inedita energia Attilio Bertolucci - Eni
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dei fratelli Lendinara, di Baccio Pontelli e altri supremi artigiani, operosi sotto<br />
l’influenza di uomini come Piero della Francesca, s’aprono i primi paesaggi e<br />
le prime nature morte del tutto liberi della storia dell’arte moderna. In pittura<br />
però, sicuramente ispirandosi ai giochi prospettici delle tarsie italiane, è soltanto in<br />
Fiandra e in Germania che, già dalla fine del Quattrocento, si hanno quadri rappresentanti<br />
pure e semplici nature morte. A dire il vero essi sembrano ancora forse<br />
particolari di quadri a soggetto, ma è molto significativo che siano stati dipinti per<br />
il puro gusto di mostrare degli oggetti.<br />
L’opera che vi mostriamo, e che appartiene a una collezione privata americana,<br />
è di un maestro tedesco, del quale s’è perduto il nome: gli storici dell’arte<br />
hanno creduto di poterla datare fra il 1470 e il 1480. Rappresenta, è chiaro, un<br />
angolo di parete per metà occupata da un armadietto semiaperto e per l’altra<br />
metà da una nicchia in cui ampolle e anfore, vasi e libri si compongono in una<br />
silente armonia che anticipa i più grandi natura-mortisti dei secoli seguenti, da<br />
Chardin a Morandi. L’elemento più italiano, più legato agli inganni ottici delle<br />
tarsie, è l’armadietto, descritto però con una minuzia naturalistica tipicamente<br />
nordica. La parte inferiore del quadro, con la boccia che riflette una finestra<br />
aperta sull’azzurro d’un cielo lontanissimo, discende invece dai Van Eyck, straordinari<br />
anticipatori di queste trovate insieme tecniche e poetiche. Ma un certo<br />
puntiglio nel non dimenticare neppure, per esempio, la cordicella che tiene<br />
unite le chiavi, non è la spia dell’origine germanica di questo tanto rifinito<br />
quanto misterioso quadro?<br />
i<br />
novembre 1959<br />
⎡ Natura morta<br />
Francisco de Zurbarán<br />
Norton Simon Museum of Art - Pasadena ⎦<br />
Il Cinquecento, nei suoi maestri supremi, da Michelangelo a<br />
Raffaello, dal Correggio al Tiziano, porta l’arte a un grado tale di idealizzazione<br />
che la natura morta, riscoperta, anzi reinventata nel Quattrocento, sparisce quasi<br />
del tutto dalla pittura. Non è che non sia possibile ritagliarne, anche di saporose,<br />
specie nei Veneti; o frugando di scovarne delle vere e proprie, soprattutto spingendosi<br />
al sempre naturalistico Nord: ma restano secondarie rispetto allo spirito<br />
del secolo, la cui tensione è volta verso ben altro.<br />
Ma ecco che, diminuita tale tensione e trasformatesi le invenzioni sublimi dei<br />
grandi in formule manieristiche o, peggio, accademiche, sorge la necessità di riaccostarsi<br />
alla natura, fonte inesauribile d’ispirazione e di rinnovamento per le arti.<br />
L’uomo cui è dato di ridare vita e moto alla pittura è Michelangelo da Caravaggio,<br />
la cui persino brutale presa sulle cose se suscitò alle prime reazioni negative<br />
violente, finì con l’imporsi e influenzare non soltanto l’Italia, ma l’Europa tutta,<br />
specie l’Olanda e la Spagna, che sulla via da lui eroicamente aperta procedettero<br />
con meravigliosa ricchezza di personalità, da Rembrandt a Velázquez.<br />
A noi qui oggi non importa tracciare la linea dell’arte caravaggesca nei suoi punti<br />
fondamentali: ci interessa invece sottolineare il fatto che il Maestro lombardo,<br />
nella sua infaticabile ricerca di contenuti nuovi e freschi, abbia ripreso anche il<br />
tema della natura morta, finito prima di lui in mano a semplici e mediocri decoratori.<br />
Allo stesso modo che i personaggi del dramma sacro venivano da lui rinverginati,<br />
col trarne le fisionomie e gli atteggiamenti dalla vita di tutti i giorni,<br />
pure uva e mele e fichi e foglie ritrovarono in lui la verità delle loro forme, anche<br />
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