inedita energia Attilio Bertolucci - Eni
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giugno 1962<br />
⎡ Profumo<br />
Jackson Pollock<br />
James Goodman Gallery - New York ⎦<br />
Dopo il momento ottimistico, rappresentato dall’obbiettività<br />
di Winslow Homer, e quello polemico ma non pessimistico, rappresentato dalla<br />
deformazione espressionistica di Ben Shahn, la pittura americana sembra staccarsi<br />
dalla realtà ambientale e umana del paese in cui fiorisce per adeguarsi a un movimento<br />
artistico internazionale e sradicatissimo, l’astrattismo.<br />
Vi sono dei precorrimenti, degli anticipi, ma isolati e senza seguito: in effetti il<br />
trapianto delle tendenze avanguardistiche europee nel vergine terreno americano<br />
e, di conseguenza, l’inserimento della scuola di New York vicino alla scuola di<br />
Parigi, si ha negli anni dal ’45 in poi. Con una voracità e una capacità di assimilazione<br />
incredibili, i giovani pittori statunitensi si cibano di Picasso e di Klee, dei<br />
dadaisti e dei surrealisti e degli astrattisti, restituendone i modi con libertà e autonomia<br />
impensabili nel vecchio mondo.<br />
Anche negli anni dell’apprendistato, cioè della loro assunzione a fini propri, gli<br />
artisti americani svisano gli originali cui si ispirano, fanno del nuovo, o vi si avvicinano<br />
grandemente.<br />
La cosa è più che naturale: non altrimenti i nordici, impadronitisi della maniera<br />
rinascimentale italiana, la stravolgono ai propri fini, che non sono di superiore<br />
armonia classica, ma di espressività e di naturalezza a ogni costo.<br />
Tornando agli americani: i grandi spazi e i grandi agglomerati urbani nei quali<br />
essi vivono non sono tali da annullare l’uomo, o almeno da schiacciarlo, polverizzarlo,<br />
inghiottirlo? Anche Ben Shahn avrà sentito problemi simili a quelli<br />
che sentirono De Kooning, Klein, Pollock, ma negli anni della sua più vitale<br />
creatività poteva ancora sentirne altri, di carattere sociale, tali da salvare il suo<br />
umanesimo.<br />
In questo dopoguerra i nuovi pittori, risolti dall’America i più generali e urgenti,<br />
di quei problemi, si trovano soli di fronte a quelli eterni, dell’esistenza, resi acutissimi<br />
nel rovello inesorabile della civiltà di massa. E come li esprimono? Con<br />
furia e candore, lasciando che l’inconscio guidi la loro mano, bruciati i ponti con<br />
qualsiasi tradizione figurativa occidentale.<br />
Ecco Jackson Pollock, il più artisticamente dotato e il più spiritualmente impegnato<br />
della scuola d’oltreatlantico, stendere a terra le superfici da dipingere e strizzarvi,<br />
sgocciolarvi, distendervi le sue vernici riempiendo tutto, con l’orrore del vuoto<br />
dei barbari. Ma non a caso: le opere, le non molte opere lasciateci dal pittore,<br />
perito tragicamente nella ferraglia contorta e convulsa come un suo quadro d’una<br />
automobile guidata forse in stato d’ubriachezza (era il 1956, Pollock aveva quarantaquattro<br />
anni) a un occhio esercitato mostrano necessità d’ispirazione e compiutezza<br />
stilistica. Se spesso si scorge una sorta di reticolo angoscioso entro cui l’uomo<br />
in brandelli, irriconoscibile, cerca invano di trovare scampo e uscita, in Pollock,<br />
altre volte ci si può avviare per una “più spirale aura”. Come in questo Profumo<br />
del 1955, che è uno degli ultimi quadri del pittore: c’è sempre quell’infinito della<br />
pittura (e della poesia) americana, ma in un’eccezione non tragica, lirica. Non<br />
siamo molto lontani dalle estreme propaggini dell’Impressionismo, dal Monet<br />
delle Ninfee, dall’immersione totale, dolcemente passiva nella natura del vecchissimo<br />
maestro francese. Non è una cosa voluta, ma una coincidenza significativa<br />
questo ritrovarsi vicino di due pittori come Pollock e Monet: l’uno partito per<br />
l’interno, l’altro per l’esterno, ma entrambi votati all’annullamento, al perdersi per<br />
un ritrovamento intero sulle rive dell’arte raggiunta e della sua pace.<br />
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