n. 03/2012 <strong>Tolkien</strong>, Pop<strong>per</strong> e <strong>il</strong> senso nascosto tra le nuvole di Sebastiano Fusco 21 Chissà <strong>per</strong>ché, ogni volta che parlo di alchimia, applicandone i concetti a circostanze della cultura contemporanea, c’è sempre qualcuno che se la prende. È vero, si tratta di un’arte in larga misura dimenticata, i cui concetti risultano del tutto im<strong>per</strong>meab<strong>il</strong>i se considerati esclusivamente alla luce del razionalismo meccanicistico. Tuttavia, è stata (ed è) una delle discipline più a lungo e più <strong>per</strong>tinacemente praticate da coloro che una volta si definivano “f<strong>il</strong>osofi” (nel senso letterale del termine: amanti del sa<strong>per</strong>e), ed una di quelle su cui sono stati scritti più libri. Jacques Bergier, di professione chimi-fisico con specializzazione nel nucleare, nel Mattino dei maghi affermò che sull’alchimia nei secoli sono stati pubblicati almeno centom<strong>il</strong>a libri. Questo lo disse cinquant’anni fa: oggi, visto che gli alchimisti o sedicenti tali ci sono ancora, e siamo in un’epoca in cui sciaguratamente si scrive e si pubblica con molta maggiore fac<strong>il</strong>ità rispetto a un tempo, tale cifra è almeno raddoppiata.
Duecentom<strong>il</strong>a libri inut<strong>il</strong>i Duecentom<strong>il</strong>a libri sul nulla? Duecentom<strong>il</strong>a libri su divagazioni prive di senso, non ut<strong>il</strong>izzab<strong>il</strong>i <strong>per</strong> capire alcunché delle circostanze della vita comune? La risposta è sì, se <strong>per</strong> “vita comune” intendiamo soltanto ciò che appare ai nostri sensi, magari amplifi cati dagli strumenti d’osservazione, e alle circostanze che ci legano al mondo terreno, e soltanto a quello. Ma se appena ci aff acciamo su di una dimensione un po’ diversa (si badi: ho detto “diversa”, non “su<strong>per</strong>iore”) le cose cambiano drasticamente. Questo lo sapevano bene gli antichi (ma chi li legge più, al di là dei sunti scolastici?) e lo sapevano anche i fondatori del pensiero moderno. Gal<strong>il</strong>eo era un alchimista, Newton era un alchimista, lo stesso Cartesio lo era a tal punto da doversi difendere dall’accusa di far parte di una setta segreta, come i “Fratelli Rosacroce”. Tutti poveri acchiappanuvole? Ancora una volta, la risposta è sì: costoro, e tanti come loro, erano acchiappanuvole nel senso che la verità la cercavano non sulla terra ma un po’ più su. E non ha importanza se questo “più su” esista davvero, in senso oggettivo: anche se non è tangib<strong>il</strong>e, analizzab<strong>il</strong>e, misurab<strong>il</strong>e, <strong>il</strong> “più su” è comunque importante, <strong>per</strong>ché <strong>il</strong> fatto stesso che lo concepiamo gli conferisce esistenza. Per chiarire, azzardo una metafora. Consideriamo un libro, <strong>per</strong> esempio un trattato di fi losofi a teoretica. Il libro è un oggetto concreto: ha un peso, una consistenza, un volume, una struttura complessa fatta di molte pagine, ciascuna diversa dall’altra, legate insieme. Possiamo scrutarlo in tutti i modi, analizzarne densità e peso specifi co, valutarne la composizione chimica della carta e degli inchiostri, catalogarne meticolosamente ogni m<strong>il</strong>limetro quadrato valutando le diff erenze e le omogeneità di ciascuno di essi in rapporto con tutti gli altri: ma alla fi ne non avremo la minima cognizione di che cosa sia la fi losofi a teoretica. È così che oggi gli scienziati materialisti stanno studiando <strong>il</strong> mondo: analizzano <strong>il</strong> libro come oggetto fi sico, ma non si soff ermano a pensare che possa avere un contenuto. Anzi, in genere negano che tale contenuto vi sia, e i più estremisti fra loro giudicano blasfemo dal punto di vista del razionalismo anche <strong>il</strong> solo ipotizzare che sussista un contenuto qualsiasi. Le verità a cui arrivano gli scienziati, nell’ambito della potenza dei loro mezzi d’osservazione: <strong>il</strong> peso del libro è quello, quella la densità e <strong>il</strong> peso specifi co, quelle le composizioni di carta e inchiostro. Ma lì si ferma la loro ricerca, e non potrà mai approdare ad altro, sempre che questo “altro” ci sia, dubbio che in genere non li sfi ora nemmeno, e comunque non interessa loro. C’è tuttavia qualcuno che vuole andare “più su”, e cerca di capire se, al di là dell’oggetto materiale, vi sia un portato che dia un senso all’oggetto stesso. Non è necessario ipotizzare un senso introdotto deliberatamente da un presunto “Autore” del libro, che non conosciamo, non conosceremo mai e mai sapremo se esista o meno. Ciò che importa è se, in rapporto a noi che cerchiamo d’interpretarlo, questo senso vi sia oppure no. Di conseguenza, <strong>il</strong> senso, se c’è, non lo cercheremo più nel libro in quanto tale, ma in noi stessi come interpreti del libro. Da questo punto di vista, <strong>il</strong> senso c’è, eccome: e <strong>il</strong> fatto che siamo noi a conferirglielo non lo rende meno importante, anzi, ne accresce <strong>il</strong> valore. L’es<strong>per</strong>ienza c’insegna che è vano cercare un senso nelle cose in se stesse: sono, e basta. Il senso va cercato nei nostri rapporti con le cose, e si tratta in genere di un senso non univoco, ma diverso <strong>per</strong> ciascuno di noi. Questo lavoro di ricerca non lo fanno gli scienziati materialisti, ovviamente, ma 22 n. 03/2012 coloro che si occupano dei prodotti intellettuali dell’uomo e del loro modo di manifestarsi e soprattutto d’interagire. Ma non basta ancora. Una volta accertato che c’è un testo da leggere, questo testo va non soltanto letto, ma anche capito. La fi losofi a teoretica, ammetterete, è una disciplina diffi c<strong>il</strong>e. Non basta conoscere la lingua in cui è espressa la dottrina, occorre anche seguire <strong>il</strong> fi lo di concetti spesso diffi c<strong>il</strong>i o astrusi, legati a ragionamenti astratti, remoti dal comune sentire e spesso seguenti una logica tutta loro. Tanto più diffi c<strong>il</strong>e sarà capire <strong>il</strong> contenuto del libro che abbiamo preso come oggetto centrale della nostra metafora, visto che ciascuno di noi attribuisce un signifi cato diverso alle parole che riesce a distinguere nel testo. Abbiamo un solo modo <strong>per</strong> uscire dal labirinto delle infi nite interpretazioni: cercare termini sul cui senso vi sia un comune sentire, <strong>il</strong> cui signifi cato sia accettab<strong>il</strong>e senza discussioni, in quanto evidente di <strong>per</strong> sé. Evidente, si badi, non alla nostra ragione meccanicistica: quella serve soltanto a misurare <strong>il</strong> peso specifi co del libro. Sibbene, alla nostra sfera emozionale, al nostro sentire profondo, al nostro serbatoio di certezze assolute. In altre parole, dobbiamo cercare dei simboli che ci facciano da guida. Questo non è più compito né degli scienziati né dei fi losofi : è precipuo dei poeti. In particolare di quei poeti che anticamente erano defi niti vates, in quanto esprimevano una serie di verità parlando giustappunto <strong>per</strong> simboli. Tre mondi… So bene che c’è già chi sta gridando all’irrazionalismo, al tentativo di dare struttura a ragionamenti privi di sussistenza con un procedimento sim<strong>il</strong>e al credo quia absurdum di Tertulliano. Bene, vorrei ricordare che quanto esposto (compresa la metafora del libro) non è che un’applicazione della “teoria dei tre mondi” di Karl Pop<strong>per</strong>. Il grande fi losofo della scienza, che mi onoro di aver avuto come collaboratore negli anni in cui dirigevo un mens<strong>il</strong>e intitolato Scienza 2000 (quando, ahimé, <strong>il</strong> 2000 era ancora molto di là da venire), divideva concettualmente la realtà dal punto di vista umano, in tre mondi: <strong>il</strong> “Mondo 1” rappresentava la sfera degli oggetti fi sici, <strong>il</strong> “Mondo 2” quella dell’es<strong>per</strong>ienza umana soggettiva e <strong>il</strong> “Mondo 3” quella dei contenuti oggettivi del pensiero e del linguaggio. Si tratta, guarda caso, della stessa divisione dell’Essere, come concepito dall’uomo, in tre realtà, che era tracciata un tempo dagli alchimisti. Quando, in alchimia, si parla di un metallo, <strong>per</strong> esempio <strong>il</strong> piombo, lo si vede sotto tre aspetti diversi. In primo luogo, c’è <strong>il</strong> suo aspetto fi sico, ovvero quello che è proprio dell’elemento chimico Piombo come lo si trova in natura: pesantezza, colore nero, tossicità, plasmab<strong>il</strong>ità, bassa resistenza al fuoco e così via. Queste caratteristiche vengono trasferite all’interno dell’uomo e ricercate come componenti della <strong>per</strong>sonalità. L’alchimista fa un profondo esame di coscienza <strong>per</strong> identifi care e isolare tutti gli elementi plumbei del suo carattere. È un’o<strong>per</strong>azione in genere lunga e dolorosa, che veniva chiamata scrutinium chymicum (Michael Maier vi ha dedicato uno dei duecentom<strong>il</strong>a libri che nessuno legge più). Occorre grande potere di concentrazione, da conseguirsi con discipline mentali specifi che e grande forza di volontà, <strong>per</strong>ché è diffi c<strong>il</strong>e portare a nudo compiutamente e sinceramente anche le proprie debolezze più inconfessab<strong>il</strong>i. Si identifi ca <strong>il</strong> piombo nel Mondo 1, cioè <strong>il</strong> macrocosmo, e se ne ricercano le tracce nel microcosmo, ovvero <strong>il</strong>
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