il monumento naturale palude di torre flavia, un ... - WWF Italia
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li, cinghiali, predatori come <strong>il</strong> lupo e <strong>il</strong> gatto selvatico, tartarughe, serpenti, pesci<br />
<strong>di</strong> acqua dolce e salmastra e <strong>un</strong>’infinità <strong>di</strong> specie <strong>di</strong> uccelli. Per non parlare degli<br />
invertebrati <strong>di</strong> cui non sapremo mai <strong>il</strong> numero <strong>di</strong> specie ormai scomparse.<br />
Una descrizione <strong>di</strong> questo tipo <strong>di</strong> foreste ci restituisce <strong>il</strong> loro fascino arcano<br />
e misterioso, senza calcare troppo la descrizione sull’”orrore” <strong>di</strong> quel mondo troppo<br />
selvaggio da bonificare; la troviamo in Palu<strong>di</strong> e montagne, <strong>di</strong> Agostino V<strong>il</strong>la<br />
(Einau<strong>di</strong> 1943): “L’acqua vitrea della piscina, d’<strong>un</strong> verde tetro, sembrava veramente<br />
senza fondo. Lo stesso verde tetro avevano le squame dell’edera, che inguainava<br />
le querce tutt’intorno. Chiari, nu<strong>di</strong>, lisci i giovani fusti <strong>di</strong> <strong>un</strong> gruppo <strong>di</strong> cerri<br />
spiccavano dritti sulla riva opposta: dritti, niti<strong>di</strong>, immob<strong>il</strong>i, si riflettevano sull’acqua<br />
cupa. Certe striature <strong>di</strong> lenticchia d’acqua, d’<strong>un</strong> verde tenerissimo, parevano<br />
sospese, come trine <strong>di</strong> fronda primaver<strong>il</strong>e, a quei chiari fusti sommersi”.<br />
Questa forma <strong>di</strong> paesaggio <strong>naturale</strong>, che potremmo definire della Maremma<br />
Tosco-Laziale, non c’è più ma possiamo ricavarne qualche in<strong>di</strong>zio nei frammenti<br />
<strong>di</strong> ambienti sparsi qua e là, nella matrice costituita dal paesaggio pressoché<br />
completamente antropizzato.<br />
Un esempio è <strong>il</strong> “Bosco <strong>di</strong> Palo” con i suoi querceti mesof<strong>il</strong>i ormai deperienti<br />
per l’abbassamento e la salinizzazione delle falde acquifere troppo sfruttate, <strong>un</strong><br />
altro <strong>il</strong> boschetto <strong>di</strong> frassino meri<strong>di</strong>onale dell’Aschietta (presso Furbara) o ancora<br />
lembi <strong>di</strong> macchia sparsi ai bor<strong>di</strong> delle ferrovie o delle strade con elementi come<br />
gli ulivi secolari sulla via Aurelia, presso S. Severa, residui <strong>di</strong> vegetazione d<strong>un</strong>are<br />
assai impoverita, qualche gruppo <strong>di</strong> specie “umide” presso i corsi d’acqua ormai<br />
in secca gran parte dell’anno, la vegetazione <strong>di</strong> zona umida a Macchiatonda e<br />
quella <strong>di</strong> Torre Flavia.<br />
È successo anche qui da noi, 100-150 anni fa quello che sta succedendo ora<br />
in altre parti del mondo, con la sostituzione <strong>di</strong> foreste e acquitrini da parte <strong>di</strong> pascoli,<br />
seminativi o, peggio, da zone destinate alla desertificazione.<br />
Approfon<strong>di</strong>mento: I MESTIERI E LA MALARIA<br />
“Li bifolchetti <strong>di</strong> Santa Severa<br />
La sera vanno a spasso co’ la dama<br />
Sigaro in bocca e la borsa leggera”<br />
da <strong>un</strong> Ritornello popolare dell’ 800<br />
La piana costiera, come tutte le piane costiere del Me<strong>di</strong>terraneo, fu soggetta<br />
per secoli, sembra soprattutto a partire dalla fine dell’Impero Romano, all’imperversare<br />
<strong>di</strong> <strong>un</strong> altro temib<strong>il</strong>e nemico, ancor più temib<strong>il</strong>e dei saraceni: la malaria<br />
o, come si <strong>di</strong>ceva in passato, la mal’aria. La malattia, endemica e non solo<br />
sulla fascia costiera che com<strong>un</strong>que era la più colpita (ancora nel 1885 uccideva<br />
15.000 persone l’anno). Fu proprio in quegli anni che G.B. Grassi identificò nel<br />
plasmo<strong>di</strong>o trasportato da zanzare del genere Anopheles la causa della malattia,<br />
prima imputata a generici effetti dei “miasmi”, da cui <strong>il</strong> nome. La malaria rendeva<br />
ancora più grama la già misera vita dai braccianti impegnati nel lavoro dei<br />
campi, sotto la sferza <strong>di</strong> quei veri e propri tiranni che erano i “caporali”. Il lavoro<br />
era sud<strong>di</strong>viso in <strong>un</strong>a serie <strong>di</strong> figure professionali “specializzate” in determinate<br />
operazioni, ma tutte, o quasi, accom<strong>un</strong>ate da <strong>un</strong> fattore: la miseria. Ce ne<br />
da <strong>un</strong>a descrizione Ercole Metalli nel suo splen<strong>di</strong>do libro: Usi e Costumi della<br />
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