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Scarica | Download - art a part of cult(ure)

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era a Londra.<br />

M. De L.) Quanto è importante l’empatia che si crea tra fotografo e soggetto?<br />

G. G.) E’ molto importante. Di Rauschenberg, ad esempio, avrò un centinaio di negativi.<br />

Sono andato con lui anche in India. Anche con Beuys, pur se non comunicavamo<br />

verbalmente, visto che lui non diceva una parola d’inglese, né io di tedesco, c’è stato un<br />

incontro molto bello. Andai a Düsseldorf per fotografarlo per quel mio primo libro, senza<br />

conoscere minimamente il suo lavoro. In albergo, accesi la televisione, in quel momento<br />

andava in onda un programma su Joseph Beuys. Con la macchina fotografica scattai foto<br />

del filmato in cui Beuys si buttava addosso l’acqua, facendo cose per me incomprensibili.<br />

Ci incontrammo il giorno dopo in un luogo asettico, una stanza tutta bianca con un<br />

tavolino che sembrava lo studio di un medico, certo non quello di un <strong>art</strong>ista. Lo ritrassi con<br />

il cappello, ma poi non sapevo in che altro modo fotografarlo. Non troppo distante da<br />

Dusseldorf, al museo di Eindhoven, Beuys aveva una mostra e decidemmo di andare lì.<br />

Salimmo sulla Volkswagen, durante il tragitto passammo per una palude e mi venne in<br />

mente l’acqua che avevo visto nel programma televisivo. Dissi una delle poche parole<br />

tedesche che conoscevo: “Joseph, wasser”. Lui fermò l’auto sull’autostrada, saltammo un<br />

m<strong>ure</strong>tto e si lanciò all’inseguimento degli uccelli, buttandosi nell’acquitrino con il cappello<br />

che galleggiava. Ne è nata una performance tra noi due. Oggi, vedendo le mie foto, c’è chi<br />

parla del “progetto della palude”. Ma non era un progetto, è stato un qualcosa nato così.<br />

Quel cappello me lo regalò, dopo averlo firmato. Ce l’ho ancora.<br />

M. De L.) Parallelamente ai ritratti legati all’<strong>art</strong>e, hai realizzato reportage in<br />

Messico, Guatemala, Afghanistan, El Salvador… A Cuba, in p<strong>art</strong>icolare, sei<br />

tornato più volte, per il volume Cuba Mi Amor. Hai anche fotografato Fidel<br />

Castro…<br />

G. G.) Avevo già molto materiale su Cuba, ma ci tornai a metà degli anni ’80 per il “Time<br />

Magazine”, per seguire una conferenza di economia, peraltro abbastanza noiosa,<br />

presieduta non da Fidel, ma dal vicepresidente Carlos Rafael Rodríguez, che non era un<br />

militare ma poeta e scrittore. Sapevo dal mio amico, lo scrittore Rinaldo Gonzales che il<br />

vicepresidente aveva scritto un libro, di cui Rinaldo stava correggendo le bozze. Perciò<br />

quando, finita la conferenza, fummo invitati a bere un mojito e ci presentammo uno ad<br />

uno, arrivato il mio turno nominai Rinaldo Gonzales. Colpii nel segno, perchè il<br />

vicepresidente s’incuriosì e cominciammo a parlare. Gli dissi del progetto del libro e che mi<br />

avrebbe fatto piacere mostrargli le fotografie. Mi diede appuntamento per la settimana<br />

successiva a casa sua. Portai le slides che avevo già messo nel proiettore, che mi ero fatto<br />

prestare per l’occasione da un museo. A mano a mano arrivarono gli invitati, tra i quali<br />

c’era il Ministro della Cultura, Gabriel García Márquez, il segretario di Fidel che era<br />

sposato con un’italiana. Cominciammo intorno alle dieci di sera, all’una stavamo ancora<br />

vedendo le immagini che venivano commentate una ad una, quando di colpo si accese la<br />

luce ed entrò Fidel con tutta la scorta armata al seguito. Si alzarono tutti in piedi, solo io<br />

rimasi seduto. L’inconfondibile voce metallica di Fidel chiedeva cosa fosse successo, dal<br />

momento che tutto il suo entourage era riunito lì. Gli fu spiegato chi ero e lui si avvicinò,<br />

dandomi le pacche sulle ginocchia e chiedendomi, com’era nella sua natura, alcune<br />

informazioni pratiche: chi avrebbe editato il libro, quando sarebbe uscito, quante pagine…<br />

Dopo un attimo di spaesamento, in fondo era la prima volta – benché lo avessi fotografato<br />

da lontano – che incontravo il Comandante a quella distanza ravvicinata, gli risposi che per<br />

il libro mi mancava ancora il testo. Lui chiamò subito Gabo, chiedendogli come fossero le<br />

mie foto e, dal momento che il commento fu positivo, li chiese di scrivere un testo. Di<br />

certo, a me non sarebbe mai venuto in mente di chiedere a García Márquez di scrivermi<br />

un testo! Colsi, poi, l’occasione per dire a Fidel che mi sarebbe piaciuto fotografarlo in una<br />

situazione in cui incontrava operai o campesinos. Non rispose né sì né no, però propose ad<br />

alta voce di portarmi insieme a loro a Santiago de Cuba. Tutti rimasero immediatamente<br />

in silenzio. Ci rimasi un po’ male, considerando che fino a poco prima avevano mostrato<br />

tanto entusiasmo per il mio lavoro. Poi Fidel se ne andò via, all’improvviso come era<br />

arrivato. Il vicepresidente mi guardò come per dire che era andata bene, ma io continuavo<br />

ad essere perplesso. Qualcuno mi chiese dove alloggiavo. Quando tornai a casa di Alberto<br />

Korda, e in quel momento mi ospitava, benché fosse piena notte, gli raccontai i fatti. Lui

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