Visconti)<br />

che in tempi <strong>di</strong>versi sarà il destino comune a buona parte delle me<strong>di</strong>e e gran<strong>di</strong> città centrosettentrionali:<br />

d’ora in poi, il conflitto non sarà più tanto quello tra guelfi e ghibellini quanto quello<br />

tra le gran<strong>di</strong> <strong>di</strong>nastie italiane in lotta per la supremazia territoriale.<br />

[I conflitti tra le gran<strong>di</strong> città: Milano, Firenze e Venezia nel Trecento] Le città che nel corso<br />

del secolo s’imposero nel panorama politico-militare nazionale furono Milano, che mantenne forti<br />

legami con l’impero tedesco (i Visconti chiesero e ottennero la nomina a ‘vicari imperiali’);<br />

Venezia, che non cadde mai nelle mani <strong>di</strong> una sola grande famiglia ma si affidò ad una sorta <strong>di</strong><br />

oligarchia fondata sul <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> nascita: il Maggior Consiglio; e Firenze, che restò più a lungo delle<br />

altre città un comune ‘libero’, cioè non soggetto a ristretti gruppi aristocratici: sino a quando la<br />

cosiddetta ‘rivolta dei ciompi’ (1378) - i ciompi erano gli operai dell’industria tessile, che<br />

chiedevano salari più alti e con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> lavoro più umane – non innescò, dopo essere stata<br />

repressa, una reazione <strong>di</strong> segno opposto da parte delle gran<strong>di</strong> famiglie fiorentine: che allontanarono<br />

il popolo dal governo consegnando la città a un’oligarchia entro la quale doveva prevalere, <strong>di</strong> lì a<br />

poco, la famiglia dei Me<strong>di</strong>ci. La storia politica del Trecento nell’Italia centro-settentrionale è<br />

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segnata dal conflitto fra queste tre città, ciascuna al centro <strong>di</strong> una a volte amplissima zona <strong>di</strong><br />

influenza. Alla fine del secolo, con la signoria <strong>di</strong> Gian Galeazzo Visconti (1385-1402), Milano<br />

arrivò a conquistare Padova e Verona, e ad esercitare un dominio in<strong>di</strong>retto su vaste zone del centro<br />

Italia. Ma, <strong>alla</strong> <strong>morte</strong> <strong>di</strong> Gian Galeazzo, Venezia e Firenze ripresero l’iniziativa, la prima<br />

estendendo il suo potere sulla terraferma sino a comprendere l’intero Veneto attuale, la seconda<br />

sottomettendo Arezzo e, nel 1406, la nemica storica, Pisa.<br />

[Il Mezzogiorno d’Italia nel Trecento] La storia dell’Italia meri<strong>di</strong>onale nel Trecento è<br />

caratterizzata da un fenomeno analogo a quello ora descritto: l’indebolimento delle gran<strong>di</strong> <strong>di</strong>nastie<br />

regnanti e il frazionamento del potere. Nel Regno <strong>di</strong> Sicilia, gli Aragonesi dovettero governare<br />

scendendo a patti con i baroni dell’isola, che ripristinarono una sorta <strong>di</strong> potere feudale su larga parte<br />

del territorio. Nel Regno <strong>di</strong> Napoli, il debole Roberto d’Angiò (1309-1343) fu costretto a fare<br />

ampie concessioni <strong>alla</strong> nobiltà locale, delegando parte della sua autorità a ‘parlamenti’ citta<strong>di</strong>ni<br />

egemonizzati dai gran<strong>di</strong> proprietari terrieri. La <strong>di</strong>sunione del regno e la crisi finanziaria – che portò<br />

al ritiro del cre<strong>di</strong>to da parte dei banchieri fiorentini – furono il prelu<strong>di</strong>o del conflitto politico che <strong>alla</strong><br />

fine del secolo oppose Luigi d’Angiò a Carlo <strong>di</strong> Durazzo (e i rispettivi casati e satelliti: Angioini e<br />

Durazzeschi) per la successione al trono. La crisi si concluderà, nel 1442, con la conquista <strong>di</strong> Napoli<br />

da parte degli Aragonesi, che riuniranno dopo un secolo e mezzo il Mezzogiorno d’Italia sotto<br />

un’unica corona.<br />

1.2 Il ruolo della Chiesa nella storia <strong>italiana</strong> due-trecentesca<br />

[La crisi morale della Chiesa e i tentativi <strong>di</strong> riforma: movimenti pauperistici ed eresie] Il<br />

<strong>di</strong>fficile equilibrio tra il potere politico e il potere religioso è, come si è accennato, una delle<br />

questioni fondamentali nella storia <strong>italiana</strong> dopo il Mille. Come anche si è detto, la Chiesa tese<br />

sempre più ad unire i due poteri estendendo la sua giuris<strong>di</strong>zione sulle cose terrene. Ma la<br />

compromissione col mondo portò con sé la corruzione dei costumi del clero: nulla <strong>di</strong> più lontano<br />

d<strong>alla</strong> norma <strong>di</strong> una vita cristiana, così come era stata illustrata dal Vangelo e dai Padri della Chiesa,<br />

della condotta <strong>di</strong> quei religiosi che vivevano nel lusso e nel vizio facendo pubblico commercio delle<br />

cariche ecclesiastiche. Questa crisi sollecitò reazioni <strong>di</strong>verse. La prima fu quella dei movimenti<br />

pauperistici come la cosiddetta Pataria, che nel secolo XI, a Milano, lottò contro la corruzione del<br />

clero locale. La seconda fu quella degli ‘eretici’, che <strong>alla</strong> volontà moralizzatrice univano più<br />

pericolose – perché potenzialmente rivoluzionarie – istanze <strong>di</strong> revisione in materia dottrinale: non<br />

solo una riforma del clero ma una riforma della fede. La Chiesa <strong>di</strong> Roma agì contro questi gruppi <strong>di</strong><br />

eretici con estrema violenza: nel giro <strong>di</strong> alcuni decenni, i catari (cioè i ‘puri’), la più cospicua <strong>di</strong><br />

queste sette ereticali, furono sterminati nel nord Italia e nel sud della Francia, e lo stesso accadde a<br />

gruppuscoli minori riuniti intorno a figure carismatiche, come i seguaci <strong>di</strong> Gerardo Segalelli (gli<br />

‘apostolici’), finito sul rogo nel 1300, o <strong>di</strong> fra Dolcino (‘dolciniani’), fatti massacrare da papa<br />

Clemente V.<br />

[I nuovi or<strong>di</strong>ni religiosi nel Duecento] La terza reazione <strong>alla</strong> corruzione della Chiesa, la più<br />

importante e gravida <strong>di</strong> futuro, si mantenne entro i confini dell’ortodossia. Si tratta dei nuovi or<strong>di</strong>ni<br />

religiosi che nascono in Italia all’inizio del Duecento. Il castigliano Domenico <strong>di</strong> Guzmàn (1175-<br />

1221), dopo aver combattuto gli eretici nel sud della Francia organizzò una comunità <strong>di</strong> sacerdoti<br />

che nel 1216 ricevette l’approvazione <strong>di</strong> papa Onorio III: nasceva l’or<strong>di</strong>ne domenicano. I suoi<br />

membri vennero detti ‘frati pre<strong>di</strong>catori’, perché questo fu il loro primo compito: viaggiare <strong>di</strong> città in<br />

città pre<strong>di</strong>cando la fede cristiana; e anche ‘frati men<strong>di</strong>canti’, poiché, in linea col precetto evangelico<br />

della povertà, potevano sostentarsi soltanto con ciò che ricevevano in elemosina. Gli ideali<br />

dell’umiltà e della povertà sono anche caratteristici dell’or<strong>di</strong>ne francescano, sorto all’incirca negli<br />

stessi anni. Nato ad Assisi nel 1182 da una famiglia <strong>di</strong> mercanti, ancora giovane Francesco raccolse<br />

attorno a sé un piccolo gruppo <strong>di</strong> confratelli, chiamati minores. Ben presto, questa comunità si<br />

<strong>alla</strong>rgò e fece proseliti in tutta Europa. Nel 1223, la cosiddetta Regula bullata dei francescani venne<br />

approvata da papa Onorio III; poco dopo (1226), Francesco moriva.<br />

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[La ‘rivoluzione’ domenicana e francescana] Domenicani e francescani mo<strong>di</strong>ficarono<br />

profondamente l’assetto della Chiesa nel Duecento e nei secoli successivi. Mentre i monaci<br />

benedettini e degli altri or<strong>di</strong>ni sorti durante il Me<strong>di</strong>oevo risiedevano nelle campagne e avevano una<br />

scarsa influenza sull’esistenza dei laici, domenicani e francescani furono protagonisti della vita<br />

citta<strong>di</strong>na: ebbero un ruolo <strong>di</strong> primo piano nella risoluzione dei conflitti sociali, spesso parteggiando<br />

per i ceti popolari; imposero un modello nuovo, più partecipe e aggressivo <strong>di</strong> pre<strong>di</strong>cazione, non<br />

indugiando – come faceva il clero secolare – sulle sottigliezze della dottrina ma concentrandosi sui<br />

rapporti tra questa e la vita concreta dei fedeli (accade spesso <strong>di</strong> leggere, nelle fonti contemporanee,<br />

che i pre<strong>di</strong>catori più abili richiamavano ascoltatori anche da luoghi molto lontani); grazie a una<br />

profonda conoscenza della dottrina, occuparono molte delle cattedre universitarie <strong>di</strong> teologia: i più<br />

gran<strong>di</strong> intellettuali cattolici appartengono alle loro fila: Tommaso d’Aquino è un domenicano,<br />

Bonaventura da Bagnoregio è un francescano.<br />

[Le crociate] Nella storia della Chiesa tra l’XI e il XII secolo devono essere ricordati altri<br />

due fenomeni <strong>di</strong> grande rilievo. Le cosiddette crociate furono spe<strong>di</strong>zioni che a più riprese tentarono<br />

– talvolta con successo – <strong>di</strong> strappare ai musulmani i luoghi santi della cristianità. Nel 1099 il capo<br />

della missione cristiana, Goffredo <strong>di</strong> Buglione, conquistò Gerusalemme e ne fece la capitale <strong>di</strong> un<br />

Regno cattolico che avrà, tuttavia, vita breve per la pronta reazione dei Turchi. Le sette successive<br />

spe<strong>di</strong>zioni, promosse ora dal papa ora autonomamente da prìncipi cattolici, ebbero, accanto alle<br />

motivazioni religiose, più concrete ragioni economiche e strategiche: e per esempio la ricca città <strong>di</strong><br />

Venezia finanziò la crociata allo scopo <strong>di</strong> conquistare i mercati orientali, fondamentali per la sua<br />

espansione economica. Al principio del Duecento, l’arma della crociata verrà adoperata da papa<br />

Innocenzo III non per la riconquista dei luoghi sacri ma per estirpare l’eresia: cristiani contro<br />

cristiani. La ‘crociata’ contro i catari <strong>di</strong> Albi e Tolosa si concluse dopo un ventennio col massacro<br />

della popolazione locale e con la fine dell’autonomia politica delle contee meri<strong>di</strong>onali in cui era<br />

fiorita la poesia dei trovatori, che vengono annesse al regno <strong>di</strong> Francia.<br />

[I pellegrinaggi] Alla ‘liberazione’ dei luoghi sacri – ed è questo il secondo fatto<br />

caratteristico nella storia della cristianità tardo-me<strong>di</strong>evale – seguirono i pellegrinaggi: per<br />

penitenza, o per guadagnare suffragi, molti fedeli intrapresero il lungo e pericoloso viaggio per la<br />

Terrasanta o per altri luoghi <strong>di</strong> culto. Tra questi ebbe particolare importanza, richiamando un<br />

altissimo numero <strong>di</strong> pellegrini, la città <strong>di</strong> Santiago <strong>di</strong> Compostella, nella Spagna nordoccidentale,<br />

un’area da poco ‘riconquistata’ dai cristiani <strong>alla</strong> dominazione araba. Qui, nel secolo IX, era stata<br />

ritrovata una tomba che si ritenne appartenesse a San Giacomo, fratello <strong>di</strong> san Giovanni<br />

Evangelista: la devozione per il santo si <strong>di</strong>ffuse in tutta Europa, e da tutta Europa, attraverso l’Italia,<br />

la Francia, la Spagna, migliaia <strong>di</strong> pellegrini presero, nei secoli successivi, la ‘via <strong>di</strong> Santiago’.<br />

[La Chiesa nel Trecento: la ‘cattività avignonese’] Dopo il sogno dell’impero teocratico<br />

universale <strong>di</strong> Gregorio VII, <strong>alla</strong> fine del 1100, e <strong>di</strong> Innocenzo III, all’inizio del 1200, la Chiesa vive<br />

durante il Trecento la sua crisi più grave. Il secolo si apre con due iniziative <strong>di</strong>rette a riaffermare<br />

con forza l’autorità ecclesiastica: il giubileo dell’anno 1300, con cui si prometteva un’indulgenza<br />

plenaria ai pellegrini che avessero visitato Roma; e la bolla <strong>di</strong> Bonifacio VIII Unam sanctam<br />

(1303), che riven<strong>di</strong>cava la superiorità dell’autorità papale su quella dell’imperatore e <strong>di</strong> ogni altro<br />

principe regnante. Ma Bonifacio VIII morì proprio nello stesso anno. Indebolitosi, il Papato cadde<br />

in balia dell suo tra<strong>di</strong>zionale alleato e protettore politico, il regno <strong>di</strong> Francia. Il re francese Filippo il<br />

Bello riuscì a far eleggere papa il vescovo <strong>di</strong> Bordeaux, che prese il nome <strong>di</strong> Clemente V (1305-14),<br />

e far trasferire la sede pontificia da Roma ad Avignone. Questa ‘cattività avignonese’ - che<br />

scandalizzò i contemporanei, primo fra tutti Petrarca, il quale non cessò mai <strong>di</strong> lottare per il ritorno<br />

del papa a Roma – durò quasi settant’anni, dal 1309 al 1377. Roma, in questo periodo, fu teatro dei<br />

conflitti anche armati tra le potenti famiglie locali come i Colonna e gli Orsini, e del breve e<br />

fallimentare tentativo <strong>di</strong> ‘governo popolare’ promosso da Cola <strong>di</strong> Rienzo, che nel 1347 si<br />

autonominò tribuno del popolo ma, attiratosi gli o<strong>di</strong> dell’aristocrazia citta<strong>di</strong>na, venne ucciso nel<br />

1354.<br />

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[Lo ‘scisma d’occidente’] Il ritorno del papato a Roma non avvenne senza proteste e<br />

<strong>di</strong>visioni. Già nel 1378 una parte del collegio dei car<strong>di</strong>nali tentò <strong>di</strong> riportare la sede ad Avignone.<br />

Ne nacque una frattura – detta scisma d’Occidente – che oppose all’interno della Chiesa due<br />

fazioni, una romana e l’altra francese e, per trent’anni, un papa eletto d<strong>alla</strong> prima ad un ‘antipapa’<br />

eletto d<strong>alla</strong> seconda. Lo scisma si ricomporrà soltanto nel 1417 con il concilio <strong>di</strong> Costanza e la<br />

nomina a pontefice – con sede a Roma – <strong>di</strong> Martino V.<br />

1.3 Le scienze e la tecnica<br />

[L’unità <strong>di</strong> teoria e prassi] A partire dall’XI secolo si assiste in Europa a uno straor<strong>di</strong>nario<br />

progresso nelle scienze e nelle arti applicate. Ciò è dovuto sia alle mutate con<strong>di</strong>zioni sociali –<br />

l’incremento della popolazione, le nuove esigenze imposte dall’intensificarsi dei commerci e<br />

dell’attività manifatturiera – sia <strong>alla</strong> progressiva acquisizione del pensiero scientifico greco e arabo.<br />

Il dato più caratteristico <strong>di</strong> questo periodo è l’unità fra scienza e tecnica: vale a <strong>di</strong>re che gli<br />

scienziati elaborano teorie ma non perdono mai <strong>di</strong> vista le loro possibili applicazioni concrete, e<br />

lavorano <strong>alla</strong> risoluzione <strong>di</strong> problemi pratici.<br />

[La matematica] Si prenda per esempio il caso della più pura delle scienze, la matematica. Il<br />

Liber embadorum (‘Libro delle aree’) del Savasorda, un ebreo vissuto tra Spagna e Provenza nella<br />

prima metà del sec. XII, affronta e risolve problemi relativi <strong>alla</strong> pratica mercantile e nautica. E il<br />

primo grande matematico italiano, il pisano Leonardo Fibonacci (inizio del sec. XIII) è lui stesso<br />

un mercante, che applica il suo ingegno a questioni relative al commercio. Nel Liber Abbaci (1202)<br />

introduce forse per primo in Europa le cifre arabe al posto <strong>di</strong> quelle romane; nella Practica<br />

Geometriae (1220), ispirata in parte all’opera del Savasorda, in parte a testi greci e arabi conosciuti<br />

durante i suoi viaggi d’affari nel Me<strong>di</strong>terraneo, Leonardo getta le fondamenta della trigonometria e<br />

applica per primo l’algebra <strong>alla</strong> risoluzione <strong>di</strong> problemi geometrici. Il genio matematico del<br />

Fibonacci non avrà rivali sino al Rinascimento. Sulla sua scia si muoveranno, ormai nell’età <strong>di</strong><br />

Dante, l’inglese Giovanni <strong>di</strong> Sacrobosco (autore del De arte numeran<strong>di</strong> e del De sphaera mun<strong>di</strong>) e<br />

soprattutto, in pieno Trecento, il francese Nicola Oresme, il quale nel Tractatus de latitu<strong>di</strong>nis<br />

formarum (1361) elaborerà una rappresentazione grafica delle funzioni matematiche attraverso assi<br />

perpen<strong>di</strong>colari che precorre la geometria cartesiana.<br />

[La produzione <strong>di</strong> energia] In altri settori della scienza, l’aspetto pratico prende decisamente<br />

il sopravvento su quello teorico. Non si scrivono trattati <strong>di</strong> chimica o <strong>di</strong> meccanica o <strong>di</strong> idraulica,<br />

ma ogni artigiano conosce, per averle apprese dal maestro, le tecniche necessarie <strong>alla</strong> produzione<br />

dei manufatti: è un sapere che si comunica attraverso la pratica, non attraverso un insegnamento<br />

formale simile a quello cui siamo abituati oggi. Di qui, per lo storico, una certa <strong>di</strong>fficoltà nel<br />

ricostruire con esattezza la mappa e la cronologia delle scoperte e delle invenzioni, per le quali<br />

occorre fidarsi della testimonianza, spesso imprecisa e lacunosa, dei cronachisti del tempo. Nel<br />

settore, allora come oggi cruciale, della produzione <strong>di</strong> energia due sono le innovazioni più notevoli<br />

che hanno luogo a partire dal sec. XII: la progressiva introduzione in Europa dei mulini a vento e<br />

l’impiego dell’energia idraulica non solo, come in passato, per la macina, ma anche per la<br />

conciatura, la filatura e le altre attività legate <strong>alla</strong> lavorazione dei tessuti. Nel secolo XIII, poi,<br />

l’energia idraulica inizierà ad essere usata anche nella metallurgia: negli altoforni, alimentati da<br />

grossi mantici, sarà possibile aumentare la temperatura <strong>di</strong> fusione e ottenere metalli più puri e più<br />

resistenti, e ciò avrà importanti ricadute sulla vita civile (perché il legno comincerà ad essere<br />

sostituito dal ferro, sino ad allora costosissimo, negli attrezzi agricoli) e su quella militare (perché le<br />

nuove tecniche rivoluzioneranno l’industria delle armi).<br />

[L’agricoltura: i prodotti e le tecniche] In un mondo ancora per gran<strong>di</strong>ssima parte conta<strong>di</strong>no,<br />

è chiaro che le innovazioni più importanti siano quelle relative alle tecniche agricole. Per quanto<br />

riguarda i prodotti, mentre restano vive le colture tra<strong>di</strong>zionali della vite e dell’olivo, gli arabi<br />

introducono in Italia, fra XIII e XIV secolo, la coltura degli agrumi e della canna da zucchero. Una<br />

vera e propria rivoluzione avviene però nel settore dei filati, che alimenteranno quella che durante<br />

7


tutto il Me<strong>di</strong>oevo sarà l’industria <strong>italiana</strong> più vitale e red<strong>di</strong>tizia. I bachi da seta erano stati introdotti<br />

in Occidente già nel VI secolo dall’Arabia; ma a partire dal XII secolo la tecnica della lavorazione<br />

della seta si affina – dal semplice sistema della rocca e del fuso si passa <strong>alla</strong> ruota a mano che<br />

attraverso una cinghia <strong>di</strong> trasmissione mette in moto il fuso, quin<strong>di</strong> <strong>alla</strong> gualchiera mossa da energia<br />

idraulica – e gli artigiani <strong>di</strong> Lucca e Venezia detengono, in questo settore, un primato assoluto per la<br />

qualità e la quantità del prodotto. A Bologna, nel 1273, il lucchese Francesco Borghesano inst<strong>alla</strong> il<br />

primo filatoio meccanico, e ciò garantirà per secoli <strong>alla</strong> città una posizione d’avanguar<strong>di</strong>a nella<br />

filatura della seta. Nei secc. XI e XII, poi, viene introdotta la coltura del cotone, anch’essa <strong>alla</strong> base<br />

<strong>di</strong> una industria fiorentissima e <strong>di</strong> un commercio che farà la fortuna <strong>di</strong> molte famiglie e città<br />

dell’Italia centro-settentrionale. Gli artigiani toscani importano tessuti grezzi <strong>di</strong> lana, cotone, seta, li<br />

lavorano e li esportano sui mercati francesi e orientali; e attorno a loro si sviluppa un embrionale<br />

sistema capitalistico <strong>di</strong> finanzieri (che concedono in usufrutto il telaio agli artigiani), assicuratori,<br />

banchieri. Per quanto riguarda invece le tecniche <strong>di</strong> produzione agricola, il <strong>di</strong>scorso è più complesso<br />

perché le innovazioni, in quest’àmbito, sono molto più <strong>di</strong>fficili da situare nel tempo e nello spazio.<br />

Ma tra il XIII e il XIV secolo vengono definitivamente acquisite alcune tecniche che muteranno in<br />

profon<strong>di</strong>tà i mo<strong>di</strong> <strong>di</strong> produzione e la vita stessa delle campagne:<br />

1) si perfezionano i sistemi <strong>di</strong> irrigazione attraverso lo scavo <strong>di</strong> pozzi artesiani e l’apertura<br />

<strong>di</strong> canali (o la riapertura <strong>di</strong> quelli romani o etruschi);<br />

2) si realizza l’aratro a ruote nella forma che esso conserverà, senza grosse variazioni, sino<br />

all’età moderna;<br />

3) si introduce la ferratura dei cavalli e dei buoi, che possono così essere adoperati meglio<br />

e più a lungo anche su terreni accidentati;<br />

4) cambia la tecnica <strong>di</strong> bardatura degli animali da soma e da traino: viene abbandonato il<br />

collare ‘<strong>di</strong> gola’ che strozzava l’animale e abbassava la potenza <strong>di</strong> traino, e si <strong>di</strong>ffonde la moderna<br />

bardatura ‘<strong>di</strong> spalle’, che poggia sulle scapole dell’animale e ne convoglia tutta la forza.<br />

[Un trattato me<strong>di</strong>evale de re rustica] Anche in questo caso, si tratta <strong>di</strong> un sapere <strong>di</strong>ffuso<br />

attraverso la pratica e l’esempio piuttosto che attraverso la lettura <strong>di</strong> trattati; tuttavia, merita <strong>di</strong><br />

essere citata l’opera de<strong>di</strong>cata all’agricoltura (Opus ruralium commodorum) da Piero de’ Crescenzi<br />

(1233-1320), che per due secoli rappresenterà una sorta <strong>di</strong> manuale per gli stu<strong>di</strong>osi delle tecniche<br />

agricole.<br />

[La nautica] Così come <strong>alla</strong> produzione agricola e industriale, l’innovazione tecnica è legata<br />

anche all’incremento dei traffici. Il trasporto su terra è ancora lento, <strong>di</strong>fficoltoso e pericoloso: i<br />

commerci sfruttano soprattutto le vie d’acqua. Nuove tecniche <strong>di</strong> fasciatura degli scafi e <strong>di</strong> velatura<br />

consentono <strong>di</strong> costruire navi da trasporto molto più gran<strong>di</strong> che in passato, e l’introduzione del<br />

moderno timone <strong>di</strong> dritto (XII-XIII secc.) rende la navigazione più sicura: saranno le scoperte e i<br />

progressi tecnici <strong>di</strong> questi secoli a rendere possibili, <strong>di</strong> lì a non molti anni, le gran<strong>di</strong> scoperte<br />

geografiche.<br />

[Chimica e me<strong>di</strong>cina] Quanto infine alle scienze applicate, novità rilevanti si registrano nel<br />

settore della chimica: nel sec. XIII si scoprono l’acido solforico e altri aci<strong>di</strong> minerali che avranno<br />

grande importanza nella metallurgia, nell’industria tessile, nella tintoria. Un più lungo <strong>di</strong>scorso<br />

richiederebbe la me<strong>di</strong>cina. Qui basti <strong>di</strong>re che, per ciò che concerne la teoria, i me<strong>di</strong>evali conoscono<br />

le opere dei gran<strong>di</strong> me<strong>di</strong>ci dell’antichità, Ippocrate e Galeno, e dei loro commentatori; inoltre, a<br />

partire dal sec. XI, grazie alle traduzioni <strong>di</strong> Costantino Africano, possono leggere gli scritti me<strong>di</strong>ci<br />

<strong>di</strong> Avicenna e <strong>di</strong> Averroè. Nella prassi, domina ancora un empirismo che oggi chiameremmo<br />

senz’altro pre- o a-scientifico, anche perché fondato su nozioni <strong>di</strong> fisiologia molto incerte. Ufficio<br />

del me<strong>di</strong>co è quello <strong>di</strong> mantenere il giusto equilibrio tra gli elementi che formano il corpo umano (il<br />

caldo, il freddo, il secco, l’umido) e tra gli spiriti che mettono in relazione gli organi e le membra.<br />

La farmacologia fa ancora tutt’uno con credenze tra<strong>di</strong>zionali prive <strong>di</strong> fondamento scientifico.<br />

Soltanto con l’ingresso della me<strong>di</strong>cina nel canone delle <strong>di</strong>scipline universitarie – soprattutto a<br />

Salerno, Bologna e Padova, tra XII e XIII secolo – inizierà quel lungo processo <strong>di</strong> raffinamento che<br />

porterà alle scoperte rinascimentali e <strong>alla</strong> moderna scienza anatomica e chirurgica.<br />

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1.4 La filosofia<br />

[Il sistema scolastico] La <strong>di</strong>ssoluzione dell’Impero romano aveva portato con sé la crisi del<br />

sistema scolastico. Nell’Alto Me<strong>di</strong>oevo, l’istruzione è legata per lo più alle scuole cattedrali e alle<br />

scuole dei monasteri, dove il clero e i monaci venivano educati <strong>alla</strong> lettura della Bibbia, dei testi<br />

liturgici e dei Padri della Chiesa. Soltanto con Carlo Magno e Alcuino, e con la scuola palatina da<br />

loro organizzata, lo stato riprende l’iniziativa formulando un progetto educativo coerente: attraverso<br />

la formazione <strong>di</strong> maestri poi inviati nei vari centri episcopali e monastici, la scrittura - da parte <strong>di</strong><br />

Alcuino – <strong>di</strong> veri e propri ‘manuali’ per gli studenti de<strong>di</strong>cati all’ortografia, <strong>alla</strong> grammatica, <strong>alla</strong><br />

retorica, la co<strong>di</strong>ficazione dell’esegesi biblica. È però soltanto a partire d<strong>alla</strong> fine dell’XI secolo che<br />

iniziano a formarsi quelle scuole citta<strong>di</strong>ne che prenderanno il nome <strong>di</strong> Università. Si tratta <strong>di</strong> scuole<br />

specialistiche consacrate allo stu<strong>di</strong>o e al perfezionamento <strong>di</strong> <strong>di</strong>scipline come la giurisprudenza, la<br />

me<strong>di</strong>cina, la teologia. E si tratta <strong>di</strong> scuole in cui, per la prima volta, la componente laica è<br />

importante tanto quanto quella ecclesiastica: per esempio, molti degli insegnanti <strong>di</strong> <strong>di</strong>ritto bolognesi<br />

sono laici che, costituitisi in libere associazioni, decidono la natura e il calendario dei corsi. I nuovi<br />

mo<strong>di</strong> <strong>di</strong> organizzazione e trasmissione del sapere influenzano anche la tecnica della ricerca<br />

scientifica. Nasce un nuovo metodo scolastico articolato in due fasi: il maestro propone la quaestio,<br />

cioè un interrogativo che viene esaminato in ogni suo aspetto attraverso l’analisi degli argomenti<br />

favorevoli o contrari ad una data soluzione. E gli allievi si esercitano nelle <strong>di</strong>sputationes, cercando<br />

<strong>di</strong> affermare il proprio punto <strong>di</strong> vista nella <strong>di</strong>scussione <strong>di</strong> un problema proposto dal maestro.<br />

[La Scolastica] È all’interno <strong>di</strong> questo nuovo sistema del sapere, le università, che vivono e<br />

operano i maggiori intellettuali del periodo qui considerato: e il nome <strong>di</strong> scolastica deriva appunto<br />

dallo stretto legame che unisce la produzione scientifica del tempo <strong>alla</strong> scuola: se prima gli uomini<br />

<strong>di</strong> pensiero, i maestri, scrivevano per esortare e persuadere rivolgendosi ai confratelli, o al pubblico<br />

incolto dei fedeli, ora essi hanno <strong>di</strong> fronte – proprio come i docenti o<strong>di</strong>erni – degli allievi che<br />

debbono essere istruiti. Ne deriva una forte sistematizzazione del sapere: cioè la scrittura <strong>di</strong><br />

summae, commenti, raccolte <strong>di</strong> sentenze (celebri quelle <strong>di</strong> Pietro Lombardo, una sorta <strong>di</strong><br />

enciclope<strong>di</strong>a teologica) che forniscono allo studente tutte le informazioni necessarie circa lo stato <strong>di</strong><br />

una determinata questione attinente la teologia, il <strong>di</strong>ritto, la me<strong>di</strong>cina, la retorica e le altre <strong>di</strong>scipline<br />

professate all’università.<br />

[La traduzione e il commento delle opere <strong>di</strong> Aristotele] Due sono i problemi cruciali per i<br />

filosofi me<strong>di</strong>evali: quello del rapporto col pensiero pagano e quello del rapporto tra ragione e<br />

fede. Quanto al primo, nel corso dell’XI e del XII secolo si avvia in Europa la traduzione delle<br />

opere <strong>di</strong> Aristotele in latino e il loro commento da parte degli intellettuali cristiani: inizia così, con<br />

quello che viene definito il philosophus per eccellenza, un <strong>di</strong>alogo che influirà profondamente sia<br />

sul metodo sia sulla sostanza del pensiero tardo-me<strong>di</strong>evale. Tale <strong>di</strong>alogo venne ostacolato dal fatto<br />

che Aristotele giunge all’Occidente non per via <strong>di</strong>retta bensì filtrato <strong>dalle</strong> traduzioni e dall’esegesi<br />

dei filosofi arabi: Avicenna (980-1037) e Averroè (1126-1198), i quali valorizzano la componente<br />

razionalistica del sistema aristotelico, svalutando invece quella me<strong>di</strong>tazione sulla metafisica e su<br />

Dio che poteva accordarsi con le verità cristiane. Nella sua interpretazione <strong>di</strong> Aristotele, Averroè<br />

nega l’immortalità dell’anima in<strong>di</strong>viduale e afferma l’eternità del mondo, cioè esclude la creazione:<br />

due tesi inaccettabili per un cristiano. La storia della ricezione <strong>di</strong> Aristotele nei secoli XIII e XIV è<br />

perciò una storia molto accidentata, fatta <strong>di</strong> ammirazione e devozione, e tentativi <strong>di</strong> inquadrare la<br />

sua filosofia pagana nell’ambito della fede, ma anche <strong>di</strong> <strong>di</strong>vieti e censure: più volte, l’autorità<br />

ecclesiastica proibì lo stu<strong>di</strong>o <strong>di</strong> alcuni o <strong>di</strong> tutti gli scritti aristotelici nelle università in quanto<br />

contrari <strong>alla</strong> dottrina cristiana.<br />

[La traduzione e il commento delle opere <strong>di</strong> Platone] Più vicina <strong>alla</strong> metafisica cristiana è la<br />

dottrina delle idee <strong>di</strong> Platone, il filosofo che con Aristotele ha più influito sullo svolgimento del<br />

pensiero occidentale. Di fatto, elementi platonici sono ben presenti nelle opere del maggiore dei<br />

padri della Chiesa, Agostino, nel cui solco procederà tutta la speculazione cristiana fino <strong>alla</strong><br />

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Scolastica. Durante il secolo XII, mentre cresce il numero delle traduzioni (particolare importanza<br />

riveste il Timeo, il testo-chiave della metafisica platonica, che viene accostato al libro biblico della<br />

Genesi), lo stu<strong>di</strong>o <strong>di</strong> Platone si affianca a quello <strong>di</strong> Aristotele. Particolarmente vivace, in questo<br />

senso, è la scuola <strong>di</strong> Chartres, nella quale viene elaborata, soprattutto da parte <strong>di</strong> Guglielmo <strong>di</strong><br />

Conches e Gilberto Porrettano, la nuova metafisica platonico-cristiana.<br />

[Il problema del rapporto tra filosofia e fede: Anselmo d’Aosta] Il secondo problema, quello<br />

dell’equilibrio tra ragione e fede, è parte, naturalmente, <strong>di</strong> quello appena toccato: avvicinarsi ai<br />

filosofi classici significa allontanarsi d<strong>alla</strong> fede, perché essi non conobbero il vero Dio; tuttavia il<br />

cristiano non è costretto al sacrificio dell’intelletto: ciò che occorre è invece definire i rispettivi<br />

domini e ruoli, e proprio in quest’opera s’impegnano gli scolastici. La figura più importante del sec.<br />

XI è quella <strong>di</strong> Anselmo d’Aosta, monaco benedettino vissuto in Norman<strong>di</strong>a e in Inghilterra, a<br />

Canterbury. In una lunga serie <strong>di</strong> opere, tra cui si ricor<strong>di</strong>no almeno il Monologion e il Proslogion,<br />

egli si propone <strong>di</strong> indagare razionalmente il problema dell’esistenza <strong>di</strong> Dio: fides quaerens<br />

intellectum (‘la fede che cerca, e sollecita, l’intelletto’) e credo ut intelligam (‘credo al fine <strong>di</strong><br />

comprendere’) sono i due motti che illustrano il programma anselmiano <strong>di</strong> spiegare per mezzo della<br />

ragione ciò che il cristiano sa già per fede.<br />

[Pietro Abelardo] Nel secolo successivo, l’importanza <strong>di</strong> Pietro Abelardo risiede, piuttosto<br />

che nell’originalità del pensiero, nell’elaborazione <strong>di</strong> quello che modernamente si definisce ‘metodo<br />

scolastico’: il Sic et non offre infatti al lettore gli strumenti per l’esegesi <strong>di</strong> qualsiasi testo attraverso<br />

l’uso accorto della filologia (comprensione letterale del testo) e della logica (esame incrociato degli<br />

argomenti favorevoli o contrari ad una determinata tesi: a ciò fa riferimento il titolo del Sic et non:<br />

dove si mettono a confronto le opinioni dei padri della Chiesa su una serie <strong>di</strong> questioni teologiche<br />

con ciò che <strong>di</strong>ce la Bibbia). Oltre a un’imponente opera teorica sui tre gran<strong>di</strong> domini in cui si <strong>di</strong>vide<br />

la filosofia me<strong>di</strong>evale (la teologia, la logica e l’etica), Abelardo ci ha lasciato anche una delle prime<br />

autobiografie della tra<strong>di</strong>zione occidentale, l’Historia calamitatum (‘Storia delle mie <strong>di</strong>sgrazie’). È<br />

un’autobiografia scritta per dare conto <strong>di</strong> un singolare e tragico destino. Nato nel 1079 vicino a<br />

Nantes, in Francia, Abelardo <strong>di</strong>mostrò sin da giovanissimo un talento e una cultura eccezionali;<br />

prima insegnò all’Università <strong>di</strong> Parigi, poi come ‘libero maestro’ in una scuola da lui stesso fondata.<br />

A Parigi conobbe Eloisa, figlia del canonico Fulberto, se ne innamorò ed ebbe con lei una<br />

relazione: scoperto dal padre della ragazza, fu evirato. La storia d’amore tra Abelardo ed Eloisa,<br />

ricostruibile anche grazie ad un carteggio fra i due (anche Eloisa era un’intellettuale, dotta <strong>di</strong> latino,<br />

in un’epoca in cui una simile competenza, per una donna, era molto rara) <strong>di</strong>venne leggendaria.<br />

[Pietro Lombardo] Emblematica <strong>di</strong> quest’epoca de<strong>di</strong>ta ai sistemi e all’organizzazione del<br />

sapere è l’opera <strong>di</strong> un contemporaneo <strong>di</strong> Abelardo, Pietro Lombardo: i suoi quattro libri <strong>di</strong><br />

Sentenze (1150-52) ebbero uno straor<strong>di</strong>nario successo durante il Me<strong>di</strong>oevo, e furono ripetutamente<br />

commentati perché mettevano a <strong>di</strong>sposizione degli stu<strong>di</strong>osi tutte le nozioni necessarie relative <strong>alla</strong><br />

dottrina cattolica. Pietro non compone un’opera originale ma allinea in modo chiaro e or<strong>di</strong>nato,<br />

come in un manuale, le affermazioni (Sentenze, appunto) della Bibbia e dei padri della Chiesa<br />

(Agostino su tutti) in materia <strong>di</strong> fede: dal mistero della Trinità a quello dell’incarnazione, dal<br />

problema del peccato al significato dei sacramenti, <strong>alla</strong> genealogia dei vizi e delle virtù.<br />

[La Scolastica nel Duecento: Alberto Magno] Il Duecento è il secolo <strong>di</strong> maggiore splendore<br />

per la filosofia scolastica. Si completa, in questo periodo, la traduzione delle opere aristoteliche, si<br />

perfeziona il sistema universitario, la vita culturale si arricchisce grazie all’apporto degli or<strong>di</strong>ni<br />

men<strong>di</strong>canti, che prestano all’università i loro migliori maestri: <strong>di</strong> fatto, i più insigni filosofi del<br />

secolo sono domenicani e francescani. Quasi tutti insegnano per un periodo della loro vita a Parigi,<br />

che rimane il centro più importante per gli stu<strong>di</strong> teologici. Il problema cui si accennava in<br />

precedenza, quello dell’assorbimento <strong>di</strong> Aristotele nel pensiero cristiano, è affrontato dal tedesco<br />

Alberto Magno (1193-1280). Egli può <strong>di</strong>stinguere rigidamente la filosofia d<strong>alla</strong> fede perché,<br />

seguendo la lezione <strong>di</strong> sant’Agostino, ha prima <strong>di</strong>stinto i domini dell’una e dell’altra attribuendo<br />

<strong>alla</strong> prima la ratio inferior e <strong>alla</strong> seconda la ratio superior, cioè la parte superiore dell’anima che si<br />

occupa dell’essenza delle cose e non dei semplici fenomeni. Ma, quanto a questi, le speculazioni <strong>di</strong><br />

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Aristotele debbono essere me<strong>di</strong>tate anche dagli intellettuali cristiani, e il ruolo <strong>di</strong> Alberto Magno fu<br />

proprio quello <strong>di</strong> ‘tradurre’, attraverso i suoi commenti all’Etica, <strong>alla</strong> Fisica e <strong>alla</strong> Politica, il<br />

sistema filosofico e scientifico aristotelico - la sua interpretazione del mondo terreno, della natura,<br />

non dell’oltremondo - in un linguaggio che potesse essere accetto all’ortodossia cattolica.<br />

[Tommaso d’Aquino] Ad ascoltare Alberto Magno a Colonia c’era tra gli altri, negli anni<br />

1248-1252, Tommaso d’Aquino (1221-74), certamente il maggiore filosofo del secolo e, con<br />

Agostino, il più importante <strong>di</strong> ogni tempo per la co<strong>di</strong>ficazione della dottrina cristiana. Come<br />

Alberto, anch’egli insegnò a Parigi e – secondo la consuetu<strong>di</strong>ne propria dei frati men<strong>di</strong>canti <strong>di</strong> non<br />

soggiornare mai a lungo in una stessa città – nelle principali università europee: Colonia, Bologna,<br />

Napoli. E come in Alberto, anche nella concezione <strong>di</strong> Tommaso la fede non soppianta la filosofia<br />

bensì la completa, illuminando tutto ciò che i filosofi pagani avevano dovuto ignorare. Da questa<br />

contaminazione nasce la nuova ‘sistemazione’ della metafisica cristiana che Tommaso offre nella<br />

Summa theologica, un’opera immensa nella quale, in forma <strong>di</strong> quaestiones, vengono vagliati tutti i<br />

problemi che possono sorgere nell’interpretazione della dottrina cattolica. Nonostante la resistenza<br />

da parte della Chiesa <strong>di</strong> Roma a recepire alcune delle tesi tomiste – sentite come troppo vicine ad<br />

Aristotele e ai suoi seguaci averroisti, molto attivi a Parigi <strong>alla</strong> metà del Duecento -, la Summa sarà,<br />

nei tre secoli successivi, il punto <strong>di</strong> riferimento fondamentale per tutto il pensiero cristiano (una<br />

corrente ‘neotomista’ si è potuta in<strong>di</strong>viduare anche nell’ambito della filosofia novecentesca).<br />

[I francescani: Bonaventura] Se Alberto e Tommaso sono i massimi filosofi domenicani del<br />

Duecento, Bonaventura da Bagnoregio fu il più insigne tra i francescani, ed ebbe un ruolo <strong>di</strong><br />

grande rilievo nella vita dell’Or<strong>di</strong>ne: scrisse quella che sarebbe <strong>di</strong>ventata la biografia ufficiale <strong>di</strong> san<br />

Francesco, fu generale dell’Or<strong>di</strong>ne e ne redasse le costituzioni; inoltre, nonostante gli impegni legati<br />

all’insegnamento, svolse per tutta la vita una assidua attività <strong>di</strong> pre<strong>di</strong>catore, che fece <strong>di</strong> lui l’oratore<br />

più apprezzato del suo tempo. Le sue due opere maggiori sono l’una un commento alle Sentenze <strong>di</strong><br />

Pietro Lombardo, in cui <strong>di</strong>fende l’interpretazione tra<strong>di</strong>zionale della dottrina cristiana contro le<br />

concessioni ad Aristotele che andavano facendo i maestri domenicani; l’altra un caposaldo della<br />

mistica me<strong>di</strong>evale: l’Itinerarium mentis in Deum (‘Itinerario della mente verso Dio’ - 1259), che<br />

illustra i sei gra<strong>di</strong> dell’ascesa al <strong>di</strong>vino attraverso l’amore <strong>di</strong> Dio e la preghiera e, insieme, attraverso<br />

la rinuncia agli strumenti della ragione: una via che lo allontana, per esempio, dal rigoroso<br />

intellettualismo <strong>di</strong> Tommaso.<br />

[Il crepuscolo della Scolastica nel Trecento: Occam] Dopo l’età dei gran<strong>di</strong> sistemi filosofici<br />

elaborati dagli scolastici, la filosofia cristiana vive, nel corso del Trecento, una crisi profonda. Nelle<br />

università si acuisce il conflitto tra la gerarchia cattolica che sorveglia sull’ortodossia e il pensiero<br />

dei maestri più liberi e spregiu<strong>di</strong>cati, che hanno ormai assorbito completamente la lezione <strong>di</strong><br />

Aristotele e degli altri filosofi antichi. La vita del maggiore pensatore del secolo, il francescano<br />

inglese Guglielmo da Occam, è, sotto questo profilo, emblematica. Perché, colpevole <strong>di</strong> aver<br />

<strong>di</strong>feso tesi ritenute eretiche, venne scomunicato e dovette rifugiarsi a Monaco e mettersi sotto la<br />

protezione dell’imperatore Ludovico il Bavaro, cui prestò la propria opera <strong>di</strong> polemista nella sua<br />

lotta antiecclesiastica e antiteocratica. La filosofia <strong>di</strong> Occam porta alle estreme conseguenze, e con<br />

ciò <strong>di</strong>ssolve, il razionalismo che era stato caratteristico dei filosofi scolastici. Ragione e fede – egli<br />

sostiene – debbono essere <strong>di</strong>stinte perché le verità <strong>di</strong> fede non possono essere conquistate, e<br />

tantomeno spiegate, per via razionale. Se ciò da un lato garantisce <strong>alla</strong> teologia una sfera autonoma,<br />

fondata sulla Rivelazione e in<strong>di</strong>pendente <strong>dalle</strong> speculazioni dei filosofi antichi e moderni, dall’altro<br />

libera la ragione dai vincoli della fede. Di qui l’abbandono dei concetti fondamentali della<br />

metafisica e della logica tra<strong>di</strong>zionali a vantaggio <strong>di</strong> un approccio più empirico e – se non suonasse<br />

anacronistico – ‘laico’ ai problemi della conoscenza: l’interesse per l’in<strong>di</strong>viduo e non per gli<br />

universali, per il sapere sperimentale piuttosto che per la speculazione astratta, per la fisica piuttosto<br />

che per la metafisica. Questo nuovo orientamento logico-scientifico avrà grande influenza nei secoli<br />

successivi: e mentre esso confina ai margini del <strong>di</strong>scorso filosofico le istanze ‘umanistiche’ legate<br />

<strong>alla</strong> metafisica e all’etica (ciò che provocherà la protesta <strong>di</strong> un intellettuale come Petrarca contro i<br />

11


logici e gli scienziati imperversanti nelle università), prelude a quel rigore e a quella concretezza <strong>di</strong><br />

metodo che saranno propri della scienza <strong>di</strong> Galileo.<br />

1.5 Le arti<br />

[Le nuove creazioni dell’architettura: la cattedrale e il palazzo pubblico] Nel lungo arco <strong>di</strong><br />

tempo compreso tra l’anno Mille e l’inizio dell’Umanesimo, <strong>alla</strong> fine del XIV secolo, il paesaggio<br />

artistico italiano muta in maniera ra<strong>di</strong>cale. Lo sviluppo delle città porta infatti con sé la<br />

realizzazione <strong>di</strong> due nuove gran<strong>di</strong> strutture architettoniche, l’una religiosa, l’altra civile. Si tratta<br />

della chiesa cattedrale, sede del vescovo, e del palazzo in cui ha sede il governo citta<strong>di</strong>no. A questi<br />

due generi <strong>di</strong> costruzioni, simbolo dell’unità e dell’identità popolare, non lavora un solo architetto<br />

ma un’ampia schiera <strong>di</strong> ingegneri, artigiani e operai; e vi è coinvolta anzi l’intera città, e non per lo<br />

spazio <strong>di</strong> pochi anni ma per generazioni: sicché questi monumenti non rispecchiano un unico<br />

momento dell’arte ma documentano, nella loro composita fisionomia, l’evoluzione secolare delle<br />

tecniche e degli stili. La mappa dei più significativi e<strong>di</strong>fici religiosi e laici corrisponde in sostanza a<br />

quella delle città che tra l’XI e il XIV secolo furono al centro della storia politica <strong>italiana</strong>: le più<br />

gran<strong>di</strong>, le più importanti dal punto <strong>di</strong> vista strategico, le più vivaci nel commercio, dunque quelle<br />

che avevano più risorse da impiegare nella realizzazione <strong>di</strong> opere così <strong>di</strong>spen<strong>di</strong>ose – Milano<br />

(Sant’Ambrogio, secc. IX-XII; il celeberrimo Duomo, massimo esempio italiano del cosiddetto<br />

gotico internazionale, iniziato <strong>alla</strong> fine del Trecento); Modena (la cattedrale, e<strong>di</strong>ficata all’inizio del<br />

sec. XII da Lanfranco); Venezia (San Marco, iniziata nel 1063; il Palazzo Ducale, terminato nel<br />

1400); Firenze (il battistero <strong>di</strong> San Giovanni, sec. XI; San Miniato al Monte, secc. XI-XII; il<br />

Duomo; il Palazzo della Signoria, sec. XIV), e poi Pisa, Siena, e molti altri comuni soprattutto<br />

centro-italiani.<br />

[Romanico e gotico] Legate strettamente <strong>alla</strong> cattedrale e al palazzo pubblico – quin<strong>di</strong><br />

raramente autonome – sono le arti plastiche e visive: la scultura è per lo più decorazione, nei portali<br />

e nelle facciate delle chiese, o negli elementi architettonici interni (pulpiti, fonti battesimali); la<br />

pittura illustra o racconta, negli affreschi a parete, soggetti sacri, a beneficio del pubblico dei fedeli.<br />

Questa sinergia delle arti resta costante nei due perio<strong>di</strong> nei quali si è soliti sud<strong>di</strong>videre l’epoca qui<br />

considerata: il romanico, in cui gli e<strong>di</strong>fici sono caratterizzati da forme semplici e compatte, povere<br />

<strong>di</strong> decorazioni, che si svolgono in orizzontale piuttosto che in verticale (secoli XI-XII); e il gotico,<br />

in cui gli e<strong>di</strong>fici, anche grazie al perfezionamento delle tecniche costruttive, tendono invece a<br />

sviluppi verticali, con altissimi piloni e archi a sesto acuto, fittissime decorazioni e guglie (secoli<br />

XIII-XIV).<br />

[Scultura e pittura] Gran parte delle sculture e delle pitture me<strong>di</strong>evali ci è giunta anonima:<br />

non si trattava del resto <strong>di</strong> opere autonome bensì, generalmente, <strong>di</strong> parti dell’apparato decorativo del<br />

palazzo o della chiesa. Tra gli scultori <strong>di</strong> cui resta traccia nella documentazione meritano <strong>di</strong> essere<br />

ricordati Wiligelmo, che fu attivo a Modena all’inizio del secolo XII, e può essere considerato il<br />

caposcuola della scultura romanica emiliana (rilievi con le Storie della Genesi e dei Profeti sulla<br />

facciata del Duomo <strong>di</strong> Modena), e soprattutto Nicola Pisano e il figlio Giovanni. Nicola (attivo tra<br />

il 1248 e il 1284), probabilmente <strong>di</strong> origini pugliesi, è l’artista che introduce il nuovo gusto gotico<br />

nel centro Italia: opera soprattutto a Pisa, dove scolpisce i pulpiti del Battistero e del Duomo, e a<br />

Perugia (Fontana maggiore). Giovanni (circa 1245-1314) collabora prima col padre a Pisa e<br />

Perugia, poi realizza in proprio il pulpito <strong>di</strong> Sant’Andrea a Pistoia, quin<strong>di</strong> lavora come capomastro<br />

<strong>alla</strong> fabbrica del Duomo <strong>di</strong> Siena, una delle gran<strong>di</strong> imprese scultoree architettoniche del secondo<br />

Duecento. Per quanto riguarda la pittura, l’età pre-giottesca vede all’opera, in Toscana, due gran<strong>di</strong><br />

maestri. Il primo è Cimabue (attivo nella seconda metà del sec. XIII), che opera tra Firenze<br />

(Maestà oggi al Louvre, Crocifisso <strong>di</strong> Santa Croce), Roma (dove esegue varie opere – tutte perdute<br />

– su commissione <strong>di</strong> papa Niccolò III), Assisi (decorazione con scene tratte d<strong>alla</strong> storia sacra della<br />

Basilica superiore) e Pisa (mosaico <strong>di</strong> San Giovanni Evangelista in Duomo). Il secondo è il senese<br />

12


Duccio <strong>di</strong> Buoninsegna, che collabora col maestro Cimabue a Firenze (Maestà Rucellai) e ad<br />

Assisi, ma opera soprattutto nella città natale (Maestà per l’altare maggiore del Duomo).<br />

[Artisti polivalenti. Giotto e gli inizi della pittura laica] I maggiori artisti riuniscono insieme,<br />

per altro, competenze <strong>di</strong>verse: <strong>di</strong> costruttori, scultori, pittori. È il caso <strong>di</strong> Bonanno (tra l’XI e il XII<br />

sec.), che progetta la torre <strong>di</strong> Pisa e lavora ai portali bronzei della cattedrale; <strong>di</strong> Benedetto<br />

Antelami (tra il XII e il XIII sec.), architetto e scultore nel duomo <strong>di</strong> Fidenza, nella chiesa <strong>di</strong><br />

Sant’Andrea a Vercelli e soprattutto in uno dei capolavori del gotico italiano, il battistero <strong>di</strong> Parma;<br />

<strong>di</strong> Arnolfo <strong>di</strong> Cambio (morto nel 1302), cui si attribuiscono i progetti <strong>di</strong> Santa Croce e Santa Maria<br />

del Fiore a Firenze (1295-96) e a cui si debbono alcuni tra i primi e più alti esempi <strong>di</strong> scultura<br />

profana: la statua <strong>di</strong> Carlo d’Angiò ora in Campidoglio e quella <strong>di</strong> Bonifacio VIII per il Duomo<br />

fiorentino; e infine e soprattutto <strong>di</strong> Giotto (1266-1337), il quale, oltre a progettare e avviare i lavori<br />

per il campanile <strong>di</strong> Santa Maria del Fiore, rivoluzionò la pittura <strong>italiana</strong> ed europea con il grande<br />

ciclo <strong>di</strong> affreschi per la Basilica <strong>di</strong> San Francesco ad Assisi e con quello altrettanto gran<strong>di</strong>oso per<br />

la cappella degli Scrovegni a Padova (1303-5). Con Giotto e i suoi successori, la pittura passa da<br />

uno sta<strong>di</strong>o primitivo, influenzato dai modelli bizantini (le tavole <strong>di</strong> questo periodo sono i cosiddetti<br />

fon<strong>di</strong> oro, perché le figure sacre, fortemente stilizzate, galleggiano su una superficie dorata che non<br />

dà alcuna impressione <strong>di</strong> realismo), ad una fase più matura: le vicende e i personaggi che troviamo<br />

negli affreschi assisiati e padovani ci appaiono reali, sentimentalmente veri, colti nella loro qualità<br />

in<strong>di</strong>viduali e non rappresi in tipi, così come accadeva nella tra<strong>di</strong>zione precedente. Questo sforzo <strong>di</strong><br />

realismo avrà tra i suoi effetti quello <strong>di</strong> aprire la strada ad un’arte non più legata soltanto ai temi<br />

biblici o all’agiografia ma aperta <strong>alla</strong> cronaca ‘laica’. Simone Martini (Siena 1284 – Avignone<br />

1344), allievo <strong>di</strong> Duccio, affianca alle pitture <strong>di</strong> soggetto tra<strong>di</strong>zionalmente religioso (affresco della<br />

Maestà nel Palazzo Pubblico <strong>di</strong> Siena, 1315), opere su soggetto ‘civile’ (San Ludovico da Tolosa<br />

incorona Roberto d’Angiò re <strong>di</strong> Napoli, 1317; il ritratto equestre <strong>di</strong> Guidoriccio da Fogliano, 1328).<br />

E <strong>alla</strong> fine degli anni Trenta del Trecento, Ambrogio Lorenzetti ci offre, nella Sala dei Nove del<br />

Palazzo Pubblico <strong>di</strong> Siena, il primo grande esempio <strong>di</strong> pittura politica della tra<strong>di</strong>zione <strong>italiana</strong>: gli<br />

affreschi con le Allegorie del buono e del cattivo governo.<br />

2. Le letterature straniere<br />

[L’epica in Francia] In Francia, già a partire dal X secolo si registra una larga produzione <strong>di</strong><br />

poesia in volgare <strong>di</strong> materia agiografica (in cui cioè si narrano e si esaltano le vite dei santi), spesso<br />

legata <strong>alla</strong> liturgia (come il Saint-Alexis, scritto nell’XI secolo in area normanna), o <strong>di</strong> materia<br />

epico-cavalleresca. Dal mito che avvolge la corte <strong>di</strong> Carlo Magno nascono attorno al Mille quelle<br />

leggende che danno lo spunto alle cosiddette chansons de geste (‘canzoni <strong>di</strong> gesta’). Si tratta <strong>di</strong><br />

lunghe narrazioni in versi in cui si magnificano le imprese <strong>di</strong> Carlo e dei suoi Pala<strong>di</strong>ni (i cavalieri<br />

della sua corte) nella lotta contro i Saraceni, i quali penetrando da sud attraverso la Spagna<br />

rappresentarono una costante minaccia per la cristianità. Il fondamento storico <strong>di</strong> questi racconti è<br />

dunque solido: i protagonisti sono spesso identificabili con personaggi della corte carolingia e gli<br />

episo<strong>di</strong> narrati, per quanto siano trasfigurati dall’invenzione poetica, s’ispirano in genere a fatti<br />

realmente avvenuti. Il connubio tra storia nazionale e invenzione dovette garantire a queste opere un<br />

largo successo: è probabile che le chansons – a <strong>di</strong>fferenza <strong>di</strong> generi quasi esclusivamente ‘cortesi’<br />

come la lirica e i romans – venissero lette sia nelle corti signorili sia nelle piazze delle città,<br />

destando l’interesse <strong>di</strong> un pubblico per così <strong>di</strong>re ‘trasversale’. Questa ampia circolazione rende<br />

anche ragione <strong>di</strong> una caratteristica peculiare <strong>di</strong> questi testi, cioè dell’abbondanza <strong>di</strong> varianti <strong>di</strong><br />

forma e <strong>di</strong> contenuto, dunque <strong>di</strong> vere e proprie versioni <strong>di</strong> una stessa chanson: segno del fatto che si<br />

trattava <strong>di</strong> opere per lo più recitate, e dunque più o meno ampiamente ritoccate a seconda della<br />

cultura dei giullari (gli anonimi cantori che eseguivano le chansons presso le corti e nelle città) e<br />

delle circostanze in cui avveniva la recita (durata della performance, composizione del pubblico,<br />

ecc.).<br />

13


[La Chanson de Roland] La più famosa delle chansons de geste antico-francesi è la<br />

Chanson de Roland, la cui prima redazione attestata risale <strong>alla</strong> fine del sec. XI. In una lunga serie<br />

<strong>di</strong> lasse <strong>di</strong> decasillabi, essa narra della spe<strong>di</strong>zione effettuata dall’esercito francese in Spagna nel<br />

778, e dello sterminio, da parte dei Saraceni, della retroguar<strong>di</strong>a dell’esercito cristiano all’interno<br />

della quale si trova l’eroe Orlando. Alla semplicità della trama corrisponde un’altrettanto<br />

schematica visione del mondo: i Saraceni rappresentano il male, i cristiani rappresentano il bene, e i<br />

feudatari e i cavalieri francesi sono i pala<strong>di</strong>ni <strong>di</strong> una fede che dev’essere <strong>di</strong>fesa con la spada. Anche<br />

i protagonisti sono, piuttosto che esseri umani in carne ed ossa, simboli della virtù o del vizio: il<br />

prototipo dell’eroe prode e generoso (Orlando) contro il prototipo del tra<strong>di</strong>tore (il conte Gano, che<br />

consegna l’esercito francese al nemico). Dal punto <strong>di</strong> vista formale, va notata la caratteristica<br />

tecnica narrativa che l’opera con<strong>di</strong>vide con le altre chansons: l’uso <strong>di</strong> espressioni-clichés<br />

frequentemente ripetute o <strong>di</strong> motivi ricorrenti che potevano essere agevolmente memorizzati dal<br />

giullare e dal suo pubblico. È il cosiddetto ‘stile formulare’, caratteristico <strong>di</strong> ogni scrittura epica.<br />

Quanto infine <strong>alla</strong> fortuna delle chansons, va ricordato che da questa ‘materia carolingia’ cucita<br />

insieme in sempre nuove variazioni dai giullari trarranno ispirazione generazioni <strong>di</strong> poeti anche<br />

italiani, ben oltre il Me<strong>di</strong>oevo (si pensi a Boiardo e ad Ariosto).<br />

[Il romanzo in Francia] Affine, ma <strong>di</strong>stinta, è la tra<strong>di</strong>zione, sempre francese, dei romanzi<br />

cortesi. Mentre le chansons de geste originano d<strong>alla</strong> storia nazionale, e sia pure una storia<br />

trasfigurata in mito (<strong>di</strong> solito, come si è detto, il mito delle battaglie sostenute dai soldati cristiani<br />

per la ‘riconquista’ delle terre occupate dai musulmani), i romanzi in versi dei secoli XII e XIII o<br />

(1) s’ispirano <strong>alla</strong> storia antica o (2) sono narrazioni per lo più o del tutto fantastiche.<br />

(1) I romanzi ‘storici’ traducono o rielaborano materiali relativi ad antichi eventi ed eroi,<br />

rendendoli accessibili ad un’aristocrazia che spesso non era in grado <strong>di</strong> leggere il latino. La<br />

leggenda <strong>di</strong> Alessandro Magno è così raccontata da Albéric de Pisançon nel Roman d’Alexandre<br />

(circa 1110), quella della guerra <strong>di</strong> Troia da Benoît de Sainte-Maure nel Roman de Troie (circa<br />

1165).<br />

(2) Nella seconda metà del sec. XII, i romanzi storici veri e propri lasciano il posto alle<br />

epopee dei cavalieri, che non attingono alle leggende greco-latine bensì <strong>alla</strong> tra<strong>di</strong>zione popolare, o<br />

nascono d<strong>alla</strong> libera fantasia degli autori. La cosiddetta materia bretone, in cui si narrano le<br />

avventure <strong>di</strong> re Artù e dei cavalieri della Tavola Rotonda, ispira per primo il poeta Robert Wace,<br />

che nel Roman de Brut (1155) mette in versi l’Historia regum Britanniae scritta circa un ventennio<br />

prima dall’inglese Goffredo <strong>di</strong> Monmouth. Notevole – e caratteristico <strong>di</strong> questo genere letterario – è<br />

il fatto che la leggenda arturiana venga usata per celebrare i re anglo-normanni, <strong>alla</strong> cui corte Wace<br />

compone la propria opera: il passato mitico serve spesso, nell’epica e nel romanzo cavalleresco, a<br />

legittimare il potere presente. Alla materia bretone appartiene anche il più grande romanzo d’amore<br />

me<strong>di</strong>evale, la storia <strong>di</strong> Tristano e Isotta (storia del ‘folle amore’ fra Tristano, nipote <strong>di</strong> re Marco <strong>di</strong><br />

Cornovaglia, e la promessa sposa del re, Isotta: folle amore che porterà i due adulteri <strong>alla</strong> <strong>morte</strong>),<br />

che ci è giunta – come molte delle opere narrative <strong>di</strong> questo periodo – in <strong>di</strong>fferenti versioni: e si<br />

ricor<strong>di</strong>no almeno quella anglo-normanna <strong>di</strong> Thomas (circa 1170) e quella, quasi contemporanea, <strong>di</strong><br />

Béroul, nonché il Tristan in prosa, scritto probabilmente agli inizi del sec. XIII.<br />

[Chrétien de Troyes] Maestro in<strong>di</strong>scusso del genere ‘romanzo’ fondato non sulla storia ma<br />

sull’invenzione è però Chrétien de Troyes, vissuto nella seconda metà del XII secolo in<br />

Inghilterra, in Francia e nelle Fiandre, e autore <strong>di</strong> Erec et Enide, Cligès, Yvain, Lancelot. Come<br />

risulta evidente sin dal titolo, questi romanzi sono epopee personali in cui l’eroe è chiamato a<br />

superare «una serie successiva <strong>di</strong> ostacoli, che implicano valore e lealtà (la sconfitta <strong>di</strong> uno o più<br />

prepotenti), ovvero sagace capacità <strong>di</strong> sconfiggere magie e incantesimi (la liberazione <strong>di</strong> un singolo<br />

personaggio o <strong>di</strong> una comunità da un sortilegio, ma anche la conquista <strong>di</strong> qualche talismano<br />

prezioso), o infine perfetto dominio <strong>di</strong> sé: sono queste ultime, <strong>di</strong> solito, le situazioni che<br />

coinvolgono i rapporti con l’altro sesso» (Meneghetti). Si tratta cioè, in certo senso, degli antenati<br />

del moderno Bildungsroman (‘romanzo <strong>di</strong> formazione’): la costruzione della personalità attraverso<br />

l’avventura.<br />

14


[Altri generi narrativi: i lais e i romanzi in prosa] Epica e romanzo cavalleresco non<br />

esauriscono il repertorio dei generi narrativi antico-francesi. Molto più brevi dei romanzi (poche<br />

centinaia, a volte poche decine <strong>di</strong> versi) sono i lais, che tramandano leggende <strong>di</strong> origine celtica e<br />

bretone. La maggior parte dei lais a noi pervenuti è opera non <strong>di</strong> uno scrittore ma – caso rarissimo<br />

nel Me<strong>di</strong>oevo - <strong>di</strong> una scrittrice, Maria <strong>di</strong> Francia, vissuta nella seconda metà del sec. XII (dunque<br />

negli stessi anni <strong>di</strong> Chrétien de Troyes) <strong>alla</strong> corte <strong>di</strong> Enrico Plantageneto. Così come l’epica delle<br />

chansons e i romanzi, anche i lais sono narrazioni in versi. La prosa, in latino e nelle lingue<br />

romanze, era adoperata <strong>di</strong> solito per le scritture sacre, per i documenti ufficiali, per la storiografia.<br />

Perché essa venga usata anche nella letteratura d’invenzione in volgare occorre attendere il<br />

Duecento, quando il materiale leggendario cantato dai poeti troverà spazio in gran<strong>di</strong> cicli prosastici<br />

destinati non più <strong>alla</strong> recitazione ma <strong>alla</strong> lettura ‘privata’: e nasceranno la saga del Lancelot-Graal<br />

(1215-1235), quella già citata del Tristan (1230-1235), e quella <strong>di</strong> Guiron le Courtois (1235 circa).<br />

[I romanzi allegorici: il Roman de la Rose] Se l’epica delle chansons de geste ‘ricrea’ una<br />

leggenda a partire da dati storici oggettivi, e se il romanzo cavalleresco inventa i suoi personaggi<br />

facendoli muovere in un mondo immaginario <strong>di</strong> corti meravigliose, tornei, incantamenti, i romanzi<br />

allegorici, le cosiddette ‘visioni’ rinunciano ad ogni legame con la realtà e mettono al centro della<br />

narrazione non degli esseri umani ma delle astrazioni, dei simboli. Prototipo e modello <strong>di</strong> queste<br />

allegorie è la Psicomachia del poeta latino Prudenzio (secc. IV-V d.C.), che mette in scena una<br />

guerra tra i vizi e le virtù cristiane d<strong>alla</strong> quale queste ultime riescono vittoriose. Tra i ‘romanzi’ che<br />

<strong>di</strong>rettamente o in<strong>di</strong>rettamente s’ispirano all’opera prudenziana merita <strong>di</strong> essere ricordato, anche per<br />

la <strong>di</strong>ffusione che esso a sua volta ebbe in tutta Europa, il Roman de la Rose (‘Romanzo della rosa’,<br />

ma si cita sempre con il titolo originale), iniziato da Guillaume de Lorris attorno al 1240 e<br />

terminato da Jean de Meung verso la fine del Duecento. In sogno, l’autore-protagonista aspira a<br />

conquistare la Rosa, simbolo del sesso femminile, ma in questa impresa è ostacolato da una serie <strong>di</strong><br />

forze ostili raffigurate come simboli: la Vergogna, il Pericolo, la Gelosia, Malabocca, ecc. A tali<br />

‘nemici’ si oppongono altrettante virtù ‘positive’: la Pietà, la Bella Accoglienza, Venere, ecc. Il<br />

romanzo è la storia <strong>di</strong> questa lunga ma infine vittoriosa battaglia.<br />

[I prodromi del teatro] Il teatro delle origini è legato <strong>alla</strong> liturgia e <strong>alla</strong> vita religiosa della<br />

comunità. Durante le funzioni sacre, o in occasione delle festività religiose, gruppi <strong>di</strong> fedeli<br />

mettevano in scena episo<strong>di</strong> tratti <strong>dalle</strong> vite dei santi o d<strong>alla</strong> Bibbia (soprattutto la storia <strong>di</strong> Adamo ed<br />

Eva, o della Passione): ed è questa, del resto, una pratica <strong>di</strong> devozione ancor oggi vitale. Il processo<br />

<strong>di</strong> ‘laicizzazione’ del teatro si avvia proprio in Francia nel corso del XII e del XIII secolo, quando le<br />

recite (jeux, nella tra<strong>di</strong>zione francese, autos, in quella spagnola) iniziano ad aver luogo non più<br />

all’interno delle chiese ma all’aperto, e nuovi temi profani trovano spazio accanto a quelli sacri.<br />

Tale processo potrà <strong>di</strong>rsi compiuto con le opere <strong>di</strong> Adam de la Halle (1240-1288): il Jeu de la<br />

Feullié, che mette in scena la comica storia <strong>di</strong> un paesano che si reca nella grande città per stu<strong>di</strong>are,<br />

e il Jeu de Robin et Marion, comme<strong>di</strong>a a due voci in cui un cavaliere tenta <strong>di</strong> sedurre una pastorella.<br />

[La lirica in Francia: trovieri e trovatori] Anche la lirica in volgare nasce e si sviluppa, prima<br />

che altrove, sul territorio dell’attuale Francia. Nel nord, in una vasta regione che ha al suo centro<br />

Parigi, il volgare è il <strong>di</strong>aletto oitanico (la lingua d’oïl), e i lirici che a partire dagli anni Settanta del<br />

secolo XII compongono in questa lingua sono detti trovieri. Si tratta <strong>di</strong> borghesi, <strong>di</strong> cavalieri come<br />

il Chastelain de Coucy, e <strong>di</strong> nobili come Goffredo <strong>di</strong> Bretagna o Thibaut <strong>di</strong> Navarra. Nel sud, nelle<br />

regioni della Provenza e della Linguadoca, il volgare è il <strong>di</strong>aletto occitanico (la lingua d’oc). È in<br />

quest’area e in questo i<strong>di</strong>oma che - a partire d<strong>alla</strong> metà del sec. XI e per circa due secoli, in netto<br />

anticipo dunque rispetto a quella dei trovieri - viene composta la poesia dei trovatori.<br />

[La poesia trobadorica: i temi] I temi della poesia trobadorica sono molteplici: (1) la<br />

cronaca e la vita politica contemporanea commentate con forte spirito partigiano da poeti che spesso<br />

risiedevano nelle corti <strong>di</strong> prìncipi che in quella cronaca e in quella politica erano <strong>di</strong>rettamente<br />

coinvolti; (2) la satira, poiché spesso i poeti intrattengono il loro pubblico con scherzi e invettive<br />

all’in<strong>di</strong>rizzo dei loro avversari (tipica è la forma poetica della tenzone, un <strong>di</strong>alogo in versi nel quale<br />

due poeti si affrontano ciascuno argomentando, stanza dopo stanza, il proprio punto <strong>di</strong> vista); (3) la<br />

15


morale e la religione (il genere poetico in cui vengono trattati questi temi si definisce serventese).<br />

Ma il tema principale della lirica trobadorica è l’amore, e un particolare tipo <strong>di</strong> amore, idealizzato e<br />

immateriale (l’amore detto appunto cortese), che influenzerà profondamente non solo la lirica<br />

successiva ma l’immaginario stesso degli autori e dei lettori europei, la concezione che essi avranno<br />

(e che noi moderni avremo) dell’amore. L’amore dei trovatori non raggiunge mai il suo scopo: il<br />

desiderio del poeta-amante non viene mai sod<strong>di</strong>sfatto. Egli ama, e perciò loda, corteggia, implora<br />

una donna che è già sposata – talvolta è l’irraggiungibile signora della corte presso la quale il poeta<br />

si trova – e si offre a lei non come un amante all’amata ma come il vassallo al suo signore. In mo<strong>di</strong><br />

e con termini simili a quelli che si usano nel patto feudale, il poeta si raccomanda a lei, le si dà in<br />

omaggio, la chiama midons (‘mio signore’), svolge il proprio servizio d’amore a suo vantaggio, ma<br />

senza aspirare a una ricompensa: in questo che è stato definito come ‘paradosso cortese’ – cioè la<br />

devozione per una donna destinata a rimanere per sempre inaccessibile – risiede buona parte del<br />

fascino della lirica provenzale.<br />

[La poesia trobadorica: la ricezione] Dal punto <strong>di</strong> vista della ricezione dei testi, vanno<br />

sottolineati soprattutto due elementi. Il primo è che quella trobadorica è per lo più poesia<br />

originalmente pensata per essere recitata davanti ad una corte. È probabile che essa corrispondesse<br />

ad una sorta <strong>di</strong> pratica sociale, uno spettacolo pubblico: qualcosa <strong>di</strong> simile al teatro attuale e, invece,<br />

<strong>di</strong> ben <strong>di</strong>verso rispetto <strong>alla</strong> nostra attuale esperienza della poesia: che è un’esperienza solitaria, fatta<br />

quasi esclusivamente attraverso la lettura. I trovatori erano spesso anche gli esecutori dei loro testi;<br />

altrimenti, essi erano recitati da giullari che viaggiavano <strong>di</strong> corte in corte ed erano in possesso <strong>di</strong> un<br />

congruo repertorio <strong>di</strong> poesie altrui. Il secondo elemento è la musica. Nella poesia trobadorica,<br />

parole e musica vanno insieme, analogamente a ciò che avviene nelle moderne canzoni: il poeta<br />

mette in musica i propri testi oppure, una volta compostili, si rivolge a musici professionisti.<br />

Comunque sia, la recitazione dei testi presupponeva quasi sempre l’accompagnamento musicale.<br />

[I principali trovatori] Dato questo stretto legame con le corti, non sorprende il fatto che<br />

molti trovatori appartengano all’aristocrazia: è il caso <strong>di</strong> quello che convenzionalmente è<br />

considerato il primo trovatore, Guglielmo IX, duca d’Aquitania (1071-1126), o <strong>di</strong> Raimbaut<br />

d’Aurenga (1144-1173). L’estrazione sociale è importante, perché soltanto i ceti più elevati<br />

potevano aspirare a quella preparazione culturale che la poesia trobadorica richiede. Pur<br />

appropriandosi talvolta <strong>di</strong> motivi definibili come ‘popolari’, essa è infatti una forma letteraria dotta<br />

sia sotto il profilo dei contenuti sia sotto il profilo dello stile. Quanto ai contenuti, i trovatori si<br />

ispirano spesso <strong>alla</strong> poesia erotica latina: per esempio, del motivo dell’amor de lonh e ses vezer,<br />

cioè dell’innamoramento per una donna lontana e mai vista, motivo caratteristico del trovatore<br />

Jaufre Rudel (metà del sec. XII), si sono potute in<strong>di</strong>care le fonti nelle Heroides <strong>di</strong> Ovi<strong>di</strong>o. Quanto<br />

allo stile, la poesia trobadorica si <strong>di</strong>stingue per una raffinatissima elaborazione formale, che implica<br />

la perfetta padronanza delle risorse linguistiche, metriche, retoriche. Poeti come il suddetto<br />

Raimbaut d’Aurenga, o come Peire d’Alvernhe, Marcabruno (<strong>di</strong> poco successivo al primo<br />

trovatore Guglielmo IX), Arnaut Daniel (fine sec. XII: il trovatore più amato da Dante, che lo<br />

elogia nella Comme<strong>di</strong>a), ricorrono anzi intenzionalmente ad uno stile <strong>di</strong>fficile, oscuro, detto trobar<br />

clus, col proposito <strong>di</strong> selezionare il loro pubblico impedendo agli incolti l’accesso <strong>alla</strong> poesia. A<br />

questi fautori <strong>di</strong> uno stile <strong>di</strong>fficile si oppongono idealmente quei trovatori che pur senza rinunciare<br />

ad una forma raffinata, non permettono che questa si frapponga come un ostacolo <strong>alla</strong><br />

comprensione del pensiero. Tra i seguaci <strong>di</strong> questo trobar leu (‘poesia <strong>di</strong> stile leggero, facile’) va<br />

segnalato almeno il nome <strong>di</strong> quello che nella tra<strong>di</strong>zione successiva verrà considerato come un poeta<br />

‘classico’, cioè un vero e proprio modello per lo stile e per i contenuti: Bernart de Ventadorn, la<br />

cui opera si colloca tra il 1150 e il 1170.<br />

Come si è accennato, la poesia dei trovatori parla soprattutto ma non soltanto d’amore.<br />

Autori come il già citato Marcabruno, o come Peire Cardenal, si servono della poesia non per<br />

<strong>di</strong>lettare o per commuovere il loro pubblico ma per correggerne i costumi: e i loro serventesi sono,<br />

<strong>di</strong> fatto, pre<strong>di</strong>che in versi che si richiamano, piuttosto che <strong>alla</strong> tra<strong>di</strong>zione della lirica laica, alle Sacre<br />

Scritture e ai padri della Chiesa. Al polo opposto – non l’ascesi ma il totale coinvolgimento nelle<br />

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vicende umane – sta il trovatore Bertran de Born. Signore del castello <strong>di</strong> Altaforte, vissuto nella<br />

seconda metà del secolo XII – cioè in quello che può essere considerato il periodo <strong>di</strong> massimo<br />

sviluppo e splendore della poesia trobadorica -, <strong>di</strong> lui ci resta una quarantina <strong>di</strong> testi, buona parte dei<br />

quali de<strong>di</strong>cata a descrivere e a celebrare la guerra. Fu apprezzato da Dante, che lo cita come<br />

modello da imitare nel De vulgari eloquentia, insieme a Arnaut Daniel e a Giraut de Borneil; ma il<br />

‘poeta guerriero’ ebbe anche parte attiva nelle lotte che opposero i feudatari francesi e inglesi, e ciò<br />

gli vale un posto nel canto XXVIII dell’Inferno, tra i seminatori <strong>di</strong> <strong>di</strong>scor<strong>di</strong>a.<br />

Al principio del secolo XIII, papa Innocenzo III in<strong>di</strong>ce una crociata contro alcune città e<br />

corti del sud della Francia, accusate <strong>di</strong> essere altrettanti focolai <strong>di</strong> eresia (cfr. § 1.2): per il principale<br />

alleato del papa, il re <strong>di</strong> Francia, è l’occasione per ridurre sotto il proprio dominio i feu<strong>di</strong><br />

meri<strong>di</strong>onali. Una delle conseguenze <strong>di</strong> questi eventi politico-militari sarà l’emigrazione <strong>di</strong> alcuni<br />

trovatori verso l’Italia, in cerca <strong>di</strong> nuovi mecenati. Già prima della crociata antialbigese, in realtà,<br />

alcuni trovatori avevano trovato ospitalità nelle corti del nord Italia: Raimbaut de Vaqueiras<br />

(1155-1205), per esempio, era stato a Genova (e infatti usa il <strong>di</strong>aletto genovese in una delle sue<br />

poesie, alternandolo al provenzale) e nel Monferrato, <strong>alla</strong> corte <strong>di</strong> Bonifacio. Ma nei primi decenni<br />

del Duecento la migrazione si fa più intensa. Poeti come Aimeric de Peguilhan o Uc de Saint-Circ<br />

(noto anche per aver realizzato, ad uso del suo pubblico <strong>di</strong> corte, le prime antologie dei trovatori e<br />

per aver raccolto le biografie dei suoi predecessori, le cosiddette vidas) si stabiliscono nelle corti del<br />

Veneto (a Este, Treviso, Padova). Non solo: col tempo, la lingua provenzale viene adoperata come<br />

lingua della poesia anche da autori nati e vissuti sempre in Italia: il bolognese Rambertino<br />

Buvalelli (morto nel 1221), il genovese Lanfranco Cigala (morto nel 1257), e soprattutto il<br />

maggiore <strong>di</strong> questi ‘trovatori italiani’, Sordello da Goito (circa 1200-1269): il mantovano che<br />

Dante e Virgilio incontreranno nel sesto canto del Purgatorio.<br />

[La letteratura nelle altre aree europee] Benché sia la Francia, in questi primi secoli, a<br />

detenere il primato tanto nella narrativa quanto nella lirica, entrambi i generi sono frequentati anche<br />

in altri paesi europei, spesso previa traduzione o imitazione dei modelli francesi. Quanto all’epica,<br />

la letteratura spagnola vanta un capolavoro nel Poema de mio Cid, storia del mitico eroe che liberò<br />

Valencia dai Mori e <strong>di</strong>ede origine alle nobili <strong>di</strong>nastie degli Aragona e dei Navarra. Quanto <strong>alla</strong><br />

lirica, la poesia dei trovatori provenzali venne presto esportata nelle regioni limitrofe: in Italia, in<br />

Germania e nella stessa Spagna. In Germania, si registra una vivace tra<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> lirica in anticotedesco:<br />

sono i cosiddetti Minnesänger, il più importante dei quali fu Walther von der<br />

Vogelweide. Nelle regioni della Castiglia e dell’attuale Portogallo, nel XIII e nel XIV secolo, prese<br />

corpo una tra<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> lirica in lingua galego-portoghese che ebbe tra i suoi esponenti anche gran<strong>di</strong><br />

aristocratici come il re Alfonso X el Sabio – epiteto da tradursi piuttosto come ‘il Sapiente’ che<br />

come ‘il Saggio’: 1221-1284 - e suo nipote Dom Denis (in generale, è da osservare che gli esor<strong>di</strong><br />

della lirica volgare, tanto in Francia quanto in Spagna quanto in Italia, sono spesso legati<br />

all’iniziativa personale <strong>di</strong> un principe o <strong>di</strong> una corte signorile). Infine, facendo un grosso salto nello<br />

spazio e nel tempo, merita almeno un cenno la figura del maggiore scrittore inglese del Me<strong>di</strong>oevo:<br />

Geoffrey Chaucer, vissuto tra il 1340 e il 1400 in Inghilterra e autore tra l’altro dei celebri<br />

Racconti <strong>di</strong> Canterbury, i quali – attraverso l’artificio narrativo della cornice, che Chaucer riprende<br />

<strong>dalle</strong> novelle dell’italiano Giovanni Sercambi – si fingono narrati da un colorito gruppo <strong>di</strong> pellegrini<br />

in viaggio da Southwark a Canterbury.<br />

3. Le tendenze della letteratura <strong>italiana</strong><br />

3.1 Il quadro d’insieme<br />

[Il contesto politico e culturale] La storia della letteratura <strong>italiana</strong> del Me<strong>di</strong>oevo non è una<br />

storia unitaria. Alcune regioni, come la Toscana e l’Emilia, conquistano sùbito, sin dagli albori del<br />

Duecento, un primato culturale che conserveranno stabilmente nei secoli successivi. Altre, come la<br />

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Sicilia e il Mezzogiorno d’Italia in generale, conoscono una breve fioritura poetica, coincidente a<br />

gran<strong>di</strong> linee col regno <strong>di</strong> Federico II (1196-1250), <strong>alla</strong> quale tiene <strong>di</strong>etro un lunghissimo silenzio<br />

artistico. Al costituirsi <strong>di</strong> una letteratura <strong>italiana</strong> in volgare che superi le barriere regionali sono<br />

d’ostacolo sia la frammentazione politica, dal momento che nella penisola si affrontano almeno tre<br />

gran<strong>di</strong> potenze (il papa, l’imperatore tedesco, la monarchia francese), ciascuna dotata <strong>di</strong> una sua<br />

propria area <strong>di</strong> influenza, soggetta ad ampliamenti o a riduzioni a seconda delle vicende politicomilitari;<br />

sia, soprattutto, la frammentazione linguistica. Mentre perdurava ovunque, e ad ogni livello<br />

della comunicazione scritta, l’uso del latino, nessuno dei <strong>di</strong>aletti parlati e scritti nelle varie regioni<br />

italiane godeva <strong>di</strong> prestigio tale da poter imporsi a scriventi (poeti e prosatori) originari <strong>di</strong> altre aree<br />

della penisola. Farsi da lingua regionale lingua nazionale sarà il destino del toscano, ma perché<br />

questa lenta conquista abbia luogo occorreranno l’esempio e l’opera dei tre massimi scrittori del<br />

nostro Me<strong>di</strong>oevo: Dante, Petrarca e Boccaccio.<br />

[La questione della lingua] Sino ad allora, la storia della letteratura <strong>italiana</strong> altro non è se<br />

non la storia delle sue varietà regionali: manca un i<strong>di</strong>oma comune; manca - e mancherà sino alle<br />

soglie dell’età moderna - un pubblico nazionale che ne favorisca e solleciti la creazione. Al <strong>di</strong> sopra<br />

<strong>di</strong> questa vita multiforme dei <strong>di</strong>aletti sta, come si è detto, la lingua della comunicazione colta, il<br />

latino. Nelle pagine che seguono ci limiteremo a dar conto degli autori e dei testi più significativi<br />

della letteratura in volgare: daremo in tal modo <strong>alla</strong> lingua un valore <strong>di</strong>scriminante che essa in verità<br />

non meriterebbe <strong>di</strong> avere, nel senso che la prosa e la poesia in latino hanno pieno titolo per<br />

partecipare <strong>alla</strong> storia nella letteratura <strong>italiana</strong> del Me<strong>di</strong>oevo (ben oltre, quin<strong>di</strong>, il Duecento) dal<br />

momento che lungo tutto quest’arco cronologico due furono <strong>di</strong> fatto le lingue <strong>di</strong> cultura (tre se<br />

aggiungiamo, per certe epoche e per certe aree, il francese), e delle due fu anzi il latino a poter<br />

vantare per lungo tempo la <strong>di</strong>ffusione e il prestigio della lingua ‘ufficiale’.<br />

3.2 La poesia<br />

[Il ‘ritardo’ italiano] La poesia <strong>italiana</strong> nasce in ritardo rispetto a quella <strong>di</strong> altre regioni<br />

europee. Già prima del Mille, in area francese, germanica e anglo-sassone vengono prodotti testi in<br />

versi d’argomento leggendario o devoto, scritti nei volgari locali; col nuovo millennio, poi, si<br />

afferma nelle città e nelle corti francesi la nuova letteratura delle chansons de geste, le leggende<br />

legate <strong>alla</strong> corte <strong>di</strong> Carlo Magno e alle gesta mitiche dei suoi pala<strong>di</strong>ni, mentre a sud, nelle corti<br />

provenzali, ha inizio la tra<strong>di</strong>zione poetica dei trovatori (cfr. § 2). I primi documenti <strong>di</strong> poesia<br />

<strong>italiana</strong> in volgare si collocano invece tra la fine del Cento e l’inizio del Duecento. Recentissima è<br />

la scoperta <strong>di</strong> una canzone d’amore (Quando eu stava) databile appunto agli ultimi anni del<br />

do<strong>di</strong>cesimo secolo o ai primi del tre<strong>di</strong>cesimo, e localizzabile con ogni probabilità in area padanoorientale:<br />

si tratta, per quanto sappiamo, del più antico componimento d’argomento amoroso scritto<br />

in un volgare italiano.<br />

[La poesia morale e religiosa] Per il resto, le poesie <strong>di</strong> quest’epoca sono tutte d’argomento<br />

morale e religioso. Come era accaduto anche nelle altre letterature romanze, il <strong>di</strong>stacco dal latino è<br />

infatti spesso motivato dall’esigenza <strong>di</strong> far intendere un messaggio e<strong>di</strong>ficante a un pubblico <strong>di</strong><br />

incolti. Si tratta dunque - come nel caso del Ritmo cassinese (così definito perché prodotto<br />

probabilmente nell’abbazia <strong>di</strong> Montecassino) o del Ritmo su Sant’Alessio (uno dei molti testi<br />

relativi <strong>alla</strong> leggenda del santo, <strong>di</strong>ffusissima nel Me<strong>di</strong>oevo) - <strong>di</strong> componimenti elementari sia per la<br />

struttura metrica e retorica, sia per i concetti adoperati (nessuna complicazione teologica ma<br />

semplici inviti <strong>alla</strong> virtù e aneddoti esemplari). Più tar<strong>di</strong>, a partire dagli anni Venti e Trenta del<br />

Duecento, la poesia religiosa in volgare conoscerà un’espansione più organica, concentrata nelle<br />

regioni centro-settentrionali della penisola. Al Centro, soprattutto in seguito all’opera <strong>di</strong> due tra le<br />

massime figure della spiritualità cristiana del tempo, San Francesco d’Assisi e Iacopone da To<strong>di</strong> -<br />

non per caso membro dell’Or<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> San Francesco - al cui nome è legata l’espansione del genere<br />

poetico <strong>di</strong> materia sacra, la lauda. A Nord, ormai nella seconda metà del Duecento, altri poeti<br />

certamente o probabilmente legati <strong>alla</strong> Chiesa compongono a loro volta lunghi testi <strong>di</strong> argomento<br />

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morale a sfondo cristiano, ciascuno nel suo volgare nativo: i più importanti sono il veronese<br />

Giacomino, il milanese Bonvesin da la Riva e il cosiddetto Anonimo Genovese.<br />

[La poesia della ‘scuola siciliana’. La lingua dei poeti ‘federiciani’] Un consistente gruppo<br />

<strong>di</strong> poeti in volgare si raccoglie attorno <strong>alla</strong> corte dell’imperatore Federico II, probabilmente nel<br />

terzo decennio del XIII secolo. Sono per lo più siciliani ma, dato che si tratta <strong>di</strong> una corte itinerante,<br />

anche pugliesi, calabresi, campani, laziali; sono notai, cancellieri, funzionari <strong>di</strong> vario rango. La<br />

lingua in cui la maggior parte <strong>di</strong> loro scrive dev’essere un siciliano ‘illustre’ depurato dei tratti<br />

<strong>di</strong>alettali più marcati e ricco <strong>di</strong> latinismi e provenzalismi: <strong>di</strong>versa, quin<strong>di</strong>, più raffinata e colta<br />

rispetto al siciliano «quod pro<strong>di</strong>t a terrigenis me<strong>di</strong>ocribus» (‘come suona in bocca ai nativi <strong>di</strong> me<strong>di</strong>a<br />

estrazione’) condannato da Dante nel De vulgari eloquentia (I xii 6) come i<strong>di</strong>oma rozzo e inadatto<br />

<strong>alla</strong> letteratura. Lo stesso selezionatissimo repertorio lessicale adoperato dai lirici siciliani, e lo<br />

stretto legame con i modelli trovabadorici, allontanava del resto questa poesia dal registro<br />

quoti<strong>di</strong>ano e realistico, che avrebbe richiesto un’aderenza maggiore al <strong>di</strong>aletto, e spingeva invece<br />

gli autori a confrontarsi con le lingue della tra<strong>di</strong>zione colta, quelle che erano state usate nei testi<br />

letterari cui si ispiravano i loro propri esperimenti <strong>di</strong> poesia: il latino e il provenzale, appunto.<br />

[Una poesia monotematica: l’amore] La poesia dei siciliani (termine che va inteso, si ba<strong>di</strong><br />

bene, in senso culturale e non geografico: ‘siciliani’ si <strong>di</strong>cono per convenzione tutti gli autori che<br />

mostrano <strong>di</strong> essere in contatto con la corte <strong>di</strong> Federico II) è quasi esclusivamente poesia d’amore. I<br />

rari testi d’argomento morale sono opera degli autori più tar<strong>di</strong> della ‘scuola’, quelli che<br />

probabilmente vennero a contatto con la poesia toscana; e sono testi <strong>di</strong> scarso impegno e <strong>di</strong> ridotta<br />

estensione: sonetti, mai canzoni. Il tema politico, già vivissimo fra i trovatori, è del tutto assente dal<br />

canone. Tale scelta tematica ha probabilmente motivazioni <strong>di</strong> or<strong>di</strong>ne linguistico e stilistico: sia che<br />

il volgare, lingua della comunicazione privata, non ufficiale, venisse ritenuto inadatto ad esprimere<br />

contenuti <strong>di</strong> rilievo pubblico; sia che il tema squisito ed eterno dell’amore avesse agli occhi dei<br />

funzionari-poeti della cerchia <strong>di</strong> Federico un prestigio particolare, analogamente a ciò che avverrà<br />

mezzo secolo dopo con i cosiddetti stilnovisti.<br />

[Caratteri della poesia siciliana] Anche parlando d’amore, tuttavia, i poeti siciliani<br />

manifestano una volontà <strong>di</strong> chiusura e isolamento rispetto al contesto storico-sociale. Nelle loro<br />

canzoni manca regolarmente la tornata, cioè quella stanza <strong>di</strong> congedo che nelle canzoni provenzali<br />

e poi in quelle toscane serve a in<strong>di</strong>rizzare il testo all’amata, o a un destinatario in<strong>di</strong>viduato, o al<br />

pubblico dei lettori. Rarissime sono le tenzoni, cioè quegli scambi <strong>di</strong> sonetti o canzoni che<br />

formeranno invece il tessuto connettivo della società letteraria <strong>italiana</strong> nel secondo Duecento e nel<br />

Trecento. Quanto al contenuto dei testi, in essi vi è una quasi totale assenza <strong>di</strong> eventi, siano essi<br />

traumatici o liberatori, ciò che fa sì che il poeta-amante ci appaia prigioniero <strong>di</strong> un eterno presente<br />

<strong>di</strong> dolore e <strong>di</strong> aspettazione (occorrerà attendere Dante perché la <strong>di</strong>mensione della memoria venga<br />

finalmente riven<strong>di</strong>cata <strong>alla</strong> poesia). Infine, il poeta-amante osserva scrupolosamente il precetto<br />

trobadorico del celar (‘nascondere’, in provenzale) della salvaguar<strong>di</strong>a del proprio amore e del buon<br />

nome della donna attraverso il silenzio per timore dei ‘malparlieri’: il lettore ignora in pratica tutti i<br />

dettagli della ‘storia’. Queste caratteristiche fanno della poesia dei siciliani un’esperienza puramente<br />

privata che non sembra aver bisogno né <strong>di</strong> un pubblico (la corte, il ceto nobiliare o alto-borghese<br />

che pure dovette essere il primo consumatore <strong>di</strong> queste liriche) né, almeno in apparenza, <strong>di</strong> un<br />

confronto con gli altri rimatori.<br />

[La metrica] Nel settore della metrica, il modello trobadorico è accolto in maniera selettiva.<br />

Non vengono recepite né le forme della poesia colloquiale o invettiva come il partimen e la cobla<br />

esparsa, che godranno <strong>di</strong> una pur limitata fortuna tra i toscani, né le forme della poesia per musica<br />

come la dansa (i siciliani non conoscono la b<strong>alla</strong>ta, che è invenzione <strong>di</strong> poeti centro-italiani), né<br />

infine - lasciando l’àmbito strettamente metrico - i cosiddetti generi tematici come la pastorella,<br />

l’enueg o il plazer. Prende corpo invece un canone tripartito nel quale la canzone occupa <strong>di</strong> gran<br />

lunga il posto più importante e fanno qualche rara apparizione il <strong>di</strong>scordo (sorta <strong>di</strong> lunga canzone in<br />

versicoli fittamente rimati e schema metrico irregolare) e il sonetto. Mentre il <strong>di</strong>scordo, frequentato<br />

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dal maggiore dei poeti siciliani, Giacomo da Lentini, oltre che da Giacomino Pugliese e Re<br />

Giovanni, non avrà che un minimo successo in Toscana e verrà presto abbandonato a vantaggio <strong>di</strong><br />

forme meno irregolari, il nuovo genere metrico del sonetto (inventato forse dallo stesso Giacomo,<br />

certamente da un poeta della cerchia federiciana) andrà incontro invece a un’enorme fortuna, e sarà<br />

insomma il lascito più significativo della scuola poetica siciliana <strong>alla</strong> tra<strong>di</strong>zione letteraria europea.<br />

[I motivi] Così come la gamma dei generi metrici, altrettanto povera e ristretta è quella dei<br />

motivi e del lessico poetico. All’interno del tema amoroso è infatti possibile isolare un numero <strong>di</strong><br />

motivi ricorrenti tutto sommato piuttosto ridotto: quello del dolore del poeta per la ritrosia<br />

dell’amata (motivo che a sua volta dà origine ad una costellazione <strong>di</strong> topoi: il pianto senza<br />

consolazione, la gelosia, il fuoco d’amore, eccetera); quello dei mal<strong>di</strong>centi che seminano <strong>di</strong>scor<strong>di</strong>a<br />

tra l’amante e l’amata; quello dell’effetto beatifico che ha per il poeta la visione della donna; quello<br />

della lontananza o del servizio amoroso, equiparato - come nei trovatori - al rapporto <strong>di</strong> fedeltà che<br />

lega il vassallo al suo sovrano.<br />

[Le metafore e il lessico] Scendendo ancora dal generale al particolare troviamo che anche il<br />

repertorio delle metafore e delle parole contempla un ristretto numero <strong>di</strong> elementi che si ripetono <strong>di</strong><br />

testo in testo con minime variazioni. D<strong>alla</strong> contaminazione tra la retorica cortese e la retorica sacra<br />

nasce così l’immagine dell’amata come nuovo miracolo, ‘bella come e più del sole e delle stelle’,<br />

‘profumata come rosa’, ‘lucente più delle pietre preziose’. In modo simmetrico, il poeta è<br />

identificato volta per volta come pittore che <strong>di</strong>pinge in cuore l’immagine della donna per sostenerne<br />

l’assenza, oppure come naufrago o nave in balia dei flutti, o ancora come salamandra che vive «in<br />

foco amoroso». L’impressione che si ricava da una lettura del non amplissimo corpus della poesia<br />

siciliana (poco più <strong>di</strong> venti autori, per un totale <strong>di</strong> circa 150 testi) è dunque quella <strong>di</strong> trovarsi <strong>di</strong><br />

fronte ad un’attività <strong>di</strong> laboratorio condotta a partire da pochi elementi-base da parte <strong>di</strong> un nucleo <strong>di</strong><br />

intellettuali compatto per estrazione sociale e per fisionomia culturale e artistica: a questo terreno<br />

comune <strong>di</strong> linguaggio e <strong>di</strong> immagini, che può dare luogo a contatti intertestuali ma che si traduce<br />

principalmente in una forte ed estesa ‘aria <strong>di</strong> famiglia’, si affida l’identità <strong>di</strong> una ‘scuola poetica<br />

siciliana’.<br />

[Lo sviluppo storico della ‘scuola’: il ruolo <strong>di</strong> Federico II] Una storia della lirica siciliana<br />

non si può scrivere perché le informazioni che si riescono a ricavare dai testi sono troppo scarse e,<br />

soprattutto, perché sono troppi i vuoti nella documentazione relativa agli autori. Si propone<br />

generalmente una scansione in due tempi: una prima e una seconda generazione siciliana. Tale<br />

scansione è plausibile, a patto che non venga applicata rigorosamente. Alla generazione dei<br />

‘fondatori’, fioriti nella prima metà del secolo appartiene ovviamente Federico II <strong>di</strong> Svevia (1194-<br />

1250), cui i manoscritti attribuiscono un sonetto e tre canzoni. Giovanissimo re <strong>di</strong> Sicilia sotto la<br />

tutela <strong>di</strong> papa Innocenzo III, quin<strong>di</strong> imperatore (1220), Federico fu per quasi mezzo secolo<br />

promotore <strong>di</strong> un’attività culturale d’eccezionale intensità sia nel campo delle arti (oltre <strong>alla</strong><br />

produzione letteraria in volgare, latino e greco vanno ricordate le gran<strong>di</strong> realizzazioni monumentali<br />

e architettoniche, prima tra tutte l’e<strong>di</strong>ficazione <strong>di</strong> Castel del Monte, presso Andria, nei primi anni<br />

Quaranta) sia in quello della filosofia (<strong>alla</strong> sua corte, tra l’altro, Michele Scoto prosegue la<br />

traduzione in latino del corpus aristotelico e delle opere <strong>di</strong> Avicenna e <strong>di</strong> Averroè; e lo stesso<br />

corrisponde con i più rinomati filosofi arabi del tempo). Culmine <strong>di</strong> tale attività è la fondazione a<br />

Napoli, nel 1224, <strong>di</strong> quella che a lungo resterà l’unica Università del Mezzogiorno d’Italia.<br />

[Pier delle Vigne] Alla figura dell’imperatore è strettamente legata quella <strong>di</strong> Pier delle<br />

Vigne (1190-1249). Capuano <strong>di</strong> origine, fu il più influente consigliere <strong>di</strong> Federico. Morì suicida nel<br />

1249 in seguito a false accuse <strong>di</strong> cospirazione, come vuole una tra<strong>di</strong>zione <strong>alla</strong> quale attinge tra gli<br />

altri anche Dante nel canto XIII dell’Inferno. Retore e epistolografo insigne, Piero fu però anche<br />

poeta: egli è l’unico esponente della Magna Curia per il quale sia documentato l’impiego dei due<br />

i<strong>di</strong>omi in poesia, il volgare materno e il latino.<br />

[Giacomo da Lenitini: l’invenzione del sonetto e la tenzone] Né l’imperatore né il suo<br />

braccio destro Pier delle Vigne, tuttavia, hanno la statura dei capiscuola. Tale ruolo compete, per la<br />

critica moderna come per gli antichi lettori <strong>di</strong> poesia, a Giacomo da Lentini. Il Notaro, com’è<br />

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chiamato nei manoscritti antichi e da Dante nella Comme<strong>di</strong>a, spicca tra gli altri membri della corte<br />

federiciana per maturità <strong>di</strong> stile e forza inventiva. Al suo nome sono legate tutte le conquiste formali<br />

che la poesia siciliana consegna <strong>alla</strong> nostra letteratura. Se non l’inventore, egli è certo uno dei primi<br />

frequentatori del sonetto, genere metrico che nel suo canzoniere ha un peso percentuale<br />

paragonabile solo a quello che gli verrà concesso dai rimatori toscani una o due generazioni più<br />

tar<strong>di</strong>. All’invenzione del sonetto si lega quella del genere che <strong>di</strong> quel metro sfrutta al meglio la<br />

duttilità: la tenzone. In due delle poche tenzoni siciliane che ci sono pervenute Giacomo occupa una<br />

posizione <strong>di</strong> rilievo: nell’una è chiamato a «determinare» (tale quale la determinatio della quaestio<br />

scolastica) un quesito proposto, a lui e a Pier delle Vigne, in un sonetto <strong>di</strong> Jacopo Mostacci sulla<br />

natura d’amore: se esso sia sostanza o accidente. Nell’altra sostiene un doppio botta e risposta con<br />

l’Abate <strong>di</strong> Tivoli - un rimatore della cerchia federiciana attestato solo in questa tenzone - con<br />

reciproche accuse <strong>di</strong> simulazione in fatto <strong>di</strong> sentimenti e <strong>di</strong> ingenuità e rozzezza nella teoria<br />

d’amore.<br />

[Temi, motivi, stile] Nel canzoniere <strong>di</strong> Giacomo da Lentini troviamo riuniti tutti i temi, i<br />

motivi, le soluzioni formali che ebbero corso tra i poeti siciliani. Il paradosso<br />

dell’incomunicabilità, per cui il poeta non può manifestare il suo amore se non svilendo sé e la<br />

donna, trova in lui la formulazione più esplicita: «Amor non vole ch’io clami | merzede c’onn’omo<br />

clama, | né che io m’avanti c’ami, | c’ogn’omo s’avanta c’ama» (‘Amore non vuole che chieda<br />

pietà, come fanno tutti gli altri, né che mi vanti del mio amore, dato che tutti quanti se ne vantano’).<br />

E lo stesso può <strong>di</strong>rsi per il motivo poi stilnovista dell’ineffabilità del sentimento: «Lo meo<br />

’namoramento | non pò parire in detto» (‘Il mio amore non può essere espresso con parole’); o per<br />

quello della lontananza: «Non vo’ più soferenza, | né <strong>di</strong>morare oimai | senza madonna, <strong>di</strong> cui moro<br />

stando» (‘Non voglio più soffrire, né stare lontano d<strong>alla</strong> mia donna, perché ne muoio’). Il Notaro è<br />

inoltre l’iniziatore <strong>di</strong> una tra<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> poesia formalmente complessa e ‘chiusa’ (trobar clus, come<br />

si definisce in provenzale) che avrà il suo culmine in Guittone d’Arezzo: i 176 versi del <strong>di</strong>scordo<br />

sono una buona palestra per questo genere <strong>di</strong> esercizi, e più ancora lo è la fitta rete <strong>di</strong> rime interne<br />

sulla quale vengono impostati certi sonetti (per es. quello sul viso dell’amata: «Eo viso e son <strong>di</strong>viso<br />

da lo viso» ‘Guardo ma sono lontano dal viso [dell’amata]’).<br />

[Guido delle Colonne: la poesia in volgare] Così come Giacomo da Lentini, anche Guido<br />

delle Colonne - giu<strong>di</strong>ce messinese e funzionario imperiale attestato tra il 1243 e il 1280 - viene<br />

citato da Dante nel De vulgari eloquentia come poeta insigne della scuola federiciana. Di lui ci<br />

restano cinque canzoni che sperimentano i due registri topici della poesia siciliana, quello euforico<br />

per l’amore raggiunto e la ‘merzede’ concessa d<strong>alla</strong> donna e quello simmetrico del ‘servizio’ non<br />

ripagato (si pensi all’analogia tra amante e vassallo cui s’è accennato in precedenza). Giustamente<br />

celebre è la canzone Ancor che l’aigua per lo foco lassi. Per quanto riguarda il contenuto, è una<br />

delle tante preghiere rivolte <strong>alla</strong> donna perché accolga finalmente il corteggiatore «che languisce e<br />

non può morire»; per quanto riguarda la forma dell’espressione, invece, è una sequenza <strong>di</strong> metafore<br />

naturalistiche (il ghiaccio, la neve, gli spiriti, la calamita) che, non usuali nel repertorio siciliano,<br />

preannunciano quelle canzoni tosco-emiliane in cui verrà dato ampio spazio alle metafore ricavate<br />

d<strong>alla</strong> scienza: su tutte, per importanza, il manifesto dello stilnuovo Al cor gentil, <strong>di</strong> Guinizzelli, e la<br />

canzone-trattato sulla natura d’amore <strong>di</strong> Cavalcanti, Donna me prega.<br />

[Guido delle Colonne: l’opera in latino] Rimatore in volgare e prosatore in latino (un doppio<br />

binario che in altro modo abbiamo già visto essere proprio <strong>di</strong> Pier delle Vigne), a Guido delle<br />

Colonne è attribuita la Historia destructionis Troiae: una traduzione, o meglio un libero<br />

rifacimento in latino del Roman de Troie, cronaca delle mitiche vicende troiane composta in<br />

francese, a metà del XII sec., da Benoît de Sainte-More. Caso più unico che raro <strong>di</strong> traduzione in<br />

latino <strong>di</strong> un modello volgare, l’Historia <strong>di</strong> Guido, che conobbe un’enorme fortuna durante tutto il<br />

Me<strong>di</strong>oevo, agì in profon<strong>di</strong>tà, anche attraverso i suoi volgarizzamenti trecenteschi, sulla formazione<br />

della nostra prosa romanzesca e storiografica.<br />

[Gli altri poeti della ‘scuola’ federiciana] Non più <strong>di</strong> una rapida menzione occorre infine per<br />

quelle che anche a causa <strong>di</strong> una tra<strong>di</strong>zione manoscritta particolarmente avara ci appaiono come<br />

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semplici figure <strong>di</strong> contorno. L’Abate <strong>di</strong> Tivoli, laziale, Jacopo Mostacci, forse pisano, Rinaldo<br />

d’Aquino, anch’egli laziale, testimoniano <strong>di</strong> quanto composita fosse la geografia degli intellettuali<br />

<strong>di</strong> corte. Dopo la metà del secolo, altri poeti originariamente legati a Federico II risaliranno la<br />

penisola e agiranno da tramiti con le regioni centro-settentrionali favorendo l’esportazione della<br />

poesia siciliana dal Regno e dando così un potente contributo <strong>alla</strong> fondazione della tra<strong>di</strong>zione lirica<br />

toscana. Sono: Re Enzo, figlio <strong>di</strong> Federico e re <strong>di</strong> Sardegna che, catturato dai bolognesi durante la<br />

battaglia <strong>di</strong> Fossalta (1249), fu loro prigioniero sino <strong>alla</strong> <strong>morte</strong>: in prigionia, probabilmente, e a<br />

contatto con i più antichi rimatori bolognesi, compose le due canzoni e il sonetto morale<br />

tramandatici dagli antichi co<strong>di</strong>ci; Percivalle Doria, nobile genovese, podestà in varie città italiane e<br />

vicario imperiale in centro Italia, autore <strong>di</strong> due canzoni amorose in volgare siciliano e <strong>di</strong> una<br />

tenzone e un serventese politico in provenzale; Mazzeo <strong>di</strong> Ricco, notaio messinese attestato in<br />

Toscana tra il 1252 e il 1260, <strong>di</strong> cui restano quattro canzoni e un sonetto <strong>di</strong> materia morale.<br />

[Elementi ‘popolari’ nella lirica dotta] Infine, non saranno estranei all’ambiente della corte<br />

alcuni componimenti <strong>di</strong> tono popolareggiante i quali denunciano tuttavia, nella lingua e nella<br />

versificazione, una me<strong>di</strong>azione dotta. I generi ‘popolari’ frequentati da Giacomino Pugliese, per<br />

esempio (il <strong>di</strong>scordo, la canzonetta in settenari, il contrasto tra amante e amata, il canto <strong>di</strong><br />

lontananza), sono in realtà perfettamente in linea con la produzione aulica del Notaro o dello stesso<br />

Federico II. Per altro verso, neppure il famoso contrasto <strong>di</strong> Cielo d’Alcamo (Rosa fresca<br />

aulentissima), <strong>di</strong>alogo burlesco tra un pretendente sfacciato e una conta<strong>di</strong>na ritrosa (ma non troppo)<br />

può considerarsi ‘poesia <strong>di</strong> popolo’. Al contrario, la coscienza linguistica, la capacità <strong>di</strong> intrecciare<br />

«mo<strong>di</strong> curiali e mo<strong>di</strong> realistici» (Contini), e insieme la probabile conoscenza <strong>di</strong> generi della poesia<br />

<strong>di</strong>alogata galloromanza (la pastorella), fanno pensare ad una paro<strong>di</strong>a dotta <strong>di</strong> quelli che nella<br />

considerazione comune passavano per atteggiamenti e costumi ‘popolari’.<br />

[La poesia della prima generazione tosco-emiliana. D<strong>alla</strong> corte <strong>di</strong> Federico II ai comuni<br />

cenro-italiani] L’approdo della poesia siciliana in Toscana e in Emilia verso la metà del secolo fu<br />

favorito sia d<strong>alla</strong> personale me<strong>di</strong>azione dei personaggi appena menzionati sia più in generale dal<br />

carattere itinerante della corte federiciana. I testi del Notaro e dei suoi compagni d’arte, concepiti,<br />

come si è detto, in un siciliano ‘illustre’, vengono toscanizzati. Quest’opera <strong>di</strong> traduzione dall’uno<br />

all’altro <strong>di</strong>aletto non avvenne senza resti. Termini <strong>di</strong> fonetica siciliana come vui o come aviri, presi<br />

a sé, possono facilmente essere tradotti nel corrispondente toscano: voi, avere. I problemi insorgono<br />

quando d<strong>alla</strong> parola isolata si passa <strong>alla</strong> coppia <strong>di</strong> parole in rima. Nel sistema fonetico siciliano<br />

erano perfette rime come cruci : luci, altrui : vui, oppure come aviri : serviri. Tradotte in toscano,<br />

tali rime <strong>di</strong>ventano imperfette: croce : luce, altrui : voi, avere : servire. Sulla scorta <strong>di</strong> questo<br />

modello, i poeti dell’Italia centrale si sentirono autorizzati a far rimare nei loro componimenti e<br />

chiusa con i e o chiusa con u. Si tratta della cosiddetta rima siciliana: che è in realtà non una<br />

particolarità proso<strong>di</strong>ca della poesia federiciana bensì un riflesso dell’adattamento linguistico che<br />

verso la metà del secolo favorì la sua <strong>di</strong>ffusione in Toscana.<br />

[I riflessi del nuovo contesto sociale sulla poesia] Non <strong>di</strong>versamente, le forme e i motivi<br />

ere<strong>di</strong>tati dai poeti siciliani si rimodellano sulla <strong>di</strong>versa situazione storico-sociale e si arricchiscono<br />

anche grazie a nuovi e più estesi contatti con la tra<strong>di</strong>zione trobadorica. Il primo aspetto che occorre<br />

mettere in rilievo è la ritrovata unità tra l’attività artistica in<strong>di</strong>viduale e il ruolo pubblico dei poeti: si<br />

ricompone quella frattura che nel regno federiciano separava l’esperienza del funzionario<br />

dall’esperienza del poeta. Nella nuova realtà comunale, quest’ultimo è chiamato spesso a<br />

partecipare <strong>di</strong>rettamente al governo della città: nella vita <strong>di</strong> intellettuali come Brunetto Latini o<br />

Guittone, come poi per certi versi in quella dello stesso Dante, l’arte è, si può ben <strong>di</strong>re, il<br />

proseguimento con altri mezzi dell’impegno civile. Si ampliano, in tal modo, i margini <strong>di</strong> manovra<br />

per chi, prosatore o poeta, intenda affermare valori o <strong>di</strong>fendere posizioni politiche. L’equazione tra<br />

poesia e poesia amorosa, che era legge presso i federiciani, cade: i poeti della prima generazione<br />

tosco-emiliana trattano anche, nei loro versi, contenuti politici ed etico-religiosi. Questa apertura<br />

verso l’esterno ha una conseguenza importante sui generi letterari. Forme <strong>di</strong> poesia <strong>di</strong>alogata<br />

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appena sfiorate dai siciliani, come la tenzone in sonetti o in canzoni, <strong>di</strong>lagano, <strong>di</strong>ventando per molti<br />

rimatori <strong>di</strong>lettanti il solo modo <strong>di</strong> accesso <strong>alla</strong> poesia: sono numerosi, nei canzonieri, i ‘poeti’ che<br />

hanno composto soltanto un sonetto o due, quasi sempre per la pratica ‘sociale’ delle<br />

corrispondenze in verso. Insieme, prende piede l’uso, che sarà anche dantesco, <strong>di</strong> inviare le proprie<br />

canzoni a destinatari esplicitamente nominati (patroni, amici, colleghi d’arte) che s’intende<br />

commuovere o convincere. Da strumento <strong>di</strong> svago fine a se stesso quale era nella Magna Curia, la<br />

poesia si fa così, nei comuni centro-italiani del secondo Duecento, mezzo <strong>di</strong> comunicazione<br />

alternativo <strong>alla</strong> prosa.<br />

[Due tra<strong>di</strong>zioni opposte: i ‘cortesi’ e i ‘moralisti’] Infine – per in<strong>di</strong>care un ultimo carattere<br />

generale del periodo - la transizione da sud a nord dà luogo non a una bensì a più esperienze<br />

poetiche concomitanti e tra loro variate. Vi è un gruppo <strong>di</strong> poeti che amplia e rielabora il modello<br />

siciliano tenendone però ferme alcune acquisizioni essenziali (fedeltà al co<strong>di</strong>ce dell’amore cortese,<br />

visto ancora come valore e non come peccato, riluttanza a trasferire nella poesia i temi dell’attualità,<br />

ecc.); e vi è un gruppo <strong>di</strong> ‘rivoluzionari’ che rovescia quel modello non solo concedendo largo<br />

spazio a motivi politici, etici e religiosi, ma soprattutto smascherando l’ideologia cortese nelle sue<br />

implicazioni anticristiane: la fin’amor che costituiva per i provenzali e i federiciani, e costituirà poi<br />

per buona parte dei lirici italiani dopo lo stilnuovo, la ragione prima del far poesia, <strong>di</strong>venta in<br />

costoro un idolo da combattere in nome dei superiori valori della moralità e della fede. Il lucchese<br />

Bonagiunta Orbicciani e il bolognese Guido Guinizzelli sono i rappresentanti più insigni della<br />

prima maniera, quella che ripropone i valori laico-cortesi dei lirici siciliani; Guittone d’Arezzo è il<br />

caposcuola in<strong>di</strong>scusso <strong>di</strong> questa seconda scuola <strong>di</strong> poeti-moralisti.<br />

[Guittone d’Arezzo. La vita] Nato ad Arezzo probabilmente negli anni Trenta del Duecento<br />

e morto prima della fine del secolo, Guittone è senza dubbio la personalità <strong>di</strong> maggiore spicco tra<br />

quante ce ne presenta la poesia <strong>italiana</strong> anteriore a Dante. Ad Arezzo fu probabilmente in contatto<br />

con l’ambiente dell’università: la sua poesia e più ancora le sue lettere presuppongono una cultura<br />

ampia sebbene non profonda, e una notevole conoscenza delle regole del <strong>di</strong>ctamen (‘l’arte del<br />

comporre’) poetico e prosastico. Di estrazione me<strong>di</strong>o-alta (il padre era tesoriere del comune, lui<br />

stesso entrerà a far parte <strong>di</strong> un or<strong>di</strong>ne, i Frati Godenti, al quale si accedeva anche sulla base del<br />

censo), Guittone dovette avere un ruolo <strong>di</strong> rilievo nella vita civile e politica del suo tempo. La<br />

celebre canzone Ahi lasso, or è stagion de doler tanto, ce lo mostra impegnato in un planh (prov.<br />

‘lamento’) sulla sconfitta dei guelfi fiorentini a Montaperti (1260), sconfitta che ebbe negative<br />

conseguenze anche sui guelfi aretini e su Guittone stesso, il quale trascorse alcuni anni in esilio.<br />

[I due momenti della carriera poetica] Si è soliti <strong>di</strong>videre la carriera poetica <strong>di</strong> Guittone in<br />

due parti. La prima va dagli esor<strong>di</strong> ai primissimi anni Sessanta; la seconda inizia <strong>di</strong> qui e prosegue<br />

probabilmente sino <strong>alla</strong> <strong>morte</strong>. La consuetu<strong>di</strong>ne cortese legava in<strong>di</strong>ssolubilmente l’amore <strong>alla</strong><br />

gioventù (tanto che l’‘amore in tarda età’, ben noto ai moderni, si può <strong>di</strong>re quasi sconosciuto <strong>alla</strong><br />

tra<strong>di</strong>zione me<strong>di</strong>evale), e il primo Guittone non si sottrae al cliché, ma dà dell’amore una lettura un<br />

po’ <strong>di</strong>versa rispetto a quella che ne era stata data dai siciliani e che ne stavano dando i suoi<br />

contemporanei. Quale che sia la natura della loro esperienza amorosa e quale che ne fosse l’esito<br />

(appagamento o frustrazione), costoro accettano l’equazione già trobadorica tra amore e valore, vale<br />

a <strong>di</strong>re il dogma sul quale si reggeva l’e<strong>di</strong>ficio dell’ideologia cortese: nella vita d’un uomo, amare e<br />

cantare il proprio amore sono comunque esperienze nobilitanti, e la partecipazione a queste<br />

esperienze <strong>di</strong>stingue l’uomo nobile, saggio e <strong>di</strong> alto sentire dall’uomo vile.<br />

[La nuova e <strong>di</strong>sincantata visione dell’amore] In molti dei suoi componimenti Guittone, pur<br />

restando poeta d’amore, corregge questa tra<strong>di</strong>zione cortese in due mo<strong>di</strong>. Da un lato offre una<br />

visione totalmente negativa dell’esperienza sentimentale, considerata come una malattia d<strong>alla</strong> quale<br />

occorre guarire: l’amore, scrive Guittone, è una tortura, una passione infausta che annulla la ragione<br />

e <strong>di</strong>strugge il corpo. Dall’altro lato - e ciò particolarmente nei sonetti, e più precisamente in quegli<br />

86 sonetti che per essere conservati insieme in uno stesso manoscritto e per la presenza <strong>di</strong> un pur<br />

debole filo narrativo che li collega l’uno all’altro sono stati definiti ‘canzoniere’ - accade che<br />

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Guittone demistifichi la finzione cortese <strong>di</strong>mostrando come essa sia soltanto un tenue velo che cela<br />

il desiderio del possesso fisico. Nel ‘canzoniere’ suddetto, il lessico e lo stile della cortesia sono<br />

contraddetti dai toni spicci dell’autore-personaggio, che nel suo corteggiamento mira ad una cosa<br />

sola: «Ca, per averti a tutto meo desire, / non t’ameria un giorno per amore; / ma chesta t’ò<br />

volendoti covrire» (‘Non ti amerei neanche un giorno <strong>di</strong> vero amore, anche a patto che poi potessi<br />

<strong>di</strong>sporre <strong>di</strong> te a mio piacimento: volevo solo portarti a letto’).<br />

[Il ‘manuale del libertino’] In un più breve ciclo <strong>di</strong> sonetti guittoniano cade anche l’ultima<br />

finzione, e l’ideologia cortese (il paradosso della lontananza, del desiderio necessariamente<br />

insod<strong>di</strong>sfatto, ecc.) viene capovolta in quella che è stata definita un’ars aman<strong>di</strong> ra<strong>di</strong>calmente antiidealista,<br />

ovvero un ‘manuale del libertino’. In 24 sonetti, Guittone percorre l’intera trafila del<br />

corteggiamento: si cominci col guadagnare la fiducia della donna attraverso un conoscente comune<br />

(«faccia che conto de la donna sia | o vero d’omo alcun <strong>di</strong> suo legnaggio»); le si scriva lodandola<br />

per la bellezza del suo corpo e del suo animo; si sfruttino abilmente le assenze del marito e dei<br />

familiari; si arriverà finalmente, attraverso menzogne, simulazioni e lusinghe, allo scopo che ogni<br />

amante si prefigge: il possesso dell’oggetto amato, la sod<strong>di</strong>sfazione sessuale.<br />

[Le rime morali e religiose] Dopo i primi anni Sessanta, resta ferma la polemica anticortese<br />

ma cambiano le motivazioni. Nel 1265 Guittone entra nell’Or<strong>di</strong>ne dei Cavalieri <strong>di</strong> Santa Maria,<br />

detti Frati Godenti: un or<strong>di</strong>ne ‘mondano’ al quale era possibile accedere anche se maritati, e senza<br />

abbracciare la vita claustrale. Una simile scelta <strong>di</strong> vita sarà stata preceduta d<strong>alla</strong> ‘conversione’ a un<br />

cristianesimo più rigido e più me<strong>di</strong>tato, perciò anche, presumibilmente, d<strong>alla</strong> rinuncia <strong>alla</strong> poesia<br />

d’amore. Ma mentre per molti intellettuali del tempo - per esempio per molti trovatori ‘convertiti’<br />

<strong>alla</strong> fine della giovinezza - l’entrata in convento significava la <strong>morte</strong> all’arte, il silenzio poetico,<br />

Guittone continua a scrivere cambiando maniera. Con la canzone su Montaperti egli aveva fondato,<br />

qualche tempo prima, una tra<strong>di</strong>zione poetica civile che rappresenterà a lungo, per i nostri autori, un<br />

valido modello alternativo al ‘canto per amore’. La ‘seconda maniera’, quella successiva <strong>alla</strong><br />

conversione, è connotata in senso cristiano: le forme metriche della lirica laica (sonetto e canzone)<br />

vengono usate come veicoli per contenuti etico-religiosi. Nascono così le gran<strong>di</strong> canzoni ascetiche<br />

(Onne vogliosa d’omo infermitate, che esorta a vincere le tentazioni della carne; O cari frati miei,<br />

con malamente, ai confratelli sul peccato e la grazia) e militanti (Altra fiata aggio già, donne,<br />

parlato - lunga esortazione alle donne perché si conservino caste e virtuose); e nascono testi<br />

dall’ancora più forte coloritura cristiana: le lau<strong>di</strong>.<br />

[Lo stile e la metrica] Si deve soprattutto a Guittone, al suo esempio, la vena sperimentale<br />

che percorre, nel settore dello stile e in quello della metrica, la poesia toscana della seconda metà<br />

del Duecento. Nel dettaglio: la grande varietà delle forme assunte d<strong>alla</strong> canzone e dal sonetto (la<br />

canzone allungata sino a raggiungere le <strong>di</strong>mensioni <strong>di</strong> un piccolo trattato in versi, e complicata nello<br />

schema metrico e nel tracciato delle rime; il sonetto spesso mo<strong>di</strong>ficato rispetto al suo schema<br />

originario con l’aggiunta <strong>di</strong> farciture o code); la proliferazione <strong>di</strong> forme metriche ibride o<br />

eccentriche che verranno abbandonate già dagli autori della generazione successiva; l’adozione <strong>di</strong><br />

un linguaggio volutamente complesso, allusivo e - il riferimento è al trobar clus provenzale -<br />

‘chiuso’, che ci appare tanto più inaspettato in quanto si associa a contenuti, per così <strong>di</strong>re, <strong>di</strong><br />

interesse pubblico come la politica e la morale, e dunque si rivolge, almeno in teoria, ad un più<br />

ampio bacino <strong>di</strong> lettori.<br />

[‘Macrotesti’] Alla complessità del <strong>di</strong>scorso morale occorrono spazi <strong>di</strong>latati. Oltre ad<br />

ampliare le <strong>di</strong>mensioni delle canzoni e dei sonetti, Guittone inventa così il ‘macrotesto’ composto<br />

da sonetti. Se bisogna portare in poesia temi come la morale e la fede, allora conviene imitare,<br />

almeno nella struttura, il trattato in prosa, e fare <strong>di</strong> ogni sonetto un paragrafo del <strong>di</strong>scorso: è quanto<br />

avviene nelle corone <strong>di</strong> sonetti sui vizi e le virtù, o nel cosiddetto Trattato d’Amore, nel quale il<br />

mito dell’amore cortese è aspramente condannato <strong>alla</strong> luce dell’etica cristiana<br />

[Il ruolo <strong>di</strong> Guittone nel panorama poetico contemporaneo] Il canzoniere <strong>di</strong> Guittone è il più<br />

vasto tra quelli dei poeti del Duecento: sonetti, canzoni, b<strong>alla</strong>te-laude per un totale <strong>di</strong> più <strong>di</strong><br />

duecento componimenti. Ciò è in<strong>di</strong>ce sia <strong>di</strong> una notevole prolificità sia <strong>di</strong> un successo fulmineo che<br />

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garantì la trasmissione e la conservazione dei suoi testi. Oggi noi misuriamo quel successo<br />

soprattutto col metro delle rime <strong>di</strong> corrispondenza. Guittone ci appare come una figura centrale<br />

nella società letteraria del secondo Duecento: i rimatori che si rivolgono a lui per consiglio o per<br />

elogio ne riconoscono apertamente il magistero poetico e morale. La sua poesia viene letta e<br />

cercata, le sue innovazioni formali hanno fortuna, la sua proposta <strong>di</strong> estendere il ‘poetabile’ ai<br />

campi dell’etica e della religione trova conferma imme<strong>di</strong>ata nella prassi dei suoi allievi. E vuoi<br />

dunque per ragioni <strong>di</strong> forma (il trobar clus, la ricercata complessità dello stile) vuoi per motivazioni<br />

ideologiche (la metamorfosi subìta d<strong>alla</strong> lirica per eccellenza laica una volta giunta tra le mani <strong>di</strong><br />

poeti ormai estranei <strong>alla</strong> realtà cortese, e più vicini a certa moralità cristiana incompatibile con la<br />

cortesia), sembra legittimo parlare <strong>di</strong> una scuola guittoniana <strong>di</strong>ffusa in tutto il comprensorio<br />

toscano.<br />

[Gli altri poeti pre-danteschi. Chiaro Davanzati e Monte Andrea] Mentre però molti rimatori<br />

minori ripetono senza grosse variazioni la lezione del maestro, alcuni altri si <strong>di</strong>stinguono per una<br />

personalità più originale. Insieme al fiorentino Chiaro Davanzati, il più prolifico dei rimatori<br />

duecenteschi dopo Guittone (circa sessanta canzoni, più <strong>di</strong> cento sonetti) merita <strong>di</strong> essere ricordato<br />

almeno un altro poeta della generazione <strong>di</strong> Chiaro, Monte Andrea. Anch’egli fiorentino, Monte<br />

ere<strong>di</strong>ta da Guittone soprattutto i suoi vezzi formali: ripete le strutture ‘espanse’ coniate dall’aretino<br />

(canzoni lunghe, sonetti ‘caudati’, ecc.) e, soprattutto, porta all’estremo la tecnica degli artifici<br />

metrico-retorici giungendo a risultati <strong>di</strong> quasi totale oscurità. Oltre che per la qualità espressiva del<br />

tutto peculiare, il suo canzoniere (un centinaio <strong>di</strong> sonetti, un<strong>di</strong>ci canzoni) si segnala per almeno altre<br />

due particolarità. In primo luogo le sue sono, per buona parte, rime <strong>di</strong> corrispondenza. Segno che si<br />

contrae, rispetto ai siciliani ma anche rispetto a Guittone, l’esperienza del ‘lirico’ e la poesia si fa<br />

sempre più spesso veicolo <strong>di</strong> comunicazione: ma una comunicazione artificiosa, visto che i testi <strong>di</strong><br />

tenzone sono anche quelli in cui l’oscurità e il preziosismo sono portati a un punto estremo: la<br />

poesia è qui occasione <strong>di</strong> esercizio retorico e <strong>di</strong> gioco, piuttosto che <strong>di</strong> autentico <strong>di</strong>alogo con i<br />

corrispondenti. In secondo luogo, Monte Andrea introduce nella poesia un tema ine<strong>di</strong>to per l’Italia.<br />

Anch’egli conosce il registro amoroso e quello morale; ma ad essi aggiunge, nel suo canzoniere, un<br />

lirismo personale che trae ispirazione d<strong>alla</strong> comune esperienza della vita; questo lamento sulla<br />

miseria anticipa per esempio - benché in forme drammatiche, non burlesche - le confessioni in versi<br />

<strong>di</strong> Cecco Angiolieri:<br />

Di ssotto son confitto ne le rote,<br />

polificato son d’ongne tesoro,<br />

ignudo tuto son d’argento e d’oro,<br />

e ancor d’amici, ch’è maggiore s-coppio.<br />

(‘Sono nel punto più basso della ruota della fortuna, non ho un soldo, né argento né oro né - ed è la cosa peggiore –<br />

amici’)<br />

Infine, così come nella poesia <strong>di</strong> Guittone, vi è in quella <strong>di</strong> Monte una componente politica.<br />

Tuttavia, a causa <strong>di</strong> quella vocazione sociale e non lirica <strong>di</strong> cui si <strong>di</strong>ceva, per le sue <strong>di</strong>chiarazioni<br />

politiche Monte non si serve più della forma ‘soggettiva’ della canzone ma cerca invece il <strong>di</strong>alogo,<br />

il contrad<strong>di</strong>ttorio con altri poeti: e resta uno dei ‘macrotesti’ più interessanti e atipici della<br />

letteratura <strong>italiana</strong> del Me<strong>di</strong>oevo la tenzone composta da <strong>di</strong>ciassette sonetti che oppone il guelfo<br />

Monte ad altri rimatori fiorentini <strong>di</strong> parte ghibellina sul tema della prossima <strong>di</strong>scesa <strong>di</strong> Carlo I<br />

d’Angiò in Italia.<br />

[Bonagiunta Orbicciani] L’‘altra’ tra<strong>di</strong>zione lirica, quella che resta fedele, pur innovando,<br />

<strong>alla</strong> lezione dei siciliani, ha in Bonagiunta Orbicciani e in Guido Guinizzelli i suoi massimi<br />

esponenti. Coetaneo, se non più vecchio <strong>di</strong> Guittone, Bonagiunta è stato definito «l’autentico<br />

trapiantatore dei mo<strong>di</strong> siciliani in Toscana» (Contini). Egli è piuttosto refrattario alle innovazioni<br />

formali e tematiche che vengono proposte, <strong>alla</strong> metà del Duecento, da Guittone e dai suoi allievi.<br />

Scrive, sì, alcuni sonetti moraleggianti sul tema della fortuna o della modestia o della cautela nei<br />

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giu<strong>di</strong>zi: ma si tratta <strong>di</strong> una morale in tono minore, molto lontana da quella aggressiva e risentita <strong>di</strong><br />

Guittone. Quanto alle canzoni, nel congedo <strong>di</strong> Similemente onore c’è l’eco <strong>di</strong> conflitti citta<strong>di</strong>ni nei<br />

quali Bonagiunta doveva essere implicato (se la prende con quei «falsi cavalieri» che tra<strong>di</strong>scono il<br />

loro blasone comportandosi in maniera <strong>di</strong>sonorevole); ma l’accenno è lasciato in coda, dopo<br />

un’eru<strong>di</strong>ta e astratta <strong>di</strong>squisizione sull’onore e la virtù. Insomma, a <strong>di</strong>fferenza <strong>di</strong> quanto accade in<br />

Guittone, l’in<strong>di</strong>gnazione non si converte in <strong>di</strong>scorso, e men che meno in manifesto politico. Per il<br />

resto, che è la gran parte, Bonagiunta si conferma poeta d’amore nella tra<strong>di</strong>zione siciliana. Più<br />

precisamente, egli sembra fare sua la componente euforica <strong>di</strong> quella poesia (in tal senso il poeta più<br />

vicino a Bonagiunta non è il Notaro né Guido delle Colonne ma il positivo e solare Rinaldo<br />

d’Aquino): la bene<strong>di</strong>zione dell’amore, il ringraziamento per la gioia raggiunta, ecc. Un’ulteriore<br />

prova <strong>di</strong> sicilianità la troviamo nel metro: Bonagiunta compone canzoni <strong>di</strong> estensione ‘canonica’,<br />

non aggiunge code o farciture <strong>alla</strong> formula classica del sonetto, ed è l’unico rimatore non<br />

federiciano a comporre <strong>di</strong>scor<strong>di</strong>. Ma fedeltà non esclude innovazione: e spetta probabilmente a lui<br />

l’invenzione della b<strong>alla</strong>ta ‘laica’ d’argomento amoroso.<br />

[Guido Guinizzelli] Sull’altro versante degli Appennini, in Emilia, Guido Guinizzelli<br />

compie un’operazione analoga: compone secondo i mo<strong>di</strong> dei siciliani, poco concedendo <strong>alla</strong> nuova<br />

maniera <strong>di</strong> Guittone, e agisce così da precursore nei confronti dello stilnuovo fiorentino, che non a<br />

caso lo riconoscerà come ‘padre’ (così lo chiama Dante nel canto XXVI del Purgatorio,<br />

incontrandolo tra i lussuriosi). Del suo esiguo canzoniere (ci restano non più <strong>di</strong> cinque canzoni e<br />

una quin<strong>di</strong>cina <strong>di</strong> sonetti) due testi sono soprattutto importanti. Il primo è il botta e risposta in<br />

sonetti con Bonagiunta, che l’aveva accusato <strong>di</strong> «aver mutato la maniera», cioè <strong>di</strong> essersi dato ad<br />

uno stile poetico oscuro e sottile (con probabile riferimento <strong>alla</strong> canzone Al cor gentil, <strong>di</strong> cui sùbito<br />

sotto); la replica <strong>di</strong> Guido, nel sonetto Omo ch’è saggio, è un sarcastico invito <strong>alla</strong> prudenza e <strong>alla</strong><br />

riservatezza. Entrambi i sonetti, testimonianza <strong>di</strong> una controversia <strong>di</strong> grande interesse storicoletterario,<br />

saranno tra i testi lirici più fortunati e più letti del nostro Me<strong>di</strong>oevo. Il secondo testo<br />

guinizzelliano <strong>di</strong> grande rilievo è la citata canzone Al cor gentil. L’equiparazione tra amore e cuore<br />

gentile (cioè ‘nobile’, ‘virtuoso’), proposta nella prima stanza, resterà un punto fermo nella teoria<br />

d’amore dei lirici italiani del Duecento:<br />

Al cor gentil rempaira sempre amore<br />

come l’ausello in selva a la verdura;<br />

né fe’ amor anti che gentil core,<br />

né gentil core anti ch’amor, natura.<br />

(‘Amore torna sempre al cuore nobile come a casa sua: allo stesso modo che l’uccello torna nel bosco; e l’amore e il<br />

cuore nobile vennero creati insieme, nello stesso istante, d<strong>alla</strong> natura’)<br />

Nelle stanze successive, questo pensiero centrale viene sviluppato e arricchito grazie a metafore<br />

tratte d<strong>alla</strong> fisica e dall’astronomia: il cuore gentile è una pietra preziosa nella quale s’annida la<br />

virtù magica (= amore), il cuore gentile è ferro nel quale si cela il <strong>di</strong>amante (= amore); al contrario,<br />

il cuore non nobile è fango sul quale il sole splende invano. La quarta stanza precisa i termini<br />

dell’opposizione tra nobiltà e non-nobiltà: la gentilezza – afferma Guinizzelli - risiede nella virtù,<br />

non nel denaro o in natali illustri. La sesta e ultima stanza compie quell’assimilazione tra donna<br />

amata e angelo che - al pari dell’appena descritta ‘teoria della nobiltà’ - avrà importanza cruciale<br />

nello sviluppo dell’ideale stilnovista. Guinizzelli s’immagina al cospetto <strong>di</strong> Dio, il quale lo biasima<br />

per avere stornato su un «vano amor» terrestre le lo<strong>di</strong> e la devozione che solo a Lui convengono.<br />

Ma agli occhi del peccatore - è la risposta - la donna era un’immagine del <strong>di</strong>vino.<br />

[Lo stilnuovo. Significato e limiti della ‘scuola’ stilonovista] La critica raccoglie<br />

generalmente sotto il nome <strong>di</strong> poeti ‘stilnovisti’, insieme al giovane Dante (quello della Vita nova e<br />

delle altre liriche per Beatrice), Guido Cavalcanti, Cino da Pistoia, Lapo Gianni, Dino Frescobal<strong>di</strong>.<br />

In realtà, questa etichetta è convenzionale così come quella <strong>di</strong> ‘scuola guittoniana’ adoperata in<br />

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precedenza. È vero che i poeti appena menzionati - tutti fiorentini o pistoiesi, tutti vissuti tra la fine<br />

del Duecento e l’inizio del Trecento - ebbero rapporti anche amichevoli tra <strong>di</strong> loro (proprio a<br />

Cavalcanti Dante de<strong>di</strong>ca la Vita nova, e con Cino Dante scambia lettere e sonetti); ed è vero che tra<br />

le loro poesie esistono analogie notevoli sia dal punto <strong>di</strong> vista ideologico sia dal punto <strong>di</strong> vista<br />

formale. Ma il nome <strong>di</strong> stilnuovo, e l’unità della cosiddetta ‘scuola’ sono dedotti dai critici da ciò<br />

che Dante <strong>di</strong>ce nel De vulgari eloquentia, nella Vita nova e nella Comme<strong>di</strong>a. Con Cino, con<br />

Cavalcanti, con Lapo Gianni - scrive Dante - egli ha dato vita a un modo <strong>di</strong> far poesia del tutto<br />

nuovo (e migliore) rispetto <strong>alla</strong> ‘maniera antica’ <strong>di</strong> Guittone e degli altri toscani. L’esempio <strong>di</strong><br />

costoro è rifiutato in blocco, senza le <strong>di</strong>stinzioni che pure si potrebbero fare tra l’uno e l’altro<br />

autore: tra tutti, l’unico poeta italiano della precedente generazione che si salva, a giu<strong>di</strong>zio <strong>di</strong> Dante,<br />

è Guido Guinizzelli: è lui l’autore che merita il titolo <strong>di</strong> iniziatore e padre del nuovo corso poetico.<br />

[Il ‘battesimo’ della scuola nel canto XXIV del Purgatorio] Con gli altri tre massimi poeti<br />

del Duecento, Giacomo da Lentini, Guittone e Bonagiunta, Dante fa i conti in un passo famoso<br />

della Comme<strong>di</strong>a che è anche quello in cui si afferma a chiare lettere l’assoluta superiorità del «dolce<br />

stil novo». Tra i golosi del sesto girone Dante incontra Bonagiunta, il quale riconosce in lui l’autore<br />

della canzone Donne ch’avete; perciò lo apostrofa: «Ma dì s’i’ veggio qui colui che fore | trasse le<br />

nove rime, cominciando | Donne ch’avete intelletto d’amore» (‘Ma <strong>di</strong>mmi se io vedo qui colui che<br />

inaugurò un nuovo modo <strong>di</strong> far poesia con la lirica Donne ch’avete...’). La replica <strong>di</strong> Dante e la<br />

controreplica <strong>di</strong> Bonagiunta fanno due metà della poesia <strong>italiana</strong> del Duecento - prima e dopo<br />

Dante, prima e dopo lo stilnuovo (Pg. XXIV 52-57):<br />

... «I’ mi son un che, quando<br />

Amor mi spira, noto, e a quel modo<br />

ch’e’ <strong>di</strong>tta dentro vo significando».<br />

«O frate, issa vegg’io», <strong>di</strong>ss’elli, «il nodo<br />

che ’l Notaro e Guittone e me ritenne<br />

<strong>di</strong> qua dal dolce stil novo ch’i’odo!».<br />

[La semplificazione dello stile] Dal punto <strong>di</strong> vista della forma, lo stilnuovo porta con sé una<br />

semplificazione dello stile: lo sperimentalismo <strong>di</strong> Guittone e dei suoi seguaci cede il passo a una<br />

maniera più ‘regolare’, una maniera che in sostanza resterà dominante per buona parte della<br />

tra<strong>di</strong>zione letteraria <strong>italiana</strong>. Il trobar clus caro a Guittone e a Monte Andrea non trova che pochi ed<br />

episo<strong>di</strong>ci continuatori: Dante e i poeti della sua cerchia scelgono una maniera leu (= lieve, facile,<br />

comprensibile) contro l’oscurità dei predecessori. Una semplificazione analoga investe anche la<br />

metrica dei testi: i poeti guittoniani avevano lunghissime canzoni-trattato, e avevano mo<strong>di</strong>ficato la<br />

struttura del sonetto così come era stata co<strong>di</strong>ficata dai siciliani, aggiungendo dei versi nel corpo del<br />

testo o in coda: questa metrica ‘abnorme’ non trova eco tra gli stilnovisti.<br />

[La nuova ideologia amorosa] Dal punto <strong>di</strong> vista dei contenuti, la frattura rispetto <strong>alla</strong><br />

generazione passata è ancora più netta. Non per caso Bonagiunta, nel citato passo del Purgatorio,<br />

identifica in Donne ch’avete, una canzone d’amore, il testo emblematico dello stilnuovo. Guittone e<br />

i suoi contemporanei avevano usato la poesia in volgare anche e soprattutto per parlare <strong>di</strong> morale e<br />

<strong>di</strong> religione. Con lo stilnuovo, l’amore torna a essere il tema principale della poesia: per un certo<br />

periodo, probabilmente, e per certi autori, l’unico tema possibile. Ciò implica un atteggiamento del<br />

tutto <strong>di</strong>verso, rispetto a quello dei predecessori, <strong>di</strong> fronte al problema dell’amore tra uomo e donna.<br />

I moralisti come Guittone avevano descritto l’amore terreno come un male. Gli stilnovisti, al<br />

contrario, vedono nella donna un’immagine <strong>di</strong> Dio, un angelo inviato sulla terra per la salvezza<br />

degli uomini. Chi è innamorato entra nella cerchia degli eletti e gode <strong>di</strong> questa beatitu<strong>di</strong>ne<br />

semplicemente contemplando la bellezza della donna amata. Da questa prevalenza del visto sul<br />

vissuto e sullo sperimentato deriva, nei testi, il primato della descrizione - ossia della lode delle<br />

virtù fisiche e morali dell’amata - sul ‘narrato’; nel famoso sonetto dantesco Tanto gentil e tanto<br />

onesta pare, come in tante altre poesie contemporanee, l’amante limita il suo ruolo a quello <strong>di</strong><br />

semplice spettatore del miracolo.<br />

27


[Il legame tra siciliani e stilnovisti] La critica ha parlato, per gli stilnovisti, <strong>di</strong> un ‘ritorno ai<br />

siciliani’. In effetti, la nuova centralità del tema amoroso, e l’elaborazione, soprattutto da parte <strong>di</strong><br />

Dante e Cavalcanti, <strong>di</strong> una complessa ‘teoria dell’amore’, rimanda – in un ambito che è ormai<br />

quello della civiltà comunale – a quell’antico modello ‘cortese’. Simile è anche il rifiuto da parte<br />

dei poeti delle due ‘scuole’ <strong>di</strong> parlare della realtà extra-soggettiva. Non solo gli stilnovisti evitano <strong>di</strong><br />

affrontare temi politici, etici e religiosi, ma sembrano anche rinunciare a quel <strong>di</strong>alogo con<br />

interlocutori estranei all’arte, non poeti, che era stato tenuto vivo da Guittone. La loro è una poesia<br />

in<strong>di</strong>fferente <strong>alla</strong> quoti<strong>di</strong>anità, una poesia che richiede spesso conoscenze <strong>di</strong> tipo filosofico e<br />

teologico e parla dunque ad una ristretta élite <strong>di</strong> letterati.<br />

[Gli autori. Guido Cavalcanti: la vita] Il «primo degli amici» <strong>di</strong> Dante, com’è chiamato nella<br />

Vita nova, fu uno degli intellettuali più reputati della sua generazione. Nato da una ricca e potente<br />

famiglia fiorentina, Guido Cavalcanti dovette compiere in gioventù stu<strong>di</strong> filosofici approfon<strong>di</strong>ti, ed<br />

entrò certamente in contatto con ambienti averroisti: per questo motivo, probabilmente, ebbe fama<br />

<strong>di</strong> eretico. In seguito agli scontri che opponevano tra loro le maggiori famiglie fiorentine, Guido fu<br />

esiliato nell’anno 1300 insieme ad altri capiparte, e morì a Sarzana pochi mesi dopo forse per febbri<br />

malariche.<br />

[La poetica cavalcantiana] Il suo canzoniere ha molte facce. Vi troviamo rime <strong>di</strong><br />

corrispondenza, rime <strong>di</strong> tono burlesco e, soprattutto, liriche in cui trova sfogo un’esperienza<br />

d’amore dolorosa e devastante. Per Guido l’amore non è infatti, come sarà per il Dante della Vita<br />

nova e per Cino da Pistoia, un’avventura positiva anche nei suoi risvolti dolorosi - l’incolmabile<br />

<strong>di</strong>stanza d<strong>alla</strong> donna, il tormento interiore, la speranza frustrata - bensì un’esperienza tragica, che<br />

confina con la <strong>morte</strong>. Ecco l’effetto che ha sul poeta-amante lo sguardo dell’amata: «Allor<br />

m’aparve <strong>di</strong> sicur la Morte, | acompagnata <strong>di</strong> quelli martiri | che soglion consumare altrui<br />

piangendo» (XXI 12-14). I critici hanno parlato <strong>di</strong> trage<strong>di</strong>a, ma sarebbe più giusto parlare<br />

genericamente <strong>di</strong> dramma, dal momento che la poesia <strong>di</strong> Cavalcanti è per sua natura poesia<br />

‘<strong>di</strong>alogica’, nella quale i vari attori della rappresentazione amorosa (i sospiri, la donna, il cuore, il<br />

<strong>di</strong>o dell’Amore, gli spiriti - cioè quelli che nella concezione me<strong>di</strong>evale erano i vapori o pneumi<br />

prodotti dal cuore e preposti alle varie funzioni del corpo umano, ecc.) vengono personificati e<br />

dotati <strong>di</strong> parola, così da sviluppare, all’interno del testo, complessi <strong>di</strong>scorsi a più voci. Una delle due<br />

sole canzoni <strong>di</strong> Cavalcanti rimasteci, Io non pensava che lo cor giammai, fa <strong>di</strong> questa tendenza<br />

all’intreccio <strong>di</strong> voci un principio strutturale: ognuna delle quattro stanze ospita, insieme al <strong>di</strong>scorso<br />

dell’io poetico, ‘parole d’altri’: del <strong>di</strong>o Amore nella prima stanza, <strong>di</strong> uno spettatore nella seconda,<br />

del cuore nella terza, della canzone stessa personificata nella quarta.<br />

[La canzone Donna me prega] L’altra più celebre canzone cavalcantiana, la ‘dottrinale’<br />

Donna me prega, merita <strong>di</strong> essere ricordata per un’altra ragione. Essa è infatti un pro<strong>di</strong>gio <strong>di</strong><br />

<strong>di</strong>fficoltà formale e concettuale. Gran parte dei suoi versi sono spezzati da una rima interna, alcuni<br />

ad<strong>di</strong>rittura da due. Il tema è l’amore – o meglio, una serie <strong>di</strong> domande sull’amore che una «donna»<br />

avrebbe posto a Cavalcanti: dove risiede Amore? Chi lo crea? Qual è la sua potenza? Quale la sua<br />

essenza? Come si muove? Perché ingenera piacere? Può essere veduto corporalmente? La<br />

costrizione del metro e delle rime porta a spiegazioni <strong>di</strong> questo tenore:<br />

L’essere è quando - lo voler è tanto<br />

ch’oltra misura è <strong>di</strong> natura - torna,<br />

poi non s’adorna - <strong>di</strong> riposo mai.<br />

Move, cangiando - color, riso in pianto,<br />

e la figura - con paura - storna.<br />

(‘La sua essenza è desiderio che eccede il limite naturale, e non trova mai requie; àltera chi gli è soggetto facendogli<br />

mutare colore e convertendo il riso in pianto, stravolge con la paura le fattezze dell’amante’).<br />

28


La <strong>di</strong>fficoltà concettuale sta soprattutto in questo, che Cavalcanti risponde <strong>alla</strong> sua (immaginaria?)<br />

interlocutrice servendosi della filosofia aristotelica e del suo interprete Averroè: e la canzone, come<br />

si è potuto vedere dal breve brano citato, è tutto un fiorire <strong>di</strong> tecnicismi e astratte definizioni.<br />

[Il significato <strong>di</strong> Donna me prega nella poesia delle origini] Donna me prega segna<br />

un’importante novità nella storia della lirica <strong>italiana</strong> delle origini. Alla canzone d’amore si<br />

sostituisce la canzone sull’amore: il sentimento <strong>di</strong>venta materia <strong>di</strong> riflessione filosofica. Lo era già<br />

stato in parte con Guido delle Colonne e con Guinizzelli, ma nessuno dei due poeti si era spinto a<br />

questo livello <strong>di</strong> complessità e <strong>di</strong> impegno: non stupisce che Donna me prega sia stata, sin dal<br />

Trecento, stu<strong>di</strong>ata e commentata (privilegio che in genere i testi volgari non hanno, e men che meno<br />

quelli lirici) da generazioni <strong>di</strong> lettori.<br />

[La b<strong>alla</strong>ta Perch’i’ no spero] La b<strong>alla</strong>ta Perch’i’ no spero <strong>di</strong> tornar giammai è, insieme a<br />

Donna me prega, il testo più celebre <strong>di</strong> Cavalcanti, soprattutto in ragione della sua originalità<br />

tematica. Si tratta infatti non <strong>di</strong> una normale lirica amorosa ma <strong>di</strong> una sorta <strong>di</strong> testamento. Lontano<br />

da Firenze, il poeta si rivolge <strong>alla</strong> b<strong>alla</strong>ta stessa e la prega <strong>di</strong> recarsi d<strong>alla</strong> donna amata facendosi<br />

messaggera delle sue ultime parole: egli è infatti convinto che la sua <strong>morte</strong> sia prossima.<br />

Perch’i’ no spero <strong>di</strong> tornar giammai,<br />

b<strong>alla</strong>tetta, in Toscana,<br />

va tu, leggera e piana,<br />

dritt’a la donna mia,<br />

che per sua cortesia<br />

ti farà molto onore.<br />

È possibile – come ritenevano i critici ottocenteschi, da Foscolo a De Sanctis – che questa poesia sia<br />

davvero una sorta <strong>di</strong> congedo dall’esilio da parte del poeta morente; ma è anche possibile che si<br />

tratti soltanto <strong>di</strong> una finzione retorica: cioè <strong>di</strong> una situazione puramente letteraria priva <strong>di</strong> un<br />

concreto fondamento biografico. Quale che sia l’interpretazione corretta, il testo si <strong>di</strong>stingue per una<br />

originalità e una verità sentimentale che raramente si trovano nei testi pre-petrarcheschi, e che<br />

sembrano invece – e ciò spiega il favore <strong>di</strong> cui il testo gode presso i lettori o<strong>di</strong>erni - il prodotto <strong>di</strong><br />

una sensibilità moderna.<br />

[Cino da Pistoia. La vita] Con Dante e Cavalcanti, il terzo grande poeta stilnovista è il<br />

pistoiese Cino. Egli riassume in sé quelli che sono i caratteri <strong>di</strong>stintivi della ‘scuola’: uno stile dolce<br />

e piano, una misura ‘classica’ nei metri e nella lingua, l’amore come tema quasi esclusivo. Nato<br />

negli anni Settanta del Duecento, morto nel 1337, Cino fu, oltre che poeta, uno dei massimi giuristi<br />

del suo tempo: insegnò a Siena, Perugia, Napoli, e scrisse opere importanti in materia <strong>di</strong> teoria del<br />

<strong>di</strong>ritto (si ricor<strong>di</strong> almeno la sua Lectura in Co<strong>di</strong>cem). Guelfo, esule forse a Firenze nei primi anni<br />

del Trecento, egli fu, come Dante, fautore dell’imperatore Arrigo VII, e partecipò attivamente <strong>alla</strong><br />

vita civile e politica della sua città esercitando l’avvocatura e assumendo incarichi <strong>di</strong> consigliere del<br />

comune e <strong>di</strong> ambasciatore.<br />

[L’amore per Selvaggia] Tra gli stilnovisti, Cino è l’autore più prolifico. Buona parte dei<br />

suoi circa centocinquanta testi sono de<strong>di</strong>cati a una donna <strong>di</strong> nome Selvaggia. Con gli stilnovisti,<br />

infatti, i poeti tornano a dare un nome alle donne cantate nei loro versi: in ideale continuità con<br />

quella che era stata la norma nella lirica classica (Catullo, Properzio, Ovi<strong>di</strong>o). Tale nome può<br />

caricarsi <strong>di</strong> significati simbolici grazie a più o meno sottili interpretazioni (così, chiaramente, la<br />

Beatrice beatifica della Vita nova), ma rappresenta comunque qualcosa <strong>di</strong> più reale e vero<br />

dell’epiteto generico <strong>di</strong> donna.<br />

[La poetica] Poeta leu nelle sue rime d’amore, Cino è più sperimentale nei sonetti <strong>di</strong><br />

corrispondenza, ‘genere’ che egli pratica con grande assiduità soprattutto negli anni trascorsi presso<br />

lo Stu<strong>di</strong>um <strong>di</strong> Bologna. Qui la dolcezza del poeta d’amore lascia spazio a un registro ‘me<strong>di</strong>o’ che <strong>di</strong><br />

volta in volta è al servizio della satira, dell’invettiva, della burla. I suoi corrispondenti bolognesi<br />

sono gli ere<strong>di</strong> del primo e maggiore poeta emiliano, Guinizzelli. Certo nessuno <strong>di</strong> loro è all’altezza<br />

29


<strong>di</strong> Cino: ma è aperta con lui e con loro quella comunicazione tra la Toscana e le regioni del centro e<br />

del nord-est d’Italia che presto verrà tenuta viva e potenziata dall’esule Dante Alighieri.<br />

[La poesia comico-realistica. La tra<strong>di</strong>zione della poesia burlesca] Nella tra<strong>di</strong>zione<br />

me<strong>di</strong>olatina e franco-provenzale, accanto <strong>alla</strong> poesia ‘seria’, d’argomento erotico o moralereligioso,<br />

ebbe un ruolo <strong>di</strong> grande rilievo la poesia burlesca, composta dai giullari e recitata spesso<br />

<strong>di</strong> fronte al pubblico delle città (laddove i poeti d’amore si rivolgevano solitamente a quello più<br />

colto delle corti). I suoi temi sono ricavati da una vita quoti<strong>di</strong>ana tutt’altro che rosea, intristita<br />

com’è d<strong>alla</strong> povertà, d<strong>alla</strong> malattia, d<strong>alla</strong> senescenza, d<strong>alla</strong> fame. Ma non mancano, a parziale<br />

risarcimento, piccole gioie anch’esse materiali e anch’esse adoperate come tema per la poesia: il<br />

vino, il sesso, il gioco. Testi <strong>di</strong> questo genere si trovano soprattutto nella raccolta dei Carmina<br />

Burana, un’ampia antologia <strong>di</strong> testi poetici latini scritti da vari autori tra il XII e il XIII secolo e<br />

riuniti in un manoscritto proveniente dall’Abbazia <strong>di</strong> Bene<strong>di</strong>ktbeuren (<strong>di</strong> qui il nome della raccolta),<br />

e oggi conservato a Monaco <strong>di</strong> Baviera; ma è assai probabile che ciò che oggi ci rimane sia solo una<br />

piccola percentuale <strong>di</strong> una produzione originariamente molto più vasta sfuggita però – certo per la<br />

trivialità dei soggetti trattati – <strong>alla</strong> registrazione nei co<strong>di</strong>ci. Né questo tipo <strong>di</strong> poesia comicorealistica<br />

restò appannaggio dei soli giullari o dei goliar<strong>di</strong>, dal momento che ad essa si rivolsero<br />

anche poeti sicuramente colti e nobili come il più antico dei trovatori, Guglielmo IX (cfr. § 2). Di<br />

fatto, il registro comico-realistico <strong>di</strong>ventò col tempo una ‘maniera’ nella quale tutti i poeti –<br />

in<strong>di</strong>pendentemente d<strong>alla</strong> loro estrazione sociale e dal loro credo artistico – poterono esercitarsi: tra<br />

essi anche gli stilnovisti Guinizzelli e Cavalcanti.<br />

[Rustico Filippi e Cecco Angiolieri. I temi] In quest’epoca (seconda metà del Duecento),<br />

tuttavia, i maggiori esponenti del ‘genere’ comico-realistico sono il fiorentino Rustico Filippi e il<br />

senese Cecco Angiolieri. Di entrambi rimangono soltanto sonetti (circa venti per il primo, un<br />

centinaio per il secondo), e la cosa probabilmente non è casuale: il registro ‘basso’, il linguaggio<br />

colloquiale adoperato da questi poeti si serve della più facile e imme<strong>di</strong>ata delle forme metriche.<br />

Quanto ai temi, in Rustico e in Cecco l’amore è visto nei suoi aspetti più fisici e materiali: l’etica<br />

della ‘cortesia’ cui s’ispirano i lirici contemporanei come Cino o Dante viene smitizzata: la donna è<br />

una figura in carne e ossa, non un’immagine <strong>di</strong>vina, e ciò che il poeta desidera da lei non è altro che<br />

il suo corpo.<br />

[La questione del realismo] Questa visione <strong>di</strong>sincantata del reale porta nella poesia anche<br />

motivi che erano rimasti sino ad allora estranei <strong>alla</strong> lirica <strong>italiana</strong>, ed erano invece vivi, come si è<br />

detto, nella poesia goliar<strong>di</strong>ca latina dei secoli precedenti: veniamo a sapere della povertà del poeta e<br />

dei suoi cattivi rapporti coi genitori (Cecco), o dei suoi dolori <strong>di</strong> padre (Rustico); visitiamo ambienti<br />

preclusi <strong>alla</strong> lirica d’arte, come il bordello o la taverna in cui il poeta perde il suo tempo tra il vino e<br />

i da<strong>di</strong>; ed entriamo in contatto con figure minori della realtà citta<strong>di</strong>na anch’esse ignorate d<strong>alla</strong> ferrea<br />

<strong>di</strong>alettica amante-amata dei lirici ‘cortesi’. L’intenzione realistica va dunque in due <strong>di</strong>rezioni: in<br />

primo luogo, il poeta parla <strong>di</strong> sé, delle sue passioni e delle sue <strong>di</strong>sgrazie con sincerità; in secondo<br />

luogo, il poeta ritrae senza abbellimenti, ma anzi al contrario col gusto della caricatura, i personaggi<br />

che popolano i rioni <strong>di</strong> Siena e Firenze: mercanti, donne <strong>di</strong> malaffare, soldataglia. L’esperienza dei<br />

poeti comico-realistici implica così la più ra<strong>di</strong>cale rottura nei confronti della tra<strong>di</strong>zione lirica<br />

siculo-toscana e l’ingresso della realtà comunale nel mondo dell’arte.<br />

[Lo sberleffo e l’invettiva] E poiché si trattava <strong>di</strong> una realtà a fortemente conflittuale, sia per<br />

ragioni economiche, sia per ragioni <strong>di</strong> fede politica, sia per le frizioni che sempre hanno luogo tra<br />

concitta<strong>di</strong>ni, non stupisce che tra le forme pre<strong>di</strong>lette <strong>di</strong> Rustico, Cecco e gli altri minori comicorealistici<br />

ci siano quelle dello sberleffo e dell’invettiva. Dei conflitti che la gran parte dei lirici<br />

contemporanei tiene fuori dal cerchio della poesia, autolimitandosi a un ‘canto d’amore’ sempre più<br />

stilizzato, i giocosi fanno materia <strong>di</strong> sonetto. Citiamo, a titolo d’esempio, pochi versi <strong>di</strong> Rustico che<br />

miscelano tutti gli ingre<strong>di</strong>enti fondamentali del burlesco - lessico basso, corposità delle immagini<br />

(tutte legate <strong>alla</strong> sfera pratico-professionale), allusione a cose o persone note a una ristretta – e solo<br />

fiorentina - cerchia <strong>di</strong> persone:<br />

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Ne la stia mi par esser col leone<br />

quando a Lutier son presso ad un migliaio,<br />

ch’e’ pute più che ’nfermo uom <strong>di</strong> pregione<br />

o che nessun carname o che carnaio.<br />

Li suo’ cavegli farian fin buglione<br />

e la cuffia faria ricco un oliaio<br />

(‘Mi sembra d’essere in gabbia con un leone, quando arrivo ad un miglio <strong>di</strong> <strong>di</strong>stanza da Lotario, perché puzza più <strong>di</strong> un<br />

carcerato ammalato o <strong>di</strong> un mucchio <strong>di</strong> carne putrefatta, o <strong>di</strong> una fossa comune; coi suoi capelli si farebbe un bel brodo,<br />

e il cappello (una volta strizzato) farebbe ricco un mercante d’olio’).<br />

[La letteratura religiosa. La prevalenza del latino nella prosa religiosa] La prosa<br />

d’argomento religioso, che darà frutti splen<strong>di</strong><strong>di</strong> nel Trecento con le pre<strong>di</strong>che del Passavanti, gli<br />

scritti del Cavalca e, soprattutto, con l’epistolario <strong>di</strong> Santa Caterina, tutte opere in volgare, si<br />

esprime nel Duecento quasi esclusivamente in latino. Benché la pre<strong>di</strong>cazione avesse certamente<br />

luogo anche, e forse prevalentemente, in volgare, tutto ciò che rimane <strong>di</strong> essa sono i 22 Sermoni<br />

subalpini, composti all’inizio del Duecento e localizzabili in area piemontese: non a caso in<br />

prossimità della Francia, dove la registrazione per iscritto delle pre<strong>di</strong>che volgari era da più <strong>di</strong> un<br />

secolo pratica comune. Anche la letteratura francescana - i Fioretti, le biografie del Santo - furono<br />

concepite in latino e solo in un secondo tempo, nel Trecento, volgarizzate. La poesia <strong>di</strong> contenuto<br />

religioso, al contrario, fiorì prestissimo nel Duecento in numerose regioni italiane, anche in quelle<br />

nelle quali mancava del tutto una tra<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> lirica d’arte, e fu coltivata da alcuni dei massimi<br />

poeti del secolo, come Guittone e Iacopone da To<strong>di</strong>.<br />

[Francesco d’Assisi. La vita] Tra i testi primo-duecenteschi <strong>di</strong> carattere sacro prodotti<br />

nell’Italia centrale, il cosiddetto Cantico <strong>di</strong> frate Sole è certo il più importante per qualità letteraria e<br />

per significato storico; il suo autore, Francesco d’Assisi, rappresenta inoltre, com’è noto, una delle<br />

figure car<strong>di</strong>nali per la spiritualità cristiana me<strong>di</strong>evale. Nato in una famiglia della me<strong>di</strong>o-alta<br />

borghesia commerciale, dopo una giovinezza trascorsa tra gli agi e le avventure militari, Francesco<br />

adotta nel 1205 una rigida <strong>di</strong>sciplina cristiana: abbandona la famiglia, rinuncia all’ere<strong>di</strong>tà paterna e<br />

con un piccolo gruppo <strong>di</strong> seguaci comincia a pre<strong>di</strong>care il Vangelo in assoluta povertà. Dopo un<br />

lungo soggiorno in Egitto e in Terrasanta, speso nel tentativo <strong>di</strong> convertire gli infedeli, Francesco<br />

rientra in Italia nel 1220; qui l’Or<strong>di</strong>ne - approvato prima solo verbalmente da papa Innocenzo III,<br />

poi ufficialmente da papa Onorio III - conta ormai adepti a migliaia; a loro uso, Francesco elabora<br />

una Regula prima in 23 capitoli quin<strong>di</strong>, nel 1223, un compen<strong>di</strong>o <strong>di</strong> quella, la Regula secunda, che<br />

cerca <strong>di</strong> me<strong>di</strong>are tra le esigenze <strong>di</strong> ortodossia imposta d<strong>alla</strong> Chiesa <strong>di</strong> Roma e la vocazione<br />

francescana <strong>alla</strong> povertà. Muore nell’eremo della Porziuncola, presso Assisi, nel 1226.<br />

[Il Cantico <strong>di</strong> frate Sole] Francesco fu autore <strong>di</strong> varie opere e<strong>di</strong>ficanti, quasi tutte in latino.<br />

Negli ultimi anni della sua vita, secondo la tra<strong>di</strong>zione, compose il Cantico <strong>di</strong> frate Sole (o Laudes<br />

creaturarum). Il breve testo (una trentina <strong>di</strong> ‘versi’) non segue un preciso schema metrico: quelli<br />

che si definiscono in genere versi <strong>di</strong> ineguale lunghezza assonanzati, e che si avvicinano a quelli<br />

delle sequenze paraliturgiche me<strong>di</strong>olatine, possono altrettanto bene essere interpretati come prosa<br />

ritmica, certo destinata a essere musicata e salmo<strong>di</strong>ata. In una forma molto imme<strong>di</strong>ata, senza<br />

complicazioni <strong>di</strong> stile, il Cantico ripete per otto volte la lode a Dio in ragione <strong>di</strong> altrettante sue<br />

creature giu<strong>di</strong>cate intimamente buone: il sole, la luna e le stelle, il vento, l’acqua, il fuoco, la terra,<br />

gli uomini virtuosi, la stessa «<strong>morte</strong> corporale», tenuta <strong>di</strong>stinta da quella «<strong>morte</strong> secunda», <strong>morte</strong><br />

dell’anima, che non ha potere su chi rispetta le «sanctissime voluntati» <strong>di</strong> Dio. Del testo, letto <strong>di</strong><br />

solito come documento <strong>di</strong> una religiosità spontanea, tanto più accattivante quanto più sciolta da<br />

preoccupazioni dottrinali, la critica recente ha messo in luce i possibili sottintesi anti-ereticali.<br />

L’elogio della creazione fatto da Francesco reagiva forse – si sostiene - al dualismo professato,<br />

nell’Italia <strong>di</strong> primo Duecento, da sette come quella dei catari: i quali, contro il dogma cristiano,<br />

separavano nettamente la sfera spirituale, emanazione <strong>di</strong>retta <strong>di</strong> Dio, da quella mondana e corporea,<br />

ritenuta creazione <strong>di</strong> Satana.<br />

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[La lauda] Si definiscono lau<strong>di</strong> gli inni de<strong>di</strong>cati soprattutto a Maria e ai santi che alcune<br />

confraternite laiche adoperavano nelle loro preghiere, in margine ai canti liturgici, già a partire d<strong>alla</strong><br />

prima metà del Duecento. Questo tipo <strong>di</strong> devozione popolare si sviluppa soprattutto a Siena,<br />

Bologna e, in generale, in tutta l’Italia centrale. Del 1233 è il movimento degli Alleluianti (che<br />

prende il nome dal canto della messa che veniva intonato dai pellegrini), e a quell’occasione<br />

rimontano, probabilmente, i primi esempi <strong>di</strong> questi canti paraliturgici. Del 1260 è la formazione<br />

della compagnia dei Disciplinati <strong>di</strong> Perugia sotto la guida <strong>di</strong> Raniero Fasani. Da allora in poi, col<br />

fiorire delle confraternite laiche in tutta l’Italia centro-settentrionale, la lauda <strong>di</strong>ventò il più comune<br />

dei mezzi <strong>di</strong> devozione, e ancor oggi biblioteche e archivi vescovili conservano circa duecento<br />

raccolte <strong>di</strong> questi componimenti, i laudari. Si tratta <strong>di</strong> testi in gran<strong>di</strong>ssima parte anonimi, i più scritti<br />

in forma <strong>di</strong> b<strong>alla</strong>ta. Agli schemi delle origini, metricamente e retoricamente piuttosto semplici, ne<br />

succedono presto altri più complessi: segno che, <strong>alla</strong> lunga, le leggi formali della lirica d’arte - una<br />

certa eleganza <strong>di</strong> stile, una maggior cura nella composizione - hanno fatto breccia in questo settore<br />

inizialmente davvero popolare e ingenuo della poesia antica.<br />

[Iacopone da To<strong>di</strong>. La vita] Tra i pochi nomi <strong>di</strong> autori <strong>di</strong> laude conservatici d<strong>alla</strong> tra<strong>di</strong>zione,<br />

quello <strong>di</strong> Iacopone da To<strong>di</strong> (nato tra il 1230 e il 1236) è <strong>di</strong> gran lunga il più importante: importante<br />

al punto che egli può definirsi, se non l’inventore, il co<strong>di</strong>ficatore del ‘genere’ e il modello per tutti<br />

coloro che dopo <strong>di</strong> lui lo praticarono. Vissuto sino agli anni della maturità come laico, e (forse)<br />

precisamente come procuratore legale, Iacopone si converte attorno al 1269, <strong>di</strong>ventando prima<br />

terziario poi frate minore, e aderendo all’ala ‘ra<strong>di</strong>cale’ del francescanesimo, gli Spirituali, i quali<br />

professavano un’assoluta povertà e un’osservanza scrupolosa della Regola del Santo. La lotta<br />

condotta da Bonifacio VIII contro gli Spirituali e i loro alleati, la potente famiglia dei Colonna,<br />

coinvolge anche Iacopone, che viene messo in carcere. Ne esce nel 1304, per intervento del nuovo<br />

papa Benedetto XI; ritiratosi nel convento delle Clarisse <strong>di</strong> San Lorenzo, nelle vicinanze <strong>di</strong> To<strong>di</strong>,<br />

qui muore nel 1307.<br />

[Temi e carattere delle laude iacoponiche] Se li paragoniamo alle lau<strong>di</strong> che si trovano, per lo<br />

più anonime, nei manoscritti duecenteschi, i testi iacoponici presentano una gamma <strong>di</strong> registri e <strong>di</strong><br />

temi molto più varia. C’è sì in lui, come nei suoi predecessori, una componente mistico-ascetica che<br />

in cui si esprimono i motivi più caratteristici della spiritualità cristiana: l’esortazione <strong>alla</strong> virtù e al<br />

pentimento, il timore <strong>di</strong> Dio e della <strong>morte</strong> nel peccato, lo svilimento del corpo, l’abominio delle<br />

ricchezze. Ma insieme, il canzoniere <strong>di</strong> Iacopone dà spazio a temi <strong>di</strong> natura privata: invettive (per<br />

esempio quella contro il nemico per eccellenza, il papa Bonifacio VIII contro il quale si scaglierà<br />

anche Dante nella Comme<strong>di</strong>a), epistole in versi a destinatari storici (come papa Celestino V o i<br />

confratelli dell’Or<strong>di</strong>ne, ai quali molte <strong>di</strong> queste lau<strong>di</strong> sono <strong>di</strong> fatto in<strong>di</strong>rizzate), testi autobiografici e<br />

‘lirici’ come quello notissimo scritto in prigionia, Que farai, fra Iacovone? (vv. 15-19):<br />

la presone che m’è data,<br />

una casa sotterrata<br />

arèscece una privata,<br />

non fa fragar de moscune.<br />

[Sono stato rinchiuso in un sotterraneo - i sotterranei del convento <strong>di</strong> San Fortunato a To<strong>di</strong> - nel quale sbocca una<br />

latrina: l’odore non è quello del muschio].<br />

È un modello <strong>di</strong> ‘poesia dell’io’ ben <strong>di</strong>verso da quello che ispira la contemporanea lirica toscana. Il<br />

tono brusco e <strong>di</strong>retto, la violenza delle immagini, la quoti<strong>di</strong>anità del lessico e della sintassi, in una<br />

parola il realismo <strong>di</strong> Iacopone si avvicinano piuttosto all’altra ‘scuola poetica’, questa interamente<br />

laica, che andava formandosi in quegli anni tra Firenze e Siena: il filone burlesco <strong>di</strong> Rustico Filippi<br />

o <strong>di</strong> Cecco Angiolieri che abbiamo visto rappresentare una sorta <strong>di</strong> contraltare borghese e realistico<br />

al mondo della ‘cortesia’ tenuto vivo dagli stilnovisti.<br />

32


[Linee evolutive della poesia nel Trecento. I due filoni principali: lirica e narrativa in versi]<br />

La poesia trecentesca può essere <strong>di</strong>stinta in due filoni principali:quello lirico e quello allegoriconarrativo.<br />

Il primo riprende e sviluppa il modello proposto dai gran<strong>di</strong> poeti toscani dell’ultimo<br />

quarto del Duecento: Cino, Cavalcanti, Dante. Il secondo segue la strada aperta d<strong>alla</strong> Comme<strong>di</strong>a: la<br />

rappresentazione oggettiva, in versi, <strong>di</strong> contenuti morali, filosofici, dottrinali.<br />

[La lirica: d<strong>alla</strong> Toscana al Veneto] La tra<strong>di</strong>zione lirica si spegne quasi del tutto, in Toscana,<br />

dopo la generazione stilnovista: anticipando quella che sarà una delle tendenze dominanti del<br />

secolo, i ‘minori’ vissuti all’ombra <strong>di</strong> Petrarca e Boccaccio si orientano, piuttosto che verso la<br />

poesia d’amore, verso un tipo <strong>di</strong> lirica <strong>di</strong>dattico-morale <strong>di</strong> scarso impegno formale e ideologico.<br />

Solo nella seconda metà del secolo, dopo Petrarca, poeti fiorentini come Alberto degli Albizi e Cino<br />

Rinuccini vorranno tornare all’ortodossia ‘cortese’: e comporranno esclusivamente liriche d’amore<br />

attingendo insieme al repertorio dello stilnuovo e <strong>alla</strong> nuova maniera petrarchesca. Il terreno per la<br />

poesia è più fertile in Veneto. Qui, in seguito alle faide tra guelfi e ghibellini, si trasferiscono molti<br />

intellettuali toscani: e vi soggiornano prima Dante (anni Dieci) poi Petrarca (anni Cinquanta e<br />

Sessanta), ciascuno raccogliendo attorno a sé un gruppo <strong>di</strong> ammiratori e imitatori. Il trevigiano<br />

Nicolò de’ Rossi (1290-post 1348) è il primo a riprendere in maniera consapevole la lezione<br />

stilnovista de<strong>di</strong>cando a una donna chiamata col senhal <strong>di</strong> Floruzza alcune centinaia <strong>di</strong> sonetti e<br />

quattro canzoni, una delle quali scritta a imitazione della canzone filosofica cavalcantiana Donna<br />

me prega.<br />

[Il nuovo ruolo sociale del poeta] Nel corso del secolo, la crisi delle istituzioni comunali e<br />

l’affermazione delle corti signorili ha riflessi importanti anche sull’attività artistica. Gli intellettuali<br />

che un tempo occupavano i posti più importanti nelle magistrature citta<strong>di</strong>ne (si pensi a Brunetto<br />

Latini, o allo stesso Dante) ora vengono arruolati nelle corti per svolgere il ruolo <strong>di</strong> epistolografi o<br />

cancellieri, o <strong>di</strong> poeti al servizio del signore: Dante e Petrarca svolgeranno talvolta questa mansione<br />

(per esempio rispondendo a sonetti inviati ai prìncipi da altri poeti: Dante per i Malaspina, Petrarca<br />

per i Colonna), ma molti autori ‘minori’ loro contemporanei ne fecero una vera e propria<br />

professione, e passarono la loro vita viaggiando tra le corti del nord Italia: è il caso del toscano<br />

Fazio degli Uberti (nato nel 1367); del ferrarese Antonio Beccari (1315-1371); del padovano<br />

Francesco <strong>di</strong> Vannozzo (ante 1340-post 1389) – tutti ospiti, in tempi <strong>di</strong>versi, della corte milanese<br />

dei Visconti e <strong>di</strong> quella veronese degli Scaligeri.<br />

[La poesia allegorico-narrativa: Cecco d’Ascoli] Quanto ai poemi allegorico-narrativi, il<br />

Trecento produce, com’è noto, due capolavori, la Comme<strong>di</strong>a e i Trionfi, e un’opera altrettanto<br />

fortunata anche se <strong>di</strong> minor valore letterario, l’Amorosa visione <strong>di</strong> Boccaccio. Ma, accanto a queste<br />

vette, è da segnalare l’esistenza <strong>di</strong> una larghissima famiglia <strong>di</strong> imitatori più o meno pedestri: al<br />

linguaggio versificato – <strong>di</strong> solito nella forma della terzina incatenata o dell’ottava – vengono affidati<br />

temi e compiti che a noi lettori post-romantici sembra possano essere espressi e sod<strong>di</strong>sfatti soltanto<br />

d<strong>alla</strong> prosa. In questa vastissima produzione merita un cenno almeno l’Acerba <strong>di</strong> Cecco d’Ascoli<br />

(1269-1327), un poema incompiuto in cinque libri che passa in rassegna una buona fetta dello<br />

scibile umano spiegando le proprietà dei pianeti, la natura delle virtù e dei vizi, le proprietà degli<br />

animali e delle pietre, ecc.<br />

[Fazio degli Uberti] Mentre Cecco – caso più unico che raro nel Trecento – polemizza con<br />

Dante, opponendo il proprio enciclope<strong>di</strong>smo, il proprio interesse filosofico e scientifico alle ‘favole’<br />

narrate nella Comme<strong>di</strong>a, il Dittamondo <strong>di</strong> Fazio degli Uberti è una chiara ed esplicita imitazione del<br />

poema dantesco sia nel metro, sia nei motivi, sia nelle strategie narrative. Originale è però il tema<br />

centrale dell’opera: un viaggio immaginario attraverso tutto il mondo con la guida dell’antico<br />

geografo Solino. Il resoconto del viaggio – il poema stesso – finisce così per essere un manuale<br />

storico-geografico ricco <strong>di</strong> notizie su luoghi esotici ma ancora più ricco <strong>di</strong> leggende e mirabilia che<br />

fanno del Dittamondo una sorta <strong>di</strong> repertorio della letteratura fantastica.<br />

3.3. La prosa<br />

33


[Primi esempi <strong>di</strong> prosa ‘tecnica’] A paragone <strong>di</strong> questa eccezionale fioritura poetica, gli<br />

esor<strong>di</strong> della prosa letteraria <strong>italiana</strong> ci appaiono tar<strong>di</strong> ed incerti. Prosa letteraria, bisogna specificare,<br />

perché sin dal XII secolo è attestato l’uso del volgare per brevi scritti <strong>di</strong> carattere pratico, senza<br />

alcuna intenzione artistica e in genere, per <strong>di</strong>r così, <strong>di</strong> imme<strong>di</strong>ato consumo. Si tratta <strong>di</strong> testi per la<br />

gran parte toscani: già tra il XII e il XIII secolo questa regione è infatti quella in cui è più fiorente la<br />

vita economica e commerciale, e in cui è dunque più intensa la comunicazione e più viva l’esigenza<br />

<strong>di</strong> registrare per iscritto conti o documenti <strong>di</strong> varia natura. La tipologia dei testi per lo più rimanda,<br />

in effetti, al ceto mercantile che <strong>di</strong> lì a poco avrebbe fatto trionfare la potenza finanziaria <strong>di</strong> Firenze<br />

(ma anche <strong>di</strong> Lucca e <strong>di</strong> Pisa e <strong>di</strong> altri comuni toscani) sui mercati europei. Libri <strong>di</strong> conti (i<br />

cosiddetti libri del dare e dell’avere), portolani (cioè brevi manuali scritti a beneficio dei naviganti),<br />

testamenti, lettere <strong>di</strong> mercanti, ecc.: sino quasi <strong>alla</strong> metà del Duecento l’uso del volgare mira<br />

soltanto a questo, a una comunicazione più rapida e chiara tra soggetti che scrivono per<br />

comprendersi, senza intenzione artistica o culturale, o <strong>alla</strong> registrazione <strong>di</strong> dati (denaro, mercanzie)<br />

ad uso strettamente personale.<br />

[L’epistolografia e l’ars <strong>di</strong>ctan<strong>di</strong>] Nel corso del XIII secolo le cose cambiano, prima <strong>di</strong> tutto<br />

nelle scuole e nelle università. L’arte notaria e l’arte <strong>di</strong> scrivere lettere, <strong>di</strong>scipline <strong>di</strong> lunghissima<br />

tra<strong>di</strong>zione e veri capisal<strong>di</strong> dell’insegnamento scolastico, interessano un numero sempre crescente <strong>di</strong><br />

in<strong>di</strong>vidui, alcuni del tutto ignari <strong>di</strong> latino: si spiega così, con questo graduale ampliamento del<br />

pubblico, il proposito <strong>di</strong> Guido Faba, docente allo Stu<strong>di</strong>um <strong>di</strong> Bologna, <strong>di</strong> fornire al suo lettoreallievo,<br />

oltre che modelli <strong>di</strong> epistole in latino, modelli in volgare <strong>di</strong> materia - è bene sottolinearlo -<br />

sia privata sia pubblica. Anche il volgarizzamento dei trattati latini <strong>di</strong> retorica - opera <strong>di</strong> Bono<br />

Giamboni, <strong>di</strong> Guidotto da Bologna e soprattutto <strong>di</strong> Brunetto Latini - rispecchiano presumibilmente<br />

una situazione analoga: la retorica, le arti del <strong>di</strong>scorso, escono <strong>dalle</strong> aule universitarie e <strong>di</strong>ventano<br />

strumenti d’uso comune nella vita citta<strong>di</strong>na d’ogni giorno: non è un caso che nel suo commento al<br />

De inventione <strong>di</strong> Cicerone Brunetto Latini si de<strong>di</strong>chi costantemente ad ‘attualizzare’ il trattato<br />

ciceroniano facendo osservare al lettore, in volgare fiorentino, le possibili applicazioni che quelle<br />

regole hanno nell’amministrazione del comune.<br />

[La persistenza del latino] Si tratta, in ogni caso, delle prime deboli avvisaglie del futuro<br />

trionfo del volgare, non certo <strong>di</strong> una rivoluzione linguistica. Nelle scritture d’argomento sacro, nella<br />

storiografia e nella memorialistica, nelle pratiche <strong>di</strong> cancelleria, il prestigio del latino rappresentò a<br />

lungo una remora insuperabile per il costituirsi <strong>di</strong> una tra<strong>di</strong>zione prosastica in volgare. Esso restava<br />

la lingua della comunicazione colta, quella che era necessario adoperare per farsi capire al <strong>di</strong> fuori<br />

dei confini nazionali e regionali, quella inoltre che poteva contare su una grammatica già formata,<br />

cioè su una lunga tra<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> scrittura: in ambienti ‘ufficiali’ come la Chiesa o le cancellerie <strong>di</strong><br />

corte il latino resterà per molti secoli ancora l’unica lingua possibile. Ma nella prosa morale e in<br />

quella scientifica il volgare toscano, pur minoritario, trovò nel Duecento una più larga applicazione,<br />

e qui ci occuperemo più in dettaglio dei tre maggiori prosatori toscani del secolo: Bono Giamboni,<br />

Brunetto e Ristoro d’Arezzo.<br />

[La prosa narrativa] Meno ampia e meno variegata è la prosa narrativa. Molti dei testi<br />

volgari che si possono far rientrare in questa categoria sono testi ‘<strong>di</strong> frontiera’, che stanno cioè a<br />

metà strada tra il racconto quale oggi noi lo inten<strong>di</strong>amo e il sermone morale, con qualche<br />

propensione per quest’ultimo: storie esemplari, insomma, in cui il narrare non è fine a se stesso ma<br />

sottintende una lezione morale. Una separazione più netta tra le due sfere, quella - per <strong>di</strong>r così -<br />

etica e quella estetica, si avrà nel Novellino: una raccolta <strong>di</strong> cento novelle messa insieme <strong>alla</strong> fine<br />

del XIII secolo, che in pratica inaugura la narrativa <strong>italiana</strong> moderna.<br />

[Gli autori. Bono Giamboni. La vita] Bono Giamboni, attestato tra il 1261 e il 1291, fu<br />

giu<strong>di</strong>ce e podestà <strong>di</strong> Firenze e viene considerato, con Brunetto Latini, il massimo prosatore toscano<br />

della sua generazione. Come molti intellettuali del suo tempo, oltre a comporre opere originali,<br />

volgarizzò testi classici (la Rhetorica ad Herennium, falsamente attribuita a Cicerone) e della<br />

latinità tarda (le Storie contro i pagani da Orosio, L’arte della guerra da Vegezio). Un’ampia<br />

34


conoscenza del Me<strong>di</strong>oevo latino (Prudenzio e Clau<strong>di</strong>ano, ma soprattutto il De consolatione<br />

philosophiae <strong>di</strong> Boezio) sta del resto a fondamento della sua opera maggiore, il Libro de’ vizî e<br />

delle virtu<strong>di</strong>.<br />

[Il Libro de’ vizi e delle virtu<strong>di</strong>] Nei 76 capitoli del Libro s’intrecciano due storie esemplari.<br />

La prima corrisponde al viaggio - viaggio-visione simile a quello <strong>di</strong> Dante nella Comme<strong>di</strong>a - che il<br />

protagonista e autore del Libro compie per la propria salvezza spirituale. Caduto in uno stato <strong>di</strong><br />

sconforto e <strong>di</strong> prostrazione, Bono incontra la Filosofia, che lo consola per la per<strong>di</strong>ta dei beni<br />

materiali e lo esorta a intraprendere in sua compagnia il cammino verso la virtù. Una serie <strong>di</strong><br />

incontri e <strong>di</strong> colloqui - il primo con la Fede che lo interroga circa il Credo, i sacramenti, i peccati<br />

capitali, ecc., gli altri con le varie «Virtu<strong>di</strong>» che lo esaminano a loro volta - porta Bono ad essere<br />

ammesso, nell’ultimo paragrafo, tra i fedeli delle Virtù: «E dacché m’ebbero benedetto e segnato e<br />

ricevuto per fedele, scrissero BONO GIAMBONI nella matricola loro, secondo che la Filosofia <strong>di</strong>sse<br />

ch’io era chiamato». Circa <strong>alla</strong> metà del suo viaggio il protagonista assiste ad un grande spettacolo<br />

esemplare. Radunata in un’immensa pianura, «tutta la gente del mondo» combatte <strong>di</strong>visa in due<br />

fazioni contrapposte, chi per le Virtù chi per i Vizi (capitanati da Superbia). Presto la visione, da<br />

allegorica che era, <strong>di</strong>venta storica, e la cornice della battaglia fornisce al narratore il pretesto per un<br />

lungo excursus sulla storia del mondo e della cristianità, d<strong>alla</strong> creazione al peccato originale e d<strong>alla</strong><br />

fondazione della Chiesa <strong>alla</strong> lotta contro le eresie. La lotta (e la visione) si chiude con la vittoria<br />

delle Virtù e della vera religione; ma è una vittoria parziale, dal momento che rimane aperto il<br />

conflitto tra il cattolicesimo e l’ultima e più insi<strong>di</strong>osa delle eresie ‘partorite da Satana’, l’Islam.<br />

[Le lettere <strong>di</strong> Guittone d’Arezzo] Rispetto all’opera del Giamboni, l’epistolario <strong>di</strong> Guittone<br />

d’Arezzo (cfr. § 3.2) offre un modello tutto <strong>di</strong>verso <strong>di</strong> ammaestramento morale. Lo stile irruento, la<br />

ricchezza <strong>di</strong> esclamazioni e <strong>di</strong> interrogative retoriche, tipiche della pre<strong>di</strong>cazione e dell’oratoria,<br />

sono lo strumento <strong>di</strong> una morale ‘militante’ perfettamente inquadrabile in quello che abbiamo visto<br />

essere il secondo tempo della carriera poetica <strong>di</strong> Guittone: l’opera del convertito. Come spesso le<br />

canzoni, le lettere si in<strong>di</strong>rizzano a singoli destinatari - confratelli, amici, uomini investiti <strong>di</strong><br />

responsabilità civili o politiche - per confermarli sulla strada del bene o per <strong>di</strong>stoglierli dal vizio.<br />

Nate dunque come forma <strong>di</strong> comunicazione privata, esse vennero presto raccolte dall’autore o dai<br />

suoi <strong>di</strong>scepoli a formare un epistolario organico per l’e<strong>di</strong>ficazione <strong>di</strong> tutti. Le 34 lettere che ci<br />

rimangono (certo una scelta da un corpus più ampio), come rispecchiano la forza polemica del<br />

Guittone poeta, così ne ripetono lo stile spesso oscuro e contorto, gonfio <strong>di</strong> latinismi, costrutti<br />

poetici e, soprattutto, <strong>di</strong> citazioni <strong>dalle</strong> ‘autorità’ (i classici latini e gli autori cristiani) tanto<br />

numerose da rendere più <strong>di</strong> una lettera una semplice collezione <strong>di</strong> sententiae a tema. E come il<br />

poeta, così il prosatore dovrà a questo gusto per gli artifici formali lo scarso successo incontrato<br />

nella tra<strong>di</strong>zione <strong>italiana</strong> già a partire dal Trecento.<br />

[Brunetto Latini. La vita] Nella storia della letteratura <strong>italiana</strong> delle origini Brunetto Latini<br />

occupa una posizione <strong>di</strong> grande rilievo. È poeta lirico, <strong>di</strong>dattico (col Tesoretto), traduttore dal latino<br />

e trattatista: insomma raduna in sé competenze <strong>di</strong>sparate che ne fanno il primo intellettuale italiano<br />

davvero polivalente, quelle stesse competenze che ritroveremo, potenziate, nel suo <strong>di</strong>scepolo e<br />

amico Dante Alighieri. E come e più <strong>di</strong> Dante, Brunetto fu coinvolto nella vita politica e civile del<br />

suo tempo. Fiorentino <strong>di</strong> nascita, è sindaco <strong>di</strong> Montevarchi nel 1260, quin<strong>di</strong> ambasciatore del<br />

comune <strong>di</strong> Firenze presso Alfonso il Saggio <strong>di</strong> Castiglia. Esule per cinque anni in Francia in seguito<br />

<strong>alla</strong> vittoria dei ghibellini, rientra nella città natale nel 1266 e qui ricopre varie cariche, da<br />

cancelliere a priore, sino <strong>alla</strong> <strong>morte</strong>, nel 1294.<br />

[Il volgarizzamento della Rhetorica ad Herennium] Benché abbia luogo negli anni<br />

dell’esilio francese, proprio al suo impegno civile dev’essere collegata l’opera del traduttore. Il<br />

volgarizzamento del De inventione (‘Sull’invenzione’) ciceroniano (la cosiddetta Rhetorica vetus<br />

[‘Vecchia retorica’], la nova essendo la cosiddetta Rhetorica ad Herennium [‘Retorica a Erennio’],<br />

falsamente attribuita a Cicerone) si accompagna infatti ad un fitto commento che reinterpreta a<br />

beneficio del ‘reggitore’, cioè <strong>di</strong> colui che porta la responsabilità politica, le norme retoriche che<br />

nell’originale latino erano prescritte all’oratore: uscita <strong>dalle</strong> aule del tribunale, la retorica viene<br />

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spesa «in ambasciarie e in consigli de’ signori e delle comunanze e in sapere componere una lettera<br />

bene <strong>di</strong>ttata». Quella che ne deriva, nonostante il <strong>di</strong>slivello stilistico tra la lunga glossa <strong>di</strong> Brunetto e<br />

il testo tradotto, che ha l’appoggio del perfetto latino ciceroniano, è un’opera compatta, tanto più<br />

interessante e vivace quanto più si allontana, nel commento, d<strong>alla</strong> traccia del modello. Da un lato,<br />

c’è un ricco apparato <strong>di</strong>dascalico che svolge e chiarifica la terminologia tecnica - dai vari genera in<br />

cui si sud<strong>di</strong>vide la retorica <strong>alla</strong> classificazione delle controversie, alle partizioni della lettera e del<br />

<strong>di</strong>scorso forense - attingendo soprattutto al commento <strong>di</strong> Boezio; dall’atro lato, c’è in Brunetto la<br />

capacità <strong>di</strong> rendere meno astratta l’arte retorica inserendola nel vivo della realtà contemporanea.<br />

Non solo quin<strong>di</strong> il libro mira esplicitamente a uno scopo pratico, cioè <strong>alla</strong> formazione intellettuale<br />

<strong>di</strong> chi andrà a ricoprire cariche pubbliche, ma gli stessi esempi introdotti nel commento a beneficio<br />

del lettore sono tratti in più <strong>di</strong> un’occasione d<strong>alla</strong> cronaca comunale: «Verbigrazia. Il comune <strong>di</strong><br />

Firenze...» (e segue un episo<strong>di</strong>o ‘locale’ che illustra il precetto retorico appena <strong>di</strong>scusso nel trattato).<br />

[La riflessione sulla poesia] Appare dunque coerente con questa estensione della retorica ad<br />

ogni aspetto della vita citta<strong>di</strong>na l’importante paragrafo sulla poesia. Su questo argomento,<br />

naturalmente, Cicerone tace, limitandosi a fissare le regole della controversia giuri<strong>di</strong>ca. Ma - scrive<br />

Brunetto - che cos’è uno scambio epistolare se non un particolare tipo <strong>di</strong> controversia (una<br />

«tencione tacita») nella quale, proprio come nel <strong>di</strong>scorso forense, ogni lettera è arricchita con<br />

«parole ornate e piene <strong>di</strong> sentenzia e <strong>di</strong> fermi argomenti»? E che cosa sono le canzoni d’amore se<br />

non tipi particolari <strong>di</strong> epistole, petizioni in verso <strong>alla</strong> dama «in modo <strong>di</strong> tencione o tacita o<br />

espressa»? Col che la lirica è riportata sotto l’ombrello della retorica: intuizione fondamentale che<br />

in<strong>di</strong>vidua con chiarezza uno dei caratteri più tipici della poesia delle origini.<br />

[Il Tresor] L’altra opera maggiore <strong>di</strong> Brunetto, il Tresor [‘Tesoro’], scritta in francese<br />

durante l’esilio, merita <strong>di</strong> entrare in un sommario <strong>di</strong> letteratura <strong>italiana</strong> anzitutto perché ebbe vasta<br />

<strong>di</strong>ffusione presso gli intellettuali toscani del tempo (non a caso è ad essa che Dante consegna il<br />

ricordo del maestro in Inf. XV: «Sieti raccomandato il mio Tesoro, | nel qual io vivo ancora»), e in<br />

secondo luogo perché il francese è, anche nell’Italia del Duecento, lingua raccomandata per la prosa<br />

soprattutto in ragione della sua <strong>di</strong>ffusione internazionale: in francese Martin da Canal scriverà la sua<br />

storia <strong>di</strong> Venezia, e il pisano Rustichello, sulla base dei racconti del veneziano Marco Polo, Il<br />

Milione. Diviso in tre lunghi libri, il Tresor è il rappresentante più insigne, in una lingua volgare, <strong>di</strong><br />

quella tra<strong>di</strong>zione enciclope<strong>di</strong>ca che sino ad allora non era uscita dai binari del latino scolastico. Il<br />

primo libro è un’ampia raccolta <strong>di</strong> nozioni in materia <strong>di</strong> teologia, storia, fisica, geografia,<br />

architettura, storia naturale, zoologia. Il secondo associa a una lunga sezione sui vizi e sulle virtù<br />

una traduzione parziale e un commento dell’Etica <strong>di</strong> Aristotele. Nel terzo libro, il Tresor raggiunge<br />

la sfera d’interessi della Retorica; paragrafi sulla retorica, appunto, e paragrafi sulla politica<br />

coronano il trattato in<strong>di</strong>rizzandosi a quel lettore cui l’opera intera può <strong>di</strong>rsi idealmente de<strong>di</strong>cata:<br />

l’uomo <strong>di</strong> stato.<br />

[Ristoro d’Arezzo, La composizione del mondo: struttura] Così come la filosofia, anche la<br />

scienza, <strong>di</strong>sciplina ‘internazionale’ che vive quasi esclusivamente nelle Università, parlerà latino<br />

sino a tempi relativamente recenti. Tra le rare opere scientifiche scritte nel Me<strong>di</strong>oevo in un volgare<br />

romanzo, La composizione del mondo <strong>di</strong> Ristoro d’Arezzo è probabilmente quella più estesa e più<br />

impegnativa. L’autore, forse un frate, certo un intellettuale che opera a stretto contatto con lo<br />

Stu<strong>di</strong>um aretino, non attinge a un unico modello ma contamina fonti <strong>di</strong>verse: Tolomeo, gli<br />

enciclope<strong>di</strong>sti me<strong>di</strong>evali, i filosofi arabi - Averroè, Avicenna - letti nelle recenti traduzioni latine e,<br />

soprattutto, Aristotele. E da Aristotele deriva la categoria concettuale che informa tutto il libro,<br />

quella della <strong>di</strong>alettica degli opposti: categoria applicata da Ristoro con tanto rigore da risultare a<br />

volte goffa e irragionevole. Poiché - così sostiene Ristoro - ogni cosa esiste in virtù dell’esistenza<br />

del suo contrario, nulla è considerabile separatamente, senza il suo opposto che lo spiega e<br />

giustifica: perciò ciascun segno zo<strong>di</strong>acale si definisce nel suo influsso in rapporto ad un segno<br />

contrario, e lo stesso va detto per i quattro elementi naturali (aria, terra, fuoco, acqua), per la destra<br />

e la sinistra, ecc. E poiché «il mondo dea èssare composto da cose oposite», è giusto che anche<br />

questa regola patisca un’eccezione e contempli insomma il suo contrario, vale a <strong>di</strong>re che «il mondo<br />

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sia una cosa sola», senza opposto. Considerazione che porta ad affermare, <strong>alla</strong> fine del trattato<br />

(II.8.24), che l’uomo è solo nell’universo: «non trovamo altro mondo che questo».<br />

[Temi] La prima parte dell’opera, in 24 capitoli, è de<strong>di</strong>cata <strong>alla</strong> cosmologia e alle scienze<br />

naturali: stelle, pianeti, segni zo<strong>di</strong>acali, geografia terrestre, flora e fauna, climi e stagioni. La<br />

seconda (94 capitoli) prosegue con osservazioni analitiche sui pianeti e sullo zo<strong>di</strong>aco (senz’altro<br />

l’argomento che sta più a cuore a Ristoro, che crede ciecamente all’influenza delle stelle sulla vita<br />

umana), quin<strong>di</strong> passa in rassegna le regioni terrestri, i fenomeni naturali e atmosferici (il terremoto,<br />

le comete, l’arcobaleno, ecc.). Nel finale, l’andamento abbastanza lineare del trattato si spezza, e<br />

l’autore si pronuncia su questioni minori che hanno poco a che vedere con la trama generale del<br />

<strong>di</strong>scorso: la genesi dell’amore, la ragione per cui il fiato può essere insieme freddo e caldo (ma già<br />

in precedenza le osservazioni naturalistiche erano state interrotte da <strong>di</strong>gressioni sulla virtù dei saggi<br />

[I.21] o sulla bellezza dei vasi antichi [II.8.4bis]).<br />

[L’interpretazione del mondo naturale] Tipica della mentalità <strong>di</strong> Ristoro e della sua tecnica<br />

espositiva è l’interpretazione organicistica della natura: «Questo mondo rascionevelemente lo<br />

potemo asimelliare ad una casa o ad un regno». Stante questa equazione tra cosmo e regno, tutto<br />

l’universo non è che un grande co<strong>di</strong>ce obbe<strong>di</strong>ente a poche leggi fondamentali, e ciò che è nel cielo<br />

trova precisa corrispondenza nel mondo degli uomini. I pianeti sono ‘figura’ delle classi sociali<br />

(Saturno, il più <strong>di</strong>stante, è l’astro dei lavoratori della terra, il Sole, il più luminoso, è l’astro dei re, e<br />

così via), e intervengono attivamente a mo<strong>di</strong>ficare i destini umani: «E li savi s’acordano tutti che li<br />

corpi che sono de qua de sotto so’ retti e dominati da quelli de sopra». Un passo più in là, e la teoria<br />

dell’influenza dei corpi celesti fa posto a quella che negli animali e negli oggetti terrestri vede il<br />

semplice riflesso <strong>di</strong> immagini fissate per sempre nella conformazione dei pianeti e delle stelle: «e<br />

questa similitu<strong>di</strong>ne recevono dal cielo tutte le cose che so’ engenerate de li elementi, emperciò che<br />

la meno nobele cosa dea recevare similitu<strong>di</strong>ne da la più nobele»: così, per esempio, le macchie<br />

lunari «so’ desegnate a similitu<strong>di</strong>ne del viso umano, secondo quello che vegono e ponono li savi», e<br />

il tracciato delle costellazioni prefigura le fattezze <strong>di</strong> certi animali e cose del nostro mondo: il carro,<br />

la bilancia, l’aquila, la nave, e così via.<br />

[Guido Faba: le istruzioni su come scrivere] Come abbiamo visto accennando all’opera <strong>di</strong><br />

Brunetto, l’istruzione nel campo della retorica ha nel Me<strong>di</strong>oevo un peso <strong>di</strong>fficile da sopravvalutare.<br />

La domanda su «che cosa scrivere?» passa quasi ovunque in secondo piano rispetto ad un’altra che<br />

sembra stare molto più a cuore agli intellettuali del tempo: «come scrivere?». I trattatisti insegnano<br />

a mettere insieme un’orazione, un poema, una lettera. Generalmente, questa precettistica è in latino<br />

e si rivolge a scriventi in latino. In quanto opera insieme storico-critica e prescrittiva, il De vulgari<br />

eloquentia sarà a suo modo un manuale <strong>di</strong> questo tipo, ad uso dei poeti italiani. Ma nel corso del<br />

XIII secolo il volgare prese piede in ambienti che in passato gli erano rimasti preclusi: i tribunali, le<br />

cancellerie, persino la Chiesa. Non stupisce, dunque, che Brunetto, Bono e Guidotto da Bologna<br />

volgarizzino e commentino per un pubblico più vasto <strong>di</strong> quello degli specialisti gli antichi trattati <strong>di</strong><br />

retorica. E non stupisce che la storia della prosa ‘<strong>di</strong> scuola’ in volgare si apra con i protocolli <strong>di</strong><br />

Guido Faba.<br />

[La Gemma purpurea e i Parlamenti et epistole] Come altri retori del suo tempo (i toscani<br />

Bene da Firenze e Boncompagno da Signa) Guido insegna all’Università <strong>di</strong> Bologna, massimo<br />

centro europeo per gli stu<strong>di</strong> giuri<strong>di</strong>ci, e compone in latino una Summa <strong>di</strong>ctaminis (che potremmo<br />

tradurre come ‘Arte dello scrivere lettere e documenti’) ad uso dei suoi studenti. Negli anni<br />

Quaranta scrive le sue opere maggiori, la Gemma purpurea, un trattato <strong>di</strong> epistolografia <strong>di</strong>viso in<br />

una sezione <strong>di</strong> precetti e in una <strong>di</strong> esempi (formule <strong>di</strong> poche righe da impiegare nelle scritture<br />

pubbliche - preghiere a un superiore, ingiunzioni a alleati o nemici - o private - lettere d’amore o<br />

d’amicizia); e i Parlamenti et epistole, brevi modelli <strong>di</strong> orazioni che illustrano gli accorgimenti<br />

retorici utili per confezionare un <strong>di</strong>scorso elegante (i modelli riguardano in genere l’attività<br />

podestarile, ma ci sono anche esempi <strong>di</strong> orazioni fittizie come il contrasto tra la Quaresima e il<br />

Carnevale, uno dei luoghi comuni della letteratura me<strong>di</strong>olatina). Ebbene, all’interno dei Parlamenti<br />

Guido raccoglie anche modelli <strong>di</strong> orazioni in volgare; e nella Gemma purpurea - dopo il prologo, la<br />

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lista delle voci e delle locuzioni da usare nelle lettere, dopo la Doctrina che insegna analiticamente<br />

a comporle - gli esempi <strong>di</strong> exor<strong>di</strong>a (‘esor<strong>di</strong>, avvii <strong>di</strong> documento’) presentati al lettore sono nelle due<br />

lingue, «litteraliter et vulgariter» (‘in latino e in volgare’). Per esempio: «Supplica la mia parvitade<br />

a la vostra segnoria devotamente, che vio, per Deo e per lo vostro onore, segundo la vostra força<br />

ch’è sufficiente in questa parte, vugliae dare overa che possa avere officio in comuno» (‘Nella mia<br />

umiltà supplico la Vostra Signoria perché vogliate, in nome <strong>di</strong> Dio e del Vostro buon nome, operare<br />

affinché io possa ricevere un incarico presso il comune’). È dunque probabile che già nella prima<br />

metà del secolo l’epistolografia e l’arte notaria dovessero venire incontro alle esigenze <strong>di</strong> un<br />

pubblico <strong>di</strong> utenti ‘non letterati’ sempre più ampio.<br />

[La storiografia] La grande storiografia in volgare nasce nel primo Trecento, con le<br />

Cronache <strong>di</strong> Dino Compagni e Giovanni Villani. Nel Duecento, la lingua delle scritture storiche è il<br />

latino, e il loro impianto è piuttosto elementare: si tratta o <strong>di</strong> cronache che mettono in fila, senza<br />

analizzarli, piccoli fatti <strong>di</strong> risonanza locale, oppure <strong>di</strong> storie universali che si riducono a una rozza<br />

elencazione degli eventi succedutisi d<strong>alla</strong> fondazione <strong>di</strong> Roma (o più in<strong>di</strong>etro ancora) agli anni in<br />

cui vive lo scrivente (unica eccezione la Chronica latina del frate parmense Salimbene de Adam,<br />

che fu testimone <strong>di</strong>retto <strong>di</strong> buona parte degli episo<strong>di</strong> della storia duecentesca da lui narrati). Le due<br />

più importanti cronache duecentesche in volgare s’ispirano <strong>di</strong> fatto a questi semplici modelli.<br />

Marcatissima è l’impronta annalistica nella Cronaca pseudolatiniana (così chiamata perché un<br />

tempo falsamente attribuita a Brunetto Latini), opera <strong>di</strong> un fiorentino che anno per anno elenca gli<br />

eventi a suo parere più notevoli ravvivando la sua cronaca con aneddoti curiosi circa strani<br />

fenomeni naturali, eventi miracolosi, leggende dedotte d<strong>alla</strong> sua fonte primaria, l’opera <strong>di</strong> Martino<br />

Polono. Più critica, meno incline all’aneddoto e insomma più moderna è invece l’Istoria fiorentina<br />

<strong>di</strong> Ricordano Malaspini (proseguita dal nipote Giacotto fino al 1285) che ripercorre la storia della<br />

città <strong>dalle</strong> mitiche origini fiesolane ai Vespri siciliani (1282). Ritenuta a lungo una falsificazione a<br />

causa delle sue estese concordanze con la più tarda Cronaca del Villani, oggi è opinione comune<br />

che essa rappresenti invece una delle principali fonti <strong>di</strong> quest’ultimo.<br />

[La prosa narrativa. Premessa] Il genere che nelle altre letterature romanze ha spesso una<br />

funzione fondatrice, la prosa narrativa, <strong>di</strong>ede nel Duecento italiano frutti poverissimi. Suo carattere<br />

tipico è, nei primi tempi, la fusione tra l’istanza narrativa e quella morale-religiosa. L’invenzione<br />

romanzesca ha bisogno <strong>di</strong> appoggiarsi all’autorità dei filosofi o della Chiesa: narrare è possibile, ma<br />

solo a patto che ciò serva all’e<strong>di</strong>ficazione del lettore. Le prime raccolte <strong>di</strong> novelle italiane (dato che<br />

per trovare qualcosa che assomigli al romanzo occorrerà attendere il Trecento) riflettono questa<br />

situazione <strong>di</strong> limitata autonomia tanto nel loro contenuto quanto nella loro struttura e genesi. Circa<br />

il contenuto esse mirano sempre ad insegnare qualcosa. Quanto <strong>alla</strong> struttura, essa ricalca quella<br />

delle collezioni <strong>di</strong> exempla (brevi racconti che illustrano un precetto morale: un esempio, appunto)<br />

o <strong>di</strong> leggende sacre: le novelle raccolte nei Conti senesi o nel Fiore <strong>di</strong> filosafi (cfr. infra) nascono<br />

già in gruppo, come un organico manuale <strong>di</strong> precetti virtuosi. La novella singola o, come si <strong>di</strong>rà,<br />

‘spicciolata’, specchio <strong>di</strong> un gusto per la narrazione <strong>di</strong>ventato premio a se stesso, sarà un’invenzione<br />

quattrocentesca. Quanto <strong>alla</strong> genesi, le nostre prime prose narrative sono in buona misura traduzioni<br />

o rimaneggiamenti <strong>di</strong> modelli francesi o latini. Quel confronto con le altre lingue <strong>di</strong> cultura che<br />

rappresentò, in poesia, la necessaria premessa allo sviluppo <strong>di</strong> una tra<strong>di</strong>zione <strong>italiana</strong> originale,<br />

accompagnò per più lungo tratto l’evoluzione della narrativa <strong>italiana</strong> me<strong>di</strong>evale.<br />

[I Conti senesi] Nei Conti senesi, frammentario volgarizzamento <strong>di</strong> prose devote francesi, le<br />

Vies des Peres, l’intenzione e<strong>di</strong>ficante e <strong>di</strong>dattica è esplicitata già in righe introduttive che possono<br />

ben considerarsi come il prologo dell’intera raccolta. I 14 racconti (ma dovevano essere più<br />

numerosi in origine) vengono preannunciati come opera «<strong>di</strong> grande autorità», scritta «a utilità <strong>di</strong><br />

coloro che lo legierano». Ne sono protagonisti non i borghesi che vedremo all’opera nel Novellino e<br />

nel Decameron né i saggi e i filosofi <strong>di</strong> altre raccolte coeve bensì anonimi personaggi legati <strong>alla</strong><br />

chiesa - eremiti, frati, monache - i quali attraverso le loro vicende forniscono al lettore un modello<br />

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<strong>di</strong> virtù e <strong>di</strong> comportamento cristiano. Nelle novelle più estese, questa significazione morale viene<br />

resa esplicita per due volte dal narratore, il quale prende <strong>di</strong>rettamente la parola sia in avvio <strong>di</strong><br />

racconto, per istradare il lettore <strong>alla</strong> giusta comprensione del testo (queste righe iniziali vengono<br />

designate come «prologo» nella nov. XIV, ed assolvono dunque la funzione <strong>di</strong> micro-cornice, ossia<br />

<strong>di</strong> legante tra i vari racconti), sia in coda, per mettere in chiaro il significato esemplare della novella.<br />

[I Conti <strong>di</strong> antichi cavalieri] Databile all’ultimo trentennio del secolo e localizzabile nella<br />

Toscana orientale (forse ad Arezzo) è un’altra breve silloge <strong>di</strong> racconti messa insieme, come i Conti<br />

senesi, non per <strong>di</strong>letto bensì per utilità pratica ma, <strong>di</strong>versamente da quelli, senza implicazioni <strong>di</strong> tipo<br />

religioso. I Conti <strong>di</strong> antichi cavalieri si propongono infatti <strong>di</strong> far conoscere «detti saggi e belli e <strong>di</strong><br />

gran sentimento a·cciò che sempre inviamento bono ne possa avere e·ppigliare ciascuno cui<br />

governa». In altri termini, gli exempla qui raccolti e romanzati rielaborando principalmente il Liber<br />

Ystoriarum Romanorum non hanno un generico intento <strong>di</strong>dattico bensì una precisa funzione <strong>di</strong><br />

ammaestramento e ‘moralizzazione’ dei reggitori dello stato: onde la scelta, come protagonisti, <strong>di</strong><br />

cavalieri (cioè equites, nobili) dell’età greco-romana che, in quanto eterni modelli <strong>di</strong> virtù, possono<br />

affascinare e convincere uomini <strong>di</strong> ogni parte politica. In coerenza con l’intento dell’opera, che è<br />

quello <strong>di</strong> istruire i governanti del Comune, è costante in tutte le novelle <strong>di</strong> ambientazione greca o<br />

romana l’interesse per le virtù politico-militari, mentre poco spazio viene concesso ai valori della<br />

saggezza e della temperanza, preminenti invece nelle altre raccolte <strong>di</strong> novelle contemporanee.<br />

[I Fiori e vita <strong>di</strong> filosafi e d’altri savi e d’imperadori] Probabile fonte dei Conti appena citati<br />

e, forse, del Novellino, è la raccolta nota come Fiori e vita <strong>di</strong> filosafi e d’altri savi e d’imperadori,<br />

databile agli anni Settanta del Duecento. L’opera, che traduce, riducendo e rimaneggiando a sua<br />

volta, un compen<strong>di</strong>o dello Speculum historiale <strong>di</strong> Vincenzo <strong>di</strong> Beauvais, conobbe un’eccezionale<br />

fortuna nel Me<strong>di</strong>oevo per essere un comodo repertorio <strong>di</strong> aneddoti sulla vita degli antichi filosofi e<br />

degli eroi romani e, insieme, una collezione <strong>di</strong> sentenze riciclabili in ogni occasione: il titolo<br />

rispecchia appunto questa «giustapposizione <strong>di</strong> una parte aneddotica (vita) e <strong>di</strong> una antologicasentenziosa<br />

(fiori)» (D’Agostino). Le due classi <strong>di</strong> personaggi presentate come esemplari (savi e<br />

filosofi come Pitagora, Socrate, Platone, eroi romani come Valerio, Bruto, Torquato, apprezzati per<br />

le loro virtù morali e non più - come nei Conti <strong>di</strong> antichi cavalieri - per le imprese guerresche) sono<br />

considerati insieme, su un identico piano, per aver <strong>di</strong>mostrato saggezza nella loro condotta o nei<br />

loro scritti: anche personaggi noti per altri meriti (meriti letterari nel caso <strong>di</strong> Plauto o <strong>di</strong> Stazio)<br />

interessano qui solo come ‘savi’ produttori <strong>di</strong> sentenze <strong>di</strong> facile riuso. Naturale quin<strong>di</strong> che le due<br />

sezioni delle ‘novelle’ abbiano ampiezza e rilievo <strong>di</strong>seguali. Vale a <strong>di</strong>re che la parte biografica è<br />

ridotta all’osso («Epicurio fue uno filosafo, che non seppe lettera, né non seppe <strong>di</strong>sputare»: seguono<br />

citazioni d<strong>alla</strong> sua opera), o si fonda su aneddoti inverificati scelti per le loro applicazioni morali,<br />

mentre tutto l’interesse si rivolge ai detti memorabili: i lunghissimi profili <strong>di</strong> Cicerone e <strong>di</strong> Seneca<br />

sono <strong>di</strong> fatto composti quasi per intero da stralci delle loro opere, sicché la biografia romanzata si<br />

trasforma in antologia.<br />

[Il «Novellino». Struttura] Il Novellino è la raccolta <strong>di</strong> brevi racconti che, composta<br />

nell’ultimo ventennio del secolo, getta le basi della nostra prosa narrativa. È dubbio se la sua<br />

struttura e la consistenza attuale (cento novelle) risalgano <strong>alla</strong> stesura originale o se siano invece il<br />

frutto <strong>di</strong> una selezione più tarda operata da chi volesse dare al Decameron boccacciano il contraltare<br />

<strong>di</strong> «Cento novelle antiche» (titolo della prima e<strong>di</strong>zione cinquecentesca, che presuppone appunto il<br />

ricordo dell’opera più recente e più celebre): il più antico tra i manoscritti che ci hanno conservato il<br />

Novellino aggiunge infatti alle cento della vulgata varie altre novelle, le une tratte pari pari da<br />

raccolte contemporanee come il Fiore <strong>di</strong> filosafi, originali le altre. Come che stiano esattamente le<br />

cose, certo è che il Novellino presenta, se non una vera e propria architettura narrativa da<br />

‘macrotesto’, un principio <strong>di</strong> strutturazione interna, o meglio una varietà <strong>di</strong> princìpi: novelle<br />

unificate da un tema comune (per esempio la saggezza, nella prima decina), o dall’ambientazione (il<br />

mondo classico, nelle novelle 66-72), o dall’identità del protagonista (le novelle ‘federiciane’ 21-<br />

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24). Formule <strong>di</strong> connessione debole, tutte queste, che in<strong>di</strong>viduano inflessioni e motivi ricorrenti ma<br />

non fanno del libro un organismo compatto.<br />

[Il pubblico] La de<strong>di</strong>ca ai «cuori gentili e nobili», nel prologo al libro, e l’augurio che chi ha<br />

«intelligenzia sottile» segua i begli esempi illustrati nel libro hanno fatto parlare <strong>di</strong> un tentativo <strong>di</strong><br />

selezione del pubblico, <strong>alla</strong> stregua <strong>di</strong> quella che nella contemporanea lirica stilnovista riserva<br />

l’accesso <strong>alla</strong> poesia <strong>alla</strong> cerchia ristretta degli intendenti d’amore, ossia ai nobili d’animo e <strong>di</strong><br />

costume. Ma se in quest’ultima il richiamo etico ha la sua ragion d’essere nel carattere elitario<br />

dell’ideologia cortese, i contenuti del Novellino non ritagliano affatto un pubblico <strong>di</strong> intendenti in<br />

qualsivoglia <strong>di</strong>sciplina, ché anzi per la piana quoti<strong>di</strong>anità dei soggetti trattati e per la scioltezza della<br />

sintassi non c’è probabilmente in tutto il Duecento opera che più <strong>di</strong> questa si presti a una fruizione<br />

‘popolare’. La novella 29, nella quale con una risposta arguta un «matto» fa giustizia della pseudoscienza<br />

<strong>di</strong> alcuni «gran<strong>di</strong>ssimi savi» parigini («matto e forsennato - così conclude - colui che pena e<br />

pensa <strong>di</strong> sapere il suo Principio [‘l’origine, la causa delle cose e della propria esistenza’]; e sanza<br />

veruno senno [‘del tutto privo <strong>di</strong> intelletto’] chi vuol sapere li Suo’ [<strong>di</strong> Dio] profon<strong>di</strong>ssimi<br />

pensieri»), <strong>di</strong>ce in sintesi quali siano in effetti i valori apprezzati dall’autore e, presumibilmente, dai<br />

primi consumatori dell’opera: il buon senso e l’umorismo, non l’«intelligenzia sottile» richiesta nel<br />

prologo: nel quale l’appello ai «gentili e nobili» ha dunque tutta l’aria <strong>di</strong> una captatio benevolentiae<br />

(formula con cui si cerca <strong>di</strong> ottenere – captare – il favore, la benevolenza dell’u<strong>di</strong>torio) vòlta non<br />

già a selezionare bensì a lusingare, sulla soglia dell’opera, il pubblico dei lettori.<br />

[Lo scopo del libro] Come gran parte dei testi prosastici del tempo, il Novellino ha finalità<br />

esemplari. Ma la sua esemplarità si risolve tutta quanta nella sfera pratica. Nelle poche righe che<br />

introducono il primo dei Conti senesi, l’autore <strong>di</strong>chiara che le vite dei santi padri sono state qui<br />

trascritte «a utilità <strong>di</strong> coloro che [le] legieranno»: la narrazione - ci <strong>di</strong>ce questa importante premessa<br />

- è puramente funzionale all’ammaestramento morale dei lettori. L’autore del Novellino chiarisce<br />

invece sùbito che il suo impegno è <strong>di</strong> natura laica. L’inizio sul nome <strong>di</strong> «Nostro Signore Gesù<br />

Cristo» adempie a un luogo comune della trattatistica coeva, ma prelude a un libro in cui i valori<br />

della religione hanno una parte molto esigua. Le poche novelle ‘cristiane’ sono tra le meno felici<br />

della raccolta o perché ricalcano con troppa passività la traccia dell’exemplum o perché al piano<br />

della narrazione è applicata in maniera troppo meccanica una coda moralizzatrice e parenetica (si<br />

pensi <strong>alla</strong> nov. 28, che passa bruscamente <strong>dalle</strong> gesta <strong>di</strong> Lancillotto <strong>alla</strong> lode <strong>di</strong> Dio: «Ohi mondo<br />

errante e uomini sconoscenti [...], quanto fu maggiore il Signore nostro che fece lo cielo e la terra,<br />

che non fu Lancialotto»). Invece gli spiriti antifrateschi, così <strong>di</strong>ffusi nella letteratura popolare del<br />

Me<strong>di</strong>oevo, danno vita ad alcuni quadretti non indegni del paragone con Boccaccio: mentre la nov.<br />

54, ripresa infatti nel Decameron (I 4), mette in scena un «piovano Porcellino» che, accusato <strong>di</strong><br />

concubinaggio, si <strong>di</strong>scolpa <strong>di</strong>mostrando che i costumi del suo censore, il vescovo, non sono migliori<br />

dei suoi, ben tre brevi novelle sfruttano, per scatenare l’effetto comico, il momento del contatto tra<br />

laici in buona fede e chierici lussuriosi (nov. 87), avi<strong>di</strong> (91) o cialtroni (93) - la confessione.<br />

Nell’assoluto <strong>di</strong>simpegno e nella volontà <strong>di</strong> non mescolare le cose terrene e quelle <strong>di</strong>vine, nel suo<br />

taglio insomma laico-razionalistico, il contenuto della raccolta non contrad<strong>di</strong>ce quin<strong>di</strong> le<br />

anticipazioni del prologo: «rallegrare il corpo e sovenire [‘aiutare’] e sostentare [...] a prode [‘a<br />

vantaggio’] e a piacere <strong>di</strong> coloro che non sanno e <strong>di</strong>siderano <strong>di</strong> sapere».<br />

[I temi] La scelta dei temi è in linea con quanto si è osservato finora. «Facciamo qui<br />

memoria - annuncia l’autore - d’alquanti fiori <strong>di</strong> parlare, <strong>di</strong> belle cortesie e <strong>di</strong> belli risposi [‘belle<br />

risposte’] e <strong>di</strong> belle valentie, <strong>di</strong> belli donari e <strong>di</strong> belli amori». Ma <strong>alla</strong> lettura appare chiaro che è la<br />

prima voce dell’elenco (i «fiori <strong>di</strong> parlare», i «belli risposi») quella che unifica e spiega la grande<br />

maggioranza delle novelle. Ciò significa che l’indugio sui particolari, l’elaborazione dell’intreccio,<br />

insomma il piacere della narrazione ‘gratuita’ che sarà così tipico della prosa <strong>italiana</strong> dopo<br />

Boccaccio, tutto questo si cerca invano nel Novellino. Qui i fatti sono al servizio delle parole, e gli<br />

scarni elementi del plot corrono rapidamente verso il colpo <strong>di</strong> scena che chiude la novella. Il colpo<br />

<strong>di</strong> scena è una battuta arguta e spiritosa che risolve la situazione. Il silenzio dell’autore che, come si<br />

è detto, non aggiunge mai il suo commento alle parole del personaggio, si giustifica col fatto che<br />

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queste ultime contengono da sole una morale implicita perfettamente comprensibile. Insomma,<br />

quando si raccontano delle storie non bisogna farla troppo lunga; ecco come questo precetto<br />

‘morale’ - che possiamo prendere a simbolo della me<strong>di</strong>tata stringatezza del Novellino - è reso<br />

narrativamente nella nov. 89:<br />

Brigata <strong>di</strong> cavalieri cenavano una sera in una gran casa fiorentina, e avevavi uno uomo <strong>di</strong> corte, il quale era gran<strong>di</strong>ssimo<br />

favellatore. Quando ebbero cenato, cominciò una novella che non venìa meno. Uno donzello della casa che servia [...]<br />

lo chiamò per nome, e <strong>di</strong>sse: «Quelli che t’insegnò cotesta novella, non la t’insegnò tutta». Ed elli rispuose: «Perché<br />

no?». Ed elli rispuose: «Perché non t’insegnò la restata [cioè ‘non ti insegnò a fermarti quando è l’ora’]». Onde quelli si<br />

vergognò, e ristette.<br />

[L’arma della parola] Centrale, nel Novellino, è dunque la <strong>di</strong>mensione della parola, non -<br />

come sarà nel Decameron - quella dell’evento. Negli anni in cui volgarizzatori come Guidotto da<br />

Bologna o Bono Giamboni o Brunetto Latini traducono ad uso degli studenti e dei giuristi la<br />

Rhetorica ad Herennium e il De inventione, il Novellino offre ad un pubblico <strong>di</strong> laici e <strong>di</strong> borghesi<br />

<strong>di</strong> me<strong>di</strong>a cultura un modello più abbordabile e più avvincente <strong>di</strong> retorica ‘civile’: un prontuario <strong>di</strong><br />

belle risposte trovate da ingegni brillanti, spesso subalterni dal punto <strong>di</strong> vista del rango sociale<br />

rispetto ai loro interlocutori nella fictio (nella nov. 89 appena citata chi viene sbeffeggiato è<br />

l’«uomo <strong>di</strong> corte», chi sbeffeggia un semplice «donzello», un cameriere). Nella formazione degli<br />

intellettuali duecenteschi, le arti verbali della retorica e della <strong>di</strong>alettica occupano una posizione <strong>di</strong><br />

assoluto rilievo; in un àmbito profondamente <strong>di</strong>verso - quello della novellistica ‘popolare’ - il<br />

Novellino risente <strong>di</strong> questa congiuntura culturale. In esso, le ‘situazioni’ non interessano se non<br />

nella misura in cui possono essere risolte - e <strong>di</strong> fatto vengono risolte - con le armi della parola.<br />

[Verso il romanzo: la materia troiana, romana, bretone; l’oriente] Accanto a quest’ampia<br />

produzione novellistica, importante perché segna la strada che porterà nel giro <strong>di</strong> mezzo secolo al<br />

Decameron, fanno la loro comparsa sullo scorcio del Duecento altre forme narrative che per<br />

estensione e per struttura possiamo accostare al genere moderno del romanzo. Attraverso la<br />

letteratura francese, filtrano in Italia tre temi mitico-storici che rappresenteranno per tutto il<br />

Me<strong>di</strong>oevo altrettante fonti del romanzesco. Alla materia troiana, compen<strong>di</strong>ata da Benoît de Sainte-<br />

More nel Roman de Troie, fanno capo la già citata Historia destructionis Troiae <strong>di</strong> Guido delle<br />

Colonne e l’Istorietta troiana, in volgare toscano, oltre a Brunetto Latini, nel Tresor, e ad alcuni<br />

racconti del Novellino. Un centone francese <strong>di</strong> primo Duecento, Li fait des Romains, che mette<br />

insieme informazioni desunte dagli storiografi e dai poeti latini (Sallustio, Svetonio, Lucano, ecc.),<br />

è invece <strong>alla</strong> base dei Fatti <strong>di</strong> Cesare e <strong>di</strong> altri numerosi volgarizzamenti che attestano l’ampia<br />

<strong>di</strong>ffusione della materia romana in Italia. Infine si moltiplicano, tra la fine del Due e l’inizio del<br />

Trecento, le versioni del Roman de Tristan francese, la celebre storia delle imprese <strong>di</strong> Tristano,<br />

esule d<strong>alla</strong> corte <strong>di</strong> re Marco, e del suo amore per Isotta. Il Tristano riccar<strong>di</strong>ano, <strong>di</strong> area toscana, è<br />

la più antica e la più ampia delle traduzioni che portano la materia bretone nei comuni toscani e<br />

nelle corti venete (abbiamo così - i nomi rinviano per convenzione alle biblioteche e alle collezioni<br />

nelle quali sono conservati i testi - un Tristano panciatichiano, un Tristano palatino, un Tristano<br />

corsiniano, ecc.).<br />

[Il Milione] Occupa infine una posizione eccezionale nella prosa delle origini il resoconto<br />

dei viaggi del mercante veneziano Marco Polo, il Milione (dal soprannome della famiglia Polo:<br />

Emilione), dettato nel 1298 da Marco a Rustichello da Pisa, uomo <strong>di</strong> lettere e suo compagno nelle<br />

carceri <strong>di</strong> Genova. L’opera, che Rustichello scrisse in francese (il titolo originale fu probabilmente<br />

Divisament dou monde), si apre con un prologo che espone l’argomento e i termini generali del suo<br />

viaggio in Asia, quin<strong>di</strong> allinea una lunga serie <strong>di</strong> paragrafi, ciascuno relativo a una delle molte<br />

regioni e città visitate, che culmina nell’incontro col monarca cinese Qubilai (o Kublai) Khan. Alle<br />

informazioni sui traffici e sulle vie <strong>di</strong> comunicazione - che si spiegano con gli scopi della missione<br />

<strong>di</strong> Marco, commerciante <strong>di</strong> preziosi e tessuti - si affiancano quelle notizie curiose e leggendarie (su<br />

uomini con la coda o con testa <strong>di</strong> cane, su personaggi del mito come il Prete Gianni, ecc.), che<br />

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fecero l’immensa fortuna del libro dal Me<strong>di</strong>oevo a oggi attraverso traduzioni, riduzioni,<br />

rimaneggiamenti. Nato come racconto <strong>di</strong> viaggio, il Milione finì dunque per <strong>di</strong>schiudere <strong>alla</strong> cultura<br />

europea, dopo la materia greco-romana e troiana e dopo quella bretone, una terza sorgente <strong>di</strong><br />

romanzesco, stavolta remota non nel tempo ma nello spazio: l’oriente.<br />

[Linee evolutive della prosa nel Trecento. La <strong>di</strong>ffusione del volgare come lingua della prosa:<br />

la storiografia] Nel corso del Trecento la pratica della scrittura in volgare interessa un numero<br />

sempre crescente <strong>di</strong> in<strong>di</strong>vidui, e si <strong>di</strong>versifica in un’ampia gamma <strong>di</strong> tipologie. Oltre che nella<br />

letteratura d’invenzione (novelle e ‘romanzi’), il volgare viene adoperato nella storiografia, nei libri<br />

<strong>di</strong> famiglia, nella letteratura e<strong>di</strong>ficante. Tra gli storiografi in volgare ha un posto <strong>di</strong> grande rilievo il<br />

fiorentino (e, come Dante, guelfo) Dino Compagni, che in una breve Cronica narra gli eventi<br />

occorsi nella sua città tra il 1280 e il 1312. L’erede ideale del Compagni è Giovanni Villani,<br />

anch’egli fiorentino, che compone una Nuova cronica pubblicata in <strong>di</strong>eci libri già nei primi anni<br />

Trenta e successivamente ampliata dall’autore fino <strong>alla</strong> sua <strong>morte</strong>, nella peste del 1348. Ma l’opera<br />

trovò nella famiglia stessa <strong>di</strong> Giovanni dei degni continuatori: la riprese il fratello Matteo, narrando<br />

la storia <strong>italiana</strong> dal 1348 al 1365 e offrendo, tra l’altro, una memorabile descrizione della peste; e<br />

vi mise mano infine, per un breve aggiornamento, il nipote Filippo.<br />

[La Cronica dell’Anonimo Romano] Se tuttavia la gran parte della prosa – anche<br />

storiografica – trecentesca ci giunge d<strong>alla</strong> Toscana, la regione culturalmente più avanzata, e nella<br />

quale il volgare aveva raggiunto un più completo sviluppo, il capolavoro della storiografia del<br />

secolo venne scritto in un’area ‘eccentrica’ come il Lazio. Si tratta della Cronica scritta da un<br />

Anonimo Romano tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta e relativa <strong>alla</strong><br />

vicenda del tribuno Cola <strong>di</strong> Rienzo. La materia romana sollecita, in un autore che pure mostra <strong>di</strong><br />

conoscere il latino e il volgare toscano, l’impiego del <strong>di</strong>aletto romanesco, e ciò conferisce <strong>alla</strong><br />

narrazione una insolita vivacità e forza espressiva. Ma lo speciale realismo dell’opera si spiega<br />

anche con la circostanza che l’autore, oltre che storico scrupoloso, è anche spettatore <strong>di</strong> molti degli<br />

eventi che racconta: e per esempio il ritratto <strong>di</strong> Cola, passato in breve tempo da eroe a <strong>di</strong>ssoluto<br />

tra<strong>di</strong>tore, è <strong>di</strong> quelli che solo un testimone oculare sarebbe stato in grado <strong>di</strong> dare. Di recente, il<br />

filologo Giuseppe Billanovich ha proposto <strong>di</strong> identificare l’Anonimo con Bartolomeo <strong>di</strong> Iacovo <strong>di</strong><br />

Valmontone, un nobile laziale che, dopo stu<strong>di</strong> <strong>di</strong> me<strong>di</strong>cina, intraprese la carriera ecclesiastica:<br />

identificazione non certa, ma che darebbe ragione sia della cultura non comune che l’autore mostra<br />

<strong>di</strong> possedere sia delle informazioni <strong>di</strong> prima mano che egli detiene (Bartolomeo era in effetti, in<br />

quegli anni, a Roma).<br />

[La novellistica dopo Boccaccio] Nell’ambito della narrativa d’invenzione, ben poche opere<br />

e ben pochi autori meritano <strong>di</strong> essere segnalati prima del capolavoro del secolo, il Decameron (cfr.<br />

§ 6): un libro che cercherà altrove – nella tra<strong>di</strong>zione classica e me<strong>di</strong>olatina e nella letteratura<br />

francese – i suoi modelli. La produzione novellistica si intensifica, invece, e quasi <strong>di</strong>laga, negli anni<br />

subito successivi <strong>alla</strong> pubblicazione del Decameron. Particolare importanza ha, all’interno <strong>di</strong> questa<br />

linea, la figura <strong>di</strong> Franco Sacchetti (circa 1332-1400). Nato anch’egli, come Boccaccio, in una<br />

famiglia <strong>di</strong> mercanti, ricoprì cariche importanti nelle principali magistrature fiorentine. Scrisse<br />

alcune centinaia <strong>di</strong> testi poetici – quasi tutti raccolti in un manoscritto, copiato <strong>di</strong> sua mano, oggi<br />

<strong>alla</strong> Biblioteca Laurenziana <strong>di</strong> Firenze – e, soprattutto, il libro <strong>di</strong> racconti noto come<br />

Trecentonovelle (trecento nel progetto iniziale, ma ce ne restano soltanto 223), composto a partire<br />

dal 1385 e ultimato nei primi anni Novanta. Rispetto al più vario repertorio stilistico e tematico del<br />

Decameron, Sacchetti compie un’opera <strong>di</strong> riduzione e semplificazione. Manca, a <strong>di</strong>fferenza che nel<br />

Decameron, una cornice che permetta all’autore <strong>di</strong> parlare in prima persona e <strong>di</strong> coor<strong>di</strong>nare in un<br />

unico <strong>di</strong>segno le <strong>di</strong>verse novelle; e queste sono generalmente tanto brevi e semplici da meritare<br />

piuttosto il nome <strong>di</strong> aneddoti, o motti, o barzellette. Del realismo boccacciano è accolta insomma<br />

solo la componente aneddotica e giocosa, quella che nel Decameron trova posto soprattutto nella<br />

sesta giornata. Far ridere, o far sorridere: è questo lo scopo a cui Sacchetti sembra ridurre la pratica<br />

del ‘novellare’. E tale è infatti la cifra del libro: una raccolta <strong>di</strong> episo<strong>di</strong> <strong>di</strong>vertenti tratti per lo più<br />

42


d<strong>alla</strong> vita popolare fiorentina. Di fatto, gran parte dei personaggi sacchettiani sono presi<br />

<strong>di</strong>rettamente d<strong>alla</strong> realtà, e citati per nome e cognome, così da dare luogo a una cronaca giocosa e<br />

pettegola piuttosto che a una vera e propria opera d’invenzione. Scrive infatti Sacchetti nella<br />

premessa al libro: «E perché molti [...] forse <strong>di</strong>ranno, come spesso si <strong>di</strong>ce: “Queste son favole”: a<br />

ciò rispondo che ce ne saranno forse alcune, ma nella verità mi sono ingegnato <strong>di</strong> comporle. Ben<br />

potrebbe essere, come spesso incontra [‘càpita’], che una novella sarà intitolata a Giovanni, e uno<br />

<strong>di</strong>rà: “ella intervenne a Piero”; questo sarebbe piccolo errore, ma non sarebbe che la novella non<br />

fosse stata».<br />

[Gli scrittori religiosi] Infine, una spinta decisiva a favore dell’uso del volgare venne dagli<br />

scrittori <strong>di</strong> religione. Non che il volgare venisse adoperato nella liturgia o nelle <strong>di</strong>scussioni<br />

teologiche, dove il latino regnerà ancora incontrastato; ma nella pre<strong>di</strong>cazione, nella preghiera, nei<br />

trattati spirituali la volontà <strong>di</strong> farsi comprendere da un pubblico più ampio <strong>di</strong> quello dei soli<br />

‘letterati’ porta gli autori ad adottare la lingua della comunicazione quoti<strong>di</strong>ana, oppure a<br />

volgarizzare scritti religiosi sino ad allora accessibili soltanto in latino: tipico il caso delle leggende<br />

legate <strong>alla</strong> figura <strong>di</strong> san Francesco. Anche in questo caso è la Toscana il centro del rinnovamento.<br />

Qui il domenicano Giordano da Pisa (prima metà del secolo) compone e pronuncia più <strong>di</strong><br />

settecento pre<strong>di</strong>che in volgare, rivolte non ai confratelli ma <strong>alla</strong> borghesia mercantile delle città, e<br />

perciò scritte nella sua lingua e su temi che più da vicino la riguardano: il lusso, i costumi delle<br />

donne, l’usura, la corruzione. E qui Domenico Cavalca, anch’egli pisano (1270-1342), svolge<br />

un’importante opera <strong>di</strong> volgarizzamento <strong>di</strong> trattati latini relativi <strong>alla</strong> <strong>di</strong>sciplina del buon cristiano e<br />

ai sacramenti: lo Specchio dei peccati, lo Specchio <strong>di</strong> croce, il Pungilingua. Qui, infine, il<br />

domenicano fiorentino Iacopo Passavanti (morto nel 1357) compone, oltre a vari sermoni latini, il<br />

trattato Specchio <strong>di</strong> vera penitenza, una (incompiuta) rassegna dei vizi e delle virtù scritta sul<br />

modello dei manuali de poenitentia ma, a <strong>di</strong>fferenza <strong>di</strong> questi ultimi, a beneficio del pubblico ignaro<br />

<strong>di</strong> latino: il quale pubblico – ed è questo il fatto cruciale, destinato a sviluppi d’incalcolabile<br />

importanza nell’età della Riforma e dopo – entra così in contatto <strong>di</strong>rettamente, senza la me<strong>di</strong>azione<br />

dei sacerdoti, con testi <strong>di</strong> carattere religioso.<br />

4. Dante Alighieri<br />

4.1 La vita<br />

[La giovinezza] Dante nasce nel 1265 a Firenze. All'epoca, la città è il principale centro<br />

economico e finanziario della Toscana, ma è anche segnata <strong>dalle</strong> <strong>di</strong>scor<strong>di</strong>e e <strong>dalle</strong> lotte tra le<br />

fazioni: così come altrove nel centro-nord della penisola <strong>italiana</strong>, i partigiani dell'Impero (ghibellini)<br />

e i partigiani del Papato (guelfi) si contendevano la supremazia, il che significava, <strong>di</strong> volta in volta,<br />

la strage e l'esilio della parte avversa. Dante appartiene a una famiglia della piccola nobiltà. Stu<strong>di</strong>a<br />

certamente a Firenze, nelle «scuole de li religiosi» (Convivio, II xii 7): ossia in quegli Stu<strong>di</strong>a<br />

ecclesiastici cui, a quel tempo, potevano accedere anche i laici. Integra questa istruzione ‘regolare’<br />

con la lettura dei filosofi antichi e col <strong>di</strong>alogo con gli intellettuali della sua generazione (come i<br />

poeti Cavalcanti e Cino da Pistoia) e <strong>di</strong> quella precedente: su tutti riconoscerà come maestro il poeta<br />

e retore Brunetto Latini.<br />

[Gli anni della maturità a Firenze] La superiore cultura e l'appartenenza a una famiglia non<br />

registrata tra quelle magnatizie (famiglie, queste ultime, cui per volontà del popolo minuto erano<br />

state precluse le cariche pubbliche) fanno sì che, a metà degli anni Novanta, Dante possa<br />

partecipare in prima persona al governo del Comune. Per Firenze, questo è un periodo<br />

particolarmente burrascoso a causa delle lotte tra le fazioni dei guelfi Bianchi - riuniti attorno <strong>alla</strong><br />

famiglia dei Cerchi - e dei guelfi Neri, che fanno capo <strong>alla</strong> famiglia Donati. Coi primi, <strong>di</strong>fensori del<br />

popolo minuto e delle magistrature citta<strong>di</strong>ne, si schiera Dante. All’inizio è uno fra i tanti, nelle<br />

assemblee che affiancano il Capitano del Popolo e i Priori; poi, crescendo il suo prestigio, riceve<br />

incarichi più importanti. Nel 1300 è eletto priore. Nel 1301 ha un compito molto delicato. Papa<br />

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Bonifacio VIII conta <strong>di</strong> ridurre Firenze sotto il proprio potere grazie all’appoggio interno dei guelfi<br />

Neri, e Dante è inviato presso Bonifacio per trovare un compromesso. Ma durante la sua assenza i<br />

Neri si impadroniscono della città e ban<strong>di</strong>scono i Bianchi. Dante è condannato a <strong>morte</strong> in<br />

contumacia. Non tornerà più a Firenze.<br />

[L’esilio] L'esilio, durato vent'anni, portò Dante in molte città e corti dell'Italia centrosettentrionale.<br />

Fu dapprima in Lunigiana, poi nel Casentino, poi più lungamente a Verona presso<br />

Bartolomeo della Scala (e degli Scaligeri farà un commosso elogio nella Comme<strong>di</strong>a). Dante non<br />

rivide Firenze, ma continuò, almeno per i primi anni, a tentare <strong>di</strong> rientrare in patria. Si associò, per<br />

un breve periodo, ai Bianchi fuoriusciti che tentavano <strong>di</strong> riprendere Firenze con le armi e con<br />

l'ausilio <strong>di</strong> nuovi improvvisati alleati. Ma ogni tentativo, per la mancanza <strong>di</strong> una guida e <strong>di</strong> un<br />

<strong>di</strong>segno comune, fallì. L’ultimo rifugio del poeta fu la Ravenna <strong>di</strong> Guido Novello da Polenta, dove<br />

morì nel 1321.<br />

[La vita privata] Al <strong>di</strong> là degli impegni pubblici e dei rapporti con i protagonisti della vita<br />

politica e culturale del tempo, pochissimo sappiamo della vita privata <strong>di</strong> Dante. Sposa Gemma,<br />

della famiglia dei Donati, e ha da lei almeno tre figli: Antonia, Jacopo e Pietro. Tutti<br />

con<strong>di</strong>videranno la sua condanna e il suo destino <strong>di</strong> esule. Se poco si può ricavare dai documenti<br />

(scarsi) e <strong>dalle</strong> biografie antiche (ripetitive, e spesso fantasiose), l'opera poetica stessa <strong>di</strong> Dante è<br />

una preziosa fonte <strong>di</strong> informazioni sul suo autore. Mentre è ben <strong>di</strong>fficile trovare, nella poesia del<br />

Me<strong>di</strong>oevo, elementi che permettano <strong>di</strong> risalire dal testo <strong>alla</strong> concreta esperienza dell'autore (nomi<br />

delle donne amate, dati, circostanze storiche), la lirica <strong>di</strong> Dante appare, per così <strong>di</strong>re, carica <strong>di</strong> realtà<br />

e perciò vicina all'esperienza e al gusto dei lettori moderni. Dal libro intitolato Vita nova<br />

appren<strong>di</strong>amo così i dettagli sull'evento cruciale della prima parte della vita <strong>di</strong> Dante, evento che fino<br />

a prova contraria non va ritenuto immaginario o simbolico ma reale: l'incontro con Beatrice,<br />

identificabile forse con Bice, figlia del ricco mercante fiorentino Folco Portinari. L'incontro avviene<br />

quando Dante ha nove anni: segue l'innamoramento a <strong>di</strong>ciotto anni e, infine, la <strong>morte</strong> della donna,<br />

in un anno che può essere il 1290. Anche in questo caso, per quanto alcuni particolari della storia<br />

possano essere amplificati, o inventati, o vadano essere letti in chiave simbolica, non c’è dubbio che<br />

il racconto ha un fondamento nella realtà: la Vita nova è, almeno in parte, un’atten<strong>di</strong>bile<br />

autobiografia.<br />

[Cronologia delle opere principali] La decisione <strong>di</strong> raccogliere i testi in onore <strong>di</strong> Beatrice in<br />

un «libello» (cioè in un libro <strong>di</strong> piccole <strong>di</strong>mensioni), la Vita nova appunto, è cronologicamente<br />

collocabile nei primi anni Novanta del Duecento; al periodo successivo all'esilio appartengono<br />

invece le gran<strong>di</strong> opere teoriche in prosa: il trattato sulla lingua volgare (De vulgari eloquentia,<br />

1304-5, incompiuto) e il progetto filosofico del Convivio (1304-6, incompiuto); qualche anno più<br />

tar<strong>di</strong>, il saggio politico della Monarchia. In margine a queste opere dottrinali, inizia il lavoro <strong>alla</strong><br />

Comme<strong>di</strong>a, lavoro concluso poco prima della <strong>morte</strong> (1321). Mentre - come vedremo - si sono<br />

conservati numerosi autografi degli altri due massimi autori del Trecento, Petrarca e Boccaccio, non<br />

ci è rimasto alcun documento che possa essere attribuito con qualche plausibilità <strong>alla</strong> mano <strong>di</strong><br />

Dante: la sua scrittura ci è ignota.<br />

4.2 La «Vita nova»<br />

[Contenuto e forma] Con la <strong>morte</strong> <strong>di</strong> Beatrice si chiude la prima fase della vita <strong>di</strong> Dante. La<br />

Vita nova è il <strong>di</strong>ario <strong>di</strong> questa fase: o meglio, della vita interiore <strong>di</strong> Dante durante questa fase. Ma è<br />

un <strong>di</strong>ario che ha speciali caratteristiche tematiche e formali. Per quanto riguarda il tema trattato, a<br />

<strong>di</strong>fferenza <strong>di</strong> quanto accade nelle normali autobiografie, l'io è in quest'opera, piuttosto che il<br />

protagonista dell'azione, il testimone <strong>di</strong> eventi memorabili: la vita e la <strong>morte</strong> <strong>di</strong> Beatrice. Perciò<br />

alcuni stu<strong>di</strong>osi hanno potuto chiamare ‘Leggenda <strong>di</strong> Santa Beatrice’ questo libro che pure si<br />

propone, dal principio <strong>alla</strong> fine, non come un'allegoria o un mito ma come il resoconto <strong>di</strong><br />

un'esperienza realmente vissuta. Per quanto riguarda la forma, la Vita nova è un prosimetro, ossia<br />

un testo in prosa all'interno del quale sono inserite delle poesie, analogamente a ciò che si verifica<br />

44


in una delle opere capitali per la formazione intellettuale <strong>di</strong> Dante, e <strong>di</strong> più larga <strong>di</strong>ffusione nel<br />

Me<strong>di</strong>oevo, il De consolatione philosophiae (‘Sulla consolazione della filosofia’) <strong>di</strong> Severino<br />

Boezio. I capitoli in prosa sono stati composti dopo la <strong>morte</strong> <strong>di</strong> Beatrice: essi ‘situano nel tempo’,<br />

introducono e commentano le poesie che Dante, anni prima, le aveva de<strong>di</strong>cato. Il piano<br />

dell’autobiografia s'intreccia così con quello della carriera artistica: il racconto è anche l'occasione<br />

per un bilancio <strong>di</strong> quanto, in poesia, l'autore aveva saputo fare sino ai suoi trent'anni.<br />

[Il titolo e i modelli] La vita nova <strong>di</strong> cui parla Dante è la vita iniziata dopo il primo incontro<br />

con Beatrice, al suo nono anno <strong>di</strong> età: «In quella parte del libro de la mia memoria <strong>di</strong>nanzi a la<br />

quale poco si potrebbe leggere si trova una rubrica la quale <strong>di</strong>ce: Incipit vita nova» (ovvero: ‘nel<br />

libro della mia memoria, poco dopo l’inizio, si legge un titolo che <strong>di</strong>ce: qui comincia una nuova<br />

vita’). La critica ha ricordato il versetto dei Salmi in cui l’autore promette un «canticum novum»<br />

(‘nuovo canto’): ed è possibile che questo o altri luoghi biblici abbiano ispirato a Dante l’idea del<br />

rinnovamento (renovatio, nella letteratura cristiana); al <strong>di</strong> là delle fonti puntuali, ciò che conta è<br />

però l’idea <strong>di</strong> evento straor<strong>di</strong>nario, miracoloso, che il poeta vuole comunicare: evento che decide<br />

della sua vita e della sua arte. Il riferimento, proprio in avvio d’opera, ai testi sacri, chiarisce subito<br />

quali siano i modelli letterari che Dante ha soprattutto presenti: il racconto della vita e della <strong>morte</strong><br />

<strong>di</strong> Beatrice – racconto fatto da chi fu <strong>di</strong>rettamente testimone <strong>di</strong> questo ‘miracolo’ – ha chiari punti<br />

<strong>di</strong> contatto con la storia <strong>di</strong> Gesù narrata dagli evangelisti e con le leggende legate <strong>alla</strong> vita dei santi<br />

(cfr. per esempio la grande raccolta chiamata Leggenda aurea, <strong>di</strong> Jacopo da Varazze).<br />

[Il Dante ‘stilnovista’] Per la gran parte, i componimenti raccolti nella Vita nova sono<br />

rappresentativi <strong>di</strong> quella fase della poesia dantesca che con più ragione si può definire ‘stilnovista’.<br />

In essi, infatti, sono ben chiare le analogie con le opere <strong>di</strong> alcuni autori contemporanei appartenenti<br />

al gruppo degli stilnovisti: Cino da Pistoia, Guido Cavalcanti, Lapo Gianni. In questo quadro,<br />

l’originalità delle liriche della Vita nova va cercata soprattutto nei molti nuovi motivi a cui esse si<br />

ispirano.<br />

[I nuovi motivi della lirica dantesca] La lirica romanza conosceva già l'introspezione, cioè la<br />

riflessione sull'amore presente e il ricordo dell'amore vissuto, e conosceva la preghiera <strong>alla</strong> donna<br />

perché si <strong>di</strong>mostri pietosa nei confronti dell'amante. Entrambi questi motivi sono presenti nella Vita<br />

nova. Ma a metà circa del libro noi assistiamo a un importante ‘cambio <strong>di</strong> materia’. Dal momento<br />

che Beatrice gli nega il saluto, Dante decide <strong>di</strong> rinunciare <strong>alla</strong> poesia-preghiera e <strong>di</strong> rifugiarsi in ciò<br />

che mai «può venirgli meno»: la lode <strong>di</strong> Beatrice senza tuttavia attendersi da lei alcuna ricompensa.<br />

La lode - a <strong>di</strong>fferenza <strong>di</strong> quanto era accaduto nella tra<strong>di</strong>zione dei trovatori o dei siciliani - è <strong>di</strong>retta<br />

non tanto <strong>alla</strong> bellezza della donna quanto alle sue virtù morali. Il mito stilnovista della donnaangelo,<br />

immensamente lontana dal suo amante, trova in queste rime in lode <strong>di</strong> Beatrice la sua<br />

formulazione più chiara. Virtù, miracolo, gentilezza, intelletto, onestà, fede sono i nuovi termini che<br />

servono a esprimere la nuova materia: alcuni <strong>di</strong> questi termini, non per caso, derivano piuttosto dal<br />

linguaggio religioso che d<strong>alla</strong> tra<strong>di</strong>zione della poesia laica.<br />

[Il motivo del lutto] La <strong>morte</strong> <strong>di</strong> Beatrice costringe Dante a un ra<strong>di</strong>cale cambiamento <strong>di</strong><br />

materia. La seconda parte della Vita nova è occupata da ‘testi <strong>di</strong> lutto’. Era questa un'opzione<br />

tematica non del tutto sconosciuta ai poeti più antichi, ma nessuno l'aveva sfruttata nel modo in cui<br />

lo fa Dante. Egli non si limita al planh (‘compianto’), cioè al lamento e <strong>alla</strong> commemorazione<br />

dell'amata. Poiché, nel momento in cui lavora <strong>alla</strong> prosa e rior<strong>di</strong>na i testi poetici, egli sa già quale<br />

sarà il destino <strong>di</strong> Beatrice, l'intero libro gravita attorno all'evento della sua <strong>morte</strong>: e vi sono così, al<br />

<strong>di</strong> qua <strong>di</strong> essa, testi nei quali la <strong>morte</strong> è presagita; al <strong>di</strong> là dell’evento funebre, testi che descrivono il<br />

rimpianto e il dolore <strong>di</strong> chi rimane vivo. Se lo ‘stile della loda’ troverà pochi imitatori, perché il<br />

linguaggio della poesia europea sarà piuttosto, <strong>di</strong> qui in poi, quello dell’analisi psicologica e<br />

dell’introspezione, il motivo della ‘<strong>morte</strong> dell’amata’, e dell’amore che sopravvive, entrerà<br />

stabilmente, già prima del Canzoniere <strong>di</strong> Petrarca, nel repertorio tematico della poesia occidentale.<br />

4.3 Le «Rime»<br />

45


[Una raccolta ‘<strong>di</strong>sorganica’] Le poesie giovanili non accolte nella Vita nova e le poesie della<br />

maturità formano il corpus delle Rime. Questo voluminoso ‘resto’ - quasi cento testi se si contano<br />

anche i sonetti dei corrispondenti - non forma dunque un canzoniere, cioè un libro compatto che<br />

abbia continuità <strong>di</strong> svolgimento come l'avrà il Canzoniere <strong>di</strong> Petrarca.<br />

[I sonetti <strong>di</strong> corrispondenza] Buona parte dei sonetti non compresi nella Vita nova sono testi<br />

<strong>di</strong> corrispondenza: <strong>di</strong>stribuiti lungo l'intero arco <strong>di</strong> vita del poeta. La maggior parte <strong>di</strong> questi testi<br />

però si crede che appartenga al periodo fiorentino precedente all'esilio. In quell'epoca infatti più<br />

frequenti erano le occasioni <strong>di</strong> <strong>di</strong>alogo e competizione con i colleghi. La quantità non ci deve<br />

stupire: la mentalità o<strong>di</strong>erna fatica a comprendere come la poesia potesse, nel Me<strong>di</strong>oevo, assolvere<br />

tanto spesso a una funzione pratica. In realtà accadde molto spesso, in epoca me<strong>di</strong>evale, che<br />

<strong>di</strong>lettanti che oggi in nessun modo chiameremmo poeti scrivessero sonetti <strong>di</strong> corrispondenza<br />

contenenti richieste pratiche o informazioni occasionali.<br />

[Le canzoni morali] Il metro usato da Dante per affrontare i temi morali è - salvo un caso, il<br />

sonetto Due donne in cima de la mente mia - sempre e soltanto la canzone. La ragione <strong>di</strong> questa<br />

scelta è evidente: un <strong>di</strong>scorso complesso come quello morale, che non può esaurirsi in poche<br />

battute, ha bisogno della forma metrica più capace, allungabile a piacere, e più libera (non libere<br />

sono invece le forme metriche concorrenti: il sonetto e la b<strong>alla</strong>ta). Tre <strong>di</strong> queste canzoni morali sono<br />

inserite e commentate nel Convivio. È possibile, anche se non è cosa certa, che lo stesso destino<br />

sarebbe toccato anche alle altre tre canzoni che si leggono oggi tra le Rime <strong>di</strong>sperse: Poscia<br />

ch’amor del tutto m’ha lasciato, Doglia mi reca ne lo core ar<strong>di</strong>re e Tre donne intorno al cor mi son<br />

venute. Certo è che queste e quelle ebbero grande fortuna durante tutto il Me<strong>di</strong>oevo, venendo<br />

ripetutamente copiate nei co<strong>di</strong>ci e commentate. Al <strong>di</strong> là della Vita nova e della Comme<strong>di</strong>a, Dante è<br />

anche e soprattutto, per i due secoli successivi, il maestro della poesia morale.<br />

[Le canzoni ‘petrose’] Non tutti i testi giovanili <strong>di</strong> argomento amoroso finiscono nella Vita<br />

nova. Ne rimangono fuori quelli occasionali, quelli scritti per donne <strong>di</strong>verse da Beatrice o quelli che<br />

male si inserivano nella trama del libro. Si tratta in tutto <strong>di</strong> una ventina <strong>di</strong> poesie d’amore: sonetti,<br />

canzoni e b<strong>alla</strong>te (genere metrico, quest'ultimo, che Dante e gli stilnovisti e i poeti successivi<br />

adoperano quasi esclusivamente per il tema erotico). Né la poesia d'amore cessa del tutto dopo la<br />

Vita nova, negli anni della maturità; ma cambiano lo stile, il registro e la de<strong>di</strong>cataria del canto.<br />

Beatrice aveva suggerito atmosfere rarefatte e, come <strong>di</strong>rà Dante rimpiangendola, «dolci rime<br />

d’amore». Al contrario, una donna chiamata col senhal (‘epiteto, soprannome’) <strong>di</strong> Petra (perché<br />

aspra, spietata, crudele) ispira a Dante, poco prima dell'esilio, alcune delle sue più celebri canzoni,<br />

definite ‘petrose’. A unificare queste ‘petrose’ sono il motivo-base costituito d<strong>alla</strong> sofferenza del<br />

poeta a causa dell'ostilità della donna amata, e, soprattutto, l'estrema originalità dello stile utilizzato.<br />

L'invenzione <strong>di</strong> Dante consiste infatti nel proiettare il tema sul linguaggio, facendo corrispondere<br />

<strong>alla</strong> durezza del contenuto la durezza dell’espressione. Si osservi, per esempio, il lessico in rima dei<br />

primi versi della canzone ‘petrosa’ Così nel mio parlar: «Così nel mio parlar voglio esser aspro /<br />

com’è negli atti questa bella petra, / la quale ognora impetra / maggior durezza e più natura cruda, /<br />

e veste sua persona d’un <strong>di</strong>aspro…» (‘Voglio che le mie parole siano aspre così come è aspra questa<br />

donna nei suoi atti: lei che è sempre più dura e crudele, e copre il suo corpo con una pietra<br />

preziosa...’). Di questo sperimentalismo formale è prova anche la forma metrica <strong>di</strong> due dei testi che<br />

vengono tra<strong>di</strong>zionalmente inseriti nel gruppo delle ‘petrose’: Al poco giorno e al gran cerchio<br />

d’ombra e Amor tu ve<strong>di</strong> ben che questa donna. Il primo è una sestina, cioè una forma particolare <strong>di</strong><br />

canzone coniata probabilmente dal trovatore Arnaut Daniel e composta da sei stanze ciascuna<br />

composta da sei versi, e con sei sole parole-rima che si ripetono, secondo un or<strong>di</strong>ne ogni volta<br />

<strong>di</strong>verso, in tutte le stanze del testo; il secondo è una ‘sestina doppia’: genere, o meglio monstruum<br />

metrico inventato da Dante in cui si ripete lo stesso artificio, ma su una superficie doppia: le stanze<br />

hanno infatti non sei ma do<strong>di</strong>ci versi.<br />

4.4 Il «De vulgari eloquentia»<br />

46


[Latino e volgare nell’età <strong>di</strong> Dante] Come si è già detto, nell'età <strong>di</strong> Dante, tra XIII e XIV<br />

secolo, la gran parte dei testi veniva scritta in latino. La poesia in volgare era, si può <strong>di</strong>re, appena<br />

nata, e ancor meno <strong>di</strong>ffuso era l'impiego del volgare in prosa. Nelle università, nei pubblici uffici,<br />

nelle chiese, il latino era, e sarebbe stato ancora a lungo, la lingua <strong>di</strong> gran lunga più usata. Me<strong>di</strong>tare<br />

su questa situazione è necessario per comprendere l'originalità e il coraggio <strong>di</strong> Dante che scrive, agli<br />

albori del Trecento, il De vulgari eloquentia, un saggio sull'eloquenza (cioè sulla lingua e sullo<br />

stile) volgare.<br />

[L’originalità del progetto dantesco] Erano stati scritti molti trattati che insegnavano le<br />

regole della grammatica e della composizione latina, ma - come osserva Dante all'inizio del De<br />

vulgari eloquentia - occuparsi scientificamente del volgare è un'impresa del tutto nuova: «non ci<br />

risulta che nessuno prima <strong>di</strong> noi abbia svolto una qualche trattazione sulla teoria dell’eloquenza<br />

volgare» (I.1). È una contrad<strong>di</strong>zione soltanto apparente che, a questo scopo, Dante stesso si serva<br />

del latino. Il fatto è che, pur volendo parlare della lingua che è comune a tutti, Dante non si rivolge<br />

al popolo bensì ai dotti, cioè a quanti con il loro esempio e con i loro scritti potevano, se persuasi<br />

<strong>dalle</strong> argomentazioni svolte nell'opera, dare man forte al suo progetto.<br />

[Struttura e temi] L'opera è incompiuta. È probabile che il parallelo impegno costituito d<strong>alla</strong><br />

stesura del Convivio, se non già della Comme<strong>di</strong>a, abbia costretto Dante a interrompere la trattazione<br />

del De vulgari a metà del secondo libro. L'autore aveva in programma almeno altri due libri. Uno,<br />

probabilmente, relativo <strong>alla</strong> prosa, l'altro certamente de<strong>di</strong>cato al «volgare me<strong>di</strong>ocre», cioè <strong>alla</strong><br />

lingua e allo stile adatti al registro comico. Se l'incompletezza del trattato ci priva del punto <strong>di</strong> vista<br />

<strong>di</strong> Dante su questi aspetti, non va <strong>di</strong>menticato che la sostanza del suo pensiero linguistico è<br />

contenuta nei due capitoli scritti. Quello che Dante cerca <strong>di</strong> definire è anzitutto un volgare<br />

«illustre», raffinato nella forma e nel lessico, che sia in grado <strong>di</strong> competere con il latino come lingua<br />

della comunicazione colta (il registro umile, per i temi meno elevati, costituirebbe quin<strong>di</strong> un aspetto<br />

secondario, dal momento che non qui potrebbe essere provata la superiore <strong>di</strong>gnità del volgare) e<br />

perché le leggi della poesia, approfon<strong>di</strong>te nel secondo libro, valgono anche per la prosa.<br />

Nell'estetica me<strong>di</strong>evale, infatti, la <strong>di</strong>stanza tra prosa e poesia è meno grande <strong>di</strong> quanto non sia oggi:<br />

entrambe obbe<strong>di</strong>scono alle stesse norme retoriche e stilistiche e possono avere la stessa funzione (è<br />

per questa ragione, tra l'altro, che i me<strong>di</strong>evali potevano mettere in versi temi che noi oggi<br />

consideriamo esclusivi della prosa: la morale, la scienza, la religione).<br />

[Il giu<strong>di</strong>zio sulla letteratura del passato] Esauritasi, o risolta, la «questione della lingua»,<br />

l'interesse del De vulgari è legato oggi soprattutto ai giu<strong>di</strong>zi espressi da Dante sulla letteratura: gli<br />

esempi <strong>di</strong> cui si serve per esporre la sua teoria linguistica ci aiutano infatti a capire che cosa egli<br />

pensasse dei poeti del suo tempo e dei suoi predecessori. Quando spiega come dev'essere fatto un<br />

verso, o quali sono le parole da usare, Dante cita infatti spesso dei brani <strong>di</strong> poesie che debbono<br />

servire da modello. La cosa è importante in sé, perché sono molto rari, nel Me<strong>di</strong>oevo, gli scritti in<br />

cui venga almeno abbozzata una storia della letteratura, tantomeno in volgare, o in cui si confronti<br />

criticamente l'opera <strong>di</strong> autori <strong>di</strong>versi. Ma è importante soprattutto se guar<strong>di</strong>amo <strong>alla</strong> natura degli<br />

esempi e al modo in cui essi vengono presentati e <strong>di</strong>scussi. In primo luogo, Dante appare molto ben<br />

informato non solo sulla poesia delle varie regioni italiane ma anche su quella francese e<br />

provenzale: egli sente trovatori e trovieri (cfr. § 2) come parte della sua stessa tra<strong>di</strong>zione. In<br />

secondo luogo, Dante non cita soltanto per elogiare - in<strong>di</strong>cando l'autore citato come modello da<br />

seguire - ma anche per criticare. Tra i poeti della corte <strong>di</strong> Federico II, vissuti nel Mezzogiorno<br />

d'Italia nella prima metà del Duecento, cita e apprezza Guido delle Colonne, Giacomo da Lentini,<br />

Rinaldo d'Aquino, e li loda in quanto seppero allontanarsi dal rozzo <strong>di</strong>aletto d'origine (il siciliano<br />

così come si legge, per esempio, nel Contrasto <strong>di</strong> Cielo d'Alcamo). Quanto ai trovatori, in<br />

coincidenza con la tripartizione tematica tra salus, venus e virtus (De vulgari eloquentia, II.2),<br />

nomina Bertran de Born, come cantore delle armi (salus, nel senso <strong>di</strong> ‘salvezza’), Giraut de Bornelh<br />

come poeta per eccellenza della rettitu<strong>di</strong>ne (virtus) e Arnaut Daniel come poeta dell'amore (venus).<br />

Vari elementi fanno ritenere che proprio quest'ultimo fosse il trovatore più apprezzato da Dante.<br />

Arnaut infatti non solo viene citato altre volte nel trattato, ma l'omaggio che qui Dante gli rende<br />

47


verrà ripetuto in maniera più solenne nel canto XXV del Purgatorio, quando Arnaut verrà chiamato<br />

«miglior fabbro del parlar materno», cioè massimo artefice del volgare. Inoltre, alcune rime <strong>di</strong><br />

Dante - soprattutto le canzoni petrose e la sestina Al poco giorno - imitano in maniera evidente<br />

altrettanti testi <strong>di</strong> Arnaut.<br />

4.5 Il «Convivio»<br />

[I temi] Il De vulgari eloquentia proclama la nobiltà del volgare e ne illustra le regole. Il<br />

Convivio (cioè il ‘banchetto’ <strong>di</strong> scienza offerto a chi, per varie ragioni, non ha potuto avvicinarsi al<br />

sapere), scritto quasi negli stessi anni (1304-1307 circa), è in certo senso la realizzazione pratica <strong>di</strong><br />

questo programma. Dante <strong>di</strong>mostra infatti qui come il volgare possa essere impiegato non solo per<br />

la poesia d'amore (come si <strong>di</strong>ceva nella Vita nova) ma anche per affrontare temi e problemi <strong>di</strong><br />

maggiore <strong>di</strong>fficoltà e impegno: temi e problemi che, sino ad allora, gli intellettuali del Me<strong>di</strong>oevo<br />

avevano affrontato servendosi sempre e solo del latino, come la filosofia, la teologia, l’etica, la<br />

fisica, l’astronomia.<br />

[Struttura] Il Convivio ha la struttura <strong>di</strong> un commento. Nella Vita nova Dante aveva ripreso<br />

alcune sue poesie giovanili e le aveva inserite in una sorta <strong>di</strong> romanzo autobiografico,<br />

commentandole e situandole nelle loro particolari circostanze storiche. Nel Convivio Dante riprende<br />

alcune sue canzoni e de<strong>di</strong>ca a ciascuna <strong>di</strong> esse un «trattato» che le spiega, parola per parola, e ne<br />

rivela il significato allegorico nascosto al <strong>di</strong> sotto della lettera. Il progetto iniziale era <strong>di</strong> scrivere 14<br />

trattati, quin<strong>di</strong> <strong>di</strong> analizzare 14 canzoni «sì d’amor come <strong>di</strong> vertù materiate» (‘<strong>di</strong> argomento morale<br />

o amoroso’, Convivio, I.i.14), ma, così come il De vulgari eloquentia, l'opera rimase incompiuta.<br />

[La scelta del volgare] Dante scrisse soltanto quattro trattati: un primo che fa da proemio e<br />

illustra i princìpi generali dell'opera, e altri tre in cui vengono commentate, nell'or<strong>di</strong>ne, le canzoni<br />

Voi che ’ntendendo, Amor che ne la mente e Le dolci rime. Ora, proprio la struttura dell'opera ha<br />

influenzato la scelta della lingua: poiché la prosa dei trattati è al servizio delle poesie con cui<br />

ciascuno <strong>di</strong> essi si apre, e poiché queste poesie sono scritte in volgare, ecco che anche per il<br />

commento è stato necessario servirsi dell'i<strong>di</strong>oma materno e non del latino. Nel Convivio la scelta<br />

della lingua (il volgare, non il latino), imposta per così <strong>di</strong>re d<strong>alla</strong> materia ha però <strong>di</strong>etro <strong>di</strong> sé<br />

motivazioni profonde. «Ancora pronta liberalitate [‘liberalità, generosità, sollecitu<strong>di</strong>ne’] Convivio<br />

mi fece questo eleggere e l’altro lasciare». Il latino, osserva Dante, sarebbe stato compreso da pochi<br />

perché pochi sanno leggerlo: nel momento in cui si spiegano testi poetici ardui da decifrare, la<br />

lingua stessa del commento avrebbe rappresentato, per il lettore, una nuova <strong>di</strong>fficoltà. C’è dunque,<br />

in Dante, l'intenzione democratica <strong>di</strong> ampliare il raggio d'azione della comunicazione letteraria, <strong>di</strong><br />

guadagnare <strong>alla</strong> cultura anche coloro che non hanno potuto stu<strong>di</strong>are il latino: un'iniziativa<br />

rivoluzionaria, polemica nei confronti <strong>di</strong> quanti, per vanità e superbia, continuavano a <strong>di</strong>sprezzare la<br />

propria lingua materna. Ma c’è anche l'affermazione <strong>di</strong> un presupposto teorico oggettivo: per<br />

quanto giovane, per quanto sprovvisto della tra<strong>di</strong>zione culturale millenaria del latino, il volgare è<br />

giunto già a un grado <strong>di</strong> elaborazione tale da poter essere impiegato anche per i concetti più <strong>di</strong>fficili:<br />

«Ché per questo comento la gran bontade del volgare <strong>di</strong> sì [‘il volgare italiano’] si vedrà, però che si<br />

vedrà la sua vertù», e la sua capacità <strong>di</strong> esprimere «altissimi e novissimi concetti» (Convivio,<br />

I.x.12).<br />

4.6 La «Monarchia»<br />

[Il contesto storico] I tre libri del trattato latino intitolato De Monarchia sono stati composti<br />

dopo il Convivio, e precedono, o accompagnano almeno per un tratto, la stesura della Comme<strong>di</strong>a:<br />

sono dunque cronologicamente collocabili nel secondo decennio del Trecento. La Monarchia è un<br />

trattato <strong>di</strong> teoria politica il cui intento principale consiste nel <strong>di</strong>fendere l'autorità dell’Impero contro<br />

le pretese temporalistiche (cioè <strong>di</strong> governo e controllo delle cose temporali e terrene, non solo <strong>di</strong><br />

quelle spirituali) della Chiesa. Questa presa <strong>di</strong> posizione da parte <strong>di</strong> Dante, in un momento storico<br />

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particolarmente delicato, mira anche a intervenire sull'attualità. Negli anni dell'esilio <strong>di</strong> Dante,<br />

infatti, il conflitto tra Chiesa e Impero era andato aggravandosi. L'alleanza fra il Papato e Roberto<br />

d'Angiò, che regnava sull'Italia meri<strong>di</strong>onale, aveva costretto sulla <strong>di</strong>fensiva prima l'imperatore<br />

Arrigo VII - che era <strong>di</strong>sceso in Italia nel 1312 nel tentativo, fallito, <strong>di</strong> riaffermare il suo potere sui<br />

comuni centro-settentrionali - poi i suoi successori, che il papa non aveva riconosciuto come ere<strong>di</strong><br />

legittimi dell'Impero. Schierarsi con l'imperatore significò dunque per Dante non solo affermare un<br />

principio <strong>di</strong> dottrina politica ma esprimere un chiaro giu<strong>di</strong>zio sulla realtà contemporanea.<br />

[Fortuna dell’opera] Ciò spiega la fortuna <strong>di</strong> cui l'opera godette negli anni subito successivi<br />

<strong>alla</strong> <strong>morte</strong> <strong>di</strong> Dante presso i seguaci dell'imperatore, e in generale presso i laici che si battevano per<br />

una netta <strong>di</strong>stinzione tra potere spirituale (da affidare al Papato) e potere temporale (da affidare<br />

all’Impero). E ciò spiega anche, d'altra parte, l'opposta reazione da parte ecclesiastica: la Monarchia<br />

fu aspramente confutata (tra gli altri dal domenicano Guido Vernani), condannata al rogo come<br />

opera eretica dal car<strong>di</strong>nal Bertrando del Poggetto e - sino alle soglie del Novecento - iscritta<br />

nell'In<strong>di</strong>ce dei libri proibiti.<br />

[Contenuto e struttura] La monarchia <strong>di</strong> cui parla Dante non è il regime monarchico nel suo<br />

significato generico e astratto bensì l'Impero. Il primo libro del De Monarchia risponde <strong>alla</strong><br />

domanda: è necessario l'Impero per il «buon or<strong>di</strong>namento del mondo» (I.iv.2), cioè per quella pace<br />

universale che Dante afferma essere il sommo bene per l'umanità? La risposta è affermativa: ma per<br />

argomentarla Dante deve procedere a una lunga serie <strong>di</strong> deduzioni logiche rafforzate <strong>dalle</strong> citazioni<br />

dei filosofi: Aristotele sopra tutti. Ma, prosegue Dante nel secondo libro, è giusto attribuire il potere<br />

imperiale al popolo romano, oppure hanno ragione coloro che glielo negano? La risposta è che<br />

l'Impero romano prevalse non grazie <strong>alla</strong> forza bensì grazie a un <strong>di</strong>segno provvidenziale. La ragione<br />

e la fede concordano dunque nell'assegnare a Roma il pieno <strong>di</strong>ritto sulle cose terrene. Il terzo<br />

quesito, nel terzo libro, è il più delicato perché riguarda <strong>di</strong>rettamente i rapporti tra il papa e<br />

l'imperatore. Dante si chiede se l'autorità del Monarca romano (ossia dell'imperatore) <strong>di</strong>penda<br />

imme<strong>di</strong>atamente da Dio oppure derivi dal vicario <strong>di</strong> Dio, il papa (III.i.5). Vale a <strong>di</strong>re: l'imperatore è<br />

sottomesso al papa, e gli deve quin<strong>di</strong> obbe<strong>di</strong>enza, oppure le due autorità stanno sullo stesso piano?<br />

[Il rapporto tra l’Impero e la Chiesa] Trattandosi <strong>di</strong> una materia tanto spinosa e attuale, si<br />

comprende perché Dante cambi, rispetto ai libri precedenti, il modo della sua argomentazione. Egli<br />

deve far fronte a tutte le false ragioni elencate da coloro che vogliono sottomettere l'Impero <strong>alla</strong><br />

Chiesa. Dante, in primo luogo, osserva come le tesi dei curialisti (i <strong>di</strong>fensori, cioè della Curia<br />

romana) non trovino alcuna conferma nei testi sacri, né nell'Antico né nel Nuovo Testamento. In<br />

secondo luogo Dante affronta il problema della donazione <strong>di</strong> Costantino. Questi, sostenevano i<br />

curialisti, aveva lasciato Roma e l'Occidente nelle mani <strong>di</strong> papa Silvestro: al papa, dunque, sovrano<br />

<strong>di</strong> Roma, spettava il compito <strong>di</strong> conferire o <strong>di</strong> togliere l'autorità imperiale. Ma, obietta Dante, tale<br />

donazione va considerata nulla dal punto <strong>di</strong> vista giuri<strong>di</strong>co: perché Costantino, come primo<br />

servitore dell'Impero, non aveva il potere <strong>di</strong> <strong>di</strong>sporne a suo piacimento, come cosa sua; e perché il<br />

papa non aveva il potere <strong>di</strong> accettare beni terreni, per una precisa proibizione evangelica. Alla<br />

confutazione delle ragioni degli avversari segue l'esposizione delle proprie posizioni. Dante sostiene<br />

che:<br />

(1) L'Impero non può essere considerato soggetto <strong>alla</strong> Chiesa perché esso è nato prima della<br />

Chiesa stessa: dunque quest'ultima non ne è stata la causa.<br />

(2) Nulla e nessuno mai hanno dato <strong>alla</strong> Chiesa la «virtù <strong>di</strong> dare autorità al Principe<br />

romano»: né le leggi <strong>di</strong> natura né Dio tramite la Bibbia, né alcun imperatore, né il consenso delle<br />

genti.<br />

(3) Gesù ha affermato che il suo regno non è <strong>di</strong> questo mondo, intendendo <strong>di</strong>re che «egli, in<br />

quanto esempio <strong>alla</strong> Chiesa, non aveva cura del regno <strong>di</strong> quaggiù».<br />

Per queste ragioni, conclude Dante, il potere dell'imperatore <strong>di</strong>scende <strong>di</strong>rettamente da Dio e<br />

la sua sfera d'azione è autonoma rispetto a quella del papa: mentre a quest'ultimo spetta <strong>di</strong> guidare<br />

gli uomini verso la salvezza eterna, all'imperatore spetta <strong>di</strong> favorirli e guidarli nella conquista della<br />

felicità terrena.<br />

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4.7 Le lettere<br />

La lettera è, nel Me<strong>di</strong>oevo, un genere letterario definito da regole e usi particolari, illustrati<br />

in appositi «manuali» (le artes <strong>di</strong>ctan<strong>di</strong>, cfr. § 3.3). Dei maggiori intellettuali dell'epoca ci restano<br />

lettere scritte a uso privato (si pensi a Guittone d'Arezzo o a Petrarca) o a uso pubblico, per esempio<br />

su incarico <strong>di</strong> un comune o <strong>di</strong> un principe (si pensi a Pier delle Vigne, che era al servizio <strong>di</strong><br />

Federico II). Dante non fa eccezione: <strong>di</strong> lui ci resta circa una dozzina <strong>di</strong> lettere, tutte scritte in latino<br />

(raramente il volgare veniva usato nell'epistolografia, e mai nelle lettere ufficiali) e tutte databili<br />

agli anni dell'esilio (dopo il 1300, quin<strong>di</strong>). La maggior parte <strong>di</strong> queste lettere si riferisce all'attualità<br />

politica e in particolare <strong>alla</strong> situazione fiorentina. In un'occasione Dante <strong>di</strong>fende davanti al car<strong>di</strong>nale<br />

Niccolò da Prato, paciere inviato dal papa, la causa dei guelfi Bianchi, che erano stati ban<strong>di</strong>ti da<br />

Firenze. In un'altra parla a tutti i principi e ai popoli d'Italia invocando la pace; in un'altra ancora si<br />

rivolge all'imperatore Arrigo VII in occasione della sua fallimentare <strong>di</strong>scesa in Italia.<br />

[La lettera a Cangrande] La lettera più importante e più controversa, perché alcuni negano<br />

che sia opera <strong>di</strong> Dante, è senz'altro la lettera a Cangrande della Scala, <strong>alla</strong> cui corte Dante soggiornò<br />

nella seconda metà degli anni Dieci. La lunga lettera accompagna un dono, il Para<strong>di</strong>so, che Dante<br />

de<strong>di</strong>ca al suo benefattore. Ben più <strong>di</strong> un «epigramma <strong>di</strong> de<strong>di</strong>ca», come la definisce il suo autore, la<br />

lettera fornisce un'interpretazione generale sia del Para<strong>di</strong>so sia dell'intera Comme<strong>di</strong>a. Si comprende<br />

dunque l'importanza <strong>di</strong> questo documento: una lettura ‘d’autore’ della propria opera, se la lettera è<br />

<strong>di</strong> Dante; un saggio sulla Comme<strong>di</strong>a scritto da un sottilissimo critico del suo tempo, se la lettera non<br />

è dantesca. Quale che sia la soluzione <strong>di</strong> questo <strong>di</strong>lemma, si tratta <strong>di</strong> una lettera in trentatré capitoli<br />

che presenta se stessa come accessus (‘introduzione’) <strong>alla</strong> Comme<strong>di</strong>a, e che <strong>di</strong>stingue nel poema –<br />

così come si faceva tra<strong>di</strong>zionalmente per le Sacre Scritture – due livelli <strong>di</strong> significato: un primo<br />

significato letterale, stando al quale l’opera parla dello «stato delle anime dopo la <strong>morte</strong>»; e un<br />

secondo significato allegorico, <strong>alla</strong> luce del quale il poema parla dell’uomo, che «per i meriti e i<br />

demeriti acquisiti col libero arbitrio ha conseguito premi e punizioni da parte della giustizia <strong>di</strong>vina».<br />

Restano fuori da una definizione così angusta molti degli aspetti più caratteristici e innovativi della<br />

Comme<strong>di</strong>a: e ciò è un serio argomento contro la paternità dantesca della lettera.<br />

4.8 Le egloghe<br />

[Occasione e contenuti delle due egloghe in latino] La poesia <strong>di</strong> Dante è tutta in volgare, con<br />

una piccola eccezione: due egloghe - due componimenti, cioè, <strong>di</strong> ambientazione pastorale, in<br />

esametri - che Dante invia al bolognese Giovanni del Virgilio come risposte ad altrettanti carmi<br />

latini. In questi anni (1319-21), gli ultimi della sua vita, Dante si trova a Ravenna, ospite <strong>di</strong> Guido<br />

Novello da Polenta. Giovanni, poeta e commentatore dei classici latini all'università <strong>di</strong> Bologna,<br />

invia a Dante una lettera in esametri in cui lo invita ad abbandonare il volgare e a scrivere<br />

finalmente nella lingua dei dotti, il latino, su temi ispirati <strong>alla</strong> cronaca contemporanea: meriterebbe<br />

così gli elogi dei letterati più colti e non solo del popolo. Dante replica non con una lettera in versi<br />

ma con un'egloga in cui <strong>di</strong>alogano due pastori: Mopso (che rappresenta Giovanni del Virgilio) e<br />

Titiro (ossia Dante stesso). Titiro, ricevuta la lettera <strong>di</strong> Mopso, ne riassume il contenuto a un<br />

compagno, Melibeo (Dino Perini, amico fiorentino <strong>di</strong> Dante, come lui esule); poi riba<strong>di</strong>sce la<br />

propria fedeltà <strong>alla</strong> poesia volgare. In un'egloga responsiva, Giovanni del Virgilio ripete il proprio<br />

invito <strong>alla</strong> poesia latina, e prega Titiro-Dante <strong>di</strong> raggiungerlo a Bologna. Dal canto suo, nel quarto e<br />

ultimo testo, Dante ripete <strong>di</strong> preferire i pascoli noti (Ravenna, la poesia volgare) e <strong>di</strong> non volerli<br />

lasciare per una nuova città (Bologna, identificabile forse con la poesia latina). L'importanza dei<br />

quattro testi è legata - oltre che alle informazioni che essi ci danno circa l'accoglienza che la poesia<br />

<strong>di</strong> Dante aveva ricevuto negli ambienti umanistici bolognesi - <strong>alla</strong> storia dei generi poetici: con<br />

queste egloghe, ispirate chiaramente alle Bucoliche <strong>di</strong> Virgilio (a cominciare dai nomi dei<br />

protagonisti della prima: Titiro e Melibeo sono anche i nomi dei due pastori messi in scena nella<br />

50


prima egloga virgiliana), rinasce in Italia il genere bucolico, che avrà grande fortuna nei due secoli<br />

successivi.<br />

4.9 La «Comme<strong>di</strong>a»<br />

[Il titolo] Può meravigliare il fatto che un'opera in cui si parla <strong>di</strong> un viaggio nell'oltretomba<br />

si intitoli Comme<strong>di</strong>a. Così la chiamano non solo i primi commentatori trecenteschi, ma anche lo<br />

stesso Dante nel corso del poema e nell'epistola a Cangrande della Scala (ammesso che sia sua).<br />

Sulle ragioni <strong>di</strong> questo titolo si è molto <strong>di</strong>scusso: le due spiegazioni più accre<strong>di</strong>tate valorizzano l'una<br />

la forma, l'altra il contenuto dell'opera. La Comme<strong>di</strong>a, secondo alcuni, si chiamerebbe così perché<br />

scritta in uno stile ‘me<strong>di</strong>o’, non sostenuto ed elegante come quello usato nel registro tragico (per<br />

esempio nell'Eneide <strong>di</strong> Virgilio). Secondo altri, la scelta del titolo è legata <strong>alla</strong> trama: nella trage<strong>di</strong>a<br />

le cose vanno bene all'inizio ma si complicano a mano a mano che l'azione procede, e finiscono<br />

male; al contrario, nel genere ‘comme<strong>di</strong>a’ (così come nella Comme<strong>di</strong>a dantesca), la situazione<br />

iniziale è <strong>di</strong> solito svantaggiosa per i personaggi ma migliora nel corso dell'opera, sino a sfociare in<br />

un finale in cui tutti i problemi vengono risolti. L'una spiegazione non esclude l'altra, ovvero: il<br />

nome comme<strong>di</strong>a è calzante sia che si guar<strong>di</strong> al ‘lieto fine’ sia che si guar<strong>di</strong> allo stile, o meglio <strong>alla</strong><br />

varietà degli stili impiegati.<br />

[Il tema e la struttura del poema] L'inizio ‘tragico’ dell'opera coincide con lo smarrimento <strong>di</strong><br />

Dante in una selva oscura, nell'anno giubilare 1300, quando il poeta ha 35 anni ed è giunto «nel<br />

mezzo del cammin <strong>di</strong> nostra vita» (Inf. I.1). La Comme<strong>di</strong>a è il racconto del cammino che, a partire<br />

da questa selva, Dante percorre nei tre regni ultraterreni: l'Inferno, il Purgatorio e il Para<strong>di</strong>so. A<br />

queste regioni dell’al<strong>di</strong>là sono de<strong>di</strong>cate tre cantiche, ognuna formata da 33 canti (la prima <strong>di</strong> 34,<br />

perché il primo canto fa da prologo all'opera intera); ciascun canto, a sua volta, è costituito da un<br />

numero variabile <strong>di</strong> versi (la gran parte tra i 130 e i 150).<br />

[Il viaggio e le guide] La durata del viaggio <strong>di</strong> Dante è <strong>di</strong> sette giorni, ed egli non è solo:<br />

nell'Inferno e nel Purgatorio, fino alle porte del Para<strong>di</strong>so terrestre, lo guida il massimo poeta latino,<br />

Virgilio (simbolo della ragione umana): non oltre, perché non oltre può arrivare la ragione non<br />

illuminata d<strong>alla</strong> fede, e Virgilio è sì uno «spirito magno», ma è comunque un pagano. Virgilio<br />

consiglia e protegge Dante dai pericoli che questi incontra sul proprio cammino e risponde ai suoi<br />

dubbi circa la natura dei luoghi attraversati, il significato e lo scopo delle pene, l'identità dei<br />

peccatori incontrati via via. Nel Para<strong>di</strong>so, la guida <strong>di</strong> Dante è la donna amata in gioventù: Beatrice,<br />

che già nella Vita nova era stata considerata un'anima eletta, degna <strong>di</strong> stare, dopo la <strong>morte</strong>, in<br />

«sommo cielo». Coerentemente, Beatrice - emblema della Fede o della Teologia - risolve i dubbi <strong>di</strong><br />

Dante relativi <strong>alla</strong> dottrina cristiana. Le due guide hanno dunque <strong>di</strong>versa funzione e autorità: è<br />

Beatrice che si è mossa dal Para<strong>di</strong>so e ha pregato Virgilio <strong>di</strong> aiutare Dante a uscire d<strong>alla</strong> selva in cui<br />

si era perduto; è lei che ha voluto riscattarlo d<strong>alla</strong> con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> peccato in cui viveva. Quando<br />

Dante e Beatrice si incontreranno, sulla vetta del Purgatorio, Beatrice chiarirà che la visione<br />

dell'Inferno e del Purgatorio era necessaria per ottenere il pentimento e la salvezza <strong>di</strong> Dante.<br />

[Struttura dei mon<strong>di</strong> ultraterreni: l’Inferno] L'Inferno è raffigurato da Dante come un<br />

gigantesco cono sotterraneo la cui base coincide con la superficie del nostro emisfero boreale (con<br />

al centro Gerusalemme) e il cui vertice si trova al centro della Terra. A generare questa voragine fu<br />

la caduta dell'angelo che osò ribellarsi a Dio: Lucifero. Tutta l'enorme massa <strong>di</strong> terra spostata dal<br />

suo corpo ha creato, agli antipo<strong>di</strong> del nostro emisfero, la montagna del Purgatorio. Alla sommità <strong>di</strong><br />

questa montagna si trova il Para<strong>di</strong>so terrestre. Partendo <strong>di</strong> qui, dopo aver attraversato l'Inferno e il<br />

Purgatorio, Dante e Beatrice saliranno in volo attraverso i <strong>di</strong>eci cieli in cui, secondo i me<strong>di</strong>evali, si<br />

sud<strong>di</strong>vide l'universo: un viaggio d<strong>alla</strong> Terra all'Empireo, cioè al cielo che abbraccia tutti gli altri e in<br />

cui risiedono gli angeli, i beati e Dio.<br />

[La gerarchia dei peccati] I peccatori dell'Inferno sono <strong>di</strong>stribuiti in gironi, in ciascuno dei<br />

quali viene punito un <strong>di</strong>fferente peccato. Aristotele, nell'Etica Nicomachea, aveva classificato i vizi<br />

e le colpe <strong>di</strong> cui si può macchiare l'uomo e Dante riprende in maniera fedele questo or<strong>di</strong>namento. A<br />

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mano a mano che si scende verso il centro della Terra, i peccati si fanno più gravi e le pene più<br />

crudeli. Nell'Antinferno (una zona dell'oltretomba che precede la valle infernale) si trovano gli<br />

«ignavi», cioè coloro che, incapaci durante la loro vita <strong>di</strong> scegliere il bene o il male, sono «a Dio<br />

spiacenti e a’ nemici sui» (Inf. III 65), cioè respinti tanto da Dio quanto da Satana; per questo<br />

formano un gruppo a parte, ai confini dei regni ultraterreni. Il Limbo, poi, ospita i morti non<br />

battezzati e, tra loro, gli spiriti pagani che, pur avendo vissuto virtuosamente, non hanno avuto<br />

modo <strong>di</strong> conoscere Dio. Questo luogo è anche la sede abituale <strong>di</strong> Virgilio che da lì si è mosso per<br />

andare in aiuto <strong>di</strong> Dante smarrito nella selva del peccato. Seguono gli incontinenti, <strong>di</strong>stribuiti in<br />

quattro cerchi: lussuriosi, golosi, avari e pro<strong>di</strong>ghi (il peccato <strong>di</strong> incontinenza può infatti dare origine<br />

a troppo o troppo poco amore per il denaro), iracon<strong>di</strong> e acci<strong>di</strong>osi (l'incontinenza consiste nel non<br />

aver saputo vivere una vita ispirata <strong>alla</strong> moderazione). Quin<strong>di</strong> gli eretici, i violenti, i fraudolenti e i<br />

tra<strong>di</strong>tori. Si trovano fra i tra<strong>di</strong>tori, più in basso <strong>di</strong> tutti perché più colpevoli <strong>di</strong> tutti: Lucifero<br />

(confitto al centro della terra) che tradì Dio, Giuda che tradì Gesù, Bruto e Cassio che tra<strong>di</strong>rono<br />

Cesare.<br />

[Il Purgatorio] Nel Purgatorio, i peccatori sono <strong>di</strong>stribuiti secondo lo stesso principio<br />

seguito nell'Inferno, ma vi sono due importanti <strong>di</strong>fferenze. In primo luogo, mentre l'Inferno (così<br />

come il Para<strong>di</strong>so) è eterno, il Purgatorio è destinato a svuotarsi: le anime che espiano i peccati sulle<br />

varie balze (‘gironi’ o ‘cerchi’) verranno un giorno elette in Para<strong>di</strong>so, o perché, in vita, si pentirono<br />

in tempo dei loro peccati o perché la loro esistenza - a <strong>di</strong>fferenza <strong>di</strong> quella dei dannati - non fu<br />

interamente dominata dal peccato. In secondo luogo, l'or<strong>di</strong>ne è invertito: d<strong>alla</strong> colpa più grave, che<br />

si sconta <strong>alla</strong> base della montagna, si sale verso quelle meno gravi, fino a raggiungere il Para<strong>di</strong>so<br />

terrestre.<br />

[Il Para<strong>di</strong>so] Nel Para<strong>di</strong>so, infine, non c’è una vera e propria gerarchia <strong>di</strong> beatitu<strong>di</strong>ni: tutti i<br />

beati vivono nell'Empireo e contemplano Dio in un'eterna con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> felicità. Ma ragioni <strong>di</strong><br />

simmetria con gli altri due regni e <strong>di</strong> strategia narrativa suggeriscono comunque a Dante una<br />

sud<strong>di</strong>visione. Egli immagina così che le anime scendano dall'Empireo e gli si facciano incontro,<br />

ciascuna nel cielo che ebbe l'influenza maggiore sulla sua vita: gli spiriti amanti scendono a<br />

incontrare Dante nel cielo <strong>di</strong> Venere; i combattenti per la fede nel cielo <strong>di</strong> Marte, ecc. Ma al <strong>di</strong> là <strong>di</strong><br />

questa <strong>di</strong>visione funzionale <strong>alla</strong> visione, tutte le anime ricompariranno nella ‘rosa dei beati’ che,<br />

nell'Empireo, gode della luce <strong>di</strong>vina.<br />

[Il contrappasso] Nell'Inferno e nel Purgatorio le pene vengono inflitte per contrappasso.<br />

Vale a <strong>di</strong>re che il peccatore è punito in modo tale che la sua pena ricor<strong>di</strong> la colpa commessa in vita<br />

o il vizio che ne determinò il destino. Così, nel canto V dell'Inferno, una bufera terribile agita e<br />

sconvolge le anime che, in vita, erano state vittime della passione amorosa; così (nel canto X) gli<br />

eretici, che non ebbero fede nella resurrezione, sono condannati a essere rinchiusi per l'eternità in un<br />

sarcofago. Ancora più trasparente è il caso del poeta provenzale Bertran de Born, che Dante<br />

incontra <strong>alla</strong> fine del canto XXVIII dell'Inferno. Durante la sua vita costui aveva istigato Enrico il<br />

Giovane a ribellarsi al padre Enrico II re d'Inghilterra; per questa ragione, per contrappasso, la sua<br />

condanna consiste nell’essere anch'egli <strong>di</strong>viso, e nel reggere sulle braccia la propria stessa testa<br />

mozzata (Inf. XXVIII 139-41): «Perch’io parti’ così giunte persone, / partito porto il mio cerebro,<br />

lasso!, / dal suo principio ch’è in questo troncone» (‘Dal momento che ho <strong>di</strong>viso persone così vicine<br />

l’una all’altra – un padre e un figlio – ecco che anch’io ora porto la mia testa separata dal resto del<br />

mio corpo’).<br />

[Le fonti: Virgilio, la Bibbia e le altre ‘visioni’] Benché la si possa definire a buon <strong>di</strong>ritto<br />

un'opera ‘realistica’, la Comme<strong>di</strong>a è fatta <strong>di</strong> letteratura: in essa, cioè, le creazioni dei poeti del<br />

passato vengono ampiamente sfruttate come fonti, citate, parafrasate, alluse. Sin dal Trecento uno<br />

dei compiti più gravosi per i commentatori è stato quello <strong>di</strong> dare conto <strong>di</strong> questa imponente<br />

<strong>di</strong>mensione intertestuale. La forma della visione ha, in primo luogo, numerosi precedenti nella<br />

letteratura classica e cristiana. Nel canto VI dell'Eneide, Enea scende nell'oltretomba per incontrare<br />

il padre Anchise; nella seconda lettera ai Corinzi, l'apostolo Paolo narra <strong>di</strong> essere stato «rapito in<br />

para<strong>di</strong>so» e <strong>di</strong> aver u<strong>di</strong>to «parole in<strong>di</strong>cibili che non è lecito ad alcuno pronunziare» (Corinzi, II<br />

52


12.4). Questi due modelli sono citati esplicitamente da Dante nel canto II dell'Inferno, quando<br />

chiede a Virgilio perché proprio lui è stato prescelto per il viaggio nell’oltretomba cristiano: «Io non<br />

Enëa, io non Paulo sono» (Inf. II 32). Ma sia la visione sia il viaggio attraverso mon<strong>di</strong> immaginari e<br />

soprannaturali sono strutture narrative largamente <strong>di</strong>ffuse sia nell'agiografia (le ‘vite dei santi’: per<br />

esempio nel Purgatorio <strong>di</strong> San Patrizio, o nella Navigazione <strong>di</strong> San Brendano) sia nei vangeli<br />

apocrifi (quei vangeli, cioè, che pur essendo estranei al canone fissato d<strong>alla</strong> Chiesa cattolica,<br />

godevano <strong>di</strong> larga <strong>di</strong>ffusione anche a livello popolare), sia in testi appartenenti a tra<strong>di</strong>zioni straniere:<br />

francesi, spagnoli, arabi (particolarmente importante il Libro della Scala, in cui è rappresentato il<br />

viaggio <strong>di</strong> Maometto nell'oltretomba).<br />

[Lingua e stile: il metro] Nella Comme<strong>di</strong>a, Dante adopera una forma metrica <strong>di</strong> cui non si<br />

trovano, prima <strong>di</strong> lui, altre attestazioni: la terzina (o terza rima) detta ‘incatenata’: una forma aperta,<br />

allungabile a piacere, a seconda delle esigenze del <strong>di</strong>scorso. Lo schema delle rime è il seguente:<br />

ABA BCB CDC DED EFE, ecc.<br />

È possibile che tra le ragioni della scelta <strong>di</strong> questo metro vi sia un'intenzione simbolica: il ritorno<br />

del ‘numero sacro’ 3 (come le persone della Trinità, e come le cantiche della Comme<strong>di</strong>a). Ma la<br />

terzina ha soprattutto un'insostituibile funzione narrativa: consente <strong>di</strong> sviluppare il <strong>di</strong>scorso in<br />

maniera or<strong>di</strong>nata e omogenea ma, insieme, evita la monotonia delle rime baciate (<strong>di</strong> lunghe serie <strong>di</strong><br />

rime baciate a due a due si erano serviti spesso i poeti che, prima <strong>di</strong> Dante, avevano tentato la strada<br />

del poemetto in volgare).<br />

[Il lessico nell’Inferno] La varietà dei temi e delle figure rappresentate nella Comme<strong>di</strong>a si<br />

rispecchia nel linguaggio. Quello della Vita nova e delle Rime poteva limitarsi al riuso <strong>di</strong> un limitato<br />

numero <strong>di</strong> termini e <strong>di</strong> espressioni tra<strong>di</strong>zionali: si trattava quasi sempre <strong>di</strong> testi amorosi che<br />

utilizzavano dunque un linguaggio dei sentimenti fortemente co<strong>di</strong>ficato. L'oggetto della Comme<strong>di</strong>a<br />

è molto più ampio e complesso. La caratteristica saliente del poema è la polarità - che può<br />

significare anche compresenza a breve <strong>di</strong>stanza - tra registro basso e registro altro, tra umile e<br />

sublime. Da un lato, per la raffigurazione dell'Inferno, Dante si serve <strong>di</strong> uno stile aspro,<br />

violentemente realistico, a volte triviale. Non <strong>di</strong>sdegna perciò termini della lingua popolare<br />

(stregghia, scardova, buffa, ecc.); allinea nomi <strong>di</strong> luogo e <strong>di</strong> persona foneticamente rari e buffi o<br />

spaventosi: per esempio i <strong>di</strong>avoli si chiamano Alichino, Calcabrina, Cagnazzo, Barbariccia,<br />

Farfarello, ecc. (Inf. XXI); soprattutto, adopera questi proce<strong>di</strong>menti stilistici in rima, facendo sì che<br />

il suono aspro delle parole si estenda a intere terzine.<br />

[Il lessico nel Purgatorio e nel Para<strong>di</strong>so] Rispetto <strong>alla</strong> rappresentazione dell'Inferno quella<br />

del Purgatorio e del Para<strong>di</strong>so richiede uno stile del tutto <strong>di</strong>verso. Occorre, qui, dare conto delle<br />

gerarchie angeliche, della forma e della funzione dei cieli, e occorre affrontare delicati temi<br />

teologici. Inoltre quella che Dante ha davanti agli occhi non è una realtà materiale e carnale, fatta <strong>di</strong><br />

peccatori e <strong>di</strong> pene, ma un mondo <strong>di</strong> puri spiriti che sono o saranno beati. Di qui la scelta <strong>di</strong><br />

un'espressione più raffinata, lontana dal linguaggio quoti<strong>di</strong>ano. Dante fa larghissimo uso <strong>di</strong><br />

latinismi (image, viro – ‘uomo’, cive - ‘citta<strong>di</strong>no’, ecc.) spesso ricavati dal linguaggio scolastico e<br />

teologico (querente, qui<strong>di</strong>tate, sillogismo, ecc). Si pensi a un verso come «là ’ve s’appunta ogni ubi<br />

e ogne quando» (Par. XXIX 12). Dovendo inoltre dar conto <strong>di</strong> una realtà estranea a ogni<br />

esperienza umana (il Para<strong>di</strong>so), Dante inventa, insieme ai dettagli della visione, le parole che<br />

servono a esprimerla: <strong>di</strong> qui i neologismi incielarsi, insusarsi, indovarsi, o versi come «s’io<br />

m’intuassi, come tu t’inmii» (Par. IX 81: ‘se io penetrassi nel tuo pensiero come tu nel mio’).<br />

[Fortuna critica. Gli scritti in prosa] Ripercorrendo, in sintesi, le tappe principali della<br />

fortuna <strong>di</strong> Dante, conviene innanzitutto <strong>di</strong>stinguere tra il prosatore e il poeta. Il trattato sulla lingua e<br />

quello sulla politica ebbero, per ragioni <strong>di</strong>verse, circolazione limitata. Il De vulgari eloquentia restò<br />

incompiuto, e circolò pochissimo (ne restano solo tre manoscritti trecenteschi), tanto che, quando<br />

nel Cinquecento, venne ‘ritrovato’ e tradotto dal Trissino molti pensarono ad un falso; la prima<br />

e<strong>di</strong>zione a stampa è del 1577. La Monarchia, per il suo risoluto spirito anti-teocratico, non piacque<br />

53


alle gerarchie ecclesiastiche, e fu condannata al rogo come libro eretico dal legato papale Bertrando<br />

del Poggetto (resterà nell’In<strong>di</strong>ce dei libri proibiti d<strong>alla</strong> Chiesa cattolica sino al 1881); l’approvarono<br />

invece, trovandovi buoni argomenti a convalida delle proprie tesi, quanti ritenevano che la sfera<br />

politica dovesse mantenersi autonoma d<strong>alla</strong> sfera religiosa: e si spiega così il favore con cui l’opera<br />

venne letta da un rivoluzionario come Cola <strong>di</strong> Rienzo o, nel Cinquecento, dai maggiori esponenti<br />

delle chiese riformate. Fortuna più ampia ebbe il trattato filosofico del Convivio: ma rari imitatori,<br />

posto che la lingua della filosofia restò ancora per lungo tempo il latino.<br />

[La poesia lirica]. Con Petrarca, Dante fu il massimo e più influente poeta lirico del<br />

Me<strong>di</strong>oevo. La struttura della Vita nova – una cornice prosastica che mette in sequenza e commenta<br />

alcuni testi poetici, facendo <strong>di</strong> questa successione la trama <strong>di</strong> un racconto – era, probabilmente,<br />

troppo ardua perché potesse trovare subito degli imitatori: e per trovare qualcosa <strong>di</strong> simile occorrerà<br />

aspettare, ormai sullo scorcio del Quattrocento, il Comento <strong>di</strong> Lorenzo de’ Me<strong>di</strong>ci alle proprie<br />

liriche. Ma temi, motivi, forme e strutture metriche delle sue poesie vennero largamente imitati nei<br />

due secoli successivi: e, soprattutto nella sfera della poesia morale e allegorica (la sfera <strong>di</strong> una<br />

canzone come Tre donne intorno al cor mi son venute), il suo esempio restò vivo e anche nell’età<br />

dell petrarchismo.<br />

[La Comme<strong>di</strong>a] Quanto <strong>alla</strong> Comme<strong>di</strong>a, basti fissare qui le coor<strong>di</strong>nate essenziali <strong>di</strong> una<br />

fortuna davvero sterminata, imparagonabile a quella <strong>di</strong> qualsiasi altra opera letteraria me<strong>di</strong>evale. A<br />

pubblicarla, cioè a commissionarne copie e a sovrintendere <strong>alla</strong> sua prima circolazione, furono<br />

probabilmente i figli stessi <strong>di</strong> Dante, Iacopo e Pietro, poco dopo la <strong>morte</strong> del poeta. E subito i<br />

letterati si cimentarono nel commento, in latino o in volgare, all’opera, inaugurando una tra<strong>di</strong>zione<br />

esegetica ancor oggi vitale; si ricor<strong>di</strong>no almeno i commenti <strong>di</strong> Graziolo de’ Bambaglioli, <strong>di</strong> Iacopo<br />

della Lana (anni Venti del Trecento), <strong>di</strong> Guido da Pisa, <strong>di</strong> Andrea Lancia detto l’Ottimo (anni<br />

Trenta), <strong>di</strong> Benvenuto da Imola, a metà secolo, e <strong>di</strong> Francesco da Buti poco più tar<strong>di</strong>. Una pietra<br />

miliare nella fortuna del poema sono poi le letture pubbliche tenute da Giovanni Boccaccio nel<br />

1373 e nel 1374 a Firenze (Esposizioni): pur rimaste frammentarie, esse consacrarono la Comme<strong>di</strong>a<br />

al rango <strong>di</strong> classico, meritevole <strong>di</strong> essere non solo letto ma stu<strong>di</strong>ato. Di qui in poi, la Comme<strong>di</strong>a sarà<br />

sempre, per il pubblico dei lettori, l’opera letteraria più amata e familiare. L’atteggiamento degli<br />

intellettuali fu meno univoco. Gli umanisti del Quattrocento rimproverarono Dante per aver usato,<br />

in un’opera <strong>di</strong> soggetto così elevato, il volgare e non il latino. E anche circa l’uso del volgare, il<br />

Rinascimento – e in primis il massimo giu<strong>di</strong>ce <strong>di</strong> cose <strong>di</strong> lingua e letteratura nella prima metà del<br />

secolo XVI, Pietro Bembo – preferirà tendenzialmente il raffinatissimo Petrarca al troppo rozzo e<br />

<strong>di</strong>seguale Dante, e il primo, non il secondo, proporrà come modello degno <strong>di</strong> essere imitato. Questo<br />

pregiu<strong>di</strong>zio spiega, in parte, la relativa sfortuna della Comme<strong>di</strong>a nel corso del Seicento (tre sole<br />

e<strong>di</strong>zioni a stampa durante tutto il secolo). Toccherà a Giambattista Vico, nella prima metà del<br />

Settecento, rifondare la critica dantesca mettendo l’accento su quei caratteri della Comme<strong>di</strong>a che<br />

saranno poi particolarmente cari <strong>alla</strong> critica romantica: il rapporto con il sentimento popolare e con<br />

la naura, che apparenta Dante ad Omero; la forza quasi barbarica della rappresentazione, soprattutto<br />

nell’Inferno; la capacità <strong>di</strong> unire in sintesi perfetta fantasia e storia. Nel corso dell’Ottocento,<br />

l’amore per la Comme<strong>di</strong>a non farà che aumentare, sia perché ad essa si richiameranno i maggiori<br />

poeti del secolo, da Foscolo a Leopar<strong>di</strong> (si pensi <strong>alla</strong> canzone giovanile Sopra il monumento <strong>di</strong><br />

Dante che si preparava in Firenze), da Monti a Pascoli, sia perché del poema si approprierà il<br />

patriottismo risorgimentale, trasformandolo in una sorta <strong>di</strong> mito <strong>di</strong> fondazione della nazione<br />

<strong>italiana</strong>: e a questa lettura ‘politica’ contribuirà anche il massimo critico italiano del secolo<br />

Francesco De Sanctis. Nel solco del Vico e della critica romantica (Hegel), lo stesso De Sanctis<br />

concentrerà l’attenzione sul problema cruciale del realismo dantesco: problema che ha sollecitato<br />

più tar<strong>di</strong> le ricerche del maggiore dantista del Novecento, Erich Auerbach. Insieme ad Auerbach<br />

andranno ricordati almeno altri tre stu<strong>di</strong>osi novecenteschi che, da prospettive <strong>di</strong>verse, hanno fornito<br />

interpretazioni innovative del poema: l’americano Charles Singleton (per i rapporti della Comme<strong>di</strong>a<br />

con i testi sacri e la letteratura cristiana) e gli italiani Bruno Nar<strong>di</strong> (per le conoscenze filosofiche <strong>di</strong><br />

Dante) e Gianfranco Contini (per la lingua e lo stile).<br />

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5. Francesco Petrarca<br />

5.1 La vita<br />

[La giovinezza e la prima maturità] Dante, Petrarca e Boccaccio sono stati chiamati d<strong>alla</strong><br />

critica ottocentesca le ‘tre corone fiorentine’, ma nessuno dei tre, <strong>di</strong> fatto, trascorse per intero la sua<br />

vita a Firenze. Francesco Petrarca, si può <strong>di</strong>re, la conobbe appena, e solo negli anni della maturità.<br />

Nato ad Arezzo nel 1304 da un fiorentino, il notaio Petracco <strong>di</strong> Parenzo, esiliato d<strong>alla</strong> città natale in<br />

seguito <strong>alla</strong> vittoria dei guelfi neri, Francesco trascorse l’infanzia tra il Valdarno e Pisa. Nel 1312, si<br />

stabilisce con la famiglia nella piccola citta<strong>di</strong>na provenzale <strong>di</strong> Carpentras, vicino ad Avignone, dove<br />

il padre lavora presso la corte papale, lì da poco trasferitasi. Intelletto eccezionalmente precoce,<br />

Francesco stu<strong>di</strong>a prima grammatica sotto la guida del maestro Convenevole da Prato, poi <strong>di</strong>ritto a<br />

Montpellier e, dal 1320 al 1326, a Bologna. Alla <strong>morte</strong> del padre, spinto soprattutto da ragioni<br />

economiche, decide <strong>di</strong> intraprendere la carriera ecclesiastica, <strong>di</strong>ventando cappellano della potente<br />

famiglia romana dei Colonna. Nei primi anni Trenta si <strong>di</strong>vide tra l’Italia e la Provenza (al 6 aprile<br />

1327 rimonterebbe il fatale incontro con Laura nella chiesa <strong>di</strong> Santa Chiara a Avignone); ma, come<br />

pochi altri intellettuali italiani del suo tempo, grazie al servizio presso i Colonna ha anche<br />

l’opportunità <strong>di</strong> conoscere altre regioni d’Europa: i Pirenei, la Francia del nord, la Germania, le<br />

Fiandre. È durante uno <strong>di</strong> questi viaggi, precisamente a Liegi, che Petrarca compie la prima delle<br />

sue scoperte eru<strong>di</strong>te: due sconosciute orazioni <strong>di</strong> Cicerone.<br />

[Gli anni della maturità] Per circa un ventennio, d<strong>alla</strong> fine degli anni Trenta <strong>alla</strong> fine degli<br />

anni Cinquanta vive a Valchiusa, a quin<strong>di</strong>ci miglia da Avignone: non lontano d<strong>alla</strong> corte papale,<br />

quin<strong>di</strong>, ma non così vicino da essere costretto a sopportare le miserie della vita cortigiana, secondo<br />

un ideale <strong>di</strong> otium (‘tempo libero speso nello stu<strong>di</strong>o o nella me<strong>di</strong>tazione’, laddove il negotium è il<br />

tempo speso, e sovente mal speso, nelle pubbliche occupazioni) che darà materia, più tar<strong>di</strong>, a uno<br />

dei suoi più importanti saggi morali, il De vita solitaria. Tuttavia, in questo periodo è spesso in<br />

Italia, ospite <strong>di</strong> amici e benefattori. Nel 1341, il soggiorno a Napoli e a Roma ha una ragione<br />

speciale: restaurando una consuetu<strong>di</strong>ne che risaliva all’età classica, ma che era caduta in <strong>di</strong>suso,<br />

Petrarca riceve la laurea poetica – cioè una corona d’alloro, simbolo d’eccellenza nell’arte - in<br />

Campidoglio <strong>dalle</strong> mani <strong>di</strong> re Roberto d’Angiò. Negli anni 1343-45 sarà ancora a Napoli, poi nelle<br />

corti principesche del nord: a Parma, presso Azzo <strong>di</strong> Correggio; a Verona, presso gli Scaligeri: e al<br />

soggiorno veronese risale la seconda grande scoperta filologica <strong>di</strong> Petrarca, le lettere <strong>di</strong> Cicerone a<br />

Attico.<br />

[I rapporti con l’Italia e l’impegno politico] I soggiorni in Italia, frattanto, lo portano a<br />

riflettere con amarezza sulle <strong>di</strong>sastrose con<strong>di</strong>zioni politiche in cui versa la penisola. Nel 1336 scrive<br />

a papa Benedetto XII esortandolo a riportare la sede pontificia da Avignone a Roma. È questo un<br />

cruccio costante per il poeta, tant’è vero che trent’anni dopo rivolgerà la stessa preghiera a Urbano<br />

V. Nel 1337 è a Roma per la prima volta, ospite dei Colonna, e davanti alle rovine della città più<br />

che mai si convince della necessità <strong>di</strong> una renovatio (‘rinnovamento, rinascita’) che segni la fine del<br />

frazionamento politico della nazione e riporti la città, e l’Italia intera, all’antico lustro. Nei primi<br />

anni Quaranta segue con favore l’impresa <strong>di</strong> Cola <strong>di</strong> Rienzo, il quale tenta <strong>di</strong> imporre a Roma un<br />

governo popolare che allontani dal potere le gran<strong>di</strong> famiglie aristocratiche romane: i Crescenzi, gli<br />

Orsini, gli stessi Colonna. Petrarca approva il tentativo <strong>di</strong> Cola: gli scrive, nel 1347, una lettera con<br />

la quale lo invita a ristabilire l’antica libertas romana; e intercede personalmente presso il papa<br />

perché appoggi a sua volta Cola, <strong>di</strong>fendendolo contro le fazioni nobiliari. Ma Cola fallisce: deve<br />

prima lasciare il governo della città, poi, nel 1354, viene ucciso. Cola – <strong>di</strong>rà più tar<strong>di</strong> Petrarca – non<br />

prevalse perché non seppe agire: cioè non fu abbastanza risoluto nella lotta contro le gran<strong>di</strong> <strong>di</strong>nastie<br />

romane. Maggiore decisione, e un uso più scaltro della forza, avrebbe dato migliori risultati: Cola<br />

«è senza dubbio degno <strong>di</strong> ogni supplizio – scrive Petrarca – perché quel che volle non lo volle con<br />

tutte le sue forze, come avrebbe dovuto e come richiedevano le circostanze» (Familiares, libro XIII<br />

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vi 11). Sempre più sfiduciato circa la possibilità che l’Italia avesse <strong>di</strong> trovare da sola un equilibrio<br />

politico, confida, come Dante (e come Dante invano), nell’azione dell’imperatore: e nel 1351 scrive<br />

a Carlo IV <strong>di</strong> Boemia invitandolo a scendere, da pacificatore, nella penisola. Già da questi brevi<br />

cenni è evidente la reputazione non soltanto artistica ma anche politica <strong>di</strong> cui Petrarca gode presso i<br />

contemporanei: ben pochi saranno, dopo <strong>di</strong> lui, gli intellettuali che potranno <strong>di</strong>alogare con papi e<br />

imperatori con la certezza <strong>di</strong> essere ascoltati.<br />

[Il conflitto interiore] La modernità <strong>di</strong> Petrarca sta, tra l’altro, nella sua complessità<br />

spirituale, e nella quantità <strong>di</strong> dubbi, ripensamenti, pentimenti che la sua opera – e i suoi epistolari in<br />

particolare – rispecchia. Vi è sempre, in lui, il sentimento <strong>di</strong> una contrad<strong>di</strong>zione tra il corpo e<br />

l’anima, tra il desiderio della gloria terrena e l’ascesi, tra l’intenzione <strong>di</strong> isolarsi dal mondo e il<br />

continuo vagare da una corte all’altra e da una città all’altra. In una delle sue lettere più celebri<br />

Petrarca narra l’ascesa al monte Ventoso, vicino a Carpentras, effettuata insieme al fratello<br />

Gherardo nell’aprile del 1336. Arrivato in cima al monte, apre a caso le Confessioni <strong>di</strong><br />

sant’Agostino, e la pagina che gli si offre recita: «E gli uomini vanno ad ammirare le altezze dei<br />

monti e l’immensità dell’oceano e il corso delle stelle, e trascurano se stessi». Reale o inventato che<br />

sia, l’episo<strong>di</strong>o ha una chiara funzione simbolica: in<strong>di</strong>ca al poeta la necessità <strong>di</strong> una conversione, <strong>di</strong><br />

un ritiro dal mondo. Questo proposito non farà che rafforzarsi nel corso degli anni, soprattutto dopo<br />

che Gherardo sarà <strong>di</strong>ventato monaco certosino (1343): le opere ‘autobiografiche’ della maturità (il<br />

Canzoniere compreso) riflettono questa contrad<strong>di</strong>zione e questa aspirazione a una vita<br />

autenticamente cristiana.<br />

[Gli ultimi anni] Il 1348 è, per l’Europa e per Petrarca, un anno fatale. La peste nera decima<br />

la popolazione del continente. Muore Giovanni Colonna e muore, secondo quanto afferma Petrarca,<br />

anche Laura. Nel 1350 incontra a Firenze, per la prima volta, Giovanni Boccaccio: ne nasce<br />

un’amicizia che durerà fino <strong>alla</strong> <strong>morte</strong> del poeta, con il più autorevole Petrarca sempre nel ruolo <strong>di</strong><br />

guida e maestro, Boccaccio in quello <strong>di</strong> allievo. Nel 1353 lascia per sempre Valchiusa e si stabilisce<br />

in Italia. Le città e le corti del nord Italia si contendono quello che era ormai per consenso comune il<br />

maggiore intellettuale europeo. Per alcuni anni è a Milano, segretario e ambasciatore dei Visconti;<br />

quin<strong>di</strong> a Venezia, poi a Padova presso i Carraresi. Vicino a Padova, ad Arquà sui Colli Euganei,<br />

trascorre l’ultimo periodo della sua vita: e qui muore nel luglio del 1374. Buona parte della sua<br />

ricchissima biblioteca, già promessa <strong>alla</strong> Repubblica veneziana, passa invece ai Carraresi, poi ai<br />

Visconti come preda <strong>di</strong> guerra, infine a Parigi. E prestissimo inizia, da parte dei suoi <strong>di</strong>scepoli e<br />

ammiratori, la copia delle opere latine e volgari, che nei secoli successivi godranno in Europa <strong>di</strong> una<br />

<strong>di</strong>ffusione maggiore rispetto a quella <strong>di</strong> qualsiasi altro scrittore me<strong>di</strong>evale.<br />

5.2 La personalità e le idee<br />

[Il rapporto tra latino e volgare] Benché Petrarca sia noto al pubblico moderno soprattutto<br />

per il Canzoniere, occorre sempre ricordare che la grande maggioranza delle sue opere venne scritta<br />

in latino, e che a queste – non a quelle volgari – il poeta riteneva <strong>di</strong> dover affidare la sua fama. Così<br />

in sostanza avvenne durante la vita <strong>di</strong> Petrarca (dato che a guadagnargli la laurea poetica furono<br />

soprattutto i primi abbozzi dell’Africa e del De viris illustribus) e per quasi un secolo dopo la sua<br />

<strong>morte</strong>: fu soprattutto il poeta e il trattatista in latino ad essere amato e imitato nei circoli umanistici.<br />

Soltanto a partire d<strong>alla</strong> seconda metà del Quattrocento le liriche volgari presero ad avere quel ruolo<br />

<strong>di</strong> classico che tuttora hanno nella considerazione dei lettori, venendo copiate e imitate da<br />

generazioni <strong>di</strong> poeti europei.<br />

[Il culto dell’antichità classica] Il confronto con gli autori latini e greci fu una costante della<br />

vita <strong>di</strong> Petrarca. Della vita, non solo dell’opera. Anche Dante e i suoi contemporanei avevano amato<br />

e imitato i classici, ma il caso <strong>di</strong> Petrarca è <strong>di</strong>verso. Sin dagli anni della giovinezza, egli cerca e<br />

colleziona i manoscritti <strong>di</strong> Virgilio, Cicerone, Seneca e degli altri gran<strong>di</strong> poeti e prosatori latini. Li<br />

stu<strong>di</strong>a, e le tracce <strong>di</strong> quello stu<strong>di</strong>o le possiamo ancora vedere nei co<strong>di</strong>ci che gli sono appartenuti:<br />

sono le glosse, i brevi commenti che Petrarca depone ai margini del testo. Imita i classici nello stile,<br />

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estituendogli quella purezza e quella eleganza che – come egli afferma - si era perduta nel<br />

‘barbarico’ latino degli scolastici. Tenta, pur senza grande successo, <strong>di</strong> imparare il greco per poter<br />

leggere Omero nell’originale (e in questo tentativo lo affiancherà Boccaccio). In prima persona,<br />

inoltre, scopre opere latine <strong>di</strong>menticate nelle biblioteche italiane ed europee, e ne trasmette copia<br />

agli amici. E questi amici li ribattezza, nelle lettere, con nomi trovati nella tra<strong>di</strong>zione classica:<br />

Angelo Tosetti <strong>di</strong>venta Lelio, il fiammingo Ludwig van Kempen <strong>di</strong>venta Socrate. Non stupisce che<br />

l’influenza della cultura greco-latina, così forte sulla vita del poeta, si faccia sentire ancora più forte<br />

sull’opera: non c’è testo petrarchesco, infatti in prosa o in verso, che non si richiami in maniera più<br />

o meno <strong>di</strong>retta all’esempio degli antichi.<br />

[La critica della cultura contemporanea] Il culto dell’antichità greco-latina implica anche un<br />

giu<strong>di</strong>zio molto severo nei confronti della cultura del proprio tempo. L’idea <strong>di</strong> cultura <strong>di</strong> Petrarca si<br />

fonda su due elementi: la lezione umanistica dei classici e la dottrina cristiana così come l’aveva<br />

co<strong>di</strong>ficata il Padre della Chiesa che rappresenterà sempre per Petrarca un ideale <strong>di</strong> intellettuale e <strong>di</strong><br />

uomo: Agostino. L’incontro tra la classicità e il cristianesimo ha luogo, per Petrarca, sul terreno<br />

dell’etica: ai suoi occhi, la filosofia tardo-me<strong>di</strong>evale, dominata <strong>dalle</strong> sottigliezze degli scolastici e<br />

dei <strong>di</strong>alettici, non ha alcun valore. Ciò risulterà evidente in due opuscoli della maturità: le Invective<br />

contra me<strong>di</strong>cum (1353), che sono una <strong>di</strong>chiarazione <strong>di</strong> superiorità delle cosiddette arti liberali su<br />

quelle che sono in<strong>di</strong>rizzate al guadagno, e in particolare un elogio della poesia e della retorica -<br />

insomma delle ‘<strong>di</strong>scipline umanistiche’ - contro la pseudo-scienza dei me<strong>di</strong>ci. E il De ignorantia<br />

(1366-67), in cui Petrarca afferma la superiorità della filosofia morale sulle scienze naturali e, <strong>di</strong><br />

conseguenza, la superiorità dei gran<strong>di</strong> moralisti classici (Platone, Cicerone) e cristiani rispetto a<br />

quella <strong>di</strong> Aristotele. Petrarca mette così in <strong>di</strong>scussione il primato <strong>di</strong> quello che durante tutto il<br />

Me<strong>di</strong>oevo era stato, ed era ancora, il Filosofo per eccellenza; insieme, attacca gli ere<strong>di</strong> <strong>di</strong> Aristotele:<br />

quelle scuole <strong>di</strong> logica e <strong>di</strong>alettica che ne avevano pervertito il metodo, riducendo la filosofia a<br />

semplice gioco intellettuale.<br />

5.3 Le opere<br />

[L’Africa] Con l’Africa, iniziata a Valchiusa tra il 1338 e il 1339 e mai portata a termine,<br />

Petrarca intende rinnovare la grande tra<strong>di</strong>zione dell’epica latina. Per farlo, sceglie <strong>di</strong> narrare non <strong>di</strong><br />

eventi contemporanei bensì <strong>di</strong> un episo<strong>di</strong>o glorioso della storia romana: la guerra <strong>di</strong> Scipione contro<br />

i cartaginesi, d<strong>alla</strong> prima spe<strong>di</strong>zione in Africa <strong>alla</strong> battaglia <strong>di</strong> Zama al rientro trionfale a Roma.<br />

Insieme ai modelli poetici, Virgilio e Lucano, Petrarca ha presente qui soprattutto lo storico Tito<br />

Livio, i cui Ab urbe con<strong>di</strong>ta libri aveva del resto iniziato a stu<strong>di</strong>are già negli anni Venti: come<br />

spesso in Petrarca, l’attività filologica (egli progetta, e in buona misura realizza, una sorta <strong>di</strong><br />

e<strong>di</strong>zione critica <strong>di</strong> Livio) prepara, fornendo dati ed idee, la creazione letteraria. L’Africa restò<br />

incompiuta e, vivente l’autore, non ne circolarono se non brevi brani; ciò che il pubblico arrivò a<br />

conoscere bastò, tuttavia, a garantire a Petrarca una larghissima fama: e la cosa si spiega, perché il<br />

tema del riscatto romano, per quanto remoto, poteva ben essere letto come allegoria, ossia come<br />

auspicio per l’Italia trecentesca. Così il poeta ne parlerà nella lettera ai posteri (su cui cfr. oltre):<br />

«Vagavo tra quei monti [in Provenza], il sesto giorno della settimana santa, quando mi venne il<br />

desiderio <strong>di</strong> scrivere un poema epico su Scipione l’Africano, che mi era stato caro sin dall’infanzia.<br />

Ma, per il soggetto trattato, intitolai Africa quest’opera. Fu amata da molti ancor prima <strong>di</strong> essere<br />

conosciuta; ma, iniziatala, con grande impegno, presto la interruppi, <strong>di</strong>stratto da altre occupazioni».<br />

[Il De viris illustribus] Il De viris illustribus doveva essere, nel progetto originale databile<br />

<strong>alla</strong> fine degli anni Trenta, una raccolta <strong>di</strong> biografie de<strong>di</strong>cate ai gran<strong>di</strong> personaggi della storia<br />

romana, da Romolo a Tito. Come l’Africa, anche quest’opera rimase incompiuta; e, come l’Africa,<br />

anche nel De viris a Scipione l’Africano viene concesso uno spazio eccezionalmente ampio: la sua<br />

biografia è lunga quasi quanto tutte le altre messe assieme. Le due opere nascono dunque insieme e<br />

procedono per un certo tratto in parallelo. Mentre però il tentativo dell’Africa era quello, davvero<br />

gran<strong>di</strong>oso, <strong>di</strong> ridare vita all’epica latina, il De viris ha ra<strong>di</strong>ci in una tra<strong>di</strong>zione che, da Svetonio in<br />

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poi, non si era mai veramente interrotta: la descrizione della vita e delle gesta <strong>di</strong> uomini famosi è un<br />

luogo comune della storiografia me<strong>di</strong>evale. La novità <strong>di</strong> Petrarca consiste soprattutto in tre fatti: un<br />

<strong>di</strong>verso rapporto con le fonti eru<strong>di</strong>te, nel senso che egli non si limita a ripetere quanto vi trova<br />

scritto ma fa opera veramente critica <strong>di</strong> storiografo, confrontandole ed emendandole dagli errori; un<br />

atteggiamento ‘laico’ <strong>di</strong> fronte ai personaggi ritratti, apprezzati e lodati, più che per la loro funzione<br />

provvidenziale, per le loro virtù umane (il coraggio, la lealtà, ecc.); una rigida selezione quanto al<br />

‘genere’ dei biografati: «non vi si parla – scriverà Petrarca – <strong>di</strong> me<strong>di</strong>ci né <strong>di</strong> poeti o filosofi, ma<br />

soltanto <strong>di</strong> coloro che si <strong>di</strong>stinsero per le virtù militari o per il grande amore per la patria»: è quello<br />

che oggi chiameremmo il ‘valore civile’ a interessare il biografo, non la virtù in sé. Il De viris venne<br />

ripreso da Petrarca all’inizio degli anni Cinquanta e ampliato con l’aggiunta <strong>di</strong> biografie <strong>di</strong><br />

personaggi appartenenti alle civiltà extraromane: l’oriente, il mito greco, la Bibbia; ma anche questa<br />

seconda redazione dell’opera resterà incompiuta.<br />

[I Rerum memorandarum libri] Nel 1343, Petrarca avvia un’altra opera storiografica meno<br />

impegnativa del De viris illustribus, i Rerum memorandarum libri. Si tratta <strong>di</strong> una raccolta <strong>di</strong><br />

aneddoti - sul modello dei Fatti e detti memorabili dello storico latino Valerio Massimo - che,<br />

secondo il progetto iniziale, dovevano servire a illustrare le quattro virtù car<strong>di</strong>nali: giustizia,<br />

prudenza, fortezza e temperanza. La materia degli aneddoti è tratta non solo, come nel De viris,<br />

d<strong>alla</strong> storia romana, ma anche da quella contemporanea: tra i detti e i fatti memorabili registrati ci<br />

sono anche quelli, per esempio, <strong>di</strong> re Roberto d’Angiò, <strong>di</strong> Matteo Visconti, <strong>di</strong> Dante. I limiti<br />

dell’opera sono chiari. Se il De viris era troppo ambizioso, e perciò venne abbandonato, questo<br />

catalogo <strong>di</strong> Res memorandae è troppo caotico e occasionale per avere un reale interesse<br />

storiografico: anch’esso rimase incompiuto e venne pubblicato soltanto dopo la <strong>morte</strong> del poeta.<br />

[La svolta autobiografica degli anni Quaranta: il Secretum] Nel corso degli anni Quaranta,<br />

lasciata l’oggettività dell’epica e della storiografia, l’opera <strong>di</strong> Petrarca si orienta verso un più forte<br />

coinvolgimento soggettivo: il poeta riflette e parla <strong>di</strong> sé, in linea con quel proposito <strong>di</strong> autoanalisi e<br />

<strong>di</strong> conversione cui si è accennato sopra. Nella prosa latina del Secretum (intitolato in effetti De<br />

secreto conflictu curarum mearum ‘Sul segreto conflitto delle mie angustie’), Petrarca si ispira per<br />

il contenuto alle Confessioni <strong>di</strong> sant’Agostino e per la forma ai <strong>di</strong>aloghi ciceroniani, e mette in<br />

scena una conversazione immaginaria tra se stesso e Agostino al cospetto della Verità. Nel primo<br />

libro, che funge da introduzione, Agostino esorta Francesco a riflettere sulla <strong>morte</strong> e a orientare la<br />

sua vita al bene: nessuno – sostiene infatti il maestro – può essere infelice contro la propria volontà.<br />

Nel secondo libro Agostino passa in rassegna i peccati capitali richiamando l’attenzione <strong>di</strong><br />

Francesco su quelli che più lo affliggono: e mentre egli può <strong>di</strong>rsi immune dall’invi<strong>di</strong>a, d<strong>alla</strong> gola o<br />

dall’avarizia, non altrettanto si può <strong>di</strong>re della lussuria, o <strong>di</strong> peccati tipici degli intellettuali come<br />

l’ambizione e l’acci<strong>di</strong>a. Proprio sulle tentazioni della carne e sulla fama terrena Agostino insiste nel<br />

terzo libro: l’amore per Laura, sostiene Agostino, ha allontanato, non avvicinato Francesco a Dio: la<br />

devozione per una creatura terrena è d’ostacolo a una condotta autenticamente cristiana. Quanto <strong>alla</strong><br />

letteratura, è tempo che Francesco abbandoni le opere ‘laiche’ che gli avevano dato la laurea poetica<br />

e passi a me<strong>di</strong>tare sui testi sacri e sul destino della sua anima: la <strong>morte</strong> – e in ciò il Secretum si<br />

avvicina a quelle opere della tra<strong>di</strong>zione cristiana de<strong>di</strong>cate al contemptus mun<strong>di</strong> (‘Il <strong>di</strong>sprezzo delle<br />

cose mondane’) – non è lontana.<br />

[Le opere d’ispirazione cristiana] La carriera letteraria <strong>di</strong> Petrarca segue almeno in parte, <strong>di</strong><br />

qui in poi, la <strong>di</strong>rezione in<strong>di</strong>cata dal Secretum. Tra il 1347 e il 1348 (ma alcuni stu<strong>di</strong>osi hanno<br />

proposto una datazione più alta, al 1342-43) scrive in latino sette Salmi penitenziali: preghiere<br />

tramate <strong>di</strong> citazioni bibliche in cui il poeta confessa il proprio smarrimento, <strong>di</strong>chiara il proposito <strong>di</strong><br />

pentirsi e confida nella misericor<strong>di</strong>a <strong>di</strong>vina. Anche i due ‘saggi’ De vita solitaria e De otio<br />

religioso, scritti nella seconda metà degli anni Quaranta, recano chiari i segni dell’ispirazione<br />

cristiana: l’eru<strong>di</strong>zione classica delle opere del decennio precedente lascia il posto a un interesse<br />

introspettivo e parenetico. Il primo trattato (1346, con successivi rimaneggiamenti e de<strong>di</strong>ca nel<br />

1366, a Filippo <strong>di</strong> Cabassoles) è un elogio della solitu<strong>di</strong>ne e dell’otium intellettuale («leggere ciò<br />

che hanno scritto gli antichi – questo il progetto petrarchesco – e scrivere ciò che leggeranno i<br />

58


posteri»). Il secondo, scritto dopo una visita al fratello Gherardo monaco a Montreux (e infatti<br />

de<strong>di</strong>cato ai frati Certosini), è un paragone tra la vita serena dei monaci, che hanno rinunciato al<br />

mondo, e le pene <strong>di</strong> chi, come Petrarca, nel mondo è ancora coinvolto.<br />

[Il Bucolicum carmen] La presenza del soggetto, l’autobiografismo che si è detto essere<br />

presente nel Petrarca saggista degli anni Quaranta lascia tracce cospicue anche nelle egloghe latine<br />

del Bucolicum carmen. Si tratta <strong>di</strong> 12 egloghe scritte tra il 1346 e il 1348 e poi – secondo un<br />

costume tipico <strong>di</strong> Petrarca - a più riprese rimaneggiate. Come già ricordato per Dante (cfr. § 4.8),<br />

l’egloga pastorale è un genere <strong>di</strong> antica tra<strong>di</strong>zione classica in cui viene rappresentata la vita dei<br />

campi attraverso il <strong>di</strong>alogo tra i pastori. Petrarca imita questo modello, ma se ne serve per parlare,<br />

sotto un pesante velo allegorico, <strong>di</strong> temi che lo riguardano personalmente: l’amore per Laura,<br />

l’ambizione letteraria, i rapporti con i Colonna; oppure delle vicende politiche contemporanee: la<br />

<strong>morte</strong> <strong>di</strong> Roberto d’Angiò e la crisi del regno napoletano, le lotte tra le famiglie romane.<br />

[Il De reme<strong>di</strong>is] Negli anni Cinquanta, Petrarca vive prevalentemente a Milano, presso i<br />

Visconti. Qui conclude, in breve tempo (ma come sempre vi saranno, negli anni successivi, ritocchi<br />

e aggiunte), il grande trattato morale De reme<strong>di</strong>is utriusque fortunae (‘Sui rime<strong>di</strong> per la buona e la<br />

cattiva fortuna’) una sorta <strong>di</strong> guida <strong>alla</strong> retta vita in cui si insegna a far fronte <strong>alla</strong> buona (primo<br />

libro) o <strong>alla</strong> cattiva sorte (secondo libro). La struttura dell’opera è molto semplice, e prossima a<br />

quella <strong>di</strong> molti trattati me<strong>di</strong>evali: la Ragione <strong>di</strong>aloga nel primo libro con la Gioia e la Speranza (122<br />

<strong>di</strong>aloghi), nel secondo con il Dolore e il Timore (131 <strong>di</strong>aloghi), e pacatamente corregge l’eccessiva<br />

euforia o l’eccessivo sconforto dei suoi interlocutori, spiegando come affrontare i <strong>di</strong>versi casi della<br />

vita: gli incarichi pubblici, le cure familiari, la guerra, la ricchezza, le calamità naturali, la <strong>morte</strong> dei<br />

propri cari e la propria, ecc. È, s’intende, una Ragione che s’ispira, oltre che <strong>alla</strong> Bibbia, ai gran<strong>di</strong><br />

saggi dell’età classica: «La conoscenza dell’antichità viene umanisticamente subor<strong>di</strong>nata al frutto<br />

che se ne può trarre nella vita, alle norme che ne derivano per il vivere <strong>di</strong> ogni giorno» (Branca).<br />

Grazie a questa universalità dei temi – il trattato parla in sostanza della vita umana in tutte le sue<br />

manifestazioni – e grazie <strong>alla</strong> semplicità della sua struttura ‘da manuale’, il De reme<strong>di</strong>is godette <strong>di</strong><br />

un’enorme <strong>di</strong>ffusione durante tutto il Rinascimento.<br />

[I Trionfi] A Milano, Petrarca inizia anche a lavorare ad un’opera poetica in volgare che lo<br />

terrà impegnato sino <strong>alla</strong> <strong>morte</strong> (su quello che nel progetto avrebbe dovuto essere l’ultimo canto<br />

Petrarca torna anche durante il 1374) e che tuttavia resterà incompiuta: i Trionfi. Si tratta <strong>di</strong> un<br />

poema in terzine chiaramente ispirato <strong>alla</strong> Comme<strong>di</strong>a dantesca: una visione nella quale Petrarca da<br />

un lato passa in rassegna i gran<strong>di</strong> spiriti del passato raccolti in ‘famiglie’, dall’altro riflette sul suo<br />

amore per Laura e sul suo destino ultraterreno. Due elementi assicurarono all’opera, nei due secoli<br />

successivi, una fortuna larghissima, paragonabile soltanto a quella del Canzoniere (insieme al quale<br />

venne più volte copiata e stampata): i dati autobiografici che vi sono <strong>di</strong>sseminati, e che dovevano<br />

suscitare grande curiosità tra i cultori del poeta; e – analogamente a quanto avviene nella Comme<strong>di</strong>a<br />

- l’unione <strong>di</strong> cultura classica e cristiana, cioè la rappresentazione <strong>di</strong> personaggi appartenenti al<br />

mondo greco-latino all’interno <strong>di</strong> una struttura simbolica or<strong>di</strong>nata secondo i princìpi della morale<br />

cristiana.<br />

[La trama] Articolato in sei trionfi, ciascuno <strong>di</strong>viso in uno o più canti, il poema è il<br />

resoconto <strong>di</strong> una visione. In un giorno <strong>di</strong> aprile (il sesto: e il sei aprile del 1327 Petrarca sostiene<br />

infatti <strong>di</strong> aver incontrato per la prima volta Laura), il poeta si trova – come il suo modello, Dante –<br />

‘smarrito’. Il percorso che il poeta compie <strong>di</strong> qui in poi è scan<strong>di</strong>to dall’incontro con una lunghissima<br />

schiera <strong>di</strong> defunti illustri: Petrarca contempla prima il Triumphus Cupi<strong>di</strong>nis (‘trionfo d’Amore’): il<br />

carro del ‘<strong>di</strong>o’ è seguito dagli spiriti che durante la loro vita vennero vinti dall’amore. Si tratta<br />

soprattutto <strong>di</strong> ‘coppie celebri’ prelevate dal mito o d<strong>alla</strong> storia classica (si veda per esempio il lungo<br />

episo<strong>di</strong>o relativo agli amori <strong>di</strong> Sofonisba e Massinissa, l’alleato <strong>di</strong> Scipione l’Africano), ma non<br />

mancano le coppie ‘moderne’, come Dante e Beatrice: né manca, <strong>alla</strong> fine del corteo, un posto per<br />

lo stesso Petrarca, vittima dell’amore per Laura. I canti successivi rappresentano una sorta <strong>di</strong><br />

integrazione e <strong>di</strong> superamento del Trionfo dell’Amore. Mentre prosegue la rassegna dei gran<strong>di</strong><br />

spiriti defunti (ed è questa la parte dell’opera meno vicina al nostro gusto, per l’affollarsi<br />

59


interminabile <strong>di</strong> nomi e allusioni eru<strong>di</strong>te), l’amore viene sconfitto allegoricamente d<strong>alla</strong> Pu<strong>di</strong>cizia<br />

(Triumphus Pu<strong>di</strong>citiae), la Pu<strong>di</strong>cizia d<strong>alla</strong> Morte (Triumphus Mortis: dove è rappresentata anche la<br />

<strong>morte</strong> <strong>di</strong> Laura, e un colloquio in sogno tra lei e Petrarca), la Morte d<strong>alla</strong> Fama postuma (Triumphus<br />

Famae). Nei due ultimi canti (Triumphus Temporis e Triumphus Eternitatis), la rassegna dei defunti<br />

lascia spazio a considerazioni <strong>di</strong> tipo parenetico (= ‘esortativo’), e Laura resta l’unico personaggio<br />

‘terreno’. Di fatto, la visione dell’Eternità, nell’ultimo dei Trionfi si conclude non su una preghiera<br />

a Dio ma sul presagio del ricongiungimento in para<strong>di</strong>so con la donna amata: «se fu beato chi la vide<br />

in terra, / or che fia dunque a rivederla in cielo?» (vv. 144-45).<br />

[Le raccolte <strong>di</strong> versi e <strong>di</strong> lettere] La datazione delle opere <strong>di</strong> Petrarca è sempre questione<br />

complessa, perché il poeta abbandona e poi riprende i suoi testi in momenti <strong>di</strong>versi della sua vita,<br />

pubblicandone versioni provvisorie, o non pubblicandole affatto; o perché <strong>di</strong> proposito sovrappone<br />

<strong>alla</strong> cronologia reale una cronologia ideale creata a posteriori che, per così <strong>di</strong>re, ri<strong>di</strong>segna le tappe<br />

della sua carriera letteraria. Ma vi sono anche testi ‘in movimento’, perché formati da altri testi<br />

scritti in epoche <strong>di</strong>verse: sono gli epistolari e la raccolta delle poesie volgari (su cui cfr. § 5.4).<br />

[I modelli classici] Petrarca fu uno scrittore <strong>di</strong> lettere eccezionalmente prolifico. Fu in<br />

questo modo, piuttosto che attraverso i veri e propri trattati, che si espresse il suo magistero: perché<br />

le sue sono lettere nell’accezione ciceroniana o senechiana, e poi umanistica: scritti rivolti a singoli<br />

interlocutori che hanno però un forte impegno concettuale, testi densi <strong>di</strong> ammaestramenti filosofici,<br />

<strong>di</strong> riflessioni morali, <strong>di</strong> commenti sui classici. Il fatto che si tratti <strong>di</strong> qualcosa <strong>di</strong> <strong>di</strong>verso <strong>dalle</strong><br />

‘lettere’ così come noi oggi le inten<strong>di</strong>amo appare chiaro da due circostanze. In primo luogo,<br />

Petrarca non solo ritocca o riscrive, all’atto della loro riunione in libro, brani <strong>di</strong> vecchie lettere, ma<br />

ad<strong>di</strong>rittura ne scrive alcune ex novo, retrodatandole. In secondo luogo, alcune delle sue lettere non<br />

sono scritte a corrispondenti reali bensì a gran<strong>di</strong> personaggi dell’antichità come Seneca, Livio,<br />

Sallustio: lontano dall’essere lo spazio della spontaneità e dell’imme<strong>di</strong>atezza, le lettere sono il luogo<br />

per eccellenza della sapienza retorica e della consapevolezza ideologica.<br />

[Gli epistolari] In momenti <strong>di</strong>versi della sua vita, Petrarca riunì le sue lettere – tutte scritte in<br />

latino, l’unica lingua adoperata da Petrarca per la prosa - in alcune raccolte (resta un numero esiguo<br />

<strong>di</strong> Disperse, molte <strong>di</strong> dubbia attribuzione):<br />

- I 24 libri delle Familiares (Familiarum rerum libri XXIV: ’24 libri [<strong>di</strong> epistole] su cose<br />

familiari’) raccolgono la parte più consistente della produzione epistolare petrarchesca. Si tratta <strong>di</strong><br />

350 lettere, scritte tra il 1325 e il 1361, che illustrano, quasi giorno per giorno, la vita e l’evoluzione<br />

intellettuale del poeta. Pur senza rinunciare a parlare con i suoi corrispondenti <strong>di</strong> questioni personali<br />

e quoti<strong>di</strong>ane, Petrarca adopera la lettera anche e soprattutto come strumento per la riflessione<br />

morale, in ciò avvicinandosi, come si è accennato, ai modelli classici <strong>di</strong> Cicerone e <strong>di</strong> Seneca.<br />

Proprio per quest’ampiezza <strong>di</strong> prospettiva, molte delle Familiari, pur essendo originalmente<br />

concepite come messaggi privati, conobbero già durante la vita del poeta una assai più larga<br />

circolazione nei circoli intellettuali italiani ed europei.<br />

- Le 19 lettere del libro Sine nomine (così chiamato perché Petrarca tace il nome dei suoi<br />

destinatari) vennero scritte tra il 1342 e il 1358, e raccolte insieme attorno al 1360. Sono omogenee<br />

per tema e ispirazione: vi si parla soprattutto <strong>di</strong> questioni politiche e religiose, con duri attacchi <strong>alla</strong><br />

Curia avignonese (e ciò appunto suggerì all’autore <strong>di</strong> non rivelare l’identità dei destinatari).<br />

- le 66 lettere in versi (Epystolae metricae), risalenti agli anni Trenta, Quaranta e Cinquanta,<br />

vennero riunite da Petrarca in tre volumi nel corso degli anni Sessanta; vari i loro argomenti: da<br />

questioni <strong>di</strong> carattere privato e familiare a più oggettive me<strong>di</strong>tazioni morali e filosofiche.<br />

- il libro delle cosiddette Seniles (‘Senili, lettere della vecchiaia’), mai portato a termine<br />

dall’autore, raccoglie 125 lettere composte tra il 1361 e l’anno della <strong>morte</strong>.<br />

Un cenno a parte merita la lettera Posteritati (‘Ai posteri’), scritta probabilmente in due<br />

tempi: cioè ideata nei primi anni Sessanta e poi ritoccata pochi anni prima della <strong>morte</strong>. Si tratta <strong>di</strong><br />

una sorta <strong>di</strong> autobiografia nella quale il poeta giustifica la sua vita e le sue opere agli occhi <strong>di</strong> un<br />

immaginario lettore futuro. Doveva probabilmente concludere la silloge delle Seniles, ma rimase<br />

incompiuta.<br />

60


5.4 Il «Canzoniere»<br />

[Il libro delle rime volgari] Nel corso della sua vita, Petrarca raccolse più volte le sue poesie<br />

in volgare. È verosimile che, a mano a mano che le componeva, egli le registrasse su carte sciolte; e<br />

che, una volta corrette – anche a grande <strong>di</strong>stanza <strong>di</strong> tempo: Petrarca fu un inesausto revisore <strong>di</strong> se<br />

stesso – esse venissero riunite e fatte circolare tra gli amici e i corrispondenti del poeta. Di queste<br />

‘forme’ provvisorie del Canzoniere petrarchesco restano tracce nella tra<strong>di</strong>zione manoscritta, e gli<br />

stu<strong>di</strong>osi le hanno intitolate convenzionalmente al nome del probabile de<strong>di</strong>catario (così per esempio<br />

la ‘forma Correggio’ era de<strong>di</strong>cata, intorno al 1360, ad Azzo da Correggio; la ‘forma Malatesta’ era<br />

offerta, ormai nel 1373, a Pandolfo Malatesta). Quello che noi chiamiamo Canzoniere è però la<br />

raccolta definitiva: l’ultima volontà del poeta così come è consegnata al manoscritto Vaticano latino<br />

3195, parzialmente autografo, e da Petrarca intitolato Rerum vulgarium fragmenta (‘Frammenti <strong>di</strong><br />

cose volgari’: <strong>di</strong> qui, spesso, a definire la raccolta, il nome <strong>di</strong> Fragmenta).<br />

[Consistenza e or<strong>di</strong>namento] Il libro consta in tutto <strong>di</strong> 366 componimenti: 317 sonetti, 29<br />

canzoni, 9 sestine (che già sperimentate da Dante come forma ‘speciale’ della canzone, assumono in<br />

Petrarca e nei suoi imitatori identità <strong>di</strong> genere metrico autonomo), 7 b<strong>alla</strong>te, 4 madrigali. Diviso in<br />

due parti, separate nell’originale da alcune carte lasciate in bianco (263 testi in vita <strong>di</strong> Laura + 103<br />

in <strong>morte</strong> <strong>di</strong> Laura), il Canzoniere non è però scan<strong>di</strong>to in sezioni metriche così come lo erano i libri<br />

<strong>di</strong> poesia nella tra<strong>di</strong>zione anteriore a Petrarca: i generi metrici vi si alternano liberamente. I princìpi<br />

che guidano l’allestimento del libro sono invece la cronologia e la continuità tematica. Certo,<br />

riunendo insieme le proprie liriche, Petrarca non arriva a comporre un vero e proprio romanzo in<br />

versi (ciò che aveva fatto Dante nella Vita nova, ma col necessario ausilio dei paragrafi in prosa);<br />

ma il Canzoniere è, altrettanto certamente, un racconto dotato <strong>di</strong> un inizio, una fine e un<br />

riconoscibile svolgimento: a rendere più visibile il quale concorrono i cosiddetti ‘testi <strong>di</strong><br />

anniversario’, scritti <strong>di</strong> anno in anno nella ricorrenza del primo incontro tra il poeta e la donna<br />

amata. D’altro canto, nel libro si possono isolare anche brevi sequenze <strong>di</strong> componimenti che stanno<br />

tra loro non in rapporto <strong>di</strong> successione cronologica bensì piuttosto <strong>di</strong> congruità tematica: testi, cioè,<br />

che in modo <strong>di</strong> volta in volta sottilmente <strong>di</strong>verso sviluppano un identico motivo (per esempio il<br />

motivo della lode per gli occhi, o del dolore per la <strong>di</strong>stanza d<strong>alla</strong> donna amata, o della <strong>morte</strong> <strong>di</strong> un<br />

amico, ecc.).<br />

[Temi] Il Canzoniere è soprattutto il <strong>di</strong>ario dell’amore <strong>di</strong> Petrarca per Laura, <strong>di</strong>ario che ha<br />

una svolta in corrispondenza <strong>di</strong> un evento tragico: la <strong>morte</strong> <strong>di</strong> Laura nella peste del 1348. Se perciò<br />

nei primi due terzi del libro si leggono testi che pregano, celebrano, riflettono su Laura viva,<br />

l’ultimo terzo del libro è de<strong>di</strong>cato al compianto su Laura morta, e a una più generale me<strong>di</strong>tazione<br />

sulla transitorietà delle cose terrene. La celebre canzone <strong>alla</strong> Vergine chiude il Canzoniere su una<br />

nota <strong>di</strong> pentimento che richiama quella con la quale il libro si era aperto: «et del mio vaneggiar<br />

vergogna è ’l frutto» (I.12). Il Canzoniere è così un libro <strong>di</strong> poesie d’amore le quali vennero però<br />

raccolte e or<strong>di</strong>nate da un autore che – ormai maturo – ha allontanato da sé l’amore per le creature<br />

terrene, o meglio lo ha sublimato nell’amore <strong>di</strong> Dio. Non è questo, tuttavia, l’unico tema del<br />

Canzoniere. A parte i numerosi i testi <strong>di</strong> corrispondenza sollecitati da amici ed ammiratori, che<br />

trattano argomenti contingenti e occasionali, alcune delle poesie petrarchesche affrontano questioni<br />

politiche <strong>di</strong> grande attualità, spesso con spirito fortemente polemico. Il Canzoniere ha insomma<br />

anche una componente ‘militante’, e lo si vede con particolare chiarezza sia nei tre sonetti 136, 137<br />

e 138, noti come sonetti ‘anti-avignonesi’ perché scritti contro la corruzione della curia papale che<br />

aveva sede ad Avignone, sia nella celebre canzone all’Italia (128: Italia mia, benché ’l parlar sia<br />

indarno), in cui Petrarca deplora l’uso delle milizie mercenarie da parte dei prìncipi italiani e invita<br />

questi ultimi, in perenne lotta tra <strong>di</strong> loro, <strong>alla</strong> pace.<br />

[La posizione storica del Canzoniere. Il contenuto] La poesia del Canzoniere riprende e<br />

rinnova la tra<strong>di</strong>zione lirica dei siciliani e degli stilnovisti fondando un classicismo che s’imporrà per<br />

secoli ai poeti italiani ed europei. Questo classicismo investe prima <strong>di</strong> tutto il contenuto dei testi.<br />

61


L’amore dei trovatori e dei poeti del Duecento era un sentimento recitato in pubblico, una sorta <strong>di</strong><br />

rappresentazione delle convenzioni cortesi in cui i sentimenti e i pensieri dell’autore avevano poca<br />

parte. Petrarca interpreta invece la lirica d’amore nel modo che ancor oggi ci è familiare: si<br />

confessa, narra una reale esperienza d’amore in totale solitu<strong>di</strong>ne, senza porsi il problema del<br />

pubblico e limitando al massimo la ripetizione dei clichés cortesi. Si può <strong>di</strong>re che grazie a lui si<br />

verifichi una conversione dall’oggettività <strong>alla</strong> soggettività. L’in<strong>di</strong>viduo che ama e desidera viene ad<br />

occupare quello spazio che nel passato era riservato <strong>alla</strong> rappresentazione della donna, ai rituali del<br />

corteggiamento, all’analisi oggettivante dell’amore: l’io del poeta-amante è ora al centro della<br />

scena. Questa chiusura nei confronti del contesto sociale, questo ripiegamento dell’io su se stesso,<br />

«che a prima vista può sembrare un impoverimento, nei secoli si rivelerà un territorio sconfinato. È<br />

anche grazie a questa scelta che Petrarca <strong>di</strong>venterà il caposcuola della poesia moderna. Egli ha<br />

sottratto il <strong>di</strong>scorso amoroso ai con<strong>di</strong>zionamenti storici, alle trasformazioni dei contesti sociali e<br />

culturali e ne ha fatto una zona franca, capace <strong>di</strong> rigenerarsi con il trascorrere del tempo [... Tale<br />

scelta] definisce la moderna poesia erotica come spazio dell’io e delle sue contrad<strong>di</strong>zioni»<br />

(Santagata).<br />

[La lingua] Il classicismo petrarchesco riguarda, in secondo luogo, il linguaggio della lirica.<br />

Coll’avvento del petrarchismo non ci sarà più spazio per gli sperimentalismi, le audacie formali, i<br />

giochi verbali che avevano avuto largo corso nel Duecento. La lingua <strong>di</strong> Petrarca è omogenea,<br />

compatta nei toni. Da un lato, pur essendo ricca <strong>di</strong> riferimenti colti <strong>alla</strong> tra<strong>di</strong>zione non soltanto<br />

volgare (nei testi del Canzoniere sono frequenti le allusioni <strong>alla</strong> Bibbia, ai classici latini, ai padri<br />

della Chiesa), essa evita i tecnicismi che avevano adoperato i poeti-retori come Guittone d’Arezzo<br />

nel Duecento; dall’altro, pur essendo limpida, comprensibile, lontana <strong>dalle</strong> complicazioni del trobar<br />

clus, essa non fa alcuna concessione al linguaggio ‘parlato’: è su questa norma <strong>di</strong> me<strong>di</strong>etas<br />

(‘me<strong>di</strong>età’) che Petrarca costruisce quello che è il modello linguistico a cui per secoli si<br />

adegueranno i poeti italiani.<br />

5.5 La fortuna<br />

Il genio <strong>di</strong> Petrarca fu imme<strong>di</strong>atamente riconosciuto dai contemporanei. Da un lato la sua<br />

grande cultura classica, dall’altro la laurea poetica, ricevuta prima dei quarant’anni, fecero <strong>di</strong> lui il<br />

letterato più noto e ammirato dei suoi tempi, non solo in Italia ma in tutta Europa. La sua prima<br />

biografia venne scritta, da Boccaccio, quando non aveva ancora compiuto il cinquant’anni: è il De<br />

vita et moribus domini Francisci Petracchi de Florentia. A contare, qui, è soprattutto lo scrittore <strong>di</strong><br />

prosa e <strong>di</strong> poesia latina, e tale sarà la tendenza anche nel secolo successivo, quando, per i suoi<br />

ritrovamenti e i suoi stu<strong>di</strong>, gli umanisti lo celebreranno come un caposcuola: il vero erede della<br />

rinata tra<strong>di</strong>zione classica. Solo nel Cinquecento – quando la filologia classica avrà assimilato e<br />

superato le scoperte petrarchesche – la tendenza si invertirà e l’interesse dei lettori e degli stu<strong>di</strong>osi si<br />

concentrerà sul Petrarca volgare. Pietro Bembo prima curerà la stampa del Canzoniere presso Aldo<br />

Manuzio, il migliore stampatore del tempo (1502); poi, nelle Prose della volgar lingua, in<strong>di</strong>cherà<br />

nella lingua poetica <strong>di</strong> Petrarca il modello da seguire per tutti i poeti volgari.<br />

[La fortuna del Canzoniere] Di qui in poi, la fortuna del Canzoniere sarà tale da non avere<br />

paragoni in tutta la letteratura occidentale. Per secoli, anche dopo il periodo dell’imitazione più<br />

pedestre, tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento (definita appunto l’età del<br />

petrarchismo), i lirici europei continueranno a trarre ispirazione <strong>dalle</strong> liriche petrarchesche sui due<br />

piani della forma e del contenuto. Per quanto riguarda la forma, Petrarca imporrà <strong>alla</strong> tra<strong>di</strong>zione<br />

<strong>italiana</strong> un lessico estremamente selezionato e ‘alto’, ben lontano d<strong>alla</strong> lingua dell’uso (perciò,<br />

leggendo un poeta dell’Ottocento, la sua lingua ci appare così <strong>di</strong>stante d<strong>alla</strong> nostra: da Petrarca in<br />

poi la lingua poetica è rimasta un ‘sistema’ sostanzialmente, e artificialmente, stabile, senza grosse<br />

variazioni rispetto a quella del modello). Per quanto riguarda il contenuto, <strong>di</strong>venterà un fatto<br />

normale, nei due secoli successivi, raccontare attraverso le poesie, cioè raccogliere le proprie rime<br />

in canzonieri dotati, per così <strong>di</strong>re, <strong>di</strong> una <strong>di</strong>rezione e <strong>di</strong> un senso complessivo: l’uso ‘narrativo’ della<br />

62


lirica è uno dei lasciti più duraturi <strong>di</strong> Petrarca <strong>alla</strong> tra<strong>di</strong>zione occidentale. Sul piano dell’interesse<br />

critico, l’avvio della ricerca scientifica sulla biografia del poeta si deve, nel Settecento, al francese<br />

Jacques François de Sade (Mémoires pour la vie de F. Pétrarque); quanto invece al giu<strong>di</strong>zio sulla<br />

poesia petrarchesca, il ruolo <strong>di</strong> iniziatore spetta a Ugo Foscolo, che nel Saggio sopra la poesia del<br />

Petrarca elaborò la prima caratterizzazione stilistica e psicologica del poeta, perfezionata poi da<br />

Francesco De Sanctis nel suo Saggio critico sul Petrarca. Dopo l’imponente lavoro filologico degli<br />

stu<strong>di</strong>osi <strong>di</strong> inizio Novecento (e<strong>di</strong>zione critica delle opere, approfon<strong>di</strong>menti circa la biografia, ecc.),<br />

la critica più recente si è concentrata da una parte sulla formazione e sulla cultura umanistica <strong>di</strong><br />

Petrarca (si ricor<strong>di</strong>no almeno gli stu<strong>di</strong> <strong>di</strong> Giuseppe Billanovich, Michele Feo e Francisco Rico),<br />

dall’altra sui tempi e sui mo<strong>di</strong> dell’elaborazione del Canzoniere (Ernest H. Wilkins, Marco<br />

Santagata).<br />

6. Giovanni Boccaccio<br />

6.1 La vita<br />

[La giovinezza e la prima maturità a Napoli] Figlio <strong>di</strong> un ricco mercante fiorentino,<br />

Giovanni Boccaccio nasce, è dubbio se a Firenze o a Certaldo, nel 1313. Dovrebbe seguire le orme<br />

del padre, ed esercitare anche lui la mercatura: ma un talento precoce lo rivela, piuttosto che uomo<br />

d’affari, uomo <strong>di</strong> lettere. Dal 1327 al 1340 è a Napoli, dove il padre lavora come rappresentante<br />

della famiglia dei banchieri della casa angioina, i Bar<strong>di</strong>. Qui, il il giovane Boccaccio gode<br />

dell’amicizia degli aristocratici: e nel circolo della nobiltà angioina probabilmente conosce la donna<br />

che nelle sue opere ribattezzerà Fiammetta. Oltre che per l’intensa vita mondana – che <strong>di</strong>venterà<br />

materia <strong>di</strong> racconto nel Filocolo e nel Decameron – gli anni napoletani sono importanti per alcuni<br />

incontri culturalmente significativi: con Cino da Pistoia, che dal 1331 al 1333 insegna legge nello<br />

Stu<strong>di</strong>o napoletano, con i giuristi Barbato da Sulmona e Pietro Barrili, con il frate agostiniano<br />

Dionigi da Borgo Sansepolcro. Da costoro, Boccaccio impara a conoscere il nome e l’opera <strong>di</strong><br />

Francesco Petrarca, che incontrerà personalmente solo alcuni anni più tar<strong>di</strong>, a Firenze. Nella<br />

biblioteca angioina ha modo <strong>di</strong> venire in contatto con opere che nel resto della penisola avevano<br />

scarsa o nulla circolazione: un’amplissima scelta <strong>di</strong> testi classici, i romanzi francesi, i me<strong>di</strong>olatini, i<br />

trovatori e i trovieri, la poesia stilnovista, che molto presto prenderà a imitare nelle sue Rime in<br />

volgare.<br />

[Il ritorno a Firenze: il culto <strong>di</strong> Dante e Petrarca] Conclusa la collaborazione tra il padre e la<br />

famiglia Bar<strong>di</strong>, tra il 1340 e il 1341 rientra a Firenze. Il passaggio d<strong>alla</strong> vivace corte angioina ad una<br />

città nella quale Boccaccio aveva trascorso soltanto l’infanzia è doloroso. Negli anni subito<br />

successivi Boccaccio porta a termine un impressionante numero <strong>di</strong> opere e inizia un’attività<br />

pubblica che s’intensificherà negli anni Cinquanta e Sessanta: è ambasciatore del Comune in<br />

Romagna, poi a Napoli, presso l’imperatore Ludovico il Bavaro, quin<strong>di</strong> presso il papa ad Avignone<br />

e a Roma. A questo ruolo <strong>di</strong> primo piano nella vita politica, Boccaccio affianca un in<strong>di</strong>scusso<br />

primato culturale in città: già celebre per le opere in volgari (e tra la fine degli anni Quaranta e i<br />

primi anni Cinquanta lavora al capolavoro, il Decameron), intorno al 1350 inizia la serie <strong>di</strong> opere<br />

eru<strong>di</strong>te che secondo le sue intenzioni dovevano guadagnargli la fama. Insieme, è lui il custode<br />

dell’opera e delle memorie dei suoi due gran<strong>di</strong> predecessori. Scrive una biografia <strong>di</strong> Petrarca (De<br />

vita et moribus Domini Francisci Petracchi), e soprattutto stu<strong>di</strong>a la vita e le opere <strong>di</strong> Dante con una<br />

de<strong>di</strong>zione che nessun altro aveva <strong>di</strong>mostrato prima: gli de<strong>di</strong>ca una biografia informatissima, scritta<br />

anche interrogando coloro che lo avevano conosciuto personalmente (Trattatello in laude <strong>di</strong> Dante,<br />

1351-55); commenta la Comme<strong>di</strong>a nelle incompiute Esposizioni, nate d<strong>alla</strong> lettura pubblica che<br />

Boccaccio tiene a Firenze nel 1373 nella chiesa <strong>di</strong> Santo Stefano in Ba<strong>di</strong>a; copia <strong>di</strong> sua mano, in un<br />

co<strong>di</strong>ce, la Vita nova, la Comme<strong>di</strong>a e quin<strong>di</strong>ci canzoni dantesche anteponendovi il Trattatello.<br />

[Gli ultimi anni] Nel 1360 prende gli or<strong>di</strong>ni sacri: e questa ‘conversione’ segna anche un<br />

<strong>di</strong>stacco <strong>dalle</strong> opere in volgare ‘giovanili’ (tra le quali Boccaccio include anche il Decameron); e si<br />

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intensifica, per contro, la produzione latina <strong>di</strong> ispirazione classica e biblica. Ritiratosi a Certaldo, vi<br />

muore nel 1375, un anno dopo Petrarca.<br />

6.2 Le opere anteriori al «Decameron»<br />

[A Napoli] A Napoli, nella seconda metà degli anni Trenta, Boccaccio lavora a tre opere<br />

narrative - il Filocolo, il Filostrato e il Teseida – che in modo <strong>di</strong>verso miscelano due ‘generi’<br />

letterari: l’epos e l’elegia amorosa<br />

[Il Filocolo] Nel lungo romanzo intitolato Filocolo (1336-38: il titolo significa ‘fatica<br />

d’amore’, secondo l’errata etimologia dal greco immaginata dall’autore) Boccaccio narra,<br />

attingendola d<strong>alla</strong> tra<strong>di</strong>zione letteraria francese, la vicenda <strong>di</strong> Florio e Biancifiore: storia dell’amore<br />

contrastato tra i due giovani; dell’allontanamento <strong>di</strong> Biancifiore da parte dei genitori <strong>di</strong> Florio,<br />

preoccupati che, lui <strong>di</strong> stirpe regale, s’innamori <strong>di</strong> una fanciulla <strong>di</strong> bassa con<strong>di</strong>zione; della lunga<br />

quête (‘ricerca’) condotta da Florio per ritrovare l’amata; del ricongiungimento tra i due amanti e<br />

della scoperta che anche Biancifiore ha origini nobili; del matrimonio finale e dell’ascesa al trono <strong>di</strong><br />

Florio. Rispetto all’esile trama del modello francese, Boccaccio opera deviazioni e <strong>di</strong>gressioni che<br />

fanno del romanzo una sorta <strong>di</strong> contenitore per i più <strong>di</strong>sparati generi letterari (Battaglia Ricci):<br />

dall’epistola <strong>alla</strong> novella, d<strong>alla</strong> quaestio alle <strong>di</strong>ssertazioni dottrinali. Particolarmente importante è il<br />

cosiddetto episo<strong>di</strong>o delle questioni d’amore, nel quarto libro. Si tratta <strong>di</strong> tre<strong>di</strong>ci <strong>di</strong>lemmi <strong>di</strong> casistica<br />

amorosa che gli ospiti napoletani <strong>di</strong> Filocolo <strong>di</strong>battono affidandosi <strong>alla</strong> fine al responso della ‘regina<br />

della brigata’ Fiammetta. La loro importanza risiede da un lato nel fatto che in queste pagine è più<br />

forte il legame con la letteratura d’oltralpe (i cosiddetti jeux-partis, quesiti in forma <strong>di</strong> <strong>di</strong>lemma su<br />

argomenti relativi all’etichetta cortese) e con quelli che probabilmente erano i costumi mondani<br />

della corte angioina; dall’altro perché qui Boccaccio collauda il motivo della ‘brigata’ <strong>di</strong> giovani<br />

riuniti in un giar<strong>di</strong>no a raccontare novelle e a ragionare d’amore: motivo che sarà il filo conduttore<br />

del Decameron.<br />

[Il Filostrato] Ispirato <strong>alla</strong> Historia destructionis Troiae <strong>di</strong> Guido delle Colonne (cfr. § 3.2),<br />

il Filostrato è un poema in ottave che narra dell’amore <strong>di</strong> Troiolo e Criseida sullo sfondo della<br />

guerra <strong>di</strong> Troia: amore tragico, perché Troiolo, tra<strong>di</strong>to, si getta in un duello <strong>di</strong>sperato con Achille, e<br />

ne viene ucciso. A ragione, il Filostrato è stato definito un contro-Filocolo (Sur<strong>di</strong>ch): se il Filocolo<br />

è il romanzo dell’amore saldo, che vince ogni ostacolo, il Filostrato è il romanzo del tra<strong>di</strong>mento,<br />

ovvero dell’amore che scende a compromessi con la realtà (l’amata Criseida, prigioniera dei greci,<br />

si concede a Diomede); e se Florio è il prototipo dell’eroe che agisce, Filostrato è l’innamorato<br />

elegiaco che contempla: riflettendo sul’amore, scrivendo lettere, piangendo.<br />

[Il Teseida] Poco dopo il Filostrato, Boccaccio compone il poema Teseida. Come Petrarca,<br />

che lavora in questi anni all’Africa, egli intende rinnovare la tra<strong>di</strong>zione dell’epica. Ma lo fa in<br />

volgare, e scegliendo come soggetto non un grande tema della storia romana ma un oscuro episo<strong>di</strong>o<br />

della mitologia greca: le gesta <strong>di</strong> Teseo, duca <strong>di</strong> Atene, e le avventure dei due nobili tebani Arcita e<br />

Palemone, entrambi innamorati dell’amazzone Emilia. Così come nel Filostrato, il tema epico si<br />

rivela anche qui un puro pretesto, perché la gran parte dell’opera è de<strong>di</strong>cata <strong>alla</strong> storia d’amore e al<br />

duello tra Arcita e Palemone per Emilia, mentre la figura del condottiero Teseo scivola in secondo<br />

piano. In tal modo, la lezione dei gran<strong>di</strong> epici latini, Virgilio e Stazio, che Boccaccio stu<strong>di</strong>a<br />

approfon<strong>di</strong>tamente, resta superficiale: essa non sostiene per intero il poema ma emerge in certi<br />

dettagli tecnici come la descrizione degli ambienti, o il catalogo dei personaggi; il vero modello<br />

ispiratore – dato che l’amore prevale sulla materia epica – è anche qui, come spesso altrove, il poeta<br />

latino Ovi<strong>di</strong>o.<br />

[A Firenze. La Come<strong>di</strong>a delle ninfe fiorentine] Negli anni imme<strong>di</strong>atamente successivi al<br />

rientro a Firenze nel 1340, Boccaccio lavora a due opere <strong>di</strong>versamente legate <strong>alla</strong> tra<strong>di</strong>zione<br />

culturale e <strong>alla</strong> vita fiorentina: la Come<strong>di</strong>a delle ninfe fiorentine e l’Amorosa visione. La Come<strong>di</strong>a<br />

(chiamata anche Ameto, dal nome del protagonista) è un prosimetro, cioè un’opera mista <strong>di</strong> prosa e<br />

poesia (come la Vita nova <strong>di</strong> Dante), che narra <strong>di</strong> come il pastore Ameto, incontrate alcune ninfe nel<br />

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osco, si sia fermato ad ascoltare il canto <strong>di</strong> una <strong>di</strong> loro, Lia, innamorandosene. Fattosi cantore egli<br />

stesso, Ameto si unisce alle ninfe e, dopo un bagno purificatore, vede Venere: tale visione segna il<br />

suo passaggio da «animale bruto» a «uomo». Sotto l’apparenza del giocoso romanzo pastorale,<br />

l’Ameto nasconde – come spesso accade nel Me<strong>di</strong>oevo, e in Boccaccio in special modo – due<br />

possibili chiavi <strong>di</strong> lettura allegorica. Da una parte è stato osservato che la storia del rozzo pastore<br />

ingentilito da Amore prefigurerebbe quella dell’umanità, passata d<strong>alla</strong> barbarie primitiva <strong>alla</strong> civiltà<br />

grazie <strong>alla</strong> virtù e all’amore. Dall’altra parte, così come in altre sue opere, Boccaccio si compiace <strong>di</strong><br />

dare ai personaggi del racconto fattezze e caratteri propri <strong>di</strong> altrettanti reali citta<strong>di</strong>ni <strong>di</strong> Firenze:<br />

sicché la lettura dell’opera avrà dato, ai contemporanei che fossero in grado <strong>di</strong> afferrare le allusioni,<br />

il piacere del riconoscimento.<br />

[L’Amorosa visione] L’Amorosa visione è un poema in terzine <strong>di</strong> chiara ispirazione<br />

dantesca: la Comme<strong>di</strong>a fornì infatti ai successori <strong>di</strong> Dante un modello <strong>di</strong> poesia narrativa, e quello<br />

<strong>di</strong> Boccaccio è uno dei primi esempi <strong>di</strong> tale imitazione. Smarritosi – come Dante all’inizio<br />

dell’Inferno – in un luogo deserto, l’autore, che è anche l’io narrante, viene soccorso da una «donna<br />

gentile» e scortato sino ad un «nobile castello». Qui, davanti a lui si aprono due porte: una stretta<br />

che porta <strong>alla</strong> virtù e una più larga che porta ai beni mondani. Il protagonista sceglie quest’ultima, e<br />

in compagnia della guida entra in un’ampia sala del castello, e qui contempla le scene affrescate alle<br />

pareti: una sorta <strong>di</strong> enciclope<strong>di</strong>a, o <strong>di</strong> storia del mondo per immagini la cui descrizione occupa<br />

buona parte del poema. Si va dai ritratti degli spiriti sapienti (i filosofi e i poeti antichi, ma anche<br />

Dante) a quelli dei condottieri e degli eroi (Dario, Cesare, Carlo Magno), a quelli degli spiriti<br />

amanti (Orfeo e Euri<strong>di</strong>ce, Didone e Enea). Finita la contemplazione degli affreschi, l’autoreprotagonista<br />

abbandona la sua guida e ritrova, in uno splen<strong>di</strong>do giar<strong>di</strong>no, la donna amata,<br />

Fiammetta: con questo ricongiungimento termina la visione. Il poeta si risveglia e apprende che lo<br />

attende ora un altro viaggio, stavolta attraverso la ‘porta stretta’ della virtù.<br />

[La fortuna del poema] Molti elementi concorrono a rendere faticosa la lettura dell’Amorosa<br />

visione: i lunghi cataloghi descrittivi, le <strong>di</strong>vagazioni mitologiche, l’invadenza dell’allegoria (la<br />

Guida, per esempio, la si è potuta interpretare ora come la Fortezza, ora come la Virtù, ora come<br />

Venere), le gratuite complicazioni formali (le lettere iniziali <strong>di</strong> ogni terzina compongono un enorme<br />

acrostico: tre sonetti che Boccaccio adopera come proemio). Ma oltre a rappresentare un importante<br />

momento <strong>di</strong> collaudo per le tecniche narrative <strong>di</strong> Boccaccio – l’Amorosa visione è una sterminata<br />

rassegna <strong>di</strong> ‘storie’ e biografie raccontate ora in un solo verso ora in pagine e pagine – il poema ha<br />

importanza cruciale nella storia della poesia me<strong>di</strong>evale perché insieme ai Trionfi petrarcheschi<br />

offrirà ai suoi successori un modello <strong>di</strong> allegoria laica-umanistica alternativa o complementare a<br />

quello proposto da Dante nella Comme<strong>di</strong>a.<br />

[La Fiammetta] Anche l’Elegia <strong>di</strong> madonna Fiammetta è databile ai primi anni fiorentini<br />

(1343-44). Ma a <strong>di</strong>fferenza <strong>di</strong> quanto avviene nell’Ameto e nell’Amorosa visione, qui Boccaccio<br />

rinuncia, felicemente, all’allegoria, e attraverso il monologo della protagonista ci offre una sorta <strong>di</strong><br />

romanzo psicologico o confessione. Abbandonata da Panfilo, che ha lasciato Napoli ed è tornato a<br />

Firenze, Fiammetta narra alle «innamorate donne» (secondo una convenzione ben <strong>di</strong>ffusa nella<br />

letteratura me<strong>di</strong>evale, che fa delle donne il pubblico ideale per i racconti e per le liriche d’amore), in<br />

forma <strong>di</strong> lettera, il suo dolore. Anche in questo caso non mancano le fonti letterarie: su tutti, i<br />

monologhi femminili delle Heroides (‘Eroine’) <strong>di</strong> Ovi<strong>di</strong>o; ma la Fiammetta possiede, nei confronti<br />

<strong>di</strong> ogni possibile modello, un superiore realismo psicologico, una speciale verità dovuta forse anche<br />

<strong>alla</strong> componente autobiografica dell’opera (la vicenda <strong>di</strong> Panfilo e Fiammetta adombrerebbe,<br />

secondo alcuni interpreti, un episo<strong>di</strong>o degli anni napoletani <strong>di</strong> Boccaccio).<br />

[Il Ninfale fiesolano] Dopo questo felice tentativo <strong>di</strong> prosa psicologica, il poema in ottave<br />

del Ninfale fiesolano ritorna alle forme e alle ambientazioni dell’Ameto. Sullo sfondo campestre <strong>di</strong><br />

Fiesole, vicino a Firenze, il pastore Africo s’innamora della ninfa Mensola e, dopo preghiere e<br />

inseguimenti, riesce a possederla. Ma l’amore tra il pastore e la ninfa è vietato da Diana, e in<br />

conseguenza <strong>di</strong> questo <strong>di</strong>vieto Africo si uccide e Mensola viene trasformata nelle acque <strong>di</strong> un fiume.<br />

Il figlio nato dai due amanti, Pruneo, sarà tra i fondatori <strong>di</strong> Fiesole e da lui trarrà origine una delle<br />

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più nobili schiatte fiorentine: e con un breve riepilogo della storia <strong>di</strong> Firenze si chiude il libro.<br />

Rispetto alle altre opere del periodo fiorentino, il Ninfale rivela una maggiore coscienza dei mezzi<br />

narrativi: gli giovano l’ambientazione ‘familiare’ nel contado fiorentino, la popolarità dei caratteri e<br />

la semplicità dello stile; e gli giova il fatto che il peso dell’eru<strong>di</strong>zione mitologica si sia ridotto, e<br />

l’allegoria non faccia più velo a una narrazione che ha la vivacità <strong>di</strong> quella delle novelle<br />

decameroniane.<br />

6.3 Il «Decameron»<br />

[Tempi <strong>di</strong> composizione] Boccaccio lavora al suo capolavoro, il Decameron (nome da lui<br />

stesso coniato unendo insieme due parole greche: ‘Dieci giornate’), negli anni subito successivi <strong>alla</strong><br />

peste nera del 1348. È ben probabile che alcune delle cento novelle poi entrate a far parte del libro<br />

siano state scritte prima <strong>di</strong> quella data, cioè preesistessero al progetto della raccolta, ma <strong>di</strong> questa<br />

ipotetica ‘preistoria’ non abbiamo testimonianze precise. Certo è che parti dell’opera circolarono a<br />

Firenze prima che essa fosse conclusa: nell’introduzione <strong>alla</strong> quarta giornata, Boccaccio si <strong>di</strong>fende<br />

<strong>dalle</strong> critiche che alcuni lettori gli avevano rivolto. Il libro venne ultimato nei primi anni Cinquanta,<br />

forse nel 1353; tuttavia, nel ventennio successivo, Boccaccio – nonostante la sufficienza con cui<br />

sarà solito parlare delle sue opere giovanili in volgare – non cesserà <strong>di</strong> me<strong>di</strong>tarvi sopra e <strong>di</strong><br />

ritoccarlo: la sua ultima volontà è consegnata a un manoscritto autografo (lo Hamilton 90 della<br />

Staatsbibliothek <strong>di</strong> Berlino) databile al 1370, cinque anni prima della <strong>morte</strong>.<br />

[La trama] La trama nella quale le novelle sono inserite è molto semplice. Nel 1348 la peste<br />

imperversa a Firenze: l’introduzione al libro descrive la drammatica situazione della città: i cadaveri<br />

riempiono le strade, i legami più sacri – tra moglie e marito, tra genitori e figli – si spezzano; si<br />

moltiplicano le fosse comuni. È possibile che Boccaccio abbia presente qui dei modelli letterari o<br />

figurativi (il tema della peste ricorre nella tra<strong>di</strong>zione occidentale in autori tanto <strong>di</strong>versi come<br />

Tuci<strong>di</strong>de, Lucrezio e Paolo Diacono, così come poi in Manzoni e in Camus); ma è certo che la<br />

sostanza della descrizione è tratta dall’osservazione <strong>di</strong>retta: Boccaccio - che nell’epidemia perse il<br />

padre, la matrigna e vari amici – fu testimone del flagello. È in questo tragico frangente che un<br />

gruppo <strong>di</strong> <strong>di</strong>eci giovani (sette donne e tre uomini) si riunisce e decide <strong>di</strong> abbandonare la città per<br />

evitare il contagio: alcune ville <strong>di</strong> loro proprietà situate nel contado saranno il loro rifugio. La<br />

‘cornice’ del Decameron – quella in cui l’autore parla in prima persona e in cui sono incastonate le<br />

novelle – dà conto della vita della brigata durante le due settimane <strong>di</strong> questo volontario esilio. I<br />

giovani scelgono ogni giorno tra le loro fila un ‘re’ o una ‘regina’ che fissa mo<strong>di</strong> e tempi delle<br />

attività quoti<strong>di</strong>ane, e suonano, cantano, e soprattutto raccontano delle novelle: una ciascuno per<br />

<strong>di</strong>eci giorni (il ‘novellare’ è sospeso nei giorni <strong>di</strong> venerdì e sabato), per un totale <strong>di</strong> cento novelle: e<br />

queste cento novelle – in cui dunque ciascuno dei <strong>di</strong>eci personaggi prende la parola – rappresentano<br />

appunto il contenuto della cornice. Passate le due settimane, i giovani rientrano a Firenze.<br />

[La cornice] La cornice – l’artificio narrativo che permette <strong>di</strong> saldare insieme le novelle –<br />

non è un’invenzione <strong>di</strong> Boccaccio. Essa era già ben nota <strong>alla</strong> tra<strong>di</strong>zione narrativa in<strong>di</strong>ana e araba: e<br />

opere come le Mille e una notte, la Storia <strong>di</strong> Calila e Dimna, o il libro <strong>di</strong> Sendebar, o la storia <strong>di</strong><br />

Barlaam e Josaphat, tradotte in latino nel corso dei secoli XII e XIII, poterono senz’altro venire a<br />

conoscenza dello scrittore, sia a Firenze sia, più verosimilmente, <strong>alla</strong> corte angioina <strong>di</strong> Napoli. Lo<br />

stesso si può <strong>di</strong>re <strong>di</strong> un’opera che ebbe larghissima <strong>di</strong>ffusione a partire dal secolo XII, la Disciplina<br />

clericalis dell’ebreo spagnolo Pietro Alfonso: una serie <strong>di</strong> racconti esemplari che un padre raccoglie<br />

allo scopo <strong>di</strong> istruire il figlio (<strong>di</strong>sciplina = istruzione). Tuttavia, la <strong>di</strong>fferenza tra la cornice del<br />

Decameron e quella dei testi appena citati salta agli occhi. Nelle raccolte pre-boccacciane, la<br />

cornice è un davvero un semplice artificio, un pretesto che non ha altro scopo se non quello <strong>di</strong> fare<br />

da esile filo conduttore fra gli exempla raccolti dall’antologista-scrittore; in Boccaccio, la cornice ha<br />

un ruolo molto più importante e una ben maggiore estensione: non è semplicemente uno sfondo<br />

bensì il vero motore narrativo dell’opera.<br />

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[I temi: amore e fortuna] Gli argomenti delle novelle sono così descritti nel Proemio (14):<br />

«... nelle quali novelle piacevoli e aspri casi d’amore e altri fortunati avvenimenti si vederanno così<br />

ne’ moderni tempi avvenuti come negli antichi». Amore e fortuna sono, in effetti, i temi dominanti<br />

del libro. Il primo era, come si è visto, già largamente presente nella narrativa <strong>di</strong> Boccaccio – ma<br />

nella sua versione elegiaca (casi sfortunati <strong>di</strong> <strong>di</strong>sgrazie d’amore) piuttosto che in quella burlesca o<br />

euforica prevalente nel Decameron, dove il nome <strong>di</strong> amore è dato spesso <strong>alla</strong> semplice<br />

sod<strong>di</strong>sfazione sessuale: la quarta e la quinta giornata sono quelle consacrate alle imprese d’amore<br />

così concepite (ecco per esempio la rubrica che introduce la quarta giornata: «Sotto il reggimento <strong>di</strong><br />

Filostrato, si ragiona <strong>di</strong> coloro, li cui amori ebbero infelice fine»). Il secondo tema, la fortuna, va<br />

inteso nel senso più largo <strong>di</strong> ‘caso, destino, fatalità, accidente, peripezia’: ciò che <strong>di</strong> strano e<br />

singolare, insomma, movimenta la normale vita degli uomini, Novelle ispirate a questo soggetto si<br />

trovano soprattutto nella seconda giornata («si ragiona <strong>di</strong> chi, da <strong>di</strong>verse cose infestato, sia, oltre<br />

<strong>alla</strong> sua speranza, riuscito a lieto fine») e nella terza.<br />

[Il versante ‘comico’] Ma a questi due temi almeno due altri se ne debbono aggiungere,<br />

entrambi appartenenti al registro ‘basso’ o comico della narrativa: il motto, che dà la materia alle<br />

novelle della sesta giornata (dove si racconta dei «leggiadri motti» e delle «pronte risposte» che i<br />

personaggi trovano per venire a capo <strong>di</strong> una situazione spinosa); e la beffa, che è al centro delle<br />

novelle dell’ottava giornata (dove, come recita la rubrica che la introduce, «si ragiona <strong>di</strong> quelle<br />

beffe che tutto il giorno o donna ad uomo, o uomo a donna, o l’uno uomo all’altro si fanno»). Una<br />

parte considerevole delle novelle decameroniane – e tra queste alcune delle più famose – è scritta<br />

infattii col principale scopo <strong>di</strong> far ridere, e ciò avviene o per l’uso pronto ed arguto della parola da<br />

parte dei protagonisti o per il genio da essi <strong>di</strong>mostrato nel mettere nel sacco i loro interlocutori. Così<br />

- per illustrare il primo caso: l’abilità nell’uso delle parole - Guido Cavalcanti zittisce con una<br />

battuta un gruppo <strong>di</strong> buontemponi che volevano prendersi gioco <strong>di</strong> lui (nov. VI 9). Oppure, così<br />

frate Cipolla rime<strong>di</strong>a ad una beffa che due giovani avevano macchinato contro <strong>di</strong> lui: i due<br />

sostituiscono la penna che frate Cipolla spacciava per una reliquia (una piuma dell’arcangelo<br />

Gabriele) con un pugno <strong>di</strong> carbone; il frate se ne accorge tar<strong>di</strong>, durante l’omelia, ma non si perde<br />

d’animo: un nuovo miracolo – sostiene – ha trasformato la penna nei carboni coi quali «fu arrostito<br />

san Lorenzo», la cui festa, non per caso, ricorre «<strong>di</strong> qui a due dì» (nov. VI 10). E così – per<br />

illustrare il secondo caso: capacità <strong>di</strong> ingannare il prossimo – lo sfrontato ser Ciappelletto riesce a<br />

darla a bere al prete che lo confessa in punto <strong>di</strong> <strong>morte</strong>, e dopo una vita spesa nel vizio e nel crimine<br />

viene seppellito in terra consacrata e in fama <strong>di</strong> santità (nov. I 1). Oppure, così allo sciocco<br />

Calandrino viene fatto credere <strong>di</strong> essere invisibile (nov. VIII 3).<br />

[Il nuovo realismo boccacciano] Si tratta, scrive Boccaccio nel Proemio, <strong>di</strong> episo<strong>di</strong> «ne’<br />

moderni tempi avvenuti come negli antichi». Una parte delle novelle s’ispira in effetti <strong>alla</strong> storia e<br />

<strong>alla</strong> letteratura antica, o situa nell’antichità – o in un mondo <strong>di</strong>verso da quello contemporaneo – la<br />

trama del racconto: è la componente eru<strong>di</strong>ta della poetica <strong>di</strong> Boccaccio, che già aveva fatto le sue<br />

prove nel Filocolo, e che ispirerà le opere latine della maturità. Ma l’importanza del Decameron<br />

risiede soprattutto nelle novelle sui ‘costumi contemporanei’. Attraverso <strong>di</strong> esse entra nella<br />

letteratura <strong>italiana</strong> la realtà umana nelle sue più varie manifestazioni: veri citta<strong>di</strong>ni, veri borghesi,<br />

donne e uomini reali sono i protagonisti della narrazione, e le loro non sono le sublimi passioni che<br />

erano state cantate nell’epica o nei romanzi cavallereschi, ma le comuni passioni che sono proprie<br />

<strong>di</strong> ogni essere umano. Sicché, se anche spesso il tema del racconto non è originale perché Boccaccio<br />

recupera (e talvolta ripete pari pari) i modelli della novellistica classica, me<strong>di</strong>olatina o volgare,<br />

l’ambientazione – l’Italia contemporanea, e la città <strong>di</strong> Firenze in particolare – sortisce sempre effetti<br />

<strong>di</strong> notevole realismo. Ed è in questa lezione – la rappresentazione della vita così come essa è, senza<br />

le idealizzazioni che erano state caratteristiche della letteratura cortese, e senza i moralismi degli<br />

exempla cristiani – il lascito più duraturo del Decameron <strong>alla</strong> tra<strong>di</strong>zione narrativa occidentale, e<br />

insieme la ragione della sterminata fortuna <strong>di</strong> cui il libro godrà nei secoli successivi.<br />

[Lo stile] Non dello stile del Decameron bisognerebbe parlare, bensì degli stili, al plurale. Il<br />

linguaggio reagisce e si adegua, infatti, <strong>alla</strong> varietà dei registri e delle situazioni messe in scena<br />

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nelle novelle. Il Cinquecento apprezzò, e promosse a norma per tutti i prosatori, soprattutto il puro<br />

ed elegantissimo fiorentino che Boccaccio adopera nella cornice, quando parla in prima persona:<br />

una prosa elaborata, sintatticamente complessa, incline a sigillare i perio<strong>di</strong> con particolari figure<br />

ritmiche (quello che nella prosa latina viene definito cursus). Al polo <strong>di</strong>ametralmente opposto, lo<br />

stile delle novelle ‘comiche’ (per esempio quelle della sesta giornata) ebbe grande influenza sui<br />

novellieri ere<strong>di</strong> <strong>di</strong> Boccaccio. Non che la prosa narrativa anteriore a lui non conoscesse il registro<br />

‘basso’, tutt’altro, ma nel Decameron tale registro si arricchisce <strong>di</strong> molte ine<strong>di</strong>te sfumature. Per<br />

esempio, Boccaccio è consapevole delle potenzialità espressive dei <strong>di</strong>aletti, e se ne serve per la<br />

descrizione <strong>di</strong> ambienti e personaggi. Inoltre, egli è maestro nella resa del <strong>di</strong>scorso <strong>di</strong>retto: mentre i<br />

narratori che lo hanno preceduto prestavano le loro parole ai personaggi del racconto, senza alcun<br />

tentativo <strong>di</strong> caratterizzazione in<strong>di</strong>viduale, Boccaccio dà a ciascuno una voce <strong>di</strong>versa, anticipando<br />

quella ‘polifonia’ <strong>di</strong> linguaggi e <strong>di</strong> stili che sarà tipica del romanzo moderno. Ma c’è poi, al <strong>di</strong> là <strong>di</strong><br />

raffinatezze come queste, il comico ‘puro’, il puro e semplice <strong>di</strong>vertimento verbale, e in tal caso<br />

Boccaccio non <strong>di</strong>sdegna <strong>di</strong> servirsi <strong>di</strong> artifici tra<strong>di</strong>zionali: giochi <strong>di</strong> parole, bisticci, doppi sensi o –<br />

come nell’esempio che segue, tratto d<strong>alla</strong> novella <strong>di</strong> frate Cipolla (VI x 17) – la figura fonica detta<br />

omeoteleuto (cioè l’identità <strong>di</strong> desinenza tra parole contigue in un testo in prosa): «egli [Guccio<br />

Imbratta, aiutante del frate] è tardo, sugliardo e bugiardo; negligente, <strong>di</strong>subi<strong>di</strong>ente e mal<strong>di</strong>cente;<br />

trascutato, smemorato e scostumato; senza che egli ha alcune altre teccherelle con queste, che si<br />

taccion per lo migliore».<br />

[Modelli e fonti] Così come è necessario parlare <strong>di</strong> una pluralità <strong>di</strong> stili, allo stesso modo<br />

sono molti i modelli ai quali Boccaccio può essersi ispirato per la costruzione del Decameron. Si è<br />

accennato <strong>alla</strong> tra<strong>di</strong>zione arabo-orientale della cornice; ma l’idea <strong>di</strong> una ‘narrazione <strong>di</strong> gruppo’<br />

poteva venire allo scrittore anche da testi classici come i Saturnalia <strong>di</strong> Macrobio o le Metamorfosi<br />

<strong>di</strong> Apuleio. Quanto <strong>alla</strong> peste e <strong>alla</strong> ‘brigata’ dei giovani, una possibile fonte figurativa è stata <strong>di</strong><br />

recente segnalata (Battaglia Ricci) negli affreschi raffiguranti il Trionfo della <strong>morte</strong> nel Camposanto<br />

monumentale <strong>di</strong> Pisa. Nelle singole novelle, Boccaccio sfrutta e contamina tra<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong>sparate -<br />

non ultima quella per eccellenza inverificabile: la tra<strong>di</strong>zione orale – ed è dunque impossibile dare<br />

un quadro sintetico dei suoi ‘prelievi’. Ma, in sintesi, si consideri l’eccezionale ampiezza delle fonti<br />

boccacciane: oltre ad attingere <strong>dalle</strong> raccolte <strong>di</strong> ‘esempi’ in latino (come la Leggenda aurea <strong>di</strong><br />

Jacopo da Varazze) e in volgare (raccolte rivisitate, come si è accennato, secondo un’ottica laica e<br />

non moralistico-cristiana), egli conosce e riusa i testi latini (Apuleio, Ovi<strong>di</strong>o), i fabliaux (‘favole’) e<br />

le poesie francesi lette <strong>alla</strong> corte napoletana degli Angiò, le comme<strong>di</strong>e me<strong>di</strong>olatine oltre che,<br />

naturalmente, i ‘classici’ della giovane letteratura <strong>italiana</strong>: il Novellino, la Comme<strong>di</strong>a. A queste<br />

influenze colte si affianca infine la tra<strong>di</strong>zione popolare: i proverbi e gli aneddoti che circolavano a<br />

Firenze (per esempio, quello relativo <strong>alla</strong> «bella risposta» che Guido Cavalcanti dà ai suoi<br />

motteggiatori: novella VI 9)<br />

6.4 Le opere successive al «Decameron» e la fortuna <strong>di</strong> Boccaccio<br />

[Le Genealogie] Negli anni della piena maturità, dopo la scrittura del Decameron,<br />

Boccaccio abbandona le ‘favole’ romanzesche, liquida – secondo un cliché ben <strong>di</strong>ffuso nel<br />

Me<strong>di</strong>oevo – come errori giovanili le proprie poesie in volgare (che a <strong>di</strong>fferenza <strong>di</strong> Petrarca non<br />

raccoglierà mai in un volume unitario) e s’impegna in alcuni trattati eru<strong>di</strong>ti in latino. Un libro sulla<br />

mitologia classica era stato sollecitato a Boccaccio già attorno al 1350 da Ugo IV <strong>di</strong> Lusignano, re<br />

<strong>di</strong> Cipro. Ugo morì nel 1359, ma Boccaccio sod<strong>di</strong>sfece lo stesso il desiderio dell’antico committente<br />

lavorando, dai primi anni Sessanta sino <strong>alla</strong> <strong>morte</strong>, alle Genealogiae deorum gentilium (‘Genealogie<br />

degli dei pagani’). L’opera si articola in quin<strong>di</strong>ci libri: nei primi tre<strong>di</strong>ci - che compen<strong>di</strong>ano l’intero<br />

patrimonio della mitologia pagana, e che avranno grande influenza su letterati e pittori durante tutto<br />

il Rinascimento - Boccaccio riversa tutta la sua non comune cultura classica, ricorrendo, oltre che ai<br />

ben noti Virgilio e Ovi<strong>di</strong>o, anche ad Omero: grazie alle lezioni dell’eru<strong>di</strong>to Leonzio Pilato,<br />

Boccaccio possedeva infatti (quasi unico tra i suoi contemporanei) buoni ru<strong>di</strong>menti <strong>di</strong> greco, e<br />

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poteva così accostarsi <strong>di</strong>rettamente ai testi omerici originali,, che cita infatti orgogliosamente nelle<br />

Genealogie. Negli ultimi due libri, Boccaccio svolge un’appassionata <strong>di</strong>fesa della poesia: laddove,<br />

egli sostiene, gli stu<strong>di</strong> ‘positivi’ come il <strong>di</strong>ritto o la me<strong>di</strong>cina sono in<strong>di</strong>rizzati al guadagno, e non<br />

hanno come fine primario il progresso umano, la poesia dev’essere piuttosto assimilata <strong>alla</strong> filosofia<br />

e <strong>alla</strong> teologia: come queste ultime, essa non ha come fine l’arricchimento ma il progresso delle<br />

conoscenze e il miglioramento dei costumi. L’obiezione, che <strong>alla</strong> poesia viene mossa, secondo cui<br />

si tratterebbe soltanto <strong>di</strong> fabulae (‘favole, storie inventate’) è, osserva Boccaccio, legittima, ma<br />

facilmente confutabile: poiché la vera scienza consiste nel saper vedere sotto il velo della favola,<br />

dell’allegoria, il contenuto <strong>di</strong> verità che la poesia racchiude.<br />

[Le biografie] Mentre le Genealogie illustrano la forte motivazione umanistica <strong>di</strong> Boccaccio,<br />

il De casibus virorum illustrium (‘Sventure <strong>di</strong> uomini illustri’) e il De mulieribus claris (‘Le donne<br />

famose’) sono due opere <strong>di</strong> carattere più tra<strong>di</strong>zionalmente moralistico-eru<strong>di</strong>to. La prima, offerta al<br />

fiorentino Mainardo Cavalcanti, e ultimata attorno al 1360, è una rassegna, da Adamo ai<br />

contemporanei, <strong>di</strong> personaggi celebri caduti in <strong>di</strong>sgrazia; la seconda (1361), offerta <strong>alla</strong> nobildonna<br />

Andreina Acciaioli, è una raccolta <strong>di</strong> circa cento ritratti <strong>di</strong> eroine, d<strong>alla</strong> leggendaria Elena a<br />

Giovanna regina <strong>di</strong> Napoli. Il piacere del raccontare, così caratteristico del Decameron e delle altre<br />

opere volgari, è, in questi due trattati, del tutto abbandonato: non si tratta veramente <strong>di</strong> ‘storie’,<br />

liberamente narrate, bensì <strong>di</strong> esempi che l’autore illustra moralisticamente – con apostrofi, invettive,<br />

esortazioni – ai suoi destinatari.<br />

[Il Corbaccio] La satira anti-femminile (ovvero, con termine derivato dal greco, misogina), è<br />

un tema caratteristico della letteratura me<strong>di</strong>evale: ‘manuali’ che insegnano a resistere alle tentazioni<br />

delle donne, o che ne svelano gli inganni e i <strong>di</strong>fetti, sono ben <strong>di</strong>ffusi nel mondo romanzo, e<br />

Boccaccio paga il suo tributo a questa tra<strong>di</strong>zione nel racconto intitolato Corbaccio (forse dal nome<br />

<strong>di</strong> quello che era ritenuto il più vile degli uccelli), databile probabilmente al 1365. L’autore – questa<br />

la semplice trama del libro – ama una vedova che non lo corrisponde. Fa un sogno: in una valle,<br />

incontra il defunto marito della donna amata, che lo ammonisce: l’amore – egli sostiene - non fa per<br />

lui, e la donna che ha scelto è ricolma <strong>di</strong> tutti i vizi e i <strong>di</strong>fetti del suo sesso. U<strong>di</strong>to l’elenco <strong>di</strong> questi<br />

vizi e <strong>di</strong>fetti, l’autore-protagonista rimane convinto e, guarito d<strong>alla</strong> sua infatuazione, esce d<strong>alla</strong><br />

valle. Ispirato <strong>alla</strong> vasta tra<strong>di</strong>zione misogina suddetta, e in particolare al De vetula (‘La vecchia’),<br />

uno scritto latino falsamente attribuito a Ovi<strong>di</strong>o, il Corbaccio rappresenta - col suo <strong>di</strong>sincantato<br />

realismo, con la crudezza <strong>di</strong> certe descrizioni relative <strong>alla</strong> sfera corporea e sessuale - una specie <strong>di</strong><br />

controcanto al quasi contemporaneo trattato latino De mulieribus claris, che Boccaccio scrive<br />

invece «in eximiam muliebris sexus laudem» (‘in alta lode del sesso femminile’).<br />

[La fortuna] Nella canzone in cui piange la <strong>morte</strong> <strong>di</strong> Boccaccio, Franco Sacchetti non<br />

menziona neppure il Decameron: lo scrittore è ricordato, e <strong>di</strong>chiarato grande, soltanto in virtù delle<br />

opere latine. Questo silenzio è in contrad<strong>di</strong>zione con l’amplissimo successo <strong>di</strong> cui il Decameron<br />

godette già mentre Boccaccio era in vita. Libro veramente ‘popolare’, perché narra <strong>di</strong> una realtà<br />

vicina all’esperienza <strong>di</strong> ogni potenziale lettore, esso raggiunse anche i lettori meno colti: molte delle<br />

sue novelle e dei suoi personaggi <strong>di</strong>ventarono proverbiali; e ‘copisti per passione’ (cioè non scribi<br />

professionisti ma semplici amanti della letteratura) lo sottoposero a vere e proprie riscritture,<br />

‘aggiornando’, cioè avvicinando <strong>alla</strong> propria sfera d’esperienza, i nomi dei luoghi e dei personaggi.<br />

Come nessun’altra opera del Me<strong>di</strong>oevo, inoltre, il Decameron conobbe un imme<strong>di</strong>ato successo<br />

all’estero: lo tradussero e imitarono Chaucer in Inghilterra, Christine de Pizan in Francia, Juan de<br />

Mena in Spagna; e piacque anche a un umanista raffinato come Petrarca, che ad<strong>di</strong>rittura tradusse in<br />

latino la novella <strong>di</strong> Griselda (X 10). Ma il giu<strong>di</strong>zio <strong>di</strong> Sacchetti prefigura quello degli umanisti<br />

quattrocenteschi, i quali si <strong>di</strong>sinteressano della letteratura volgare e fermano invece la loro<br />

attenzione sulle gran<strong>di</strong> compilazioni eru<strong>di</strong>te degli anni della maturità <strong>di</strong> Boccaccio: le Genealogiae<br />

deorum gentilium, il De mulieribus claris, ecc. La ripresa d’interesse per le novelle del Decameron<br />

ha luogo prima, sullo scorcio del Quattroocento, all’interno del circolo <strong>di</strong> Lorenzo il Magnifico e <strong>di</strong><br />

Poliziano, poi con Pietro Bembo, il quale nelle Prose della volgar lingua (1525) in<strong>di</strong>ca nel volgare<br />

<strong>di</strong> Boccaccio il modello che ogni prosatore italiano dovrebbe sforzarsi <strong>di</strong> imitare. Questo giu<strong>di</strong>zio <strong>di</strong><br />

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Bembo prelude al grande successo cinquecentesco del libro, che verrà più volte stampato (settanta<br />

e<strong>di</strong>zioni nel solo sec. XVI) e imitato da generazioni <strong>di</strong> narratori. Nel 1573, in pieno clima<br />

controriformistico, una commissione appositamente nominata a Firenze, e guidata dall’umanista<br />

Vincenzio Borghini, introduce alcune ‘correzioni’ nel testo dell’opera, per eliminarne i passaggi più<br />

scandalosi o blasfemi e per riportarne la lingua <strong>alla</strong> veste originaria, espungendo quegli errori che si<br />

erano infiltrati nel corso della tra<strong>di</strong>zione manoscritta (è la cosiddetta ‘rassettatura’). Dopo un lungo<br />

periodo <strong>di</strong> <strong>di</strong>minuito interesse, la fortuna critica del Decameron si riapre, nell’Ottocento, grazie<br />

soprattutto a Francesco De Sanctis, che nella sua Storia della letteratura <strong>italiana</strong> ravvisa nel libro il<br />

caposaldo del realismo moderno, riconoscendo nello spirito tutto terreno e laico <strong>di</strong> Boccaccio (una<br />

sorta <strong>di</strong> anti-Dante) il vero precursore del naturalismo rinascimentale. Lo stesso De Sanctis pone la<br />

questione dell’unità dell’opera: non semplice collezione <strong>di</strong> novelle ma libro compatto, ispirato ad<br />

una ristretta gamma <strong>di</strong> motivi ricorrenti: la celebrazione dell’ingegno, il gusto umanistico per il<br />

‘saper parlare’, l’esaltazione della sensualità, la me<strong>di</strong>tazione sull’instabilità dei destini umani. Su<br />

questi due problemi – il ‘nuovo’ realismo boccacciano e gli elementi unitari del Decameron –<br />

hanno continuato a interrogarsi gli stu<strong>di</strong>osi novecenteschi: ed entro una vastissima produzione<br />

critica si ricor<strong>di</strong> almeno il volume <strong>di</strong> Vittòre Branca Boccaccio me<strong>di</strong>evale (1956, e successive<br />

rie<strong>di</strong>zioni), nel cui solco si colloca buona parte dei contributi più recenti.<br />

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