J.R.R. Tolkien Un'epica per il nuovo millennio - Antarès, Prospettive ...
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n. 03/2012<br />
Editoriale: quel neoromantico di <strong>Tolkien</strong>!<br />
Molti sono i benefici che uno scrittore come J. R. R.<br />
<strong>Tolkien</strong> può apportare all’uomo moderno. In particolare,<br />
dalle sue pagine st<strong>il</strong>la una visione del mondo<br />
– un bene che in un’epoca come la nostra è più prezioso dell’acqua<br />
nel deserto – solida ed onnicomprensiva, senza purtuttavia<br />
essere totalitaria. È proprio di sim<strong>il</strong>i elementi che abbiamo bisogno,<br />
noi uomini della fine di quella Quarta Era, <strong>per</strong> usare <strong>il</strong><br />
linguaggio del professore di Oxford, che vede lo slittamento di<br />
tutti i valori come condizione normalizzata.<br />
Di fronte a questa paralisi epocale, che intellettuali come<br />
Nietzsche e Dostoevskij definirono l’era della morte di Dio,<br />
<strong>Tolkien</strong> non si arrende, non propone paradisi artificiali o fughe<br />
dal presente ma elabora un articolato plesso archetipico in grado<br />
di inquadrare la crisi in un contesto assai più ampio, vale a<br />
dire quello delle ciclicità, che fu proprio anche a certa eretica f<strong>il</strong>osofia<br />
della storia la quale, <strong>per</strong>ennemente inascoltata, incontra<br />
oggi la propria tragica attualità. <strong>Tolkien</strong>, scrive Marcello Meli,<br />
“concepisce nel ciclo cosmico una progressiva decadenza, da<br />
una originaria situazione (…) di equ<strong>il</strong>ibrio, in cui gli elementi<br />
di crisi e frattura sono rivolti al minimo. Progressivamente <strong>il</strong> disordine<br />
prevale sull’ordine, la disarmonia sull’armonia” (cit. in<br />
J. R. R. <strong>Tolkien</strong>. Il Viaggio della Compagnia verso <strong>il</strong> Terzo M<strong>il</strong>lennio,<br />
Università “La Sapienza”, Roma 2001, p. 14). Inserita in<br />
un sistema di riferimento più ampio, la crisi <strong>per</strong>de la propria<br />
pretesa onnipotenza, tornando ad essere a misura d’uomo.<br />
Il labirinto tolkieniano ha numerosi ingressi, ognuno dei quali<br />
conduce al cuore della sua narrativa e metanarrativa. Proprio<br />
in virtù di questa molteplicità è intellettualmente disonesto<br />
ritenere che una delle chiavi di accesso a questo multiversum<br />
possa interdire l’ut<strong>il</strong>izzo di altre. Anche l’impostazione metodologica<br />
di questo numero non ha pretese di esclusività né<br />
l’intenzione di scagliare giudizi di valore sulle altre. La ricchezza<br />
delle interpretazioni non dovrebbe scandalizzare – <strong>il</strong> che è<br />
comunque un diritto, come scrive Marco Iacona – ma costituire<br />
una ricchezza. Come mai, mentre in altri ambiti della cultura<br />
letteraria si alimenta la pluralità ermeneutica, contestualmente<br />
all’o<strong>per</strong>a del f<strong>il</strong>ologo inglese si parla invece di “ortodossia” ed<br />
“eterodossia”, ponendo delle odiose colonne d’Ercole al lavoro<br />
degli studiosi? Non che, beninteso, non possa darsi uno scontro<br />
tra differenti “scuole”; ma relegare talune interpretazioni a<br />
sovrastrutture ideologiche, contestandone <strong>per</strong>sino la stessa ragion<br />
d’essere – questo è scandaloso.<br />
Pluralità e non ortodossia: questi i f<strong>il</strong>tri che hanno prodotto<br />
<strong>il</strong> presente fascicolo di <strong>Antarès</strong>. Il f<strong>il</strong>o conduttore di tutti gli<br />
interventi contenutivi, assai variegati, è la funzione che <strong>il</strong> mito<br />
riveste nell’immaginario dello scrittore inglese, che nessuna<br />
esegesi della sua o<strong>per</strong>a che voglia dirsi onnicomprensiva ha <strong>il</strong><br />
diritto di ignorare. Perché ciò è accaduto, soprattutto negli anni<br />
Settanta e Ottanta, allorché la produzione tolkieniana dovette<br />
a cura della Redazione<br />
3<br />
subire la scomunica da parte dell’i<strong>per</strong>realismo proprio alla cultura<br />
dominante, che ne diede una lettura profondamente ideologizzata<br />
e politicizzata che ha appestato la ricezione italiana<br />
dell’o<strong>per</strong>a del professore di Oxford <strong>per</strong> decenni. Secondo questa<br />
cultura “ufficiale” dai metodi assai “ufficiosi”, ciò che non<br />
rientrava nei dettami dell’ortodossia engagée meritava scarsa attenzione.<br />
Va da sé che questo tipo di cultura non aveva orecchi<br />
<strong>per</strong> <strong>il</strong> discorso mitogenetico ed epico. Ebbene, <strong>Antarès</strong> si pone<br />
in diretta linea di continuità con quelle analisi che vedono<br />
nella mitografia una delle cifre fondamentali dell’o<strong>per</strong>a tolkieniana.<br />
Come sostengono numerosi critici, tra cui Gianfranco<br />
de Turris, Tom Shippey e John Rateliff, l’elaborazione del Legendarium<br />
non è <strong>il</strong> frutto di un gioco o di un divertissement<br />
ma obbedisce all’urgenza di fornire un mito all’Occidente, una<br />
nuova epica – al pari di Ezra Pound, che nei suoi Cantos intese<br />
riscrivere la Comedia dantesca <strong>per</strong> i propri contemporanei.<br />
All’im<strong>per</strong>ante rassegnazione innanzi al nich<strong>il</strong>ismo <strong>il</strong> professore<br />
di Oxford preferisce l’elaborazione di nuove mitologie. In una<br />
sua lettera dei primi anni Cinquanta può leggersi in proposito:<br />
“Ero costernato dalla povertà della mia amata terra: non aveva<br />
storie veramente sue (…), del tipo che cercai e trovai nelle leggende<br />
delle altre terre (…). Avevo in mente di creare un corpo<br />
di leggende più o meno legate, che spaziasse dalla cosmogonia,<br />
più ampia, fino alla fiaba romantica, più terrena, che traeva <strong>il</strong><br />
suo splendore dallo sfondo più vasto – da dedicare semplicemente<br />
all’Ingh<strong>il</strong>terra, alla mia terra” ( J. R. R. <strong>Tolkien</strong>, La realtà<br />
in trasparenza. Lettere 1914-1973, Rusconi, M<strong>il</strong>ano 1990, p.<br />
165). Commentando questo passaggio, Franco Manni (Elogio<br />
della finitezza, in La falce spezzata, Marietti 1820, Genova-M<strong>il</strong>ano<br />
2009, p. 135), ri<strong>per</strong>correndo talune riflessioni di Rateliff,<br />
sottolinea <strong>il</strong> fatto che se <strong>il</strong> f<strong>il</strong>ologo era intenzionato a “comporre<br />
una «mitologia <strong>per</strong> l’Ingh<strong>il</strong>terra» (…) <strong>il</strong> risultato ottenuto è<br />
stato una «mitologia <strong>per</strong> i nostri tempi»”. Da qui <strong>il</strong> successo<br />
de Il signore degli anelli, sia in versione cartacea sia cinematografica:<br />
un successo inspiegab<strong>il</strong>e dal punto di vista del neorealismo<br />
im<strong>per</strong>ante ma legato al bisogno di mito che caratterizza<br />
<strong>il</strong> nostro presente, intrappolato tra le teologie secolarizzate di<br />
progresso e positivismo.<br />
La creazione mitogenetica <strong>per</strong>mise a <strong>Tolkien</strong> di inquadrare<br />
ciclicamente anche i macelli dei due conflitti mondiali che insanguinarono<br />
l’Europa. Come sostiene Carlo Bajetta (Introduzione,<br />
in Ivi, p. XII), “come uomo e creatore di miti, [<strong>Tolkien</strong>]<br />
sapeva di appartenere egli stesso a qualcosa che va ben oltre <strong>il</strong><br />
contingente, <strong>il</strong> misero spazio della gloria umana, la polvere e le<br />
ceneri degli esseri limitati dal tempo”. Il rifiuto di un presente<br />
interamente votatosi al culto di Mordor non avviene nel segno<br />
di un passatismo paralizzante ma – come nel caso di W<strong>il</strong>liam<br />
Morris, pre-raffaelita e fondatore del gu<strong>il</strong>ded socialism, che <strong>Tolkien</strong><br />
sempre lesse ed apprezzò – grazie ad una complessa ela-