n. 03/2012 39 Lo splendore dell’essere in <strong>Tolkien</strong> di Chiara Nejrotti Il tema della bellezza traspare nell’intera o<strong>per</strong>a tolkieniana, sia nelle descrizioni dei paesaggi, sia nei <strong>per</strong>sonaggi stessi. La bellezza di un luogo può colpire a tal punto da suscitare un sentimento di struggimento verso ciò che va oltre l’apparenza ed <strong>il</strong> presente, <strong>per</strong> riconnettersi al tempo in cui “<strong>il</strong> mondo era giovane” e tutto appariva fresco e <strong>nuovo</strong>. Quando giunge a Lothlorien, ed in particolare nella radura del Cerin Amroth, cuore del reame elfico, sembra a Frodo di “essere passato su un ponte del tempo e di essere giunto in un angolo dei tempi remoti (…). Gli sembrava di essere volato giù da un’alta finestra a<strong>per</strong>ta su un mondo svanito (…). Non vedeva colori ignoti al suo sguardo, ma qui l’oro ed <strong>il</strong> bianco, <strong>il</strong> blu ed <strong>il</strong> verde erano freschi ed acuti e gli pareva di <strong>per</strong>cepirli <strong>per</strong> la prima volta e di creare <strong>per</strong> essi nomi nuovi e meravigliosi” (1).
Dopo <strong>il</strong> disastro di Moria e la caduta di Gandalf, la Compagnia prostrata dal dolore giunge al lago di Kheled-zâram, gioiello dell’antico reame dei nani di Moria, ove giace la corona di Durin. La descrizione suscita nel lettore quel senso di lontananza e mistero che <strong>Tolkien</strong> cita spesso come essenziale <strong>per</strong> la riuscita del suo mondo secondario: “Si chinarono sulle acque scure (...), lentamente ai loro occhi apparvero le forme delle montagne d’intorno specchiate in un azzurro cupo, e i picchi erano come piume di bianche fiamme su di esse; più in alto ancora si estendeva <strong>il</strong> cielo. Pari a gioielli incastonati negli abissi, le stelle br<strong>il</strong>lanti scint<strong>il</strong>lavano; eppure <strong>il</strong> cielo sulle loro teste era <strong>il</strong>luminato dal sole” (2). Nel saggio sulle fiabe <strong>Tolkien</strong> afferma che uno dei compiti della fiaba è quello di donare ristoro – <strong>il</strong> che ha molto a che fare con la bellezza. Così come accade a Frodo a Lothlorien, a cui pare di scoprire l’oro ed <strong>il</strong> bianco dei fiori ed <strong>il</strong> verde dell’erba come se non li avesse mai visti, così afferma <strong>il</strong> suo Autore: “Dovremmo ancora guardare <strong>il</strong> verde, ed essere nuovamente stupiti (ma non accecati) dall’azzurro, dal giallo, dal rosso; (…) <strong>il</strong> ristoro (che implica <strong>il</strong> ritorno alla salute e <strong>il</strong> suo rinnovamento) è un riguadagnare, un ritrovare una visione chiara. Non dico vedere le cose come sono, non voglio trovarmi alle prese con i f<strong>il</strong>osofi, anche se potrei azzardarmi a dire vedere le cose come siamo (o eravamo) destinati a vederle, vale a dire quali entità separate da noi stessi. Dobbiamo, in ogni caso, pulire le nostre finestre, in modo che le cose viste con chiarezza possano essere liberate dalla tediosa opacità del banale o del fam<strong>il</strong>iare – dalla possessività” (3). Aristotele affermava che la f<strong>il</strong>osofia nasce dallo stupore <strong>per</strong> la realtà e, anche se <strong>Tolkien</strong> dice di non volersi ritrovare invischiato nelle discussioni dei f<strong>il</strong>osofi, possiamo comunque individuare nella f<strong>il</strong>osofia del ‘900 un’assonanza tra le sue parole e l’atteggiamento indicato dalla fenomenologia di Husserl. Secondo <strong>il</strong> f<strong>il</strong>osofo tedesco, la crisi delle scienze e del pensiero occidentale nasce proprio dall’aver <strong>per</strong>duto quello sguardo originario sull’essere in seguito allo sguardo analitico e meccanicistico della scienza. Tornare alle cose è <strong>il</strong> motto di Husserl: significa innanzitutto mettere in discussione le certezze immediate che l’uomo ha di sé e del mondo, su<strong>per</strong>are la scontatezza ed <strong>il</strong> pregiudizio, inteso come presunzione di conoscenza, <strong>per</strong> tornare a cogliere i fenomeni nel loro puro apparire, ossia ciò che è dato immediatamente e con evidenza alla coscienza e che viene descritto senza aggiungere niente di estraneo all’oggetto stesso. L’epochè, ossia la sospensione delle nostre credenze sulle cose, non ha un esito scettico, ma è piuttosto <strong>il</strong> su<strong>per</strong>amento dell’idea che <strong>il</strong> mondo sia in nostro possesso e a nostra disposizione <strong>per</strong> essere usato e manipolato. La realtà torna così a manifestare la sua presenza in quanto evento rivelativo dell’essenza che viene colta dalla coscienza attraverso l’intuizione. L’espressione di <strong>Tolkien</strong>: vedere le cose come siamo (o eravamo) destinati a vederle si riferisce sicuramente al tema, tanto caro all’Autore, che l’uomo, seppur caduto, rimanga sempre fatto ad immagine e somiglianza del Creatore. Deve <strong>per</strong>ò riguadagnare uno sguardo sulla realtà che gli <strong>per</strong>metta di uscire dal proprio orizzonte limitato e la bellezza della natura costituisce <strong>il</strong> tramite ideale. Già Platone sosteneva che, tra tutte le idee, la bellezza è quella che più fac<strong>il</strong>mente attira l’uomo, poiché si può cogliere attraverso la vista che è <strong>il</strong> più nob<strong>il</strong>e tra i sensi; affascinato dalla bellezza terrena l’uomo 40 n. 03/2012 passa alla contemplazione di quella divina che reca con sé le altre idee, poiché vi è una coincidenza tra bello, vero e bene. <strong>Tolkien</strong> non era dichiaratamente un platonico come lo fu <strong>il</strong> suo amico C. S. Lewis, ma si può ritrovare comunque nella sua poetica una eco di elementi platonici, f<strong>il</strong>trati attraverso <strong>il</strong> pensiero medievale, a lui così caro. Platone infatti fu <strong>il</strong> f<strong>il</strong>osofo che <strong>per</strong> primo venne “cristianizzato” ed <strong>il</strong> suo influsso rimase fondamentale fino al 1200, quando Tommaso d’Aquino ripropose invece la f<strong>il</strong>osofia di Aristotele. In realtà i due grandi, almeno nella loro versione cristiana, vennero visti dalla f<strong>il</strong>osofia medievale più come complementari che come antagonisti. Di Platone è centrale la spinta verso <strong>il</strong> trascendente e la concezione della realtà naturale come segno che rimanda ad un mondo divino, sede degli archetipi; di Aristotele si sottolinea la presenza dell’essere nelle cose stesse e la possib<strong>il</strong>ità <strong>per</strong> l’uomo di cogliere tale essenza. La bellezza degli elfi e la luminosità che li accompagna assumono, ne Il signore degli anelli, <strong>il</strong> significato di un richiamo alla bellezza eterna delle Terre im<strong>per</strong>iture, di cui gli elfi stessi provano nostalgia, poiché l’animo umano anela all’Infinito e all’Assoluto. Gli elfi incarnano la bellezza e la difendono preservandola nella Terra di Mezzo; i loro tre anelli, infatti, hanno proprio lo scopo di conservare intatti e senza macchia i luoghi ove queste creature dimorano, in particolare Lothlorien e Imladris. L’incontro con gli elfi di G<strong>il</strong>dor, ancora nella Contea, infonde nei quattro hobbit <strong>il</strong> coraggio e la determinazione <strong>per</strong> andare avanti, suscitando nel cuore di ciascuno <strong>il</strong> desiderio <strong>per</strong> qualcosa di più alto e nob<strong>il</strong>e. Anche i cibi quotidiani assumono un altro gusto grazie alla loro presenza e tutto è inondato dalla luce e dal canto. Tommaso afferma che la natura della bellezza deriva da Dio in quanto egli è la causa dell’armonia e dello splendore di tutti gli enti. Ogni cosa può essere considerata bella in quanto ha in sé <strong>il</strong> fulgore della sua forma, spirituale o corporale, e in quanto è in armonia, all’interno della gerarchia e dell’ordine finalistico del cosmo. Tommaso mostra poi come Dio sia la causa dello splendore del creato, oltre che dell’armonia ordinata del cosmo, in quanto Egli diffonde negli enti un raggio della sua luminosità che è fonte di luce che risplende nelle cose. E <strong>Tolkien</strong>, come afferma lo studioso Mark Sebank, era profondamente innamorato delle forme dell’esistenza, in quanto la luce, che si identifica nella teologia cristiana con <strong>il</strong> Logos, rivela una splendida ricchezza di forme e realtà sensib<strong>il</strong>i (4). Il tema della luce è particolarmente presente nella sua o<strong>per</strong>a, essa stessa è simbolo dello splendore supremo e rivela la bellezza intrinseca degli oggetti; a Lothlorien Frodo è colpito dalla luminosità che <strong>per</strong>vade <strong>il</strong> paesaggio: “La luce in cui era immerso non aveva nome nella sua lingua. Tutto ciò che vedeva era armonioso, ma i contorni erano allo stesso tempo precisi, come se concepiti e disegnati al momento in cui gli venivano sco<strong>per</strong>ti gli occhi ed antichi, come se fossero esistiti da sempre” (5); gli elfi stessi sembrano accompagnati da un alone di luce che br<strong>il</strong>la nella notte. Il chiarore che rivela la forma, ossia l’essenza degli enti, e l’armonia che rasserena l’animo sono dunque anche <strong>per</strong> <strong>Tolkien</strong> gli elementi fondamentali di una poetica del bello. Secondo Verlyn Flieger (6) tutta l’o<strong>per</strong>a tolkieniana si può
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