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L'idea di Dio nel Cristianesimo delle origini - Dott. Faustino Nazzi

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L'anima ha bisogno dello Spirito per andare al Figlio e del Figlio per andare al Padre «a<br />

colui che è realmente <strong>Dio</strong>» (Str. II, 18,96,2, /p. 252). Platone chiama <strong>Dio</strong> il luogo <strong>delle</strong> idee,<br />

Filone il luogo o casa incorporale <strong>delle</strong> idee incorporali in due momenti: 1- luogo incorporale<br />

<strong>delle</strong> idee incorporali anteriore al Logos; 2- luogo che <strong>Dio</strong> stesso ha completamente riempito<br />

<strong>delle</strong> potenze incorporali, cioè il Logos. <strong>Dio</strong> non è circoscritto localmente. Zenone suggeriva<br />

<strong>di</strong> non elevare né statue né templi perché nessun oggetto fabbricato è degno <strong>di</strong> <strong>Dio</strong>: «Non c'è<br />

bisogno <strong>di</strong> costruire santuari; bisogna considerare un nulla un santuario che non è <strong>di</strong> grande<br />

valore né cosa santa: ora nessuna opera dei costruttori e degli operai è <strong>di</strong> grande valore né<br />

cosa santa». La stessa cosa sostenevano i Cinici. <strong>Dio</strong>gene Laerzio: «Non bisogna ornare le<br />

città <strong>di</strong> statue votive, ma della virtù degli abitanti» (Ivi). Per Platone il mondo è il tempio <strong>di</strong><br />

<strong>Dio</strong> (in De Rep, /p. 251). Questo tema ritornerà con il protestantesimo.<br />

Ancora sul concetto <strong>di</strong> <strong>Dio</strong>. La filosofia greca ellenistica offriva argomenti per <strong>di</strong>fendere la<br />

credenza in un <strong>Dio</strong> unico onnipotente. Gli stoici razionalizzano il pantheon greco in<strong>di</strong>cando<br />

nei <strong>di</strong>versi nomi gli aspetti del <strong>Dio</strong> cosmico. Gli apologisti cristiani del II secolo hanno<br />

sfruttato questi due elementi per presentare la loro fede in <strong>Dio</strong> unico e creatore dell'universo<br />

(Ivi, p. 275). Per Clemente l'Uno è senza parti e perciò senza inizio, me<strong>di</strong>o e fine: è illimitato<br />

senza figure. Filone trascrive <strong>nel</strong>la teologia negativa platonica la <strong>di</strong>sposizione giudaica <strong>di</strong> non<br />

pronunziare il nome <strong>di</strong> <strong>Dio</strong>; dunque, osserviamo, il secondo comandamento proibisce in<br />

primo luogo il concetto razionale <strong>di</strong> <strong>Dio</strong> contenuto <strong>nel</strong> "nome proprio" più che l'irriverenza <strong>di</strong><br />

pronunciarne il nome "invano" e la raffigurazione artistica. Massimo <strong>di</strong> Tiro: <strong>Dio</strong> non si può<br />

conoscere né <strong>di</strong>re a voce ma per segni; attribuiamo a <strong>Dio</strong> i nomi <strong>di</strong> ciò che è bello. Giustino:<br />

non c'è nome che si può dare al Padre; <strong>Dio</strong>, Padre, Creatore, Signore, Padrone sono<br />

invocazioni non nomi. Origene: i nomi possono guidare l'u<strong>di</strong>tore e far capire <strong>Dio</strong> <strong>nel</strong>l'ambito<br />

del possibile. I nomi degli ebrei non si riferiscono al creato, ma alle scienze <strong>di</strong>vine misteriose<br />

riguardanti il Creatore (Ivi, p. 266). Ogni espressione presa separatamente non può mostrare le<br />

proprietà <strong>di</strong> <strong>Dio</strong>; la debolezza del linguaggio è una constatazione generale rilevata da<br />

Aristotele e dagli stoici. Clemente pensa che le parole siano intrinsecamente deboli. Bisogna<br />

riunirle con tratti formali e <strong>di</strong> legami vicendevoli. Ma anche la loro somma è inadeguata,<br />

perché in <strong>Dio</strong> non vi sono parti totalizzabili. Per Origene è questione <strong>di</strong> lessico, per Clemente<br />

<strong>di</strong> sintassi. Si tratta <strong>di</strong> una riflessione sul linguaggio e non solo <strong>di</strong> rapporti fra nomi e<br />

attribuzioni (Ivi, p. 267).<br />

Per Aristotele «fare»-ποιέιν è tipico degli animali senza ragione, mentre l'«agire»-πράττεω<br />

è tipico degli uomini; l'ingiustizia è volontaria e non una necessità ed infatti i popoli<br />

puniscono i colpevoli. Per Clemente «la fede è senza dubbio un assenso volontario<br />

dell'anima, ma è anche produttrice <strong>di</strong> opere buone ed è la base <strong>di</strong> un'attività conforme a<br />

giustizia... Ogni perversità dell'anima è legata all'incapacità <strong>di</strong> governarsi, <strong>di</strong> modo che<br />

agitandosi per passione si agisce così per <strong>di</strong>fetto <strong>di</strong> padronanza <strong>di</strong> sé e per perversità.<br />

Bisogna dunque per essere salvati, aver appreso da Cristo la verità, anche quando si è<br />

perseguito la sapienza <strong>nel</strong>la filosofia greca; perché è oggi che è stata mostrata appieno la<br />

chiarezza, ciò che le generazioni passate non possedevano» (Str V, 13,86,2-3).<br />

Clemente nega all'ingiustizia lo statuto dell'«agire» per opporsi alla dottrina <strong>di</strong> Aristotele<br />

che fa dell'ingiustizia un'azione deliberata. È fautore dell'ignoranza o carenza <strong>di</strong> fede<br />

all'origine del male e non della volontarietà, cioè uno fa il male perché è fuorviato da una<br />

finalità erronea, come sosteneva Platone, fino al punto che se si desse il caso <strong>di</strong> uno che fa il<br />

male positivamente, <strong>di</strong>mostrerebbe <strong>di</strong> essere "buono", cioè informato, <strong>di</strong>sponendo <strong>delle</strong><br />

<strong>di</strong>sposizioni "conoscitive" tali da impe<strong>di</strong>rgli o almeno <strong>di</strong> rime<strong>di</strong>are al male correggendosi: «Il<br />

lasciarsi vincere non è altro che ignoranza, il vincersi non è altro che sapienza» (Protagora<br />

358c). Clemente vede <strong>nel</strong>la fede-conoscenza l'usbergo da ogni male. Insomma «fides sine<br />

operibus mortua est» (Gc 2,20).<br />

La dottrina della Provvidenza, già presente in Platone <strong>nel</strong>la bontà del demiurgo, ebbe un<br />

ruolo molto importante <strong>nel</strong>la polemica del platonico Attico, contemporaneo <strong>di</strong> Marco Aurelio,<br />

contro i peripatetici. Per Clemente la Provvidenza è il fondamento della speranza e della<br />

condotta morale (Ivi, p. 276). Sullo Spirito Santo ha dato brevi in<strong>di</strong>cazioni, questione che non

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