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Letteratura italiana: dalle Origini alla morte di ... - Claudio Giunta

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4.7 Le lettere<br />

La lettera è, nel Me<strong>di</strong>oevo, un genere letterario definito da regole e usi particolari, illustrati<br />

in appositi «manuali» (le artes <strong>di</strong>ctan<strong>di</strong>, cfr. § 3.3). Dei maggiori intellettuali dell'epoca ci restano<br />

lettere scritte a uso privato (si pensi a Guittone d'Arezzo o a Petrarca) o a uso pubblico, per esempio<br />

su incarico <strong>di</strong> un comune o <strong>di</strong> un principe (si pensi a Pier delle Vigne, che era al servizio <strong>di</strong><br />

Federico II). Dante non fa eccezione: <strong>di</strong> lui ci resta circa una dozzina <strong>di</strong> lettere, tutte scritte in latino<br />

(raramente il volgare veniva usato nell'epistolografia, e mai nelle lettere ufficiali) e tutte databili<br />

agli anni dell'esilio (dopo il 1300, quin<strong>di</strong>). La maggior parte <strong>di</strong> queste lettere si riferisce all'attualità<br />

politica e in particolare <strong>alla</strong> situazione fiorentina. In un'occasione Dante <strong>di</strong>fende davanti al car<strong>di</strong>nale<br />

Niccolò da Prato, paciere inviato dal papa, la causa dei guelfi Bianchi, che erano stati ban<strong>di</strong>ti da<br />

Firenze. In un'altra parla a tutti i principi e ai popoli d'Italia invocando la pace; in un'altra ancora si<br />

rivolge all'imperatore Arrigo VII in occasione della sua fallimentare <strong>di</strong>scesa in Italia.<br />

[La lettera a Cangrande] La lettera più importante e più controversa, perché alcuni negano<br />

che sia opera <strong>di</strong> Dante, è senz'altro la lettera a Cangrande della Scala, <strong>alla</strong> cui corte Dante soggiornò<br />

nella seconda metà degli anni Dieci. La lunga lettera accompagna un dono, il Para<strong>di</strong>so, che Dante<br />

de<strong>di</strong>ca al suo benefattore. Ben più <strong>di</strong> un «epigramma <strong>di</strong> de<strong>di</strong>ca», come la definisce il suo autore, la<br />

lettera fornisce un'interpretazione generale sia del Para<strong>di</strong>so sia dell'intera Comme<strong>di</strong>a. Si comprende<br />

dunque l'importanza <strong>di</strong> questo documento: una lettura ‘d’autore’ della propria opera, se la lettera è<br />

<strong>di</strong> Dante; un saggio sulla Comme<strong>di</strong>a scritto da un sottilissimo critico del suo tempo, se la lettera non<br />

è dantesca. Quale che sia la soluzione <strong>di</strong> questo <strong>di</strong>lemma, si tratta <strong>di</strong> una lettera in trentatré capitoli<br />

che presenta se stessa come accessus (‘introduzione’) <strong>alla</strong> Comme<strong>di</strong>a, e che <strong>di</strong>stingue nel poema –<br />

così come si faceva tra<strong>di</strong>zionalmente per le Sacre Scritture – due livelli <strong>di</strong> significato: un primo<br />

significato letterale, stando al quale l’opera parla dello «stato delle anime dopo la <strong>morte</strong>»; e un<br />

secondo significato allegorico, <strong>alla</strong> luce del quale il poema parla dell’uomo, che «per i meriti e i<br />

demeriti acquisiti col libero arbitrio ha conseguito premi e punizioni da parte della giustizia <strong>di</strong>vina».<br />

Restano fuori da una definizione così angusta molti degli aspetti più caratteristici e innovativi della<br />

Comme<strong>di</strong>a: e ciò è un serio argomento contro la paternità dantesca della lettera.<br />

4.8 Le egloghe<br />

[Occasione e contenuti delle due egloghe in latino] La poesia <strong>di</strong> Dante è tutta in volgare, con<br />

una piccola eccezione: due egloghe - due componimenti, cioè, <strong>di</strong> ambientazione pastorale, in<br />

esametri - che Dante invia al bolognese Giovanni del Virgilio come risposte ad altrettanti carmi<br />

latini. In questi anni (1319-21), gli ultimi della sua vita, Dante si trova a Ravenna, ospite <strong>di</strong> Guido<br />

Novello da Polenta. Giovanni, poeta e commentatore dei classici latini all'università <strong>di</strong> Bologna,<br />

invia a Dante una lettera in esametri in cui lo invita ad abbandonare il volgare e a scrivere<br />

finalmente nella lingua dei dotti, il latino, su temi ispirati <strong>alla</strong> cronaca contemporanea: meriterebbe<br />

così gli elogi dei letterati più colti e non solo del popolo. Dante replica non con una lettera in versi<br />

ma con un'egloga in cui <strong>di</strong>alogano due pastori: Mopso (che rappresenta Giovanni del Virgilio) e<br />

Titiro (ossia Dante stesso). Titiro, ricevuta la lettera <strong>di</strong> Mopso, ne riassume il contenuto a un<br />

compagno, Melibeo (Dino Perini, amico fiorentino <strong>di</strong> Dante, come lui esule); poi riba<strong>di</strong>sce la<br />

propria fedeltà <strong>alla</strong> poesia volgare. In un'egloga responsiva, Giovanni del Virgilio ripete il proprio<br />

invito <strong>alla</strong> poesia latina, e prega Titiro-Dante <strong>di</strong> raggiungerlo a Bologna. Dal canto suo, nel quarto e<br />

ultimo testo, Dante ripete <strong>di</strong> preferire i pascoli noti (Ravenna, la poesia volgare) e <strong>di</strong> non volerli<br />

lasciare per una nuova città (Bologna, identificabile forse con la poesia latina). L'importanza dei<br />

quattro testi è legata - oltre che alle informazioni che essi ci danno circa l'accoglienza che la poesia<br />

<strong>di</strong> Dante aveva ricevuto negli ambienti umanistici bolognesi - <strong>alla</strong> storia dei generi poetici: con<br />

queste egloghe, ispirate chiaramente alle Bucoliche <strong>di</strong> Virgilio (a cominciare dai nomi dei<br />

protagonisti della prima: Titiro e Melibeo sono anche i nomi dei due pastori messi in scena nella<br />

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