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Paolo Cucchiarelli - Misteri d'Italia

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Indice<br />

<strong>Paolo</strong> <strong>Cucchiarelli</strong><br />

Piazza Fontana<br />

Chi è Stato?<br />

L’altra verità sulla madre di tutte le stragi<br />

Una missione assai speciale<br />

Prefazione di Vincenzo Vasile<br />

Introduzione<br />

A cura di Vincenzo Vasile<br />

L’‘inutile’ inchiesta di Guido Salvini<br />

I dubbi e le certezze dei politici sulla strage<br />

Dove porta la ‘pista tedesca’ (mai battuta)<br />

Prefazione<br />

di Vincenzo Vasile<br />

Una missione assai speciale<br />

A quei tempi in Europa circolava un manuale, intitolato Missioni Speciali, anzi in francese:<br />

Missions spéciales. C’era scritto: “Il terrorismo spezza la resistenza della popolazione, ottiene la sua<br />

sottomissione, e provoca una frattura fra la popolazione e le autorità. Ci si impadronisce del potere<br />

sulla testa delle masse tramite la creazione di un clima di ansia, di insicurezza, pericolo; il<br />

terrorismo selettivo (…) distrugge l’apparato politico e amministrativo eliminandone i quadri; il<br />

terrorismo indiscriminato (…) distrugge la fiducia del popolo disorganizzando le masse, onde<br />

manipolarle in maniera più efficace”.<br />

Aveva compilato queste parole un ex-ufficiale dei servizi segreti francesi di cui non si sa bene quale<br />

fosse il nome anagrafico, e quale quello di battaglia, c’è chi pensa si chiamasse Yves Guillou, e chi<br />

- più probabilmente - Ralph Guérin Serac. L’uomo era specializzato in operazioni sporche. Aveva<br />

lavorato nell’intelligence francese in contatto con la Cia. Era passato all’Oas dopo l’indipendenza<br />

algerina. Poi s’era trasferito in Portogallo. Qui nel 1966, tre anni prima di Piazza Fontana, aveva<br />

fondato con i soldi dei regimi fascisti portoghese, spagnolo, greco, sudafricano, e l’aiuto<br />

statunitense, l’Aginter press, che era una centrale dedita a tali “missioni speciali” un po’ in tutto il<br />

mondo, attiva nelle ultime imprese neocoloniali, e specializzata in Europa soprattutto<br />

1<br />

1


nell’intossicare e infiltrare movimenti di sinistra, provocandoli a compiere sotto “bandiere di<br />

sinistra” quella progressione di atti terroristici di cui abbiamo letto schema e scopi nel manuale di<br />

Guérin Serac. Chi aveva vent’anni in quell’epoca e si batteva, invece, al fianco dei “dannati della<br />

terra” ripeteva spesso il malinconico motto di Frantz Fanon, ben altro scrittore francese, che<br />

ammoniva: guai a dire che quell’età fosse la migliore della vita. Opinabile valutazione, soprattutto<br />

allora che la gioventù di Europa stava vivendo uno dei periodi più effervescenti e insieme torbidi<br />

della storia: grandi movimenti di lotta e spinte eversive, contrapposti gli uni alle altre, ma a volte<br />

mischiati in uno stesso calderone, di cui non si conoscevano i cuochi-stregoni, che applicavano - per<br />

l’appunto - le ricette del manuale sulle missioni speciali di Guillou-Guérin Serac.<br />

Quel manuale a quei tempi noi non l’avevamo letto. C’era chi in Italia, invece, l’aveva studiato,<br />

ricopiato pari pari, e pubblicato. Uno di essi si chiamava Clemente Graziani, ed era il fondatore del<br />

movimento neonazista Ordine Nuovo di cui troverete ampie tracce in questo libro. Graziani aveva<br />

scritto: “Terrorismo indiscriminato implica ovviamente la possibilità di uccidere o far uccidere<br />

vecchi donne bambini. (…) Queste forme di intimidazione terroristica sono oggi non solo ritenute<br />

valide ma, a volte, assolutamente necessarie”. A volte. Una di quelle volte accadde un grigio<br />

venerdì invernale, il 12 dicembre 1969 nella sede milanese della Banca Nazionale dell’Agricoltura.<br />

Diciassette morti, un’ottantina di feriti.<br />

L’autore di questo libro, <strong>Paolo</strong> <strong>Cucchiarelli</strong>, è uno dei giornalisti italiani che più approfonditamente<br />

hanno studiato i colossali incartamenti giudiziari e di polizia accumulatisi su quella fase molto<br />

nebulosa e molto tragica della nostra storia. Il titolo di un suo precedente volume, dedicato<br />

anch’esso all’eccidio di piazza Fontana, ha una splendida connotazione generazionale: quella<br />

avvenuta a Milano il 12 dicembre 1969, così è scritto in copertina, è “la strage dai capelli bianchi”.<br />

Ci sono stati undici - undici! - processi. La nostra definitiva canizie coincide tristemente con quella<br />

che - dal punto di vista giudiziario - è una specie di pietra tombale della verità sulla strage. Come<br />

leggerete, i componenti del gruppo di “Ordine nuovo”, ultimamente accusati e condannati in primo<br />

grado per avere collocato e fatto brillare la bomba, sono stati assolti in via definitiva dalla Corte di<br />

Cassazione.<br />

Eppure i giudici, divisi su quasi tutto, concordano nell’indicare ancora quella matrice, fascista<br />

dell’eccidio. E hanno svelato un lunghissimo elenco di deviazioni, depistaggi, imbrogli, bugie e<br />

silenzi da parte degli apparati e dei responsabili governativi dell’epoca e di quelle successive.<br />

Nella sua maniera tipica di smorzare anche l’apocalisse, Giulio Andreotti, ha detto di ricordare su<br />

Piazza Fontana “soltanto grane”. Insomma, una fortissima seccatura. Tra le cose che il senatore a<br />

vita non ricorda e di cui invece potrebbe menare vanto, c’è una sua meritevole rivelazione sulla<br />

qualità di agente segreto di un certo Guido Giannettini, un giornalista neofascista, che tra l’altro<br />

aveva scritto in quegli anni concetti molto simili a quelli di Guérin Serac, distinguendo tra le<br />

“bombe fatte esplodere in uffici o locali pubblici nella strada negli assembramenti o nell’abbattere a<br />

caso gente a colpi di armi da fuoco” e il terrorismo selettivo che (...) alimenta sempre più la<br />

tensione creando un fenomeno irreversibile che tende alla guerra civile”.<br />

Norberto Bobbio chiamava questo intruglio infernale il criptogoverno. Cioè “l’insieme delle azioni<br />

compiute da forze politiche eversive che agiscono nell’ombra in collegamento con i servizi segreti,<br />

con parte di essi, o per lo meno da questi non ostacolate”. E basterebbe una definizione così lucida e<br />

icastica per spazzare via lo sproloquio negazionista di certi analisti che vorrebbero cancellare<br />

persino la categoria interpretativa di “strategia della tensione”, che fu inaugurata proprio a partire<br />

dalla tragedia di piazza Fontana.<br />

Un’altra citazione è necessaria, dalla prosa apparentemente felpata e molto drammatica, lasciata nel<br />

“carcere del popolo” da Aldo Moro. La strategia della tensione esistette, e come. Moro scrive<br />

precisamente nel suo memoriale di una “cosiddetta strategia della tensione”, e sostiene che essa<br />

“ebbe la finalità, anche se fortunatamente non conseguì il suo obiettivo, di rimettere l’Italia nei<br />

binari della ‘normalità’ dopo le vicende del ’68 e del cosiddetto autunno caldo (…). Fautori ne<br />

erano in generale coloro che nella nostra storia si trovano periodicamente, e cioè ad ogni buona<br />

occasione che si presenti, dalla parte di chi respinge le novità scomode e vorrebbe tornare all’antico<br />

2<br />

2


(…). E così ora lamentavano l’insostenibilità economica dell’autunno caldo, la necessità di arretrare<br />

nella via delle riforme e magari di dare un giro di vite anche sul terreno politico (…). E’ doveroso<br />

alla fine rilevare che quello della strategia della tensione fu un peridoto di autentica e alta<br />

pericolosità, con il rischio di una deviazione costituzionale che la vigilanza delle masse popolari<br />

fortunatamente non permise…”.<br />

Autentica e alta pericolosità, dice Aldo Moro. Che con quel suo cosiddetta riferita alla strategia<br />

della tensione, forse vuol alludere alla composita presenza di diverse anime e frazioni eversive,<br />

oltranziste e moderate, movimentiste e d’apparato, che Moro aveva ben presenti anche<br />

individualmente e personalmente nella memoria e nell’esperienza. Non c’era, insomma, un unico<br />

regista, un Grande Vecchio, ma esistevano tanti più o meno piccoli e grandi attori di una trama<br />

corale. <strong>Cucchiarelli</strong> racconta anche di come - secondo certi documenti provenienti dai servizi<br />

britannici - lo stesso Moro si fosse prestato qualche anno prima a un compromesso che archiviò per<br />

lunghi anni la pista giudiziaria nera, in cambio del ritiro della minaccia (che sarebbe venuta dal<br />

Quirinale di Saragat) di uno spostamento a destra dell’asse politico di governo e di una fibrillazione<br />

istituzionale.<br />

E’ in ogni caso impressionante come in questi anni si siano accumulati negli archivi giornalistici e<br />

giudiziari una miriade di accenni, allusioni, ammissioni, rivelazioni sul “criptogoverno” di cui<br />

parlava Norberto Bobbio e sugli appoggi internazionali della trama che ha il suo culmine a piazza<br />

Fontana. Allusioni e rivelazioni che provengono da parte di protagonisti e comprimari di quelle<br />

vicende che le vissero dall’interno del sistema politico di governo. Questo libro scava con acribia e<br />

passione dentro questa miniera archivistica, che incredibilmente - pur dopo tanti anni - ci sembra<br />

praticamente intatta sul piano della riflessione storica e politica. Si pensi solo alle sconcertanti<br />

parole e all’analisi, che leggerete, o alcuni di voi - riteniamo pochi - rileggeranno, dell’ex ministro<br />

dell’Interno, <strong>Paolo</strong> Emilio Taviani, che non era un giornalista “pistarolo”. La responsabilità della<br />

strage? Di Ordine Nuovo, collegato con settori dei servizi italiani. Un colonnello del Sid depistò le<br />

indagini a sinistra. A un altro “colonnello” gli esecutori fascisti scapparono di mano, e quello che<br />

doveva essere un botto senza vittime divenne una strage. L’esplosivo? L’ha fornito “un agente nord<br />

americano”. Sembra un film dietrologico, e invece ha lasciato scritta questa sceneggiatura un<br />

importante e autorevole uomo di governo.<br />

Secondo <strong>Cucchiarelli</strong>, nello stesso quadro di un sistema politico paralizzato dalla Guerra Fredda e<br />

dall’esclusione del Pci dal governo, anche la sinistra avrebbe da farsi perdonare silenzi e omissioni<br />

sulla strage e il suo contesto, e questa affermazione farà sicuramente discutere. Molto c’è ancora da<br />

scandagliare. Un punto è certo: come ha scritto Nando Dalla Chiesa, questa vicenda è stata “il più<br />

grandioso laboratorio di impunità giudiziaria” mai concepito nella storia repubblicana. Archiviata<br />

disastrosamente la via giudiziaria alla verità, l’unica strada che rimanga praticabile per dar giustizia<br />

ai diciassette morti di piazza Fontana e alle vittime del fiume di sangue che ne è successivamente<br />

sgorgato è quella indicata da questo libro. Cioè una riflessione politica e una ricerca storica sgombre<br />

da pregiudizi, forse ancora attuabili con l’aiuto dei pochi testimoni che rimangono e attraverso la<br />

rilettura di archivi affastellati e lasciati lì a dormire in un disordine apparentemente casuale, come la<br />

“lettera” del racconto di Edgar Allan Poe, formidabile archetipo letterario di misteri, trame e<br />

depistaggi e di delitti senza colpevoli.<br />

Decisiva sarebbe la disponibilità degli archivi americani, ancora secretati e centellinati per quel che<br />

riguarda la “madre di tutte le stragi” italiane: la rete americana di supporto agli stragisti che era stata<br />

intuita dal giudice Salvini è esistita davvero? Chi la componeva? Che fine hanno fatto gli agenti Usa<br />

di cui si parla nell’inchiesta, quell’agente di cui parlava Taviani? Diciamo che si sa soltanto che<br />

alcuni loro successori - appartenenti alla sede Cia locale - trentacinque anni più tardi hanno<br />

sequestrato e torturato un uomo a Milano, e se ne sono tornati tranquilli a casa.<br />

Trentacinque anni dopo, ne sappiamo qualcosa di più. Sappiamo fondamentalmente che tutto si<br />

tiene: che non può essere un caso se, per esempio, il capo dei “corleonesi” Luciano Liggio venisse<br />

fatto scappare proprio a Milano alla vigilia della strage. Lui stesso dirà in pubblica udienza tanti<br />

anni dopo che “i generali” in quei mesi volevano ribaltare lo Stato, che si rivolsero anche a Cosa<br />

3<br />

3


Nostra, a lui personalmente, gli promisero “libertà”, e si vanterà con linguaggio tra l’oscuro e il<br />

plebeo di “avere salvato il culetto” alla democrazia. E che la sua latitanza dorata potesse avere<br />

molto a che fare con le trame e con le stragi l’aveva scritto proprio sull’Unità in quegli anni -<br />

inascoltato - Pio la Torre. Trentacinque anni dopo, tuttavia, all’apparenza è cambiato tutto, ma se<br />

non si farà luce su quelle pagine del passato non è detto che non possa un giorno spuntare qualcuno<br />

che pretenda di tornare indietro, e abbia tenuto ancora inserito il proprio segnalibro nel capitolo<br />

dell’anno 1969, giorno 12 dicembre, ore 16,35. Anno, giorno, mese e ora, quando i capelli di molti<br />

di noi cominciarono a imbianchire.<br />

di <strong>Paolo</strong> <strong>Cucchiarelli</strong><br />

Introduzione<br />

Piazza Fontana. Chi è Stato?<br />

L’hanno definito, con un’enfasi emotiva che appare datata ma non eccessiva, il “giorno<br />

dell’innocenza perduta’’: è il 12 dicembre 1969 quando a Milano una bomba semina morte tra la<br />

gente colpevole solo di essere entrata in una banca.<br />

E’ gente comune, semplice; per lo più contadini e fittavoli, molti commercianti di bestiame della<br />

provincia. Sono in banca per una tratta, un bonifico, una cambiale in scadenza.<br />

I cadaveri sono maciullati; brandelli anche consistenti di corpi saranno staccati dalle pareti della<br />

banca tanto devastante è stata l’esplosione. I primi accorsi avranno incubi per giorni dopo la vista di<br />

tante membra sparse sul tappeto bruciato di frammenti riarsi che circonda l’area centrale della banca<br />

dove, sotto un gran tavolo ottagonale, è stata collocata la bomba.<br />

Alla fine il bilancio sarà di 17 morti e circa 80 feriti 1 .<br />

L’ultima vittima ci sarà molti anni dopo per le conseguenze delle ferite e delle ustioni di quel<br />

giorno. Negli occhi di chi accorse in banca quel pomeriggio rimarrà netta l’immagine di una scena<br />

di guerra. Contro dei civili innocenti e inermi.<br />

Con quell’esplosione è spazzata via una certa idea della politica e dello scontro sociale. Immediata<br />

fu la percezione che qualcosa di molto rilevante era accaduto e – caso rarissimo in un paese come<br />

l’Italia – la consapevolezza dei contemporanei si consolidò subito con le certezze del giudizio<br />

storico.<br />

La strage era terribile, oltre che per l’orrore per quei morti bruciati e a brandelli, anche per il suo<br />

significato politico.<br />

Pur tra scontri durissimi, politici e sociali, fino al 12 dicembre 1969, il conflitto era stato<br />

fisiologico; le regole del gioco, per quanto aspre, violente, erano state rispettate, magari violate ma<br />

mai negate alla radice. La polizia aveva sparato su dimostranti disarmati ad Avola, il 2 dicembre<br />

1968, e Battipaglia il 9 aprile dell’anno seguente. A Milano un agente di polizia era stato ucciso in<br />

piazza durante lo sciopero generale il 19 novembre; il tasso di violenza delle manifestazioni<br />

sindacali e politiche era elevato ma tutti avevano l’intima certezza che si era sempre “dentro” le<br />

regole: quelle morti non erano state intenzionali, premeditate. Pianificate a tavolino. Ricercate come<br />

‘prezzo’ per un obiettivo politico immediato.<br />

1 Le vittime furono: Giovanni Arnoldi, Giulio China, Eugenio Corsini, Pietro Dendena, Carlo Gaiani,<br />

Calogero Calatioto, Carlo Garavaglia, <strong>Paolo</strong> Gerli, Luigi Meloni, Gerolamo Papetti, Mario Pasi,<br />

Carlo Luigi Perego, Oreste Sangalli, Angelo Scaglia, Carlo Silva, Attilio Valè, Vittorio Mocchi.<br />

4<br />

4


Nessuno prima del 12 dicembre 1969 poteva ipotizzare, mettere in conto, che ci fosse chi potesse<br />

assumere la violenza come terreno strategico per la sua affermazione politica. Dopo Piazza Fontana<br />

tutto questo cambiò di colpo. Fu “l’inizio di un’onda emergenziale che dura da più di una<br />

generazione ormai, un fatto inaudito, una dimensione arcana”, come ricorda Massimo Cacciari,<br />

allora giovane assistente di filosofia a Padova 2 . La strage non ebbe che ambigue controfigure dei<br />

veri colpevoli, dei mandanti, del livello superiore di responsabilità; un elemento che un politico<br />

della destra DC come <strong>Paolo</strong> Emilio Taviani ritenne per anni un fatto decisivo per capire quello che<br />

è accaduto dopo. “Quell’impunità ha distrutto la fiducia nello Stato di un’intera generazione di<br />

cittadini. Il resto è venuto di conseguenza. Quella strage non doveva essere una strage, forse fu un<br />

errore di chi pensava di fare soltanto un botto, però ci fu. E da quel momento è stata una gara per<br />

insabbiarla. E alla fine tutto è finito, finito in niente, a cominciare dalla verità.” 3<br />

Quello scoppio segnò la proclamazione – dicono oggi coloro che erano il 12 dicembre sulle diverse<br />

barricate – di una vera e propria guerra, a bassa intensità militare ma ad alta valenza politica, che<br />

segnerà almeno tutto il decennio successivo e che avrà fasi, coloriture politiche e protagonisti<br />

diversi. Francesco Cossiga ha spiegato, con la franchezza che gli anni gli ha per fortuna regalato, i<br />

termini di quel confronto, invisibile o ben poco percepibile all’epoca dalla maggior parte della<br />

popolazione: “Eravamo in guerra. E non si trattava di una guerra simulata. La guerra ideologica era<br />

in realtà una guerra civile di low intensity” 4 .<br />

Colpisce che Aldo Moro, quel giorno a Parigi per il Consiglio d’Europa che aveva espulso la Grecia<br />

dei colonnelli dal consesso, fatto non estraneo alla strage, si rivolga ai famigliari commentando:<br />

“Siamo in guerra”. Un’espressione ancor più efficace e rilevante se si considera che Moro era<br />

famoso per la costante logica indiretta dei suoi discorsi; per la loro fumosità e spesso<br />

incomprensibilità. Un parlar chiaro che segna anche per l’allora ministro degli Esteri uno ‘stacco’,<br />

un cambiamento.<br />

E’ l’inizio del terrorismo per tanti giovani di destra e di sinistra.<br />

Il 12 dicembre 1969, un freddo venerdì, è un giorno importante perché il destino di tante persone in<br />

quelle ore cambia, imbocca improvvisamente una via imprevista che condurrà un’intera<br />

generazione a ipotizzare – e in tanti a fare negli anni a seguire – la “scelta delle armi’’.<br />

Oggi quei ragazzi del 1969 indicano tutti la stessa data come inizio di quel drammatico percorso: il<br />

venerdì in cui alla banca dell’Agricoltura “scoppiò la guerra’’ che lo Stato, tramite i gruppi fascisti,<br />

aveva proclamato per rispondere alle richieste e alle proposte del ’68 e che si stavano concretando<br />

in Italia anche in campo sindacale ed economico. Quel cambiamento sociale poteva trascinare con<br />

sé anche un mutamento del panorama politico, dei suoi equilibri, temuto e contrastato da tanti con<br />

tutti i mezzi possibili. Ci fu allora chi, per la prima volta nella storia della giovane Repubblica,<br />

scelse di ‘congelare’ quell’ipotesi politica innescando bombe.<br />

Il mondo che si muove per contrastare il cambiamento mette assieme conservatori di varie<br />

estrazioni politiche e ampi pezzi dello Stato, uniti in un intreccio perverso di silenzio e potere per<br />

ostacolare con ogni mezzo anche il più piccolo progetto riformatore.<br />

La bomba spezza vite ma anche progetti politici e sociali. Innesca accelerazioni altrimenti<br />

incomprensibili.<br />

Il fumo che esce dalla banca, quel pomeriggio, è il segnale che l’omicidio terroristico è divenuto<br />

strumento di lotta politica. Neanche venti minuti dopo, alle 16,55, è la volta di Roma: nel passaggio<br />

sotterraneo della Banca Nazionale del Lavoro, che collega la sede di via Veneto con quella di via di<br />

San Basilio, un’altra bomba provoca 13 feriti. Alle 17,27 e 17,30 ancora due attentati; uno innanzi<br />

all’Altare della Patria, l’altro all’entrata del Museo del Risorgimento, su un lato del monumento:<br />

quattro i feriti. Subito scatta il depistaggio: i responsabili possono essere solo gli anarchici. Il<br />

Prefetto di Milano, Libero Mazza, telegrafa al Presidente del Consiglio: “L’ipotesi attendibile che<br />

2 “La generazione del 12 dicembre”, l’Unità, 8 luglio 2002<br />

3 “Sì, c’era un complotto contro Cossiga”, La Stampa, 10 ottobre 1991<br />

4 <strong>Paolo</strong> Barbieri - <strong>Paolo</strong> <strong>Cucchiarelli</strong>, La strage con i capelli bianchi. La sentenza per Piazza Fontana,<br />

Roma, Editori Riuniti, p.15.<br />

5<br />

5


deve formularsi indirizza le indagini verso gruppi anarcoidi”. In poche ore sono arrestati una decina<br />

di anarchici ma si perquisisce anche l’abitazione di Giovanni Ventura, editore di destra padovano,<br />

legato a Franco Freda, oggi ritenuti tra i responsabili della strage ma non più imputabili perché<br />

assolti in passato per lo stesso reato e quindi non più processabili.<br />

Tra il gruppetto degli anarchici arrestati c’è Pietro Valpreda, 37 anni, ballerino disoccupato.<br />

Valpreda, milanese, è appena arrivato da Roma, ed è legato al circolo del ‘Ponte della Ghisolfa’. A<br />

Roma ha fondato il circolo “22 marzo’’, largamente infiltrato dai fascisti e da informatori della<br />

questura. E’ identificato da un testimone, Cornelio Rolandi, come l’uomo della “borsa nera’’ che<br />

sarebbe salito sul suo taxi per andare intorno alle 16 alla Banca Nazionale dell’Agricoltura. Da lì<br />

comincia il suo calvario giudiziario: per anni sarà ‘il Mostro’ della banca. Alla fine sarà assolto per<br />

insufficienza di prove.<br />

A Milano tra gli anarchici c’è Giuseppe Pinelli, il ferroviere che, arrestato dopo la strage, cade da<br />

una finestra della Questura il 15 dicembre, senza un grido. I sospetti per quello che è subito bollato<br />

come un omicidio cadono sul commissario Luigi Calabresi. Il perché di quella morte cela,<br />

probabilmente, il mistero di Piazza Fontana. Cioè le modalità degli ultimi 100 metri della<br />

‘operazione’ e l’identità di chi collocò la bomba che uccise.<br />

Nel 1975 il procedimento per la morte di Pinelli si chiude con l’esclusione dell’omicidio e, per<br />

spiegare l’accaduto, si ricorre ad una categoria unica nella storia della medicina legale: quella del<br />

‘malore attivo’ che avrebbe spinto Pinelli a roteare sulla balaustra e lasciarsi cadere nel vuoto senza<br />

quei movimenti istintivi propri anche di un suicida. Nel 1972 Calabresi, dopo accuse feroci e inutili<br />

processi, è ucciso sotto casa mentre sta andando in Questura. Condannati per quell’omicidio sono<br />

stati Adriano Sofri, Giorgio Pietrostefani , Ovidio Bompressi e Leonardo Marino.<br />

Una storia che prosegue ancora oggi e che nasce la sera del 12 dicembre 1969 quando il ministro<br />

dell’Interno dell’epoca, Franco Restivo, di fatto impone al capo della Polizia, Angelo Vicari, di<br />

seguire a tutti i costi la pista dell’estrema sinistra. Fu quindi il potere politico – diviso sul da farsi –<br />

a tirare la vicenda da una parte e dall’altra perché dopo la strage era prevista un’escalation di<br />

ulteriori attentati e prese di posizione da parte di politici e militari. Nel disorientamento di quelle<br />

ore ad imporsi è la linea che punta dritto sugli anarchici, l’anello più debole della nascente sinistra<br />

estraparlamentare.<br />

Quello che colpisce è il significato che, a tanti anni di distanza, attribuiscono alla strage i tanti che<br />

vissero quelle convulse ore con l’immediata coscienza che qualcosa d’irreparabile fosse accaduto;<br />

che si fosse rotto un tacito patto che avevano sottoscritto tutti i contendenti della durissima stagione<br />

politica della “guerra fredda’’.<br />

“Nel Collettivo, con sede in un vecchio teatro in disuso in via Curtatone, si cantava, si faceva teatro,<br />

si tenevano mostre di grafica. Era una continua esplosione di giocosità e invenzione. Con la strage il<br />

clima improvvisamente cambiò” 5 , racconta Renato Curcio nelle sue memorie ricordando il clima<br />

nel Collettivo politico metropolitano, la struttura politica che precede il passaggio alle Brigate<br />

Rosse di cui è stato tra i fondatori.<br />

Curcio il giorno della strage fu arrestato: gli puntarono un mitra addosso. Rilasciato durante la<br />

serata, si cominciò subito a valutare, nel Collettivo, la strada da imboccare. Alla fine del mese c’è il<br />

convegno di Chiavari dove compare, per la prima volta, l’ipotesi della lotta armata in un documento<br />

teorico. Le Br compiranno la loro prima “azione esemplare” incendiando l’auto di un capo reparto<br />

nel settembre 1970. Ancora prima, in gennaio Potere Operaio, nato nel novembre precedente,<br />

aveva, nel corso del primo convegno nazionale del movimento teorizzato la “distruzione violenta<br />

della macchina dello Stato” gettando le basi del “partito della violenza”.<br />

Nel luglio 1969, un mese importante come vedremo, Giangiacomo Feltrinelli aveva pubblicato<br />

l’opuscolo “Estate 1969 - La minaccia incombente di una svolta radicale e autoritaria a destra, di un<br />

colpo di Stato all’Italiana”, in cui si sanciva il “definitivo tramonto non solo del revisionismo, ma<br />

anche dell’ipotesi che si possa compiere una rivoluzione socialista senza la critica delle armi”.<br />

5 Renato Curcio, A viso aperto, intervista di Mario Scialoia, Mondadori, Milano, 1993, p.49<br />

6<br />

6


Dopo la strage, l’editore, principale obiettivo operativo della ‘operazione’ militar-politica, si<br />

difende con lettere ai giornali e dichiarazioni dalle critiche che in tanti gli rivolgono, anche da<br />

sinistra, per essersi sottratto al confronto con polizia e magistratura, affermando che Piazza Fontana<br />

“segna la fine delle illusioni e delle speranze che vanno sotto il nome di via italiana al socialismo”.<br />

Anche per lui la scelta è netta; irrevocabile.<br />

Feltrinelli assume l’identità d’Osvaldo Ivaldi, lo stesso nome di copertura utilizzato da Osvaldo<br />

Pesce, il capo dei Gap resistenziali. I Gap dell’editore però non attaccano formazioni tedesche o<br />

fasciste ma incendiano a Genova una sede dello Psu, il partito del Capo dello Stato, Giuseppe<br />

Saragat e la sede del consolato Usa. Sono le due prime azioni della “nuova resistenza”.<br />

Naturalmente la scelta degli obiettivi non è casuale ma indica i due pilastri di quel ‘partito<br />

trasversale’, nazionale ed internazionale, che aveva ipotizzato per l’Italia una soluzione politica<br />

istituzionale che l’allineasse al Portogallo, alla Spagna, alla Grecia in una sorta di “arco<br />

mediterraneo delle dittature”. Tutti regimi fascisti o militari. L’unica eccezione, in quest’arco<br />

mediterraneo era la Francia ma De Gaulle stava già pagando il conto della sua indipendenza con gli<br />

attentati dell’Oas e le infiltrazioni nel maggio francese. L’Italia era ritenuta in bilico: terra di<br />

frontiera. Fondamentale, come racconta l’ex capo della Cia William Colby. 6<br />

E’ molto difficile rendere comprensibile oggi, cercare di spiegare, quanto quell’evento, i morti, e<br />

quello che ne conseguì per molti anni, abbiano inciso sulla storia del nostro Paese. Senza quella<br />

strage, probabilmente, la storia dell’ultimo trentennio del secolo passato sarebbe stata molto<br />

diversa. Non ci sarebbe stata una “scelta delle armi” così ampia da parte di tanti giovani in tempi<br />

così rapidi; non la morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, che tanto influenzò tale scelta; non<br />

l’uccisione del commissario Luigi Calabresi indicato come il responsabile principale della morte<br />

dell'anarchico avvenuta alla Questura di Milano; non la clandestinità preventiva – fuggì pochi giorni<br />

prima della strage dopo aver denunciato i rischi di un colpo di Stato già dal 1968 - dell’editore<br />

“rosso” Giangiacomo Feltrinelli che cercò subito di coagulare la reazione politica alla strage<br />

indicata ben presto come “di Stato”, diventando in poco tempo punto di riferimento obbligato della<br />

galassia d’uomini e sigle che in pochi anni costituirà il “partito armato”; non le stesse Br che<br />

nascono anche sull’onda di quello che la strage significò per tanti giovani che oggi hanno i capelli<br />

bianchi. Una catena che nasce però proprio quel pomeriggio del 12 dicembre, inevitabilmente.<br />

“Con altri, segnatamente dopo le bombe di Piazza Fontana, ritenni che la prospettiva di uno scontro<br />

frontale con il sistema politico parlamentare e con le istituzioni statali, fosse ormai inevitabile’’, ha<br />

ricordato ancora Renato Curcio.<br />

Ciò perché, come sintetizzò con efficacia il sociologo Luigi Manconi in occasione del ventennale<br />

della strage, “col dicembre del 1969 cambia tutto. La strage di Piazza Fontana introduce nel<br />

conflitto in corso un’arma spaventosa e non prevista: non contemplata, si potrebbe dire, dagli<br />

accordi taciti, dai ‘protocolli bellici’, tra i due avversari (il movimento studentesco e operaio, da<br />

una parte, e gli apparati dello Stato, dall’altra)’’. Si passa dagli attentati ai simboli dello Stato<br />

(Tribunali, Senato, Banche, Fiere, Università, ecc.) alle persone, anzi alla folla, indistinta,<br />

indifferenziata. E’ la “guerra tra la folla’’ teorizzata e applicata dall’Oas in Francia durante la lunga<br />

crisi algerina e poi fatta propria e sviluppata da quella sorta di “scuola madre” del nuovo terrorismo<br />

di destra rappresentata dall’Aginter Press, che offre “moduli operativi” (l’infiltrazione a sinistra, la<br />

manipolazione, l’intossicazione, i depistaggi) alla svolta terroristica di destra impegnata nella<br />

battaglia contro il comunismo senza più frontiere o limiti.<br />

Buona parte di quanto è accaduto nella storia italiana da allora è stato, in qualche modo, plasmato,<br />

indotto, contaminato, deviato da quel 12 dicembre 1969. Quel giorno rappresenta uno “spartiacque”<br />

reale, concreto; un punto da cui partire per capire. Se ci volge indietro quello è un muro<br />

nell’orizzonte politico e culturale in questo Paese; ancora oggi.<br />

6 “L’Italia è stato il più grande laboratorio di manipolazione politica clandestina. Molte operazioni<br />

organizzate dalla Cia si sono ispirate all’esperienza accumulata nel vostro Paese, e sono state utilizzate<br />

anche per l’intervento in Cile”, citato in <strong>Paolo</strong> <strong>Cucchiarelli</strong>- Aldo Giannuli, Lo Stato Parallelo, Roma ,<br />

Gamberetti, 1997, p.348<br />

dalla<br />

7<br />

7


Ecco perché è un fatto che va conosciuto, studiato, capito perché la vita di tanti uomini affonda le<br />

radici anche in quel grigio venerdì di tanti anni fa. Vi è una riprova diretta della importanza di<br />

quella strage che segna l’inizio della storia del terrorismo politico moderno in Italia: nessuna<br />

inchiesta giudiziaria ha subito nel nostro Paese le pressioni, le torsioni, le intromissioni, le<br />

deviazioni, le “cattiverie” che ha subito quella di Piazza Fontana sfociata in otto inutili processi<br />

prima che si sviluppasse in sede giudiziaria, nel gennaio del 1986, l’inchiesta del Pm milanese<br />

Guido Salvini, un magistrato spesso incompreso nella sua volontà di dare una risposta ad un<br />

dramma giudiziario e politico che ha segnato alcune generazioni.<br />

Anche quella di Guido Salvini che era stato per qualche tempo nei gruppi anarchici studenteschi<br />

milanesi dopo la strage.<br />

Il processo nato da quell’inchiesta, sviluppato da nuovi filoni investigativi e dal lavoro d’altri due<br />

magistrati come Grazia Pradella e Massimo Meroni, ha fatto alla fine naufragio in sede giudiziaria.<br />

Tante novità storiche, elementi rilevanti, analisi che spiegano quello che finora era incomprensibile,<br />

non sono riusciti a divenire un giudizio di responsabilità penale personale. Tre persone che erano<br />

state indicate come responsabili della strage, gli ordinovisti Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi e<br />

l’esponente del gruppo milanese de “La Fenice”, Giancarlo Rognoni, sono stati condannati in primo<br />

grado e assolti in appello. La Cassazione nel 2005 ha confermato quel giudizio che è quindi<br />

definitivo. La strage dopo 11 giudizi nelle aule dei tribunali italiani non ha responsabili.<br />

Sappiamo solo con certezza che lo Stato ha coperto i responsabili, ha depistato le indagini, spiato<br />

ed intimidito i magistrati, fatto fuggire all’estero gli indagati, pagato gli informatori del Sid che<br />

tenevano i contatti con i gruppi eversivi anche quando questi erano ricercati dalla magistratura. Un<br />

elenco lunghissimo di deviazioni e coperture che potrebbe andare avanti ancora per molte inutili<br />

righe.<br />

Per molti anni la strage di Piazza Fontana è stata nell’immaginario cultural- politico italiano quasi<br />

un sinonimo di mistero, di deviazione, di reticenza politico-istituzionale, di copertura di segreti non<br />

confessabili. Un incrocio oscuro tra la parte visibile dello Stato e quella invisibile. Da qui i processi<br />

inutili, le accuse infondate, le fughe dei protagonisti, l’impossibilità di arrivare ad un giudizio<br />

compiuto in sede giudiziaria.<br />

Quasi che lo Stato, le sue istituzioni, gli apparati non potessero o volessero saldare il conto di quella<br />

strage con i giovani del biennio rosso ’68-’69; come se non avessero mai più potuto riallacciare un<br />

rapporto equanime, uno “scambio eguale’’, tra i contendenti del “patto sociale’’ che, tra infinite<br />

difficoltà, si realizzò negli anni Settanta. Qualcosa d’orribile è rimasto dietro le quinte,<br />

probabilmente per sempre.<br />

Ciò soprattutto per una ragione che ha cercato di spiegare Guido Viale, tra i protagonisti del<br />

Movimento studentesco del 1969: “Non si capisce la storia della strategia della tensione le<br />

infiltrazioni, le campagne d’ordine, l’assiduo armeggiare dei servizi segreti che, dal 1969 al 1974,<br />

organizzano almeno una strage l’anno per attribuirne la responsabilità al Movimento (e che proprio<br />

nel ’68 si attrezzano per metterle in opera) se non si tiene presente il vero obiettivo dello Stato: che<br />

non poteva essere quello di battere sul campo la forza del Movimento, ma quello di minarne la<br />

credibilità”<br />

Era una lotta senza limiti, senza remore, senza regole.<br />

La ricerca dei responsabili di questa strage ha subito negli anni traversie incredibili: durante le<br />

inchieste, i processi, c’è sempre stata qualche autorità giudiziaria che, al momento opportuno ha<br />

interrotto, frenato, rimandato il corso della giustizia. Poi, improvvisamente, lo ha accelerato. A<br />

giudizi severi di primo grado nei processi, sono subentrati giudizi di secondo grado accomodanti<br />

che non hanno avuto nessuna voglia di approfondire quello che andava chiarito perché i nomi –<br />

questo è l’assurdo, il tragico, il grottesco della vicenda – sono sempre quelli, dal 1969 in poi.<br />

Sempre lo stesso il metodo per salvarsi, per non spiegare il perché di questa strage: la reticenza,<br />

l’elusione, il silenzio, la rimozione. Far finta di non capire, non vedere, non sapere.<br />

Piazza Fontana e l’omicidio di Aldo Moro, protagonista anche dei fatti del 12 dicembre, come<br />

vedremo, rappresentano i due pilastri principali dei cosiddetti “misteri italiani” vale a dire di quel<br />

8<br />

8


misto d’omertà, compromessi, ricatti, operazioni inconfessabili che si ‘solidificano’ in alcuni<br />

‘segreti condivisi’ tra uomini politici, mandanti, esecutori e depistatori ed anche, probabilmente,<br />

uomini di sinistra all’epoca incatenati alla logica di Jalta e spesso ad un senso di responsabilità che<br />

ha origini nella ricerca di una legittimazione politica ed istituzionale propria del Pci del dopoguerra.<br />

“E’ una storia ormai lontana, quella iniziata in quell’inverno freddissimo che seguì e in qualche<br />

modo concluse il più caldo degli autunni. Ma appena qualcuno scava nei pressi, anche muovendo da<br />

storie e domande apparentemente distanti, ecco che insieme alle radici vien su un terriccio<br />

compatto, aggrovigliatissimo, dove tutto consiste, dove una pista e un nome che si credevano<br />

smarriti riaffiorano in altre storie, magari di ieri o d’oggi” 7 , come nel caso della vicenda di Adriano<br />

Sofri e della condanna per l’omicidio del commissario Calabresi, su cui si è divisa l’Italia. E anche<br />

questa spaccatura, insanabile ancora oggi, nasce a Piazza Fontana, nelle ore immediatamente<br />

successive alla strage.<br />

C’è voglia di dimenticare, di lasciar stare? Di lasciare il tutto ad un giudizio storico sostanziale, già<br />

acquisito, senza entrare in particolari, nello svolgimento della strage e dell’inghippo che lasciò sul<br />

terreno i soli gruppi anarchici - per di più marginali all’interno del loro stesso mondo - come capro<br />

espiatorio?<br />

Renato Curcio ha spiegato, a suo modo, quanto certi legami e fili leghino gli uomini dello Stato e<br />

coloro che l'hanno combattuto, ben oltre a ciò che si possa immaginare: “Perché ci sono tante storie<br />

in questo Paese che sono taciute e non potranno essere chiarite per una sorta di sortilegio: come<br />

Piazza Fontana, come Calabresi, che sono andate in certi modi e che per ventura della vita nessuno<br />

più può dire come sono realmente andate, sorta di complicità tra noi e i poteri, che impediscono a<br />

noi e ai poteri di dire cosa è veramente successo”. Ecco perché questa strage con i capelli ormai<br />

bianchi dall’età trascorsa va ricordata e compresa fino in fondo; non può andare in archivio perché<br />

l’oblio potrà cadere quando si sarà capito per intero chi la volle e con quali diretti o indiretti fini, chi<br />

coprì per anni gli esecutori, favorendo l’espatrio di tanti protagonisti, quali responsabilità ha la<br />

classe politica dell’epoca, quali furono i ruoli dei servizi italiani e stranieri coinvolti nell’operazione<br />

politico-militare perché quella bomba ha cambiato la vita di tanti italiani che ora stanno<br />

invecchiando senza aver ancora pienamente compreso cosa hanno vissuto in quelle settimane e<br />

grazie a chi e in che modo la vita di tanti imboccò una certa strada, assieme alla politica e alle scelte<br />

di un’intera classe dirigente.<br />

Piazza Fontana è sicuramente la ‘testa del serpente’ terroristico; il crogiolo ambiguo entro cui si<br />

temperano i terribili “anni di piombo”, una strage che, a parte i responsabili materiali, non ha<br />

trovato le risposte politiche adeguate ad indicarci quantomeno i protagonisti della complessa partita<br />

che fu giocata in quel dicembre del 1969. Alla fine tutto si scaricò sul ballerino anarchico Pietro<br />

Valpreda, vittima inadeguata a ‘reggere’ la trama di un accadimento complesso che coinvolgeva<br />

responsabilità di strutture d’intelligence italiane e straniere.<br />

Dopo la prima sentenza, quella che condannava i tre del gruppo ordininosta veneto, l’ex ballerino<br />

disse quel tanto che bastava per far intuire che in questa vicenda c’è ancora molto da conoscere<br />

compiutamente.<br />

Era un modo per alludere al “livello superiore” della vicenda, evocato anche da Pino Rauti, il leader<br />

storico del gruppo neonazista di Ordine Nuovo, quando ripete che “alcuni giovani di destra sono<br />

stati utilizzati come pedine. Ma loro giocavano a dama, gli altri a scacchi, perché erano dei<br />

professionisti. Li utilizzarono nella strategia degli opposti estremismi, per consolidare il regime” 8 .<br />

Ora tutti i quesiti inevasi di 11 giudizi rimangono aperti: chi e secondo quali modalità operative<br />

collocò la bomba nella Banca dell’Agricoltura; chi era in effetti l’uomo che salì sul taxi di Cornelio<br />

Rolandi con una borsa nera facendosi lasciare davanti alla Banca poco prima dell’esplosione per<br />

poi tornare senza la borsa a bordo dell’auto? Un sosia di Valpreda, dice l’inchiesta condotta a<br />

Milano dal giudice Guido Salvini e che ha portato all’ultimo processo concluso nel 2005. Ci sono le<br />

dichiarazioni, dirette ed indirette, di cinque neofascisti importanti. Un sosia che potrebbe avere un<br />

7 Michelangelo Notarianni, “Una storia che non si può dimenticare”, Il Manifesto, 11 dicembre 1997<br />

8 “Rauti l’irridicibile non ci sta. ‘Chi va a piazzale Loreto?’”, La Repubblica, 12 dicembre 1993<br />

9<br />

9


nome e un cognome e cioè Nino Sottosanti, l’uomo che pranzò con Pino Pinelli quel 12 dicembre<br />

chiedendogli insistentemente di venire in centro. Ancora una volta i magistrati non gliel’hanno fatta<br />

a penetrare nel mistero degli ultimi 100 metri e cioè chi abbia collocato in effetti la borsa con la<br />

bomba assassina, come se esistesse ancora un livello indicibile e non scandagliabile che cementa il<br />

silenzio di tutti attorno a quei metri e all’esplosione.<br />

Il sosia e il suo ruolo nella operazione militare trova un ulteriore riscontro da quello che emerge<br />

dall'archivio ‘dimenticato’ - più giusto sarebbe scrivere ‘occulto’ o quantomeno accantonato - di<br />

Via Appia dell’Ufficio Affari Riservati del Viminale (di fatto il ‘cuore’ del controllo politico su<br />

polizia e, in molti casi, magistratura), rinvenuto dal consulente del giudice Salvini, Aldo Giannuli,<br />

grazie al quale sono divenute accessibili molte carte che i magistrati non avevano mai potuto<br />

vedere. Tra le altre quelle che indicano un ruolo operativo per Sottosanti, secondo la principale<br />

fonte che la polizia e il Viminale avevano tra gli anarchici e cioè Enrico Rovelli, la fonte “Anna<br />

Bolena”, successivamente importante manager musicale, ma all'epoca “orecchio” dello Stato tra gli<br />

anarchici.<br />

E’ da quelle carte scoperte da Giannuli che emerge anche l'attività di una vera e propria struttura<br />

'parallela' del Viminale nelle principali questure italiane. Si trattava di squadre non ufficiali che<br />

filtravano in partenza e in arrivo le notizie verso magistrati e che rappresentavano il terminale<br />

politico del ministero nelle questure.<br />

Di fatto in tutti i capoluoghi di regione, in uffici privati, erano dislocate, tra il 1950 e il 1984,<br />

strutture miste di polizia da cui dipendevano civili, per lo più infiltrati, che operavano alla diretta<br />

dipendenza dell'ufficio sicurezza del ministero dell'Interno e da quello che ne rappresentava il<br />

‘cervello’ e cioè l'ufficio Affari riservati. Queste strutture periferiche “parallele” raccoglievano<br />

notizie, infiltravano gruppi estremisti, operavano autonome indagini rispetto all'attività giudiziaria<br />

ufficiale: tutto era inviato al “centro” dove le notizie e i dati erano vagliati e ‘corretti’, se necessario.<br />

Successivamente i rapporti ritornavano in periferia o erano trasmessi, nella versione determinata<br />

dagli uffici del Viminale, alla magistratura.<br />

Fu per esempio una squadra di questa struttura parallela del Viminale (la 54), dopo l’immediata<br />

segnalazione di Rovelli, che indicò la pista anarchica e la responsabilità di Pietro Valpreda.<br />

Un sosia per attribuire la responsabilità a Valpreda, in particolare. Un primo ‘doppione’ di una<br />

storia con tante realtà parallele.<br />

Rimane però senza risposta la parte più complessa dell’operazione: cioè quale fosse il ‘gancio’ che<br />

doveva permettere di ‘arpionare’ gli anarchici e, tramite loro, arrivare a quello che era il vero<br />

obiettivo politico di tutta la vicenda di quel dicembre, Giangiacomo Feltrinelli. Il gruppo di Ordine<br />

Nuovo del Veneto, secondo le carte dell’ultima inchiesta, cercherà di riprendere l’operazione non<br />

riuscita il 12 dicembre almeno altre due volte nei mesi successivi: cercando di collocare alcuni dei<br />

timer residui del lotto omicida in una villa dell’editore per poi farli ritrovare e ipotizzando di rapirlo<br />

in Austria per consegnarlo, impacchettato e munito dei timer, in qualche parte oltre il confine<br />

italiano.<br />

Dall’archivio di Via Appia emerge anche la storia di un servizio segreto semi-clandestino, creato<br />

nel 1948 con uomini di Salò, generali badogliani, faccendieri, imprenditori, ecc.; una struttura che<br />

ha ucciso, controllato il traffico d’ armi, di petrolio, gestito affari e politiche economiche ‘paralelle’<br />

e che era, non ufficialmente, alle dipendenze della Presidenza del Consiglio. E’ stato grazie<br />

all’inchiesta Salvini che il cosiddetto “noto servizio”, questa la definizione ‘di copertura’, ha<br />

assunto dei connotati rilevanti per capire passaggi importanti della recente storia: dalla fuga di<br />

Herbert Kappler, alla vicenda Moro, al sequestro dell’assessore dc Ciro Cirillo con relativo<br />

pagamento del riscatto alle Br, solo per citare alcuni dei fatti in cui certamente la struttura è<br />

coinvolta. Il nome effettivo della struttura era “l’Anello” – congiunzione tra i vecchi servizi e quelli<br />

che la Repubblica voleva costituire – e non è escluso che questo servizio ‘parallelo’ che ha<br />

attraversato i sotterranei della storia d’Italia abbia avuto un ruolo anche in Piazza Fontana.<br />

10<br />

10


Certamente entra nei depistaggi attuati per far ricadere le responsabilità sugli anarchici. “L’Anello”<br />

ha uomini coinvolti nella vicenda e basi in prossimità di Piazza Fontana. Ed era specializzato in<br />

omicidi mascherati da morte naturale e da finti incidenti stradali. Più in grande, si occupava<br />

dell’economia parallela del petrolio, che serviva a finanziare le forze politiche più “affidabili” e<br />

sinceramente anticomuniste. Tra il 1975 e il 1976 “l’Anello” si dà da fare addirittura per far nascere<br />

una nuova Dc, in grado di contrastare l’apertura a sinistra preparata da Aldo Moro: è la breve<br />

avventura del Nuovo Partito Popolare (Npp), che divenne poi l’oggetto principale, con riferimenti<br />

alle forniture militari alla Libia, di un famoso dossier segreto, chiamato “Mi.Fo.Biali”, oggetto di<br />

ricatti trasversali che coinvolsero anche il direttore di Op Mino Pecorelli e che è costato una dura<br />

condanna al capo del reparto ‘D’ del Sid, Gianadelio Maletti. “L’Anello”, nella sua lunga storia, ha<br />

avuto una diretta forma di dipendenza dalle istituzioni politiche, a cominciare dalla presidenza del<br />

Consiglio. 9<br />

I) L’ ‘inutile’ inchiesta di Guido Salvini<br />

La storia di questo complesso percorso verso una verità giudiziaria a lungo cercata ma alla fine<br />

inutile, disattesa, in sede processuale si è snodata dal gennaio 1986 al giugno del 2001, attraverso le<br />

due tranche dell’inchiesta del magistrato milanese Guido Salvini, condotte con il vecchio rito, e<br />

quella sviluppata con il nuovo rito da Grazia Pradella e da Massimo.<br />

Una storia intessuta di scontri molto duri, intuizioni, invidie, piccoli trucchi, grandi polemiche e<br />

vere e proprie intimidazioni. Fax degli investigatori intercettati dall’ambasciata Usa, progetti<br />

d’attentato verso gli stessi, polemiche artificiose sui giornali.<br />

Se si tiene conto dei soli risultati documentali e di analisi raggiunti - visto il vero e proprio<br />

‘percorso di guerra’ attraversato per giungere al deposito delle due sentenze-ordinanze - la più<br />

rilevante novità delle inchieste condotte da Salvini sulla eversione di destra in Lombardia negli<br />

anni della strategia del golpe (1969-1974), è quella di averle concluse dopo oltre 10 anni di lavoro,<br />

aprendo la strada non a delle condanne penali ma certamente ad una visione più realistica,<br />

complessa e completa di quanto avvenne in quegli anni.<br />

Alla fine è stato assolto anche il gruppo di Ordine Nuovo accusato dai Pm di aver ‘pilotato’ il<br />

sedicente anarchico Gianfranco Bertoli, cioè colui che attentò nel 1973 a Mariano Rumor,<br />

Presidente del Consiglio nel dicembre del 1969, giusto un anno dopo l'uccisione del commissario<br />

Luigi Calabresi nel corso di una cerimonia commemorativa alla questura di Milano. On rimane<br />

l’esecutore della strage ma sono stati assolti i militanti indicati nell’inchiesta. I giudici affermano<br />

che “è ragionevole e corrispondente ad una valutazione logica dei dati di fatto accertati” ritenere<br />

“probabile” che la strage sia stata decisa e organizzata proprio “dal gruppo ordinovista facente capo<br />

a Maggi”. 10 Come Piazza Fontana dove la matrice di On non è stata smentita dal giudizio della<br />

Cassazione.<br />

Bertoli, secondo l’accusa, doveva uccidere Mariano Rumor per vendicare il mancato appoggio<br />

politico, la non proclamazione dello stato di emergenza subito dopo il 12 dicembre, che avrebbe<br />

innescato la svolta autoritaria e per cementare in un patto di connivenza tutta un’ala della Dc, del<br />

Msi, del Psdi, gruppi industriali e dei servizi segreti che avevano promesso appoggi e coperture alla<br />

operazione politico-militare. Aver ribaltato quell’iniziale condanna, ha fatto venir meno la<br />

spiegazione logica del perché On odiasse la Dc veneta e soprattutto il suo maggior leader all’epoca,<br />

Mariano Rumor. L’assoluzione per chi ‘manipolò’ Bertoli - sul banco c’erano Carlo Maria Maggi,<br />

Francesco Neami e Giorgio Boffelli, del gruppo ordinovista veneto – dopo la strage del dicembre<br />

del 1969 rende ancor più monca, assolutamente inspiegabile, tutta la questione. Né si può sostenere<br />

che On odiasse Rumor per aver avallato la proposta di <strong>Paolo</strong> Emilio Taviani di sciogliere il gruppo<br />

9 Sulla questione vedi in particolare l’inchiesta comparsa su Diario, “Aldo Moro e il signore dell’Anello”, di <strong>Paolo</strong><br />

<strong>Cucchiarelli</strong>, 29 maggio 2003,n.20.<br />

10 “Strage Questura: giudici, assolti ma matrice fascista”, Ansa del 9 maggio 2005.<br />

11<br />

11


extraparlamentare perché i primi tentativi di eliminare il Dc veneto risalgono a ben prima della<br />

sentenza di primo grado che permise a Taviani - Rumor e Moro contrari - di decretare<br />

l’applicazione della legge sul divieto di ricostituzione del disciolto partito fascista (legge Scelba).<br />

Nonostante questo doppio giudizio d’assoluzione per i componenti del gruppo ordinovista<br />

l’inchiesta Salvini rappresenta ancora oggi una solida “costruzione” documentale e fattuale per<br />

avere uno spaccato dall’interno della presenza dei servizi Usa in Italia in quegli anni e anche per<br />

capire il “legame” che, in sede di attese politiche, legava On e alcuni politici.<br />

Salvini ha scoperto un importante elemento nel corso di queste due inchieste: la presenza di una rete<br />

informativa americana che infiltrava Ordine Nuovo e lo controllava passo passo. Una rete che si<br />

alimentava e connetteva con gli apparati militari di sicurezza che operano attorno alle basi Nato in<br />

Veneto. Di questa scoperta - che spiega le affermazioni di Giovanni Ventura, uno degli storici<br />

imputati del passato che si vantava di essere stato lasciato in pace, perché ritenuto in questura un<br />

“agente della Cia” - si è molto parlato facendo nascere due italianissime e classiche fazioni: quella<br />

guidata dal magistrato Gerardo D'Ambrosio (pista tutta italiana), che in passato ha indagato con<br />

Emilio Alessandrini sulla strage e sulla morte di Pinelli, e chi, come Salvini, si rimette a quello che<br />

emerge dall'inchiesta e cioè la presenza di una struttura info-operativa americana che attraversava e<br />

manovrava il gruppo neofascista che sceglie la via delle stragi in un contesto di interessi<br />

internazionali ben definiti.<br />

Dalle due ordinanze di Salvini risulta che in Italia era attivo nel dopoguerra un servizio segreto<br />

militare americano, il Cic (Counter Intelligence Corp, lo stesso servizio con cui entrò in contatto<br />

Licio Gelli subito dopo il conflitto), poi evoluto in altre sigle, che oltre a seguire e controllare gli<br />

estremisti di destra tramite persone che avevano un doppio ruolo (informatori degli americani e<br />

militanti di On) fornì loro un apporto tecnico al fine di far crescere le cellule che avrebbero dovuto<br />

compiere gli attentati; quindi c’è qualcosa di diretto, di concreto, nel senso che non solo questo<br />

servizio militare non informava le nostre autorità, i servizi italiani (strettamente dipendenti da<br />

Washington) o la magistratura di quanto venivano man mano a sapere, ma lasciava fare e in più<br />

sollecitava l’operatività della cellula con questo tipo di aiuti tecnici. Cioè armi, esplosivo,<br />

istruttori.<br />

Salvini è stato chiaro su questo: “La strage fu assistita, per non dire ispirata dalla Nato”. E ancora:<br />

“La posta in gioco era la difesa degli equilibri politici esistenti in Italia e il mantenimento del nostro<br />

paese nel campo occidentale ed atlantico, obiettivo strategico ampio e che univa un arco di forze<br />

ben più vasto dei vari gruppi fascisti. A tale obiettivo risale la fonte di quella strategia di controllo<br />

indiretto che è stata la ‘strategia della tensione’ e al raggiungimento della stessa (…) potevano<br />

essere offerti, come male minore o prezzo eventuale che il paese poteva pagare, anche lutti e<br />

sangue”<br />

Tra le carte dell’inchiesta vi sono diversi rapporti del Ros dei carabinieri che illustrano<br />

dettagliatamente l’attività svolta dai militari americani in contatto con diversi Ordinovisti di primo<br />

piano tra cui quel Carlo Digilio, “armiere” della cellula veneta , che con il suo pentimento ha<br />

spalancato la porta sulla struttura segreta di un gruppo fino a qualche anno fa ritenuto blindato e<br />

adeguatamente tutelato in Italia e all’estero. Digilio, come anche il padre, è un agente informativo<br />

americano e al contempo prepara, secondo l’ipotesi accusatoria poi smentita dal processo,<br />

l’esplosivo che è in dotazione al gruppo. Ecco cosa racconta a verbale: “Quando nel 1963 il<br />

generale Westmoreland emanò una direttiva secondo la quale il comunismo doveva essere fermato<br />

ad ogni costo, in Italia furono formate le Legioni dei Nuclei di Difesa dello Stato e la scelta fu di<br />

contattare ed avvicinare, per opera delle rete informativa americana, tutti gli elementi di destra che<br />

fossero in qualche modo disponibili a questa lotta e coordinarli’’.<br />

Analisi non distante da quella maturata da Carlo Mastelloni, il magistrato veneziano che a lungo si è<br />

interessato di terrorismo. “I servizi di sicurezza di Ftase (la Nato) solo in caso di emergenza,<br />

invasione, secondo i piani operativi ovviamente segreti degli Stati maggiori americani e nostri, della<br />

III Armata, avrebbero potuto utilizzare Ordine Nuovo nel Triveneto”.<br />

12<br />

12


Solo che “il momento dell’emergenza è stato anticipato utilitaristicamente. In questo modo è stato<br />

conferito a quei militanti un potere operativo che è degenerato nelle stragi”. 11<br />

Fu nella veste di tecnico delle armi e d’informatore che Digilio andò nel casolare di Paese, un<br />

piccolo centro vicino Treviso, a controllare l’arsenale del gruppo ordinovista. Aveva ricevuto un<br />

esplicito ordine dal suo caporete, Sergio Minetto. Dal 1967 al 1992 Digilio svolge questo doppio<br />

incarico: ordinovista e agente Usa.<br />

Il pentito nei verbali dell’inchiesta delinea un quadro del retroterra politico della strage del 12<br />

dicembre; di quelli che potremmo definire “mandanti senza volto’’ giudiziario ma dal profilo<br />

politico identificabile: a gestire l’operazione, in chiave politica, sarebbero stati i socialdemocratici<br />

“fin dall’inizio”, una parte della Dc, il vertice e una parte del Msi. A questo progetto sarebbe stato<br />

dato un sostanziale assenso dalla rete americana che dipendeva dalle basi americane (e Nato) del<br />

Veneto e che “controllò’’ l’attività del gruppo di On.<br />

Digilio ha raccontato che gli esponenti di On in Veneto, erano “delusi” per la “ritirata” di Rumor<br />

che aveva impedito “un’immediata presa di posizione dei militari. Disse proprio ‘presa di<br />

posizione’ e non ‘presa di potere’, nel senso che sarebbe stato un primo intervento che avrebbe dato<br />

inizio ad un maggior controllo dei militari sulla vita del Paese, senza un vero e proprio colpo di<br />

Stato. Ciò avrebbe comunque permesso l’uscita allo scoperto dei ‘Nuclei di difesa dello Stato’, cioè<br />

le strutture miste militari-civili che avevano il compito di sostenere la svolta autoritaria’’. Inoltre -<br />

aggiunge Digilio - un esponente del gruppo di On “in modo ironico, ma con sicurezza, mi spiegò<br />

che l’incriminazione degli anarchici era stata studiata dai servizi segreti nel momento in cui era<br />

stata concepita l’intera operazione”.<br />

Anche l’altro pentito dell’inchiesta Salvini, Martino Siciliano, che partecipò a tutta una serie di<br />

attentati che precedettero la strage per essere poi scartato nella fase finale perché giudicato<br />

inaffidabile dai leader del gruppo, ha fornito testimonianze utili a capire chi volle la strage e<br />

perché: “ (…) già prima dei fatti del dicembre vi erano stati contatti tra alti esponenti di On a Roma<br />

e ambienti istituzionali, soprattutto democristiani, per giungere ad una soluzione di quel tipo in caso<br />

di attentati gravi. Tale soluzione (il golpe istituzionale, NdA) sembrava sicura ma dopo gli attentati<br />

del 12 dicembre l’on. Rumor aveva disatteso queste nostre attese e non si era sentito di portare<br />

avanti questa scelta. Per questo l’on. Rumor, agli occhi degli alti dirigenti d’Ordine Nuovo, (…), era<br />

visto come un traditore e quindi andava prima o poi punito’’.<br />

L'inchiesta Salvini ha permesso di acquisire molte novità ma la principale – come si è scritto - è il<br />

'controllo Usa' su On e l'opera di supporto e incoraggiamento svolto dai servizi segreti militari<br />

americani. Sorprende che tutti i protagonisti di questa inchiesta siano citati nelle vecchie carte<br />

processuali o addirittura nelle precedenti sentenze. Se i nomi degli indagati, oggi assolti<br />

definitivamente, non sono una novità, inedita è stata la disponibilità che ha potuto dare chi ha<br />

partecipato a questa battaglia politica (“ci sentivamo carabinieri senza stellette”) dopo la caduta del<br />

Muro di Berlino, la fine della prima Repubblica e l'emergere della struttura di Gladio, vero e<br />

proprio modulo operativo statuale della “guerra non ortodossa” che ha il suo omologo politico<br />

segreto nella “guerra tra la folla” teorizzata e realizzata da Guerin Serac e dall' Aginter Press in<br />

Italia tramite On e An.<br />

Di ciò tratta dettagliatamente nei suoi libri e saggi Vincenzo Vinciguerra, il “soldato politico”, già<br />

militante On e An, che da anni denuncia, in una solitaria battaglia, le nefandezze (“Fosse per lo<br />

Stato e i suoi apparati, io sarei alle Bahamas. Se sono qui in carcere è perché l'ho voluto io”), le<br />

coperture, le responsabilità e i servigi offerti da strutture ufficiali e segrete dello Stato agli<br />

estremisti di destra indicando anche il “regista ultimo” di questa complessa macchina politicomilitare<br />

che ha segnato così duramente gli anni Sessanta e Settanta, quelli del centrosinistra e della<br />

distensione: “L'organizzazione camuffata da Aginter Press in Portogallo e Rosa dei Venti in Italia,<br />

quella che sparge terrore sotto la sigla Oas in Francia e che predica la distruzione del sistema come<br />

Ordine Nuovo in Italia, non è altro che l'Organizzazione per antonomasia, è l'organizzazione Nato”.<br />

11 “Mastelloni: bombe sfuggite di mano ai servizi”, l’Unità , 11 dicembre 1999.<br />

13<br />

13


La documentazione indica che in questa realtà c’è il ruolo centrale di On, i servizi italiani e stranieri<br />

(non solo Nato e Usa), la copertura dei politici che sapevano o intuivano, l'impossibilità per tanti,<br />

ancora oggi, di raccontare una verità che anni fa era irriferibile. E il pensiero va al Pci che - basta<br />

leggere L'Unità dei primi mesi del 1970 - dà la sensazione di intuire, comprendere ciò che era<br />

accaduto a livello politico ma di non poter esplicitare, render pubblico, il perverso intreccio di<br />

responsabilità, interessi, casualità, tornaconti, compromessi politici che - come dice Renato Curcio -<br />

fa sì che né lo Stato né chi l'ha combattuto possa oggi dire come sono andate effettivamente le cose.<br />

Questa osservazione nasce dagli elementi disponibili – e altri si potrebbero aggiungere - e non<br />

sottende un giudizio politico ma la semplice presa d’atto che l’epoca non permetteva a nessuno<br />

libertà di movimento; ne’ ai partiti di governo, ne’ a quelli di opposizione. E di questo si deve tener<br />

conto per capire le dinamiche reali di quelle settimane.<br />

La campagna contro la “bomba di Stato” vide i comunisti incerti all’inizio e poi costretti dalla<br />

logica, anche politica, che avevano preso le cose. Significativo il giudizio di Enrico Deaglio, ex<br />

Lotta Continua sulle ripercussioni politiche dalla strage. “Irrimediabili sono poi state le<br />

conseguenze della bomba per la sinistra. Il Pci, un partito allora del 30 per cento dei voti, si sentì<br />

direttamente attaccato; capì, con ogni probabilità da subito, da dove veniva la mano, ma scelse di<br />

non dirlo. Negò pervicacemente per anni che la strage fosse ‘di Stato’ e si spaventò moltissimo<br />

della spregiudicatezza dei ‘poteri occulti’” 12 .<br />

Il Pci “sapeva molto, ma in tantissimi casi ha preferito tacere”, scrive Aldo Giannuli in un saggio<br />

intitolato non a caso “Pci & stragi: la politica del silenzio” 13 .<br />

Questo dell’atteggiamento del Pci è un capitolo complesso, frutto diretto dell’intreccio di tanti<br />

elementi ancora da sviscerare, ma esposto al costante rischio di possibili e fin troppo superficiali<br />

strumentalizzazioni politiche e di giudizio più o meno storico.<br />

Ci sono fatti che non si possono eludere, pena la non comprensione di importanti ‘pieghe’ della<br />

vicenda politiche di quegli anni. E’ un caso che il Pci seppe in anticipo dell’imminente attentato a<br />

Rumor da parte di Bertoli ma scelse di tacere con i magistrati? 14 Certamente il Pci non ha avuto<br />

all’epoca alcuna alternativa reale perché ogni tentativo di ‘rovesciare’ il tavolo, denunciando lo<br />

scontro, i soggetti in campo, e i loro reali obiettivi, avrebbe avuto come contropartita diretta e<br />

immediata l’accusa di essere un partito politico non democratico, lo scontro diretto, di piazza , e la<br />

conseguente repressione. Giusto quello che - e il Pci lo aveva ben capito- cercavano pervicacemente<br />

i gruppi neofascisti appoggiati da una larga fetta dello Stato, dai politici, i servizi segreti e i<br />

militari. Tutto questo ‘non detto’ ma ‘compreso’ e ‘saputo’ sui retroscena dello scontro nello Stato<br />

incise in maniera determinante sulla scelta della politica del compromesso storico da parte del Pci<br />

che, dopo il trauma cileno, matura proprio nell’autunno del 1973.<br />

L'inchiesta Salvini spicca il volo dall'interno di un’indagine sull’uccisione a sprangate del giovane<br />

missino Sergio Ramelli da parte di esponenti di Avanguardia Operaia. Salvini incrimina, tra attacchi<br />

feroci da sinistra, stimati professionisti (alcuni sono suoi conoscenti di quando militava nei gruppi<br />

anarchici studenteschi) poi condannati per quel terribile atto di violenza (Ramelli rimase 47 giorni<br />

in coma con la testa letteralmente sfondata dalla Hertz 37, la chiave inglese per camion che era<br />

un'arma 'classica' del gruppo). Tra gli altri c’è Giuseppe Ferrari Bravo, un medico al quale è<br />

intestato un abbaino di via Bligny 42, a Milano, dove erano ammassati detonatori, caricatori e un<br />

vero a proprio archivio che tra l'altro ricostruisce aspetti inediti della nascita milanese delle Br.<br />

12 “La banca della memoria”, Enrico Deaglio, Diario,8 marzo 2000<br />

13 Libertaria,n.1,1999<br />

14 Ivo della Cosa, all’epoca segretario della federazione del Pci di Treviso ha messo a verbale durante l’inchiesta<br />

condotta dal magistrato Lombardi sulla strage alla Questura di Milano di esser stato contattato dal conte Pietro<br />

Loredan il 15 maggio del 1973 il quale l’avvisava che 2 giorni dopo ci sarebbe stato a Milano un attentato contro una<br />

un’alta personalità dello Stato. Dalla Costa informava telefonicamente la direzione nazionale del Pci , andava nella<br />

federazione milanese dove giungevano da Roma , con il primo aereo disponibile, Alberto Malagugini e Giancarlo<br />

Pajetta che , ascoltato il racconto, avrebbero subito informato il capo di gabinetto del questore Gustavo Palumbo che<br />

,interrogato, negava recisamente di aver mai avuto una tale informazione dai due parlamentari che erano nel frattempo<br />

deceduti.<br />

14<br />

14


L'archivio fa capo a Mario Costa, poi accusato di essere tra coloro che attaccarono Ramelli, e<br />

raccoglie molte carte della struttura di controinformazione di Ao che faceva capo a Roberto<br />

Rossellini. Tra i tanti, un documento di cinque pagine che raccoglie le confessioni di un terrorista<br />

nero, presumibilmente ad un uomo dello Stato. Il fascista è Nico Azzi, responsabile della fallita<br />

strage al treno Torino-Roma del 7 aprile 1973, decisa per distogliere l'attenzione del grande<br />

pubblico dagli sviluppi in corso sulla responsabilità dei fascisti (Ventura e Freda) nella strage del 12<br />

dicembre. Azzi si fece scoppiare la bomba , destinata ad avere un effetto distruttivo certamente<br />

maggiore rispetto a quella del 1969, mentre la innescava e si preparava a lasciare una copia di<br />

Lotta Continua e tessere di sindacati di sinistra.<br />

Cinque giorni dopo a Milano i gruppi della destra radicale e quelli oltranzisti del Msi inscenano<br />

una voluta gazzarra che sfocia in scontri: una bomba a mano da esercitazione sfonda il petto<br />

all'agente Antonio Marino. A lanciarla è Vittorio Loi, figlio del pugile Duilio Loi. Con lui finirono<br />

in carcere Maurizio Murelli e Nico Azzi. Quest'ultimo era accusato di aver fornito la bomba a mano<br />

da esercitazione che aveva ucciso l’agente. Il 17 maggio del 1973 Gianfranco Bertoli, lancia la<br />

bomba che nelle sue intenzione doveva colpire Mariano Rumor per vendicarsi del mancato<br />

appoggio dato dopo Piazza Fontana alla tanto agognata svolta autoritaria.<br />

Nel documento di via Bligny si parla dei rapporti tra ordinovisti veneti e Giancarlo Rognoni, il capo<br />

de “La Fenice” che aveva lavorato alla Commerciale di Milano, dove il 12 dicembre fu ritrovata la<br />

bomba inesplosa fatta poi misteriosamente saltare in aria, in serata, senza alcuna spiegazione se non<br />

quella di voler sottrarre alle indagini un elemento fondamentale come l’esplosivo utilizzato nella<br />

operazione. Rossellini ignora chi - simpatizzante, avvocato, giornalista o magistrato - possa avergli<br />

passato il documento che rivela che i timer inutilizzati del lotto della strage furono trattenuti da “La<br />

Fenice”.<br />

E' il 1987 e Salvini riapre l'inchiesta sull’eversione nera a Milano che era nata dallo stralcio<br />

“territoriale” del processo ad Ordine Nuovo che si era svolto a Roma. E' possibile che quella<br />

confessione sia stata fatta ad un uomo dei servizi e che quello ritrovato sia solo una copia di un<br />

originale fatto poi sparire, ma era in una “banca dati” della sinistra estraparlamentare. Tra l'altro si<br />

parlava di attentati la cui responsabilità doveva ricadere sulla sinistra e di un “grave attentato a<br />

Milano ad opera di un gruppo congiunto milanese-veneto e la commissione di un reciproco attentato<br />

a Trieste”. Non solo. Alle riunioni per la preparazione della tentata strage sul Torino-Roma (poteva<br />

fare centinaia di vittime) avrebbero partecipato anche uomini degli apparati dello Stato, dato che –<br />

si legge nel documento - “il Sid in accordo con il gruppo ‘La Fenice’, organizzò l'attentato sul treno<br />

Torino-Roma, nell'aprile del 1973 per depistare le indagini su Piazza Fontana, che avevano<br />

imboccato la pista della destra veneta”. Tutto ruotava sempre attorno alla strage del 12 dicembre.<br />

Salvini riprende la carte in mano e grazie al crollo dei regimi e della grave crisi che l'inchiesta di<br />

Mani pulite apre nella realtà politica italiana molti a destra parlano. L'indagine si amplia fino a<br />

‘identificare’ la rete dei rapporti Stato-On-“La Fenice”-Piazza Fontana tra il 1969 (anche se le<br />

prime armi a Mestre compaiono nel 1966) e il 1973-1974. Con la prima inchiesta che si chiude<br />

nell'aprile del 1995, emergono alcuni elementi nuovi, rivisti, aggiornati o solo parzialmente svelati a<br />

suo tempo: i rapporti organici tra il Mar di Carlo Fumagalli, il “partigiano bianco” che animava i<br />

gruppi milanesi verso il golpe nei primi anni Settanta, e i carabinieri e uomini dell'esercito; il<br />

recupero di molte bobine occultate a suo tempo nella inchiesta sul golpe Borghese (8 dicembre<br />

1970) , che rivelano il ruolo che doveva essere assegnato a Licio Gelli e cioé quello di controllare<br />

direttamente il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat durante l'attivazione golpista del<br />

dicembre 1970, molto più ampia e drammatica di quanto era stato fatto credere; l'emergere della<br />

struttura dei Nuclei di Difesa dello Stato o Legioni, nuclei di militari e civili - tutti di On -<br />

dipendenti dallo Stato maggiore e attivabili per operazioni di contrasto interno e comunque<br />

propedeutiche al colpo di Stato; il traffico di armi ed esplosivo già avviato prima di Piazza Fontana<br />

da Avanguardia Nazionale che utilizzava addestratori che provenivano dall'Aginter Press; il ruolo<br />

dell'agenzia di Guerin Serac, svelato fin nei particolari da Vincenzo Vinciguerra che aveva lavorato<br />

per compiere attentati finalizzati ad essere utilizzati contro le sinistre e con Digilio e Siciliano le<br />

15<br />

15


prime rivelazioni sul controllo stretto svolto da strutture dei servizi militari Usa sul gruppo almeno<br />

dal 1967. Le dichiarazioni di Digilio aprono un varco che rende possibile leggere dall'interno, per la<br />

prima volta, quale sia stata l'attività di controllo da parte degli americani sulle dinamiche eversive<br />

negli anni Sessanta e Settanta nel nostro Paese e quanto profonda sia stata la commistione,<br />

soprattutto in Veneto, fra mondi finora ‘letti’ e valutati come separati e cioè On, i Nuclei di Difesa<br />

dello Stato, i servizi segreti italiani e quelli Usa, a cominciare da quelli militari.<br />

La sentenza-ordinanza è una sorta di summa dei depistaggi, delle omissioni, delle distruzioni d’atti<br />

e documenti che potevano indicare quale fosse la responsabilità politica ed operativa nella strage:<br />

un “manuale delle deviazioni” che diventa un terribile libro di storia contemporanea che fa risaltare<br />

solitarie figure di uomini capaci di fare il loro dovere - pagando spesso di persona - anche in un<br />

contesto così politicamente inquinato, corrotto e ‘piegato’ per esigenze di Stato. Due storie<br />

importanti tra le tante raccolte dal magistrato. Storie su cui torneremo più avanti.<br />

Il capitano Mario Santoni è “un onesto ufficiale - scrive il magistrato nella sentenza-ordinanza - in<br />

servizio presso il raggruppamento centri Cs di Roma”. Indagando su un traffico d’armi scoprì<br />

l'esistenza di un certo Filippo, “elemento importante dei servizi segreti”. Gli ci volle poco per capire<br />

che Filippo era Licio Gelli. Si spostò in Toscana per approfondire le indagini, contattò il piduista<br />

avvocato Degli Innocenti e raccolse altre preziose informazioni sull'allora (nel 1974) sconosciuto<br />

‘Venerabile’. Presentato il rapporto su Filippo, il capo del reparto ‘D’ Gianadelio Maletti andò su<br />

tutte le furie, prima con il superiore di Santoni, poi con l'ufficiale dato che era stata toccata una<br />

“persona sacra e molto utile al servizio segreto. Mi minacciò di rimandarmi al servizio territoriale”,<br />

ricorda Santoni. Una spiegazione? Fu con l’imprimatur di Haig e Kissinger, rispettivamente vice e<br />

capo del Consiglio nazionale di sicurezza americano, che Licio Gelli reclutò, nell’ autunno del<br />

1969, quattrocento alti ufficiali italiani e Nato nella sua Loggia.<br />

L'ufficiale aveva scoperto, tra l'altro, la “frequentazione di Gelli del centro Sid di Firenze e il suo<br />

libero ingresso al Quirinale sia sotto la presidenza Gronchi, sia sotto la presidenza Saragat”. Proprio<br />

a Gelli, nel dicembre 1970, era stato assegnato il compito di “catturare” Saragat nell'ambito del<br />

golpe Borghese. Un modo per “vendicarsi” del mancato risultato del tentativo messo in atto il 12<br />

dicembre del 1969?<br />

Il maggiore Giuseppe Bottallo per tanti anni capo centro del Sid a Padova quando ha saputo da<br />

Salvini che la sua relazione sulle rivelazioni fatte dalla ‘fonte Turco’ era scomparsa è scoppiato a<br />

piangere. Con i suoi uomini aveva raccolto le rivelazione di Gianni Casalini – ‘fonte Turco’ per il<br />

servizio segreto - che denunciava la responsabilità del gruppo Freda nella strage. Dal centro di<br />

Roma era prima giunto l'ordine di “chiudere la fonte” e poi il rapporto era stato fatto sparire. Un<br />

lavoro utilissimo distrutto con calcolo perché rivelava lo scenario che bisognava tutelare come<br />

“scelta” di Stato. Casalini aveva partecipato tra l’altro alla serie d’ attentati sui treni dell’inizio di<br />

agosto del 1969 che era stata organizzata da Freda e Ventura. Casalini lo ritroveremo più avanti<br />

perché è un personaggio importante.<br />

La conclusione del magistrato, vista la mole di riscontri, ammissioni, elementi acquisiti e vere e<br />

proprie confessioni è obbligata: “Alla luce di quanto emerso in questa e nelle precedenti istruttorie<br />

in materia di stragi ed eversione di destra, appare francamente inaccettabile la tesi riduttiva secondo<br />

cui le attività definite impropriamente ‘devianti’ sarebbero riconducibili a singole ‘mele marce’<br />

all'interno dei servizi segreti, mosse da affinità ideologiche con gli autori delle stragi e dei tentativi<br />

di golpe ed appoggiate da qualche uomo politico rimasto quasi sempre nell'ombra. Più<br />

probabilmente, la presenza di settori degli Apparati dello Stato nello sviluppo del terrorismo di<br />

destra non può essere considerato ‘deviazione’, ma normale esercizio, per un lungo periodo, di una<br />

funzione istituzionale”. E ancora: “Tutti questi eventi non avrebbero potuto ripetersi se non fossero<br />

stati inquadrati in un disegno politico strategico comune, con tutta probabilità il mantenimento del<br />

nostro Paese nel campo dell'Alleanza Atlantica”. Per questa attività era pronto anche un “esercito<br />

segreto”, composto da militari e civili: mille uomini divisi in 36 Legioni localizzati nelle regioni<br />

settentrionali ma anche, ad esempio, in Puglia. Un commando organizzato dallo Stato Maggiore<br />

della Difesa. I “civili” dovevano trasportare armi: bastava avvertire i carabinieri ed esporre un<br />

16<br />

16


fazzoletto alla macchina in un modo convenzionale; nessuno avrebbe interrotto il trasporto. “La<br />

finalità della struttura era certamente quella di fare un 'colpo di Stato' - racconta il legionario Enzo<br />

Ferro che aveva inutilmente raccontato tutto ad un magistrato nel 1977 guadagnandosi solo un<br />

paterno invito di un ufficiale dei carabinieri a non insistere - all'interno di una situazione che<br />

prevedeva attentati dimostrativi preferibilmente senza vittime al fine di spingere la popolazione a<br />

richiedere o ad accettare un governo forte. Ovviamente in un attentato potevano esserci delle<br />

vittime casuali, ma questo, secondo chi dirigeva la struttura, era un prezzo che in uno scontro così<br />

grosso per il nostro Paese si poteva pagare”.<br />

Nell’aprile del 1995 il magistrato milanese Grazia Pradella diventava titolare del troncone di<br />

inchiesta riguardante piazza Fontana aperta con il nuovo rito, l’unico che poteva impedire di<br />

ritornare nella lontana sede di Catanzaro dove si era concluso l’ultimo processo. Nel luglio il<br />

giudice iscrive nel registro degli indagati, per strage, diverse persone tra cui Zorzi e Maggi. Nel<br />

giugno del 1997 i due Pm Pradella e Meroni, che nel frattempo ha affiancato la collega nella<br />

difficile inchiesta, chiedono l’arresto di Maggi e di Zorzi (che vive tuttora in Giappone).<br />

L’ordinanza di custodia del Gip Forleo sostiene che la strage della Banca dell’Agricoltura fu – e la<br />

definizione non può che rinviare ad un feroce scontro tra due cordate intente a raggiungere lo stesso<br />

obiettivo con strade e modalità diverse- “una strage di Stato contro lo Stato”, voluta ed appoggiata<br />

dai servizi segreti di allora, dal Sid e dall’ufficio Affari Riservati del ministero dell’Interno. Lo<br />

scopo era quello di favorire il progetto del golpe Borghese, il colpo di Stato che, progettato<br />

inizialmente per la fine del 1969, pochi giorni cioè dopo la strage di Piazza Fontana, venne<br />

organizzato e poi misteriosamente bloccato nella notte del 7 dicembre del 1970. Il fatto – scrive il<br />

Gip – “si venne ad inserire in un disegno terroristico e reazionario diretto, attraverso contestuali<br />

manovre di depistaggio, di infiltrazione e di provocazione, a riversare la responsabilità degli atti<br />

terroristici commessi su forze rivoluzionarie, a provocare altri atti terroristici da parte di dette forze,<br />

e quindi in ultima analisi a traumatizzare in modo sempre più grave l’opinione pubblica allo scopo<br />

di dare avvio ad una sorta di controrivoluzione ed alla conseguente granitica instaurazione di una<br />

forma di governo autoritario di tipo conservatore’’. Pochi mesi dopo inizia il processo che vede alla<br />

sbarra Maggi, Zorzi (contumace), Rognoni e Stefano Tringali per il solo reato di favoreggiamento<br />

ed anche Carlo Digilio. Nel febbraio del 1989 Salvini chiude la seconda tranche della sua inchiesta<br />

sulla eversione di destra in Lombardia. In 480 pagine il magistrato supera lo stesso concetto di<br />

“strage di Stato” per parlare di “sovranità limitata” da “direttive atlantiche”.<br />

Il magistrato inserisce Piazza Fontana in un quadro internazionale che vede nell’allora presidente<br />

del Consiglio, il defunto leader dc Mariano Rumor, “non l’organizzatore o il mandante, ma il<br />

terminale politico della strategia stragista”. “Il Presidente del Consiglio dell'epoca e una parte della<br />

Dc, ed anche e soprattutto il Psdi - scrive nella sentenza-ordinanza Salvini - erano visti come il<br />

terminale che doveva concretizzare con le sue decisioni i frutti di una strategia politico-eversiva che<br />

partendo da soggetti operativi (…) , attraverso mediazioni, probabilmente anche militari, che forse<br />

non saranno mai note, era in grado di indirizzare le scelte ai massimi vertici istituzionali”.<br />

I manovali del terrore pensavano ad un golpe imminente: decisiva è in questo contesto la già<br />

ricordata adunata missina del 14 dicembre 1969 a Roma, con la “piazza di destra” che insorgendo<br />

contro “le bombe degli anarchici” doveva fare da detonatore alla proclamazione dello “stato d’<br />

emergenza”. Ma Rumor, atterrito dai morti e dalla prova di forza dispiegata dal Pci in occasione dei<br />

funerali con la forte presenza operaia in piazza del Duomo, si sarebbe allineato ad un compromesso<br />

sollecitato, tra gli altri, da Aldo Moro: bloccare il ‘golpe’ e, in cambio, dare via libera alla falsa<br />

pista Valpreda. Proprio per questa ‘ragione di Stato’ On decise di uccidere Rumor. Ecco perché tra<br />

le principali domande che le Br rivolgono a Moro nel “carcere del popolo” delle Br c’è proprio<br />

quella riguardante Piazza Fontana: Moro risponde come può e come sa. Cioè con allusioni e rinvii<br />

ai più incomprensibili.<br />

Parlando della strage il presidente della Dc in poche righe cita per quattro volte Rumor,<br />

accostandolo “pleonasticamente” a Gianfranco Bertoli. “Si ha la sensazione – afferma la sentenza–<br />

17<br />

17


ordinanza - che l’On. Moro abbia voluto inviare un messaggio criptico”. Un messaggio che va<br />

interpretato, come vedremo.<br />

Alla fine Salvini consegna un quadro convincente e incrociato delle ragioni del golpe e delle sue<br />

motivazioni. Rimangono dei “buchi” rilevanti ma non più i fitti misteri del passato. La strage ha un<br />

contesto, obiettivi, mani diverse che intervengono. Prima e dopo. Ma non basta, giustamente, per<br />

condannare definitivamente tre esponenti del gruppo ritenuto in ogni caso il responsabile.<br />

Ed ecco la condanna in primo grado e poi l’assoluzione in appello rispettando una “regola” aurea<br />

della giustizia italiana quando affronta certi temi. La Cassazione conferma. “E’ la decisione di una<br />

Corte di legittimità che ha agito secondo il diritto: ed è l’ultima parola su Piazza Fontana” ha detto<br />

nell’aula della Cassazione il Pg Enrico Delehaye. Sarà così “a meno che non emergano altre prove,<br />

cosa che mi pare difficile”, ha aggiunto subito dopo la sentenza, quasi a scusarsi per il valore storico<br />

della decisione di confermare le assoluzioni, legittime certamente, del gruppo ordinovista veneto.<br />

Perché a questo punto la domanda che circola da qualche decennio – senza risposta - torna con tutta<br />

la sua forza: Chi è stato? E ci sono tante ragioni per scrivere: “Chi è Stato?”.<br />

Anche l’ultimo treno giudiziario per la strage di Piazza Fontana non fermerà più. Non ci sono più<br />

stazioni.<br />

II) I dubbi e le certezze dei politici sulla strage<br />

“Non aver impedito la strage di Piazza Fontana è stato il cruccio della sua vita”. Partì<br />

all’improvviso, nel primo pomeriggio del 12 dicembre 1969 dall’aeroporto militare di Ciampino.<br />

Era un “rautiano di ferro”, antidemocristiano e “visceralmente anticomunista”. Era una missione<br />

sul filo dei minuti: impedire l’esplosione della bomba alla Banca dell’Agricoltura, a Milano. Una<br />

missione che poteva avergli affidato solo qualcuno del Sid, o quantomeno di una parte del Sid, visto<br />

che l’avvocato Matteo Fusco di Ravello, già aderente alla Rsi, era un agente del servizio segreto<br />

militare: l’uomo che non fece in tempo ad arrivare a Milano. Desistette quando apprese della strage.<br />

A rivelare di quell’estremo tentativo dello Stato di impedire quello che i magistrati milanesi hanno<br />

definito “ il golpe dello Stato contro lo Stato”, adombrando in questa definizione una dura lotta<br />

sotterranea tra più cordate impegnate nel raggiungimento di un obiettivo comune, il golpe, con<br />

mezzi e modalità anche drammaticamente concorrenziali, è stato <strong>Paolo</strong> Emilio Taviani, tra i<br />

fondatori di Gladio, esponente storico della destra Dc, l’uomo che mise fuori legge Ordine Nuovo,<br />

le ‘testa’ operativa della strategia politica che precede la strage nel 1969. Un uomo che ha sempre<br />

insistito su una tesi senza mai spiegarla fino in fondo, perché – ha sostenuto - “c’è un punto<br />

fondamentale per capire la strage di Milano ed è che la bomba, nell’intenzione degli attentatori, non<br />

avrebbe dovuto provocare alcun morto, avrebbe dovuto essere un atto intimidatorio come lo furono<br />

quelli contemporanei di Roma. Se non si accetta questa interpretazione, molto resta<br />

inintelligibile” 15 . Taviani aggiunge un elemento rilevante di questa lotta tra ‘fronti’ interni allo<br />

stesso mondo dell’eversione e dei servizi segreti: Fusco doveva recare a Milano “l’ordine di<br />

impedire attentati terroristici”. ‘Ordine’ è un termine militare che quindi deve far riflettere<br />

sull’esistenza di una vera e propria ‘catena di comando’ che qualcuno non rispetta.<br />

Lo Stato cercò di bloccare chi attentava allo Stato in nome di una divergenza di logiche, di strategie<br />

politico-militari, di scelte di tempi e modi. Taviani aggiunse un elemento rilevante della strategia<br />

post–strage messa in atto dallo Stato: “Da Padova a Milano si mosse, per depistare le colpe verso la<br />

sinistra, un ufficiale del Sid, il Tenente Colonnello Del Gaudio” 16 . La figlia di Fusco, morto nel<br />

1985, ha confermato quella missione disperata per impedire la strage, i morti. Quel giorno lei era a<br />

Milano e prima di partire il padre le aveva chiesto se era proprio necessario quel viaggio,<br />

15 Interrogatorio di <strong>Paolo</strong> Emilio Taviani, del 7 settembre 2000 da parte del Ros. Taviani disse di aver<br />

appreso la notizia da un religioso e che questa venne confermata nel 1973, all’atto di divenire ministro<br />

dell’Interno, dal questore Emilio Santillo e dal generale Vito Miceli<br />

16 Ibidem<br />

18<br />

18


“obbligandomi poi ad andare nell’albergo ove di solito pernottava lui, che era ai limiti della mia<br />

diaria”. 17 La ragazza era a Milano per conto della trasmissione “Per voi giovani” di Renzo Arbore.<br />

Dopo l’esplosione, degli amici di Anna legati ai gruppi anarchici, gli chiesero di andare in giro per<br />

Milano insieme con lei perché c’erano fitti controlli e perquisizioni nell’ambiente anarchico<br />

milanese. “Ho sempre avuto l’impressione che mio padre conoscesse alcuni esponenti<br />

dell’estremismo di destra”. 18<br />

Negli anni Taviani ha insistito, ciclicamente, sulla sua interpretazione : “E’ il punto chiave di un<br />

certo passaggio. C’è stata una non chiarezza e non sincerità di qualcuno in quel momento. Bisogna<br />

capire perché la prima sentenza di Catanzaro (quella che condannava i ‘neri’ di On, NdA), che<br />

corrisponde pienamente alle mie opinioni, è stata depistata e praticamente insabbiata. Quella<br />

sentenza mi soddisfa pianamente; bisogna andare a fondo su quella”.<br />

Taviani ha le idee chiare perché nell’arco degli anni e poi nelle sue memorie riconferma questa tesi<br />

con in più lo zampino di qualche servizio segreto straniero.<br />

Qualche anno fa in seduta segreta davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi<br />

era stato ancora più chiaro, come ricorda l’ex senatore dei Ds Giovanni Pellegrino, che ha guidato<br />

per due legislature l’organismo d’inchiesta. Taviani disse in quella sede la stessa cosa vale a dire<br />

che non si “ capirà mai niente della strage se non si partirà da un presupposto: che la bomba avrebbe<br />

dovuto scoppiare a banca chiusa. Perché non posso credere - aggiunse Taviani in quella circostanza<br />

– che un ipotetico colonnello, ma ‘ipotetico’ lo precisò successivamente, correggendo il verbale<br />

della seduta, abbia potuto dare l’ordine di uccidere tanti italiani”. 19<br />

Il verbale segreto di quell’ audizione offre una valutazione più ampia e complessa del ricordo di<br />

Pellegrino. Taviani disse, prima di correggere il verbale inserendo ‘un ipotetico’ che “Non è infatti<br />

possibile pensare che un colonnello dell’Arma dei carabinieri, persona seria e intelligente, pensi di<br />

ammazzare 16 italiani. Evidentemente la bomba doveva scoppiare come le bombe di Roma… Il<br />

problema è pertanto se c’è stato un depistaggio anche precedente…”. Da come si esprime, con un<br />

giudizio diretto sulla persona, Taviani dà la netta impressione di conoscere il colonnello ; di sapere<br />

chi fosse colui a cui ‘l’operazione’ sfuggì di mano.<br />

Quindi a Milano, per uno dei maggiori politici italiani, c’è stata quantomeno una responsabilità del<br />

servizio segreto militare, il Sid. Ma, aggiunse subito Taviani; “Tutto questo è indubbio, basta però<br />

che sia chiaro il tassello iniziale… Non doveva morire nessuno, e invece è successo quello che è<br />

successo”. E Taviani nei suoi Diari pubblicati postumi aggiunge un ulteriore frammento che<br />

combacia perfettamente con le conclusioni dell’inchiesta milanese condotta da Guido Salvini.<br />

“La responsabilità della strage è interamente dell’estrema destra e in particolare di Ordine Nuovo:<br />

uomini tecnicamente seri, collegati con settori deviati dei servizi segreti”. La Cia non c’entra nulla<br />

ma l’esplosivo è stato fornito a uomini di On da un “agente nordamericano” che proveniva dalla<br />

centrale tedesca – indicazione rilevante e ricca di sviluppi - e apparteneva al servizio segreto<br />

dell’esercito, struttura “assai più efficiente della Cia”. Nelle memorie Taviani allarga il suo giudizio<br />

verso altri settori delle istituzioni: non c’è solo il solitario colonnello dell’Arma che non controlla<br />

‘l’operazione’. C’è altro. Qualcosa in più. Taviani deduce che la bomba non doveva causare morti<br />

dal fatto “che una volta verificato che nel crimine erano implicati alcuni uomini delle istituzioni,<br />

non è supponibile che essi cinicamente pensassero di uccidere tanti innocenti”. A meno che gli<br />

esecutori abbiano poi “disatteso gli ordini ricevuti”. Insomma la catena delle responsabilità si<br />

amplia, si allunga, si struttura. E non si capisce bene dove possa finire. A questa ricostruzione<br />

Rumor, Fanfani e Moro, dice Taviani, non vollero mai credere, almeno ufficialmente. Taviani<br />

invece come “atto politico” appena tornato al Viminale, nel 1973, sulla base della sentenza avuta<br />

dal Pm Occorsio e forzando la situazione nei termini giuridici, sciolse On.<br />

Al Viminale Taviani affronta subito il ‘nodo’ Piazza Fontana. “Chiesi a bruciapelo a Santillo:<br />

‘Secondo lei Vicari (capo della Polizia al tempo della strage, NdA) è andato in pensione credendo<br />

17 Interrogatorio di Anna Fusco di Ravello, 12 marzo 2001 da parte del Ros<br />

18 Ibidem<br />

19 “Quel giorno gli esecutori andarono oltre il piano”, Corriere della sera , 5 maggio 2005<br />

19<br />

19


ancora che siano stati gli anarchici a portare la bomba di Piazza Fontana’? Santillo mi rispose<br />

secco: ‘non credo’(…) Santillo mi disse di essersi convinto che la matrice della bomba di Milano<br />

sarebbe stata un gruppo di estrema destra, emarginato dal Msi, proveniente dal Veneto. Questo<br />

gruppo sarebbe stato protetto da uomini del Sid. Aggiunse che tali notizie erano già note alla<br />

magistratura. Qualcosa del resto era già filtrata sui giornali’’.<br />

Taviani quindi propose, dopo la sentenza Occorsio, che era solo di primo grado, di sciogliere<br />

Ordine nuovo. Rumor era molto perplesso. Moro contrario perché temeva che “il provvedimento<br />

avesse l’effetto di aggravare la tensione”. “Si può veramente immaginare che politici di primo piano<br />

siano stati sponsorizzatori di stragi? Non ne sono capaci, non solo moralmente, ma neppure<br />

caratterialmente. Ipotesi di tal genere sono mera fantascienza’’, spiega Taviani alludendo, in<br />

controluce, proprio a Rumor. 20<br />

“ Che agenti della Cia si siano immischiati nella preparazione degli eventi di Piazza Fontana e<br />

successivi è possibile, anzi sembra ormai certo: erano di principio anti-aperturisti e anticentrosinistra.<br />

Che agenti della Cia fossero tra i fornitori di materiali e fra i depistatori sembra pure<br />

certo, che fossero organizzatori e primi autori, dubito che ne avessero la capacità. Ben diverso – e<br />

qui Taviani apre uno squarcio su una realtà mai affrontata – il discorso per il Mossad, un servizio<br />

perfettamente organizzato. Però il Mossad, a quanto almeno risulta a me, ha compiuto sempre<br />

azioni mirate. Non credo che sia stato presente nè a Piazza Fontana, né nelle stragi ai treni”.<br />

L’analisi di Taviani, a parte il colonnello dell’Arma che controlla poco e che si fa prendere in giro<br />

da quelli di On che vanno oltre i limiti fissati per ‘l’operazione’ e l’esplosivo che arriva dalla<br />

Germania, la si ritrova nei passi del memoriale che Moro dedica alla strategia della tensione e alla<br />

strage durante i 55 giorni del rapimento, quando le Br vogliono sapere tutto di Piazza Fontana.<br />

Taviani sostiene che l’invio di un uomo come Del Gaudio incaricato di depistare a sinistra<br />

l’inchiesta sulla strage e il tentativo di Fusco di Ravello “sono indizi se non prove, di atteggiamenti<br />

del tutto contrastanti all’interno dello stesso Sid. In alcuni settori del Sid e dell’Arma di Milano e di<br />

Padova, vi furono deviazioni. Fu l’Arma stessa, con la sua solida struttura, ad individuarle e<br />

correggerle” 21 . Due le città citate: Milano e Padova e l’Arma dei Carabinieri e il Sid. Da ricordare.<br />

Taviani condivise, il 1 luglio del 1997, la definizione di Piazza Fontana come “madre di tutte le<br />

stragi” affermando, in sostanza, che attorno a quella vicenda,<br />

si mosse una composita realtà d’intelligence al fine di mettere a segno un obiettivo politico<br />

comune ma che veniva interpretato in modi diversi e cioè il tentativo di bloccare la “strategia<br />

dell’attenzione” al Pci varata da Aldo Moro con la “strategia della tensione” che doveva innalzare il<br />

livello di scontro, paralizzare l’opinione pubblica, mettere il bavaglio a sinistra; spegnere, come<br />

aveva fatto De Gaulle in Francia, l’anno ‘rivoluzionario’ dell’Italia con una serie di azioni che<br />

miravano a ottenere una stabilizzazione politica attraverso la destabilizzazione sociale, la paura del<br />

golpe. Ma qualcuno, insiste Taviani, andò oltre. Le due linee che si possono individuare erano in<br />

parte concorrenziali politicamente, ma frammiste, incrociate, trasversali ai livelli operativi, e questo<br />

fece sì che l’operazione non andasse come era stato ipotizzato. Qualcuno si sentì autorizzato a<br />

‘forzare la mano’, accelerare i tempi, stringere i politici all’angolo buttando sul piatto della bilancia<br />

i morti che dovevano costringere i ‘parolai’, i generali ‘cacasotto’, ad agire. Ma anche in questo<br />

caso qualcosa non andò come doveva andare. Se quanto programmato e ricercato non accadde è<br />

probabile che la causa non siano i morti ma il fatto che questi furono troppo pochi. Con 100 morti il<br />

golpe più o meno ‘istituzionale’ ci sarebbe stato.<br />

Oggi a tanti anni da quel venerdì freddo e cupo del 12 dicembre del 1969 lo Stato ha<br />

definitivamente abdicato davanti al ruolo giocato da quel colonnello dei carabinieri, che non<br />

essendo stato mai individuato non ha potuto dire quale fosse il suo compito; chi impartiva gli ordini<br />

eventualmente ricevuti, chi era il suo ‘superiore’ militare o il suo referente politico-istituzionale.<br />

20 Dal documento letto da Taviani in sede di audizione davanti alla Commissione Stragi, 1 luglio 1997.<br />

21 Interrogatorio di <strong>Paolo</strong> Emilio Taviani , 7 settembre 2000 da parte dei Ros<br />

20<br />

20


Nel momento della verità umana e politica della “prigione del popolo” il Presidente della Dc Aldo<br />

Moro scrive a lungo della strage. Il ritrovamento delle carte frutto degli interrogatori a Moro<br />

nell’ottobre del 1990 nello stesso covo Br di via Monte Nevoso a Milano, dietro ad un pannello<br />

occultato sotto una finestra, riserverà qualche sorpresa anche su questo tema perché quelle lettere<br />

non furono poi così deludenti come diceva durante il processo Moro la Faranda.<br />

Moro afferma di non aver mai creduto alla pista “rossa” per Piazza Fontana e che dietro quegli<br />

attentati, che avevano l’obiettivo di normalizzare l’Italia del 1968, c’erano centrali straniere, così<br />

come sostiene Taviani. “Si può presumere che paesi associati a vario titolo alla nostra politica<br />

estera e quindi interessati ad un certo indirizzo fossero in qualche modo impegnati attraverso i<br />

servizi d’informazione. Su significative presenze della Grecia e della Spagna fascista non può<br />

esservi dubbio”. Per la più che felpata prosa di Moro è una vera e propria accusa: a chi associare<br />

all’epoca Italia, Spagna e Grecia se non gli Usa?<br />

Moro racconta come seppe della strage mentre era a Parigi (“Lo vidi invecchiare in un istante”,<br />

scrive Agnese, la figlia che era con lui nella capitale francese) e<br />

che si consultò con il Segretario generale della Presidenza della Repubblica, Picella, “uomo molto<br />

posato… di molte informazioni (ovviamente ad altissimo livello) ma non con canali d’<br />

informazione propri. I suoi erano i canali dello Stato.” Una notazione apparentemente senza un<br />

senso preciso questa su Picella.<br />

Picella dice a Moro che la “qualifica politica” della realtà coinvolta nella strage era quella di “gente<br />

appartenente al mondo anarchico”.<br />

“Ci si trovava di fronte ad una costruzione giudiziaria elaborata, ma che nel complesso non appariva<br />

molto persuasiva”, nota Moro che però non ebbe “mai dubbi” e continuò a ritenere, a manifestare,<br />

“almeno come ipotesi”, che questi e altri attentati che si andavano sgranando fossero di chiara<br />

matrice di destra ed avessero l’obiettivo di scatenare un’offensiva di terrore indiscriminato “allo<br />

scopo di bloccare certi sviluppi politici che si erano fatti evidenti a partire dall’autunno caldo e di<br />

ricondurre le cose, attraverso il morso della paura, ad una gestione moderata del potere”. E di questa<br />

sua convinzione Moro mise a parte “con reiterati interrogativi i suoi colleghi di governo” quando<br />

era presidente della commissione Esteri della Camera e in particolare Mariano Rumor che nel<br />

frattempo era stato fatto oggetto di un attentato da parte dell’ ‘anarchico’ Gianfranco Bertoli.<br />

Come detto in quattro righe Moro cita Rumor quattro volte ma sempre in riferimento all’attentato<br />

di Bertoli. Un messaggio. Salvini ha sostenuto che Moro volesse così ricordare, a chi poteva capire,<br />

lo scontro durissimo che si giocò a ridosso e subito dopo la strage tra due schieramenti politici che<br />

facevano capo a Moro, parte della Dc (e al Pci) e a un fronte composito che faceva riferimento a<br />

buona parte della Dc, Psdi, Msi, ambienti militari e dei servizi segreti. In maniera schematica, data<br />

l’eterogeneità delle forze che hanno una convergenza operativa su un obiettivo politico di tale<br />

rilevanza potremmo parlare di ‘partito americano’, cioè di una realtà politica che interpretava in<br />

maniera oltranzista, rigida, la collocazione occidentale dell’Italia e combatteva una battaglia a tutto<br />

campo e con tutte le armi disponibili nei confronti dello “scivolamento” a sinistra, dell’entrata dei<br />

comunisti nell’area di governo, del dialogo tra sinistra Dc, Psi e Pci.<br />

Rumor non proclamò, come chiesto da Saragat e da parte della Dc, lo ‘stato di emergenza’ facendo<br />

venir meno un passaggio fondamentale per tutti coloro che avevano scelto la strada di “andare oltre<br />

lo stabilito” facendo esplodere la bomba quando vi erano ancora molte persone nella banca. “ Si ha<br />

la sensazione che Moro abbia voluto inviare un messaggio criptico che imponeva lo stesso<br />

collegamento fra i due episodi emerso nell’inchiesta”, scrive Salvini. Cioè Piazza Fontana e<br />

l’attentato contro Rumor alla Questura di Milano.<br />

Infatti On, come hanno abbondantemente dimostrato l’inchiesta prima ma anche i processi finiti<br />

con le assoluzioni, intendeva colpire Rumor, anzi “spazzarlo via”, per vendicarsi della scelta fatta<br />

nel 1969.<br />

“Per quanto riguarda la strategia della tensione che per anni ha insanguinato l’Italia, pur senza<br />

conseguire i suoi obiettivi politici, non possono non rilevarsi, accanto a responsabilità che si<br />

21<br />

21


collocano fuori dall’Italia, indulgenze e connivenze di organi dello Stato e della Dc in alcuni suoi<br />

settori”, scrive tra l’altro Moro confermando lo schieramente in campo in quei giorni di dicembre.<br />

“Fino a questo momento (1978, NdA) non è stato compiutamente definito a Catanzaro il ruolo<br />

(preminente) del Sid e quello (pure esistente) delle forze di Polizia. Ma che questa implicazione ci<br />

sia non c’è dubbio”, aggiunge il Presidente della Dc nel carcere delle Br.<br />

E subito dopo arriva un ulteriore richiamo alle responsabilità di una parte della Dc, allo scontro che<br />

si consumò in quelle ore tra due fronti che per tutto l’anno si erano minacciati, attaccati, studiati<br />

preparando le pedine per la battaglia che si riteneva decisiva: quella che si sarebbe giocato in<br />

autunno. “Bisogna dire che, anche se con chiaroscuri non ben definiti mancò alla Dc di allora e ai<br />

suoi uomini più responsabili sia sul piano politico, sia sul piano amministrativo, un atteggiamento<br />

talmente lontano da connivenze e tolleranze da mettere il Partito al di sopra di ogni sospetto.<br />

Risulta invece, mi pare soprattutto dopo la strage di Brescia, un atteggiamento di folla fortemente<br />

critico e ostile proprio nei confronti di esponenti e personalità di questo orientamento politico,<br />

anche se non di essi soli”. Moro sta parlando, senza nominarlo, di Amintore Fanfani, l’altro<br />

“cavallo di razza” della Dc. L’allora Presidente del Senato fu fischiato sonoramente durante i<br />

funerali delle vittime della strage di Brescia. E per togliere ogni equivoco Moro cita una confidenza<br />

fattagli dal collega di partito Salvi. “ Ricordo un episodio che mi colpì molto, anche se mi lasciò<br />

piuttosto incredulo. Uscendo dalla Camera tempo dopo i fatti di Piazza Fontana, l’amico On. Salvi,<br />

antifascista militante e uomo di grande rettitudine (…) mi comunicò che in ambienti giudiziari di<br />

Brescia si parlava di connivenze ed indulgenze deprecabili della Dc e accennava al senatore Fanfani<br />

come promotore, sia pure da lontano, della strategia della tensione. Io ebbi francamente una<br />

reazione d’incredulità e il Salvi stesso aggiunse che la voce non era stata comprovata, né aveva<br />

avuto seguito”. Qualche ulteriore accenno a Fanfani nelle carte riguardanti la “strategia della<br />

tensione” c’è, e tutte sono nel segno della “incredula” indicazione che veniva dagli uffici giudiziari<br />

di Brescia. Siamo solo e sempre nel campo della politica. Delle scelte di campo, delle indicazioni<br />

strategiche, non certamente operative. Citiamo tre elementi. Il primo viene da Giangiacomo<br />

Feltrinelli, l’anello di collegamento tra gli anarchici e la sinistra ufficiale, il Pci. L’uomo che doveva<br />

fungere, se l’operazione fosse andata per il verso previsto dall’ala oltranzista, da capro espiatorio,<br />

da regista con addentellati internazionali capaci da mettere sotto accusa tutta la rete comunista<br />

internazionale, e ovviamente i suoi referenti italiani. Un obiettivo costruito nel tempo con un’ampia<br />

azione di sobillazione, pressione personale, controllo diretto e indiretto. Feltrinelli si rende<br />

irreperibile dalla sera del 6 dicembre, dopo un colloquio avuto con una serie di personaggi rilevanti<br />

in città, tra cui uomini del Pci, che lo mettono in guardia che per lui tira una brutta aria a Milano. Da<br />

quel momento Feltrinelli entra in una condizione di clandestinità sempre più accentuata e chiusa<br />

nella ricerca di un impossibile sogno rivoluzionario. Sul mensile che fonda dopo la strage e che esce<br />

nel settembre del 1970 compare un articolo senza firma che molto seccamente sostiene che la sera<br />

della strage “sta per scattare l’ordine di arrestare 10.000 persone e uomini politici italiani (Fanfani si<br />

vanterà nelle settimane seguenti di aver avuto un ruolo determinante nell’impedire questo vero e<br />

proprio colpo di Stato). La sera stessa, nelle settimane e nei mesi seguenti tutto l’apparato<br />

repressivo dello Stato è impegnato a dimostrare la tesi degli ‘attentati da sinistra’, la tesi della<br />

colpevolezza di Valpreda e c. per coprire i veri responsabili bisognava infatti trovare dei presunti<br />

responsabili. E si completa così l’anello fra gli ideatori, organizzatori ed esecutori degli attentati e i<br />

complici silenziosi ma indispensabili di un’operazione politica di largo raggio; si chiude l’anello fra<br />

le organizzazioni paramilitari di destra, i funzionari del Sid (ex Sifar) e certi ambienti della polizia e<br />

della magistratura che seguono più da vicino le indagini sugli attentati.” 22<br />

Quando il leader di An, Stefano Delle Chiaie, arriva in Italia dopo l’arresto, più volte impedito a<br />

servizi segreti e polizia da interventi di ‘aiuto’ o di vero e proprio blocco venuti dalla catena di<br />

comando politica, una delle prime ‘vetrine’ che gli è offerta è l’appena costituita Commissione<br />

monocamerale d’inchiesta sulle stragi che lavora per poche settimane prima dello scioglimento<br />

22 “I problemi del nuovo governo”, Voce Comunista, 1 giugno 1970<br />

22<br />

22


delle Camere. In audizione segreta Delle Chiaie indica tra gli uomini politici più in sintonia politica<br />

con il suo movimento proprio Fanfani.<br />

Altro elemento che s’intreccia con il 1969 e Fanfani riguarda l’agosto, mese in cui secondo Angelo<br />

Vicari è messo in atto uno dei più gravi tentativi di golpe mai predisposti in Italia. Un golpe di cui<br />

sappiamo ben poco tranne che Giangiacomo Feltrinelli l’aveva pre annunciato, in giugno, con il suo<br />

opuscoletto intitolato proprio “Estate 1969”. Il Pci lo aspettava fin da maggio quando la struttura di<br />

sorveglianza interna fu messa in allarme da Armando Cossutta che allora la guidava. In luglio c’è la<br />

scissione socialista: i due fronti del socialismo accentuano, per necessità e logica politica, la loro<br />

identità. Il Psi guarda strettamente a sinistra, il Psdi cerca di scavalcare a destra la Dc e di divenire<br />

l’alfiere di una nuova crociata anticomunista e antifrontista attaccando principalmente la sinistra<br />

Dc. In crisi profonda è lo sbocco di un’intera fase del centrosinistra. La sconfitta del maggio ’68<br />

alle politiche da parte dei socialisti, l’emarginazione di Moro, l’accentuarsi del distacco del Pci da<br />

Mosca dopo l’invasione della Cecoslovacchia e il congresso del Pci del febbraio del 1969 hanno<br />

creato tutte le condizione per uno scontro totale che è politico e ideologico. Si ipotizza che il Pci<br />

possa sostenere, dall’esterno, giunte locali con Dc e Psi. Dopo la scissione socialista la crisi<br />

esplode in tutta la sua virulenza. Panorama pronostica un prossimo golpe e la Dc impone un<br />

monocolore per far decantare la situazione ed anche per risolvere i conti interni. Lo definiscono gli<br />

stessi uomini della Dc un governo “allo sbaraglio”. Il primo di agosto L’Unità esce con il titolo a<br />

tutta pagina: “Monito del Pci a Rumor e alla Dc a non imboccare la strada del luglio 1960”, cioè del<br />

governo Tambroni appoggiato dall’Msi che cadde in conseguenza degli scontri di piazza di Genova.<br />

Rumor recepisce e il due c’è un mandato esplorativo al Presidente del Senato Fanfani. Fanfani passa<br />

la mano nuovamente a Rumor per un “governo d’attesa”. Mentre Rumor va alle Camere e illustra la<br />

sua proposta programmatica nella notte tra l’8 e il 9 agosto esplodono bombe su otto treni. E’ il<br />

gruppo Freda e Ventura che parte all’attacco e vuole spingere per approfittare della situazione che<br />

appare come unica, risolutiva, assolutamente da non perdere. Quell’autunno caldo, con lo scadere di<br />

decine e decine di contratti, che è stato evocato, esaltato e ‘costruito’ come una sorta di ‘ponte sul<br />

nulla’, appare come una rivoluzione sociale che può seriamente mettere in difficoltà lo Stato nel suo<br />

complesso secondo certi politici.<br />

Al ministero del Bilancio siede Giuseppe Caron, Dc veneto, amico di Ventura tanto da fargli da<br />

garante con le banche per i prestiti utili ad avviare la sua attività d’editore di sinistra che dialoga con<br />

gli extraparlamentari. Moro è agli Esteri, Donat Cattin al Lavoro, Restivo agli Interni e Gui alla<br />

Difesa. Il settimanale della sinistra Dc Politica rivela a metà agosto che gli scissionisti del Psdi<br />

hanno imposto a Washington il siluramento dell’ambasciatore Usa a Roma Gardener Ackley<br />

accusato di non aver creduto alla scissione socialdemocratica e di non averla adeguatamente<br />

sostenuta. La notizia del ‘cambio’ era del 5 agosto ma Politica rivela le motivazioni dopo il governo<br />

Rumor e le bombe sui treni. Ackley “vissuto nel nostro Paese con gli occhi aperti, sembra si fosse<br />

convinto che i problemi italiani sono abbastanza seri e profondi perché una scissione di<br />

socialdemocratici, superficiale, demagogica, grossolana, potesse bastare ad affrontarli e soprattutto<br />

a tranquillizzare certi ambienti del Dipartimento di Stato. Bisogna essere semplicisti come sanno<br />

esserlo certe volte gli americani, per credere che un pugno di socialdemocratici possano bastare a<br />

mettere l’Italia, una volta per tutte, al riparo da quella che alcuni funzionari del Dipartimento di<br />

Stato continuano a temere come la minaccia comunista”. 23<br />

All’inizio dell’estate Giuseppe Saragat, attraverso un suo uomo di fiducia fa sapere al numero due<br />

dell’ambasciata americana a Roma, Wells Stabler, che gradirebbe come ambasciatore a Roma, l’ex<br />

addetto alle questioni economiche Henry Tasca. Stabler fa capire che la casa Bianca non gradirebbe<br />

una tale intromissione e la cosa finisce lì ma Ackley lascia Roma il 27 agosto. Il 6 settembre arriva<br />

a Roma l’ex giornalista ed ex colonnello dell’esercito Graham A. Martin nettamente contrario al<br />

centrosinistra, come Kissinger 24 . Il Dipartimento di stato Usa è diviso tra gli uomini che seguono il<br />

23 “L’ambasciatore Usa silurato per iniziativa degli scissionisti”, L’Unità, 19 agosto 1969<br />

24 “Isolando i comunisti, l’apertura a sinistra fece del Pci l’unica forza d’ opposizione.<br />

E distruggendo i partiti democratici minori, l’esperimento privò il sistema politico italiano<br />

23<br />

23


Segretario di Stato, William Rogers, che ha in effetti un potere nominale, e la fronda oltranzista di<br />

Kissinger.<br />

Ackley aveva lavorato a lungo con Kennedy..<br />

Martin vuole ora correggere gli errori dei Democratici. Per lui come per Nixon e Kissinger, “i<br />

socialisti italiani non hanno altro ruolo politico che quello di copertura ai comunisti” 25 . Scriverà di<br />

lui Moro durante i 55 giorni: “Dei tre ambasciatori citati (Martin,Volpe e Gardner), quello con cui<br />

ho avuto rapporti semplicemente minimi è il primo, l’ambasciatore Martin, che ho incontrato,<br />

credo, una sola volta, benché fossi allora ministro degli Esteri”.<br />

Martin fa sapere al chief of station della Cia a Roma, Seymour Russel, di voler essere informato nei<br />

dettagli d’ogni operazione, più o meno clandestina, condotta dalla Cia a Roma. Il capo della<br />

stazione Cia parla italiano, è già stato in Italia durante la guerra come ufficiale del Cic, il<br />

controspionaggio dell’esercito americano che troveremo citato a piene mani nell’inchiesta Salvini<br />

come la struttura operativa di controllo e collegamento tra le basi Nato e i gruppi ordinovisti che<br />

ruotano attorno alla strage.<br />

“‘Più che un ambasciatore Martin aveva le caratteristiche del guerrigliero’ conferma un’altra<br />

fonte” 26<br />

Il 28 agosto il Psu riprende con vigore la sua richiesta delle elezioni anticipate. Il 29 il settimanale<br />

Abc esce con un servizio intitolato : “Saremo chiamati a votare sotto il ricatto degli attentati?”. Il<br />

Capo della Polizia Vicari rivolge l’inchiesta sulle bombe sia a destra, sia a sinistra, senza<br />

preconcetti e chiede che non vi siano interferenze politiche, “ma proprio questo atteggiamento<br />

corretto avrebbe già procurato a Vicari qualche noia”. “Il sospetto crescente è che le varie destre<br />

puntino ad elezioni anticipate in un clima di paura e di terrorismo”. “In una situazione d’<br />

emergenza, sotto il ricatto degli attentati, anche il ricorso alle urne e il responso elettorale<br />

risulterebbero falsati”. All’inizio d’agosto si svolge a Padova una riunione. I nomi dei partecipanti<br />

sono in gran parte noti. Angelo Moscon, uno dei tanti presenti ricorda che ad un certo momento si<br />

cominciò a parlare con insistenza dell’autunno caldo e verso mezzanotte del superamento dello<br />

“sterile legalitarismo borghese” e di gesti dimostrativi. Un giovane del Sud, forse napoletano, disse<br />

che si doveva “mettere in atto una strategia globale per far affogare nel sangue il centrosinistra”, e<br />

che “se il fronte clerico marxista cerca i morti, li avrà”. 27 Un quadro allarmante che ebbe poi<br />

qualche altra conferma.<br />

Nel 1974 i giornali parlano a lungo di Enzo Salcioli, imparentato con l’ex Capo dello Stato<br />

Giovanni Gronchi, indicato come un ex agente del Sid ufficialmente scomparso da 4 anni. Lo<br />

scossone di quell’anno, quando tante realtà finiscono e tanti conti si presentano, lo fa uscir fuori<br />

prima con un memoriale a Der Spiegel, e forse ha un senso la scelta di un settimanale tedesco, come<br />

vedremo, e poi con una serie di interviste in Italia. In pratica Salcioli, dice di sapere chi ha ‘gestito’<br />

la strage di Piazza Fontana. “E’ un colonnello del Sid, il cui nome di codice nel 1969 era ‘Penna<br />

nera’. Lui faceva da collegamento fra la potenza occulta che ordinava l’azione e l’azione stessa. In<br />

tutta la preparazione e l’organizzazione dei fatti che portarono all’eccidio di Piazza Fontana<br />

s’incontra la presenza di quest’uomo: il colonello nero”. Salcioli mischia sapientemente elementi<br />

vari, più o meno credibili o veritieri (alcuni palesemente falsi), il “suicidio del colonnello Rocca” (il<br />

primo a entrare nella stanza per decidere cosa portare via fu l’avvocato Fusco di Ravello),<br />

“l’omicidio di Enrico Mattei”, e poi i contatti con il Mar del “partigiano bianco” Carlo Fumagalli.<br />

Perché l’elemento centrale di questa storia e che a livello operativo non ci si divide solo tra referenti<br />

politici, servizi militari e civili, appoggi stranieri o non, ma anche sulla logica fascista-antifascista.<br />

Ci sono cordate “bianche” che stanno cercando di soppiantare quelle “nere” supervisionate<br />

politicamente da Junio Valerio Borghese, l’ex comandante della X Mas che ha contrattato con gli<br />

della necessaria flessibilità”, Henry Kissinger, Gli anni della Casa Bianca, SugarCo<br />

1980,p.103<br />

25 Gatti, Rimanga tra noi. L’America, l’Italia, la questione comunista: i segreti di 50 anni<br />

di storia, Leonardo Editore, Milano, 1991, p.82.<br />

26 Ibidem,p.83<br />

27 “Bollettino da Malta”, L’Espresso , 8 aprile 1973<br />

24<br />

24


americani la sua salvezza alla fine della guerra e che ha fornito gli uomini per la strage di Portella<br />

della Ginestra fatta per ammonire la Dc; per piegarla al ricatto, come hanno svelato recenti<br />

ricerche 28 .<br />

In Italia Salcioli parla genericamente di un incontro avuto nell’agosto del ‘69 con un politico<br />

italiano “assai potente”, presenti altri due ufficiali del Sid.<br />

“Gli spiegammo che era nell’aria un colpo di Stato, ma che gli artefici di esso avevano bisogno di<br />

un appoggio autorevole: dovevamo poter contare su un uomo che godesse di vasto prestigio presso<br />

numerosi schieramenti politici e che avesse la reputazione pulita almeno per quanto possibile. Il<br />

personaggio si mostrò assai scandalizzato, disse che era un reato gravissimo anche solo pensare a<br />

una sovversione dello Stato e che non poteva prestare ascolto a questi discorsi proprio lui che aveva<br />

dedicato l’intera vita alla democrazia. Alla fine però ammise che dovendo scegliere tra colpi di<br />

sinistra e di destra, avrebbe preferito la destra. Però ricordo che le sue parole testuali furono che in<br />

ogni caso non potevamo aspettarci da lui nessun aiuto, in quanto lui era l’uomo da chiamare solo<br />

quando la cosa era fatta”. “Io posso accettare da voi non la proposta di un colpo di Stato, ma solo<br />

esclusivamente l’Italia su un vassoio d’argento”. 29<br />

Un anno dopo in un’intervista ad un quotidiano svizzero, Salcioli rivelerà che quel “potente” era<br />

Amintore Fanfani al quale il gruppo d’ufficiali aveva offerto la Presidenza della Repubblica. A<br />

riscontro Salcioli cita il nome di un uomo del Sid presente al colloquio, Angelo Sormano.<br />

Salcioli appartiene, quando parla, ai “bianchi”, alla cordata di Fumagalli che sta muovendo i primi<br />

passi e accusa della “strategia della tensione” Andreotti, Taviani e Rumor. Una scelta dettata dalla<br />

necessità di contrastare le analoghe “operazioni sporche” che erano in atto dall’altra parte grazie<br />

all’opera di Borghese e del suo Fronte Nazionale costituito a fine ’68 e di On e An, legate a lui ben<br />

più di quanto non si sia raccontato e non appaia; il Fronte infatti altro non è che la ‘federazione’ dei<br />

due gruppi che cercano di ‘scantonare’ dalla presenza, politicamente ingombrante, di Borghese. Ma<br />

tutto può essere utile ad un uomo legato alla Dc, e Salcioli lo è, per attaccare gli avversari interni al<br />

partito. Fanfani smentì su tutto il fronte. Il servizio segreto italiano disse che Salcioli, che compare<br />

in alcune foto accanto all’ex capo dello Stato Giovanni Gronchi durante missioni all’estero, non era<br />

mai stato un ufficiale del Sid ma questi replicò citando l’aiuto avuto dal Consolato d’Italia a<br />

Barcellona quando era già ricercato per gli attentati commessi dal gruppo “bianco” di Fumagalli.<br />

Una vicenda che ricorda l’aiuto dato, all’estero, a Guido Giannettini dal Sid che lo continuò a<br />

pagare e tutelare anche quando il giornalista era ricercato dalla magistratura.<br />

All’epoca il sedicente agente del Sid Salcioli, disse che “come militare” aveva partecipato ad<br />

un’altra riunione importante dopo una convocazione urgente il 4 novembre. Si tratta di 25 tra alti<br />

ufficiali del Sid, colonnelli e generali. “Si parla della eventuale reazione ad un’azione decisa dalla<br />

sinistra. (…) Perciò in quella riunione venne decisa la mano forte: un ‘colpo duro’ se accadeva<br />

questo”. Le indagini del maggiore del Ros Massimo Giraudo hanno accertato che per il 4 novembre<br />

era pronta una strage terribile. In Veneto un ponte sarebbe dovuto saltare mentre passava un<br />

battaglione di soldati che stava partecipando alle celebrazioni della vittoria del 4 novembre 1918.<br />

All’ultimo momento la dimensione della strage prevista scoraggiò e dissuase gli attentatori. Quella<br />

strage rientra tra le tante ipotizzate e non realizzate perché i referenti, la catena di comando appariva<br />

formata da elementi incerti, titubanti, che non offrivano garanzie d’adeguata copertura a chi doveva<br />

operare.<br />

Tra il gioco politico e quello operativo si frapponeva una vasta realtà, composita e spesso inserita in<br />

più cordate, che cercava di arrivare all’obiettivo pagando comunque il prezzo personale minimo.<br />

Un altro momento decisivo doveva aversi con lo sciopero generale del 19 novembre. A Milano in<br />

via Larga ci furono disordini si disse fomentati, “riscaldati” da provocatori fascisti. Morì l’agente<br />

Antonio Annarumma e nelle caserme ci fu una rivolta rientrata con molta fatica.<br />

28 Aldo Giannuli, “Portella della Ginestra: quella strage di Giuliano contro la Dc”, Libertaria,<br />

dicembre 2003<br />

29 “Chi ha a messo le bombe di Piazza Fontana”, L’Espresso, 24 luglio 1974<br />

25<br />

25


Saragat invia un telegramma in cui afferma che “quest’odioso assassinio deve ammonire tutti ad<br />

isolare, a mettere in condizione di non nuocere i delinquenti il cui scopo è la distruzione della vita e<br />

deve risvegliare non soltanto negli atti dello Stato e del governo, ma soprattutto nella coscienza dei<br />

cittadini la solidarietà per coloro che difendono la legge e le comuni libertà”. Quasi un incitamento<br />

alla rivolta per un episodio sulla cui dinamica reale rimangono molti dubbi 30 .<br />

Per quel giorno – rivela Salcioli - si attendeva in effetti “qualcosa in più” 31 . Allora l’esercito<br />

sarebbe potuto intervenire occupando punti nevralgici, arrestando i prefetti, i politici, prendendo<br />

saldamente in mano il controllo del Paese. Quando accadde la morte di Annarumma “ il<br />

responsabile di Milano che avrebbe dovuto darci l’allarme, un generale del Sid, non ci avvisò. Noi<br />

lo sapemmo subito dopo per altri canali, ma ormai non era scattato il meccanismo idoneo a mettere<br />

in moto l’azione. O forse ci fu qualcuno di molto in alto che interruppe la catena degli ordini,<br />

sventando così tutto’’. Salcioli afferma che lui aveva predisposto le liste delle persone da arrestare<br />

in Toscana. Troppo compromesso nella questione alla fine Salcioli era stato scaricato avvicinandosi<br />

a Pacciardi e a Fumagalli, cioè alla parte “bianca”, resistenziale, della guerra per bande che si stava<br />

combattendo in Italia con l’unico scopo di contrastare il confronto aperto da Aldo Moro con il Pci<br />

dopo l’esaurirsi della esperienza del centrosinistra e la conseguente frattura nel campo socialista.<br />

In quei mesi si fa avanti Fanfani che si presenta come un Giano bifronte emulo di De Gaulle:<br />

l’uomo della pace e dell’indipendenza per la sinistra e come l’uomo della legge e dell’ordine per la<br />

destra. Durante una conversazione con Gianni Agnelli arriva ad annunciare una prossima grande<br />

svolta positiva in Europa con Pompidou all’Eliseo e Fanfani al Quirinale. Scrive Giorgio Galli in<br />

una bella biografia del “cavallo di razza” della Dc che la sua posizione e i contatti “in questo<br />

periodo sono ambigui e oscuri, come molti degli eventi italiani nell’anno d’avvio della ‘strategia<br />

della tensione’: il 1969”. 32<br />

Nell’interregno tra la cacciata di Ackley e l’arrivo di Martin a farla da padrone nell’oltre mese e<br />

mezzo è Pier Francesco Talenti, presidente della sezione italiana del Partito repubblicano<br />

americano e considerato l’uomo di Nixon in Italia. Sarà lui a mantenere nel 1970 i rapporti con<br />

Junio Valerio Borghese alla vigilia del golpe del 7 dicembre.<br />

Dunque Martin, che ha pochi contatti con gli italiani, incontra Fanfani in autunno, come rivelerà il<br />

New York Times scrivendo della testimonianza dell’ex ambasciatore ad una commissione del Senato<br />

Usa prima di andare a Saigon come nuovo ambasciatore. Martin aveva incontrato il senatore<br />

Fanfani, che veniva presentato come capo dell’ala conservatrice della Dc, in un appartamento di<br />

proprietà della Rai Tv grazie anche all’intermediazione di Ettore Bernabei. Per contenere<br />

l’avanzata del Pci Fanfani chiese un milione di dollari, riprendendo così i finanziamenti alla Dc che<br />

erano stati interrotti nel 1967. Gli uomini della Cia storsero la bocca ma la cosa arrivò lo stesso sul<br />

tavolo del ‘Comitato 40’, che quindi era già attivo nel 1969, cioè la struttura messa in piedi da<br />

Kissinger per gestire le operazioni clandestine. Anche qui si disse no e sulla pratica, rivelò il<br />

giornale, Nixon appuntò di suo pugno una nota. “No. Vogliamo stare fuori da cose di questo<br />

genere” 33 . La Cia e gli americani non rimasero certamente fuori da cose di questo genere ma molto<br />

più semplicemente non si fidavano di Fanfani e del suo spostarsi continuo lungo assi del tutto<br />

personali di politica estera e interna alla ricerca di quel ruolo di “De Gaulle italiano” che in tanti gli<br />

attribuivano. I fanfaniani erano giudicati diversamente dal Dipartimento di Stato (conservatori ma<br />

di sinistra) e dalla Cia (di centro). Tanto bastò per non farsi coinvolgere in “cose di questo genere”<br />

che la Cia aveva sempre fatto e tornerà a fare negli anni successivi.<br />

E quali erano le ‘cose’ a cui allude Nixon? Possibile una tale reazione negativa, e così netta ,solo<br />

per finanziamenti che erano stati la normalità in passato?<br />

30 Si parlò a lungo di una ripresa Tv , poi scomparsa, che dimostrava la natura non volontaria<br />

dell’incidente che portò alla morte di Annarumma. L’inchiesta venne archiviata anni dopo senza<br />

che venissero indicati dei colpevoli<br />

31 ibidem<br />

32 Giorgio Galli, Fanfani, Feltrinelli, Milano,1975,p.87<br />

33 Giorgio Galli, op.cit.p.87<br />

26<br />

26


Fanfani nell’autunno del 1969 fece capire d’ essere disponibile ad interpretare il ruolo di<br />

restauratore della legge e garante dell’ordine in Italia? Galli nella sua biografia di Fanfani dà una<br />

risposta assolutamente positiva sulla base di un’ ampia analisi.<br />

“Corrisponde ai comportamenti precedenti di Fanfani, e anche ai suoi modelli specifici: De Gaulle,<br />

Pompidou, una politica estera autonoma e una politica interna da uomini forti. Naturalmente né De<br />

Gaulle, né Pompidou si sarebbero rivolti all’ambasciatore americano”. 34<br />

Sempre nella intervista al quotidiano svizzero Il Corriere del Ticino del 1975, un anno dopo la<br />

caduta di Nixon, Salcioli indica il nome del “colonnello nero”: sarebbe il comandante della legione<br />

carabinieri di Padova. Taviani aveva indicato Milano, Padova e il colonnello dell’Arma oltre al Sid.<br />

Un identikit quindi che potrebbe anche avere a che fare con quello dell’‘ipotetico’ colonnello<br />

dell’Arma, evocato da Taviani, a cui sfuggì di mano ‘l’operazione’ che non doveva fare morti ma<br />

solo preparare il terreno a quello che Moro definisce “il morso della paura”. Tutto si perde però<br />

nell’indistinto. Anche questa pista si dissolve tra le carte e del “colonnello nero”, mai ufficialmente<br />

identificato, rimane solo l’ombra che arriva da lontane dichiarazioni.<br />

Anche il ‘Comitato 40’ per molti studiosi rimane un organismo un po’ mitico, di cui è difficile<br />

dimostrare l’esistenza e l’operatività in Italia in quei mesi.<br />

Il ‘Comitato 40’ prende il nome dal Memorandum che porta quella numerazione che è del 17<br />

febbraio 1970. Ma sappiamo che questa struttura che gestisce la parte occulta della politica estera e<br />

delle ‘operazioni sporche’ Usa agisce in Italia già dall’anno prima. Ne fanno parte 5 persone: il<br />

consigliere per la sicurezza nazionale Kissinger, che lo presiede, il vice segretario della Difesa, il<br />

sottosegretario di Stato per gli affari politici, il capo di Stato maggiore della Difesa e il direttore<br />

della Cia. Probabilmente nel 1970 si definisce quello che nei fatti si è già realizzato. Gran parte<br />

delle decisioni passano nelle mani di Kissinger che chiede il conforto di Nixon per le decisioni<br />

importanti. Gli altri sanno poco. Le riunioni erano ridotte al minimo. “Henry era l’arbitro<br />

supremo… e una delle tecniche da lui usate per minimizzare il ruolo del Comitato era quella di<br />

ridurre al minimo le riunioni. Preferiva sondare il parere dei membri del Comitato per telefono, con<br />

la scusa di risparmiare il loro preziosissimo tempo” ha scritto uno dei massimi studiosi d’operazioni<br />

coperte Usa, John Prados 35 .<br />

Ma un libro misconosciuto sul ruolo Usa in Italia, il bel “Rimanga tra noi” aggiunge un altro<br />

elemento rilevante citando la testimonianza di un suo componente nel 1970, il sottosegretario di<br />

Stato U.Alexis Johnson.<br />

“Il quel periodo il Comitato non fu sempre informato di quello che veniva deciso. Ed è certamente<br />

possibile che alcune operazioni siano state condotte senza che ne fossimo messi al corrente. Non mi<br />

sorprenderebbe se fosse successo ad esempio con l’Italia, perché dell’Italia Kissinger si occupava<br />

sempre in prima persona”.<br />

Una recente biografia critica di Kissinger 36 chiarisce che il Comitato ha cambiato nome nel tempo,<br />

ancor prima di Nixon, seguendo l’indicazione del Memorandum che istituiva l’organismo segreto.<br />

“Tra il 1969 e il 1976, ogni volta che è stata intrapresa un’attività riservata di qualche rilievo, si può<br />

perlomeno ritenere che Henry Kissinger ne fosse direttamente a conoscenza, oltre che<br />

responsabile.” 37<br />

E’ possibile che con questa logica si siamo create due catene di comando Usa che rispondevano a<br />

indirizzi valutazioni e strategie operative diverse e che in questa duplicità si siano inseriti soggetti<br />

politici e non per avere quella “copertura” necessaria all’azione, come poi avvenne – sia pure sotto<br />

‘controllo’- per il golpe Borghese.<br />

Salcioli parla di generali ma anche il padovano Giovanni Ventura, che oggi vive in Argentina da<br />

latitante garantito dai suoi segreti, vi accenna in uno dei più gravi momenti di difficoltà nel gennaio<br />

del 1975 quando dice che finché non sarà stato chiarito il ruolo del Sid nei fatti del 1969, “sarà<br />

34 Giorgio Galli, op. cit.,p.88.<br />

35 Jhon Prados, President’s Secret Wars: Cia and Pentagon Covert Operations since Worl War II,<br />

New York,William Marrow and Co.,1986, p.323<br />

36 Cheistofer Hitchens, Processo ad Henry Kissinger, Roma,Fazi, 2003,pp. 48-49<br />

37 Ibidem,p.49.<br />

27<br />

27


impossibile fare un processo, accertare la verità. Sono importantissimi i generali e anche Guido<br />

Giannettini, Pino Rauti, Stefano Delle Chiaie” 38 .<br />

La rete italo-americana che si mosse – e in questo le testimonianze dell’inchiesta sono tali e tante da<br />

essere prese in considerazione dagli storici che non hanno paura di affondare le mani nel ‘cuore<br />

oscuro’ dell’Italia - aveva un progetto ben chiaro in testa: lo ‘sbocco’ della stagione delle bombe<br />

doveva essere, secondo almeno una delle due cordate che agivano sul campo in quelle settimane,<br />

la proclamazione dello stato d’emergenza da parte del Presidente del Consiglio Rumor. L’altra<br />

mirava ad un vero e proprio intervento dei militari sulla base dell’esperienza maturata ad Atene con<br />

il golpe dei colonnelli del 1967. Nel primo caso si trattava di una sorta di “pressione” militare da<br />

esercitarsi grazie e sull’onda dello sdegno, provocata dalla strage (quindi non un vero e proprio<br />

golpe) che avrebbe portato allo scioglimento del Parlamento e magari a riforme di stampo gollista,<br />

come vedremo. Anche qui troviamo, se ben si valuta tutta la documentazione disponibile, due linee,<br />

due strategie, due obiettivi a vari livelli. E probabilmente anche diversi referenti politici.<br />

L’analisi di Salvini poggia su riscontri politici logici che trovano conferma anche in quelli che i<br />

politici hanno detto negli anni sulla strage. Come altrimenti spiegare l’insistenza di Moro nel suo<br />

memoriale su Rumor e Bertoli? “Ricordo una viva raccomandazione fatta al ministro dell’Interno<br />

onorevole Rumor (egli stesso fatto oggetto di un attentato) di lavorare per la pista nera”, scrive<br />

durante la sua prigionia Aldo Moro, Presidente della Dc. Le dichiarazioni di Digilio e Siciliano, i<br />

dubbi di Taviani, le indicazioni di Moro si sommano e trovano ‘riscontro logico’ con quanto<br />

dichiarato ormai oltre 10 anni fa da Vincenzo Vinciguerra che dal gruppo ordinovista mestrino<br />

ricevette per ben due volte l'invito ad uccidere Rumor come forma di “punizione” per essersi tirato<br />

indietro. E' accertato - compare negli atti di diverse inchieste e di processi - che per due volte il<br />

gruppo di On chiese a Vinciguerra di uccidere il presidente del Consiglio nel '71 - '72. Vinciguerra<br />

si rifiutò. Lo stesso gruppo arrivò a controllare i soggiorni di fine settimana di Rumor a Vicenza<br />

studiando la possibilità di colpirlo con un fucile in giardino, come Kennedy.<br />

La sentenza della Cassazione ha assolto definitivamente Carlo Maria Maggi, Delfo Zorzi e Virginio<br />

Rognoni dall’accusa di essere i responsabili diretti della strage ma non ha cancellato quanto si è<br />

documentalmente capito, grazie a quest’ultimo processo sulla strage, del ruolo delle strutture di<br />

intelligence Usa nella strategia della tensione. Il referente Usa Carrett spiegò a Digilio che nei<br />

giorni immediatamente successivi alla strage le navi sia americane, sia italiane avevano avuto<br />

l'ordine di uscire dai porti “perché, in caso di manifestazioni o scontri diffusi, ancorate nei porti<br />

potevano essere più facilmente colpite”. A comandare la flotta Nato del Sud Europa è dal luglio del<br />

1969 l’ammiraglio Giuseppe Rosselli-Lorenzini che era destinato a divenire il ministro della Difesa<br />

nei piani del golpe del 7 dicembre 1970, il ‘Golpe della Madonna’ che Borghese tentò di attuare con<br />

l’aiuto degli americani. Digilio riferisce di un colloquio, all’inizio dell' estate del ‘69, prima degli<br />

attentati ai treni dell’ agosto, con Carrett.“Mi disse che la loro struttura era stufa di tollerare o<br />

appoggiare azioni dei servizi segreti italiani, che avevano superato i limiti e scherzavano con il<br />

fuoco. Mi confermò che erano concepite azioni dimostrative in senso anticomunista, ma non<br />

massacri indiscriminati”.<br />

Politici, pentiti e agenti Usa sembrano raccontare tutti la medesima storia. Tra i molti episodi il<br />

pentito di On cita un colloquio con Ventura nell’estate del 1969: “Mi disse che la campagna non era<br />

finita e che altri gruppi di attentati sarebbero stati avviati nell’ intento di far fare una scelta al<br />

mondo militare e, a ruota di questo, anche a certi politici di Roma. Ventura ribadì che gli attentati<br />

non erano l’impresa di quattro pazzi, ma facevano parte di un piano ben preciso. Il progetto era<br />

partito con una riunione a Padova nella primavera, che aveva visto presenti i padovani, i veneziani,<br />

alcuni di Treviso, tra cui lui stesso e il capo di On, Pino Rauti. Non sono in grado di dire se tale<br />

riunione fosse la stessa di cui hanno poi parlato ampiamente i giornali”. Ecco come altri<br />

protagonisti dell’inchiesta milanese ricostruiscono la vicenda nei verbali. Edgardo Bonazzi,<br />

38 “Ventura vuole Giannettini perché dica tutta la verità”, Il Tempo, 29 gennaio 1975<br />

28<br />

28


esponente storico dell’estremismo di destra, riferisce delle confidenze raccolte in carcere da Guido<br />

Giannettini. “Mi disse che la strage aveva di fatto paralizzato un progetto golpista poiché una serie<br />

di attentati dimostrativi avrebbe spinto verso una risposta d’ordine, mentre la strage, di fatto, aveva<br />

portato ad una risposta di solidarietà e di pacificazione”. Giannettini disse testualmente, racconta<br />

ancora Bonazzi, “che qualcuno aveva voluto spingere sull’acceleratore e questo aveva causato la<br />

rottura con Delle Chiaie secondo il quale la strage avrebbe inibito il golpe che avrebbe dovuto aver<br />

luogo il 12 dicembre. Giannettini mi disse che alcuni dirigenti nazionali del Msi conoscevano il<br />

progetto golpista del 1969”. L'elettricista padovano Tullio Fabris, inconsapevole consigliere di<br />

Freda e Ventura nella predisposizione dei timer, parla, nei verbali, di tre minacce ricevute nel tempo<br />

dagli esponenti di On Massimiliano Fachini e Pino Rauti. Nel marzo del 1970, Freda tenta di<br />

avvicinarlo nuovamente per convincerlo a divenire consulente stabile del gruppo. “La pagheremo<br />

bene e sarà protetto - racconta Fabris di quel colloquio - stia tranquillo che c'è una persona<br />

importante a livello governativo che ci darebbe una mano e che proteggerebbe anche lei”. Fabris<br />

riferisce anche che Franco Freda parlava di “colpo di Stato” e di “destabilizzazione” della<br />

situazione politica italiana già nel corso nei primi sei mesi del '69.<br />

Nicola Falde, generale dei servizi, oggi deceduto, nel '95 ha messo a verbale di aver ricevuto precise<br />

confidenze nell’ambito militare sulla strage. “Si tratta di notizie recepite in occasione di discorsi col<br />

generale Aloia, in un primo tempo e poi confermatemi dal colonnello Viola e dal generale Jucci.<br />

Tali notizie erano inerenti il coinvolgimento dell’ufficio Affari riservati nella fase di organizzazione<br />

della strage e il ruolo di copertura prestato dal Sid dopo l’operazione. Con l’ ufficio AaRr i miei<br />

interlocutori intendevano indicare il Prefetto Umberto Federico D'Amato e non la struttura nel suo<br />

insieme, così come quando si parlava del Sid intendevano riferirsi all'ammiraglio Henke e ai suoi<br />

fidati della direzione del Sid ed ai capi degli uffici”.<br />

Uno dei contributi più rilevanti a chiarire la dinamica politica della strage è quello di Vinciguerra.<br />

Gli attentati del 12 dicembre vanno inquadrati in una strategia golpista e per questi erano stati<br />

utilizzati sia uomini di On, sia di An. Questa strategia era arrivata in Italia, come in altre nazioni (la<br />

prima a sperimentarlo fu la Francia durante il maggio del 1968) grazie all’elaborazione teorica e<br />

all’ispirazione dell’Aginter Press di Guerin Serac, un ex ufficiale dell’Oas di formazione<br />

integralista cattolica che era la “mente” del modulo operativo utilizzato negli attentati e aveva<br />

addestrato a tal proposito gli uomini di Delle Chiaie. Fondamentale per capire cosa doveva<br />

succedere dopo la strage è la testimonianza di Vinciguerra sulla manifestazione convocata a Roma<br />

per il 14 dicembre dalla direzione del Msi, subito dopo il rientro di On nel partito. Obiettivo della<br />

manifestazione, che venne bloccata anche per le durissime ma non spiegate contestazioni che<br />

comparvero su L’Avanti! , era quello di innescare la richiesta da parte della “piazza di destra” di un<br />

“governo forte” con intervento dei militari. Questo l’obiettivo della cordata oltranzista.<br />

Vinciguerra parte da Udine la sera del 12 dicembre. Porta con sé una vistosa insegna di Ordine<br />

Nuovo nonostante il movimento sia entrato nel partito da alcune settimane. Il 13 restano a Roma in<br />

attesa di notizie dato che la manifestazione era in forse. “Sino a tarda notte – dice Vinciguerra- le<br />

notizie erano ancora incerte. La domenica mattina, il 14, si seppe che l’adunata era stata sospesa dal<br />

governo. Vinciguerra ebbe successivamente conferma di quanto già sapeva direttamente: quella<br />

manifestazione era strettamente collegata alla strage. Facevano parte di un’unica operazione<br />

politica. “Indico negli attentati del 12 dicembre 1969 non l’inizio della strategia della tensione,<br />

bensì il detonatore che, facendo esplodere una situazione, avrebbe consentito a determinate autorità<br />

politiche e militari la proclamazione dello stato d’ emergenza”. Anche Siciliano venne fermato in<br />

partenza per Roma. Vinciguerra fornisce la chiave per capire come si sarebbero costretti i militari<br />

ad intervenire; un’ulteriore strage che doveva colpire proprio “l’adunata” del 14 dicembre e che<br />

avrebbe portato impressa nell’obiettivo – i militanti di On e del Msi - il marchio dell’esecutore, cioè<br />

la sinistra. Quella manifestazione era destinata a “degenerare in gravi incidenti, così da fare da<br />

supporto e sostenere meglio la decisione del governo, legittima e certamente non disapprovata dalla<br />

29<br />

29


maggioranza degli italiani e sostenuta da tutti i settori dello Stato primo tra tutti le Forze Armate.<br />

Portare le insegne, l’ascia bipenne di On serviva sia a marcare il ruolo di questa struttura nella<br />

vicenda, sia a distinguere i settori dove si sarebbero collocati gli aderenti in quanto una<br />

manifestazione pacifica non sarebbe stata” 39 .<br />

Nell’inchiesta condotta a Padova dal giudice Stiz vi è la testimonianza di Angelo Comacchio che<br />

aveva messo a verbale una confidenza fattagli da Angelo Ventura, fratello di Giovanni, due giorni<br />

prima della strage: ci sarebbe stata presto “una marcia di fascisti a Roma e qualcosa di grosso nelle<br />

banche”.<br />

“Si può ritenere – chiarisce Salvini – che la manifestazione del 14 dicembre venga vietata proprio<br />

per il profilarsi dell’accordo tra le due fazioni politiche che si confrontarono duramente, dal<br />

momento che ormai era caduta l'ipotesi più estrema e, con l’affermarsi di una soluzione più di<br />

centro, questa grande prova di forza non era più necessaria: potrebbe quindi esserci un<br />

collegamento tra le due cose. I giornali in quei giorni danno un amplissimo risalto a quello che<br />

doveva essere ‘l'Appuntamento con la nazione’, e questo è indicativo del fatto che la manifestazione<br />

del 14 dicembre avrebbe dovuto essere un momento di forte pressione”.<br />

Vinciguerra aggiungerà dei tasselli alla vicenda quando in Spagna ebbe modo di conoscere Ralph,<br />

che altri non era che Yves Guerin Serac. La strategia dell’infiltrazione, della “contaminazione” e<br />

della manipolazione è stata sperimentata con successo per la prima volta in Francia (di fatto ricalca<br />

alcuni degli elementi essenziali maturati nell’esperienza dell’Oas). E forse bisognerebbe riflettere<br />

meglio sulla nascita anche del nostro ‘68 studentesco; sulla presenza a Valle Giulia, quando per la<br />

prima volta si arriva agli scontri tra studenti e polizia con tecniche da “guerriglia urbana” di tanti<br />

esponenti dei gruppi a destra dell’Msi. “Nel ‘68 – dice sicuro Vinciguerra - le mobilitazioni<br />

studentesche sono state accuratamente studiate, preparate e poste in atto. In Francia dall’Oas, in<br />

Germania e in Italia da elementi dei movimenti d’estrema destra tipo An e On. Non c’è stato alcun<br />

moto spontaneo nel 1968. Parte da un discorso che riguarda in primo luogo la Francia. Il 1968<br />

riguarda in primo luogo la Francia. Il ‘68 deve mettere in ginocchio definitivamente il Gen. De<br />

Gaulle, deve obbligarlo a chiudere il discorso Oas. E poi si estende, si amplia. In Germania e in<br />

Italia dove viene monopolizzato da elementi di An e On” 40 .<br />

Nell’ottobre del 1969 su L’Italiano, il mensile diretto da Pino Romualdi, esponente di spicco anche<br />

culturale dell’Msi sul quale scrive Guido Giannettini, l’agente del Sid in contatto o che<br />

‘manipolava’ il gruppo ordinovista di Freda e Ventura compare un editoriale molto chiaro nelle<br />

indicazioni finali. E’ ora di agire; basta con le parole. “A differenza della vendetta che è un piatto<br />

che si mangia freddo, le rivoluzioni sono un piatto che si mangia caldo. E anche i colpi di Stato,<br />

specie in un Paese della storia, della civiltà e delle proporzioni demografiche economiche e<br />

politiche del nostro, sono un piatto che si serve caldo. L’Italia non è né la Grecia, né la Libia; né ha<br />

un capo partigiano da spendere come De Gaulle”. 41 Indicazione chiara: non sono percorribili le<br />

strade della rivolta militare perché in Grecia bastò prendere Atene ai colonnelli per avere in mano il<br />

Paese mentre Gheddafi in Libia riuscì a chiudere la vicenda dinastica con un pugno di giovani<br />

ufficiali ma in Italia c’è il più grande partito comunista d’Europa. Decine di città “rosse”: sarebbe<br />

un bagno di sangue. Né c’è un uomo che in virtù del suo prestigio riconosciuto può piegare il<br />

sistema. Occorre un’altra strada.<br />

Il 1969 aveva alle spalle un anno memorabile che aveva seminato attese e cambiamenti che<br />

dovevano essere raccolti in Italia, sul piano economico sociale, nell’anno successivo. Si erano creati<br />

grandi movimenti di massa mentre con le elezioni della primavera è miseramente fallita<br />

l’unificazione dei partiti di ispirazione socialista (Psi e Psdi) ed è stato premiato il Pci, salito alla<br />

Camera dal 25,2% al 26,9%. C’e’ paura in Italia e all’estero. Cinque milioni di tute blu cercano di<br />

39 Intervista dell’autore a Vincenzo Vinciguerra<br />

40 Ibidem<br />

41 Editoriale, L’Italiano,ottobre 1969<br />

30<br />

30


dar corpo alle rivendicazioni dell’autunno caldo sindacale a Milano, Genova, e Torino. Compare<br />

quell’estremismo ideologico che farà da prologo all’esplodere del terrorismo, agli “anni di<br />

piombo’”. Questo è anche l’anno degli attentati diffusi: più di 100 fino all’autunno e poi il ‘botto’<br />

del 12 dicembre quando alle 16,37 una bomba esplode nel salone centrale della Banca Nazionale<br />

dell’Agricoltura, a Milano, a due passi da Piazza del Duomo. Un boato incredibile; una pioggia di<br />

vetri e detriti e un tappeto di sangue e membra umane. Non la strage più grave come bilancio<br />

umano ma quella maggiormente simbolica; riassuntiva del cambiamento politico e sociale in atto.<br />

Quella che raccoglie condensa e dà forma ai sogni golpisti che mirano a congelare la realtà<br />

economica e sociale, oltre che politica, che dà l’impronta agli anni della prima Repubblica e segna<br />

l’inizio di quella strategia della tensione che sarà scandita da attentati e delitti consumati all’ombra<br />

dei servizi segreti e con la copertura e complicità d’importanti realtà istituzionali. Una parte del<br />

Psdi, ad esempio, ha avuto un atteggiamento politicamente filo golpista prima della strage. E capo<br />

dello Stato era Giuseppe Saragat che si era incontrato a quattr’occhi con Nixon e Kissinger, nel<br />

febbraio del 1969, quando il neo presidente degli Usa era venuto a constatare direttamente la gravità<br />

della situazione italiana. Nelle sue memorie Kissinger ha punte di asprezza per l’Italia e Moro .<br />

Ecco il nucleo centrale del ‘mistero’ politico di Piazza Fontana. Poteva l’allora Presidente del<br />

Consiglio essere sospettato di complicità sia pur concorrenziale con l’allora Capo dello Stato<br />

Giuseppe Saragat per aver quantomeno non ostacolato il crearsi del “clima politico” utile ad una<br />

svolta autoritaria? E' ben difficile ipotizzarlo senza mettere in conto che potesse “saltare il banco”<br />

del sistema politico, allora ben più rigido per la logica di Jalta.<br />

La scuola revisionista che alligna nella nuova Italia di questi ultimi anni ha duramente attaccato<br />

l’inchiesta Salvini e la sua lettura della logica politica che gli fa da scenario, proprio per la visione<br />

drammatica che il magistrato dà dello scontro tra le due fazioni politiche in quei giorni (ignorando<br />

volutamente che di questo scontro si scrive apertamente anche su giornali che non sono di sinistra),<br />

ma c’é uno storico come Piero Craveri che dà rilevanza a questa interpretazione ora suffragata da<br />

decine di riscontri sulle ragioni dell'odio di On verso un’ala della Dc nel suo '”La Repubblica dal<br />

1958 al 1992” dove si cita un introvabile libretto, “Il Segreto della Repubblica”, per spiegare la<br />

nascita di un quadripartito organico nuovamente guidato da Rumor dopo Piazza Fontana; un<br />

esecutivo nato dal compromesso Moro-Saragat, garantito dal cambio al dicastero della Difesa, da<br />

cui dipendevano i servizi segreti, tra Luigi Gui, stretto collaboratore di Moro e il socialdemocratico<br />

Mario Tanassi, legato a filo doppio a Saragat.<br />

“Il Segreto della Repubblica” 42 è stato riedito nel 2005, con un significativo sottotitolo “La verità<br />

politica sulla strage di Piazza Fontana”, dopo la prima introvabile edizione del 1978.<br />

Il volume tenta di dare una spiegazione politica – dato che quella giudiziaria è ormai sterilizzata,<br />

probabilmente per sempre – al perché non si è potuto arrivare ai responsabili della strage, risalire la<br />

catena di comando – o le catene, probabilmente - fino ai livelli decisionali.<br />

Il libro svela con chiarezza “Il Segreto” cioè il sommarsi di diverse responsabilità politiche alla fine<br />

neutralizzate da un compromesso tra Aldo Moro e Giuseppe Saragat siglato alla vigilia di Natale del<br />

1969. Una storia che vale la pena di raccontare in dettaglio perché può aiutarci a capire perché 11<br />

processi non sono arrivati alla verità giudiziaria.<br />

I servizi inglesi erano sul chi vive già prima di Piazza Fontana e contattarono un giornalista italiano,<br />

Fulvio Bellini, anticipandogli lo scontro istituzionale che stava maturando. Bellini, già partigiano<br />

vicino alle formazioni inglesi, giornalista , ha alle spalle grandi scoop come il primo libro che<br />

propone la tesi dell’omicidio del presidente dell’Eni, Enrico Mattei, e ha pubblicato nel 1978 il libro<br />

dedicato a Piazza Fontana che rivela i retroscena politici della strage, gli stessi che avrebbe<br />

accertato quasi un ventennio dopo, il Pm Guido Salvini ma sulla base delle rivelazioni dei<br />

‘camerati’.<br />

42 Fulvio Bellini- Gianfranco Bellini, Il Segreto della Repubblica. La verità politica sulla strage di<br />

Piazza Fontana, Milano, Selene Edizioni, 2005<br />

31<br />

31


La “verità” politica su Piazza Fontana Bellini l’ha saputa, sia pure per sommi capi, prima che tutto<br />

accadesse, già nel settembre del 1969, da un amico commilitone dei tempi del SOE , il servizio<br />

segreto militare inglese, le cui iniziali erano G.A che in effetti all’epoca era un agente dell'IRD<br />

(Information Research Department, di fatto una branca operativa dei servizi di Londra), che gli<br />

annunciò che ci sarebbe stato presto “qualcosa di grosso”.<br />

Immediatamente dopo la strage, l'amico inglese tratteggiò questo retroscena: vi era stato un grosso<br />

scontro istituzionale fra l’area che aveva a capo Saragat, definibile come ‘partito americano’, e<br />

l'area che aveva fatto capo a Moro; scontro che aveva avuto il suo epilogo a fine dicembre. Aveva<br />

vinto la seconda linea grazie alla possibilità di mettere sul tavolo i primi risultati delle indagini<br />

volute dal ministro Gui, tramite i carabinieri, che avevano evidenziato da subito la responsabilità di<br />

gruppi di destra. “Per questa ragione - spiega Bellini- non era stato decretato la Stato d’emergenza e<br />

non erano state sciolte le Camere, come soprattutto i settori del rinato Psu volevano, anche se<br />

l'accordo si era comunque concluso lasciando da parte i risultati delle prime indagini sulla destra e<br />

lasciando che si sviluppasse la cosiddetta ‘pista rossa’. Il ‘giornalista’ inglese mi disse che l'on.<br />

Rumor, che inizialmente faceva parte dell’area del ‘partito americano’, fortemente colpito dalla<br />

grande mobilitazione popolare che vi era stata ai funerali delle vittime della strage, era stato colto<br />

da dubbi e si era alleato con l'onorevole Moro non consentendo così che avvenisse una svolta<br />

autoritaria e soprattutto non consentendo che fossero sciolte le Camere” 43 . Bellini nel suo libro<br />

attribuisce ad un altro politico, Giulio Andreotti, un ruolo rilevante; decisivo nell’impedire lo<br />

scioglimento del Parlamento. A sostenere Moro sono Forlani e Andreotti. Piccoli appoggia il<br />

titubante Rumor. I conti si tireranno nella direzione Dc post-strage. Nella relazione introduttiva<br />

Forlani si schiera nettamente contro lo scioglimento anticipato delle Camere. “Una crisi<br />

disarticolata, al buio, aperta nel totale dissenso e priva di indicazioni aprirebbe troppe gravose<br />

incognite”, dice il segretario della Dc. 44<br />

Dalla stampa inglese, subito dopo la strage di Milano, viene l'accusa di aver predisposto un ‘golpe<br />

strisciante’ 45 , un’inusitata critica che è “una sorta di presa di posizione ufficiale ben comprensibile<br />

negli ambienti politico-diplomatici, che intendevano disapprovare la possibile destabilizzazione del<br />

nostro Paese a seguito di un eventuale scioglimento delle Camere”. Ciò era stato ben capito da<br />

Saragat che “stizzito aveva indotto il governo ad una presa di posizione diplomatica”. “Comunque -<br />

è la tesi di Bellini - da tale messaggio l’ala che faceva capo a Moro e a una forte parte della Dc<br />

aveva capito che non era isolata”.<br />

“Il Segreto della Repubblica” uscì in libreria nell’ottobre del 1978, quando sui giornali si<br />

commentavano, tra mille polemiche, proprio le carte di Aldo Moro trovate a via Monte Nevoso, in<br />

una base delle Br.<br />

Inizialmente il magistrato ipotizzò, prima di interrogare Bellini che aveva scritto il suo volume sotto<br />

pseudonimo, che alcune di quelle notizie potessero essere frutto proprio di notizie raccolte dalle Br<br />

durante la prigionia. Ipotesi non del tutto peregrina se si riflette su che cosa volevano sapere dal<br />

Presidente della Dc le Brigate Rosse dopo averlo rapito e prima di ucciderlo.<br />

Tra le questioni centrali che le Br intendevano conoscere da colui che ai loro occhi rappresentava il<br />

“cuore dello Stato”, il vero e unico rappresentante, insieme ad Andreotti, del Potere-Stato della Dc,<br />

c’era proprio la “verità” sulla strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969, a Milano.<br />

La “porta stretta” della storia di quegli anni dove tutto passa, volenti o nolenti.<br />

“A Moro era stato detto – affermò Patrizio Peci, il primo pentito delle Br nel verbale del 4 febbraio<br />

1980 – che se avesse denunciato gli scandali del regime, come per esempio i retroscena della strage<br />

di Piazza Fontana, sicuramente sarebbe stato liberato”. Anche Adriana Faranda, la “postina” delle<br />

lettere di Moro, unitamente a Valerio Morucci, ha confermato questo obiettivo centrale degli<br />

interrogatori Br: “Moro non parlò, fu evasivo nelle risposte. Se avesse detto ‘come Dc siamo<br />

coinvolti nel golpe Borghese o nella strage di Piazza Fontana’ forse si sarebbe salvato.<br />

43 Intervista all’autore a Fulvio Bellini<br />

44 Fulvio Bellini-Gianfranco Bellini,op. cit. ,p.117<br />

45 Intervista dell’autore a Fulvio Bellini<br />

32<br />

32


Probabilmente le Br avrebbero finito per fare una scelta diversa, si sarebbe portato avanti il discorso<br />

su uno scambio di prigionieri”. La verità sulla strage valeva, dunque, per le Br, la libertà di Moro.<br />

Un prezzo altissimo perché quella strage è una data cardine, un vero e proprio spartiacque politico<br />

che nasconde ancora oggi almeno due segreti. Uno giudiziario: chi e come esegue la strage (e su<br />

questo lo Stato per 11 volte ha dimostrato la sua impotenza a pronunciarsi); e uno politico: perché il<br />

potere decide di coprire esecutori e mandanti. Il volume di Bellini propone, nel 1978, tutti gli<br />

elementi essenziali che costrinsero la classe politica italiana, Pci compreso – e solo per la parte di<br />

responsabilità che all’epoca esercitava nel sistema politico italiano e con i relativi pesanti limiti – a<br />

non andare fino in fondo nella ricerca della verità; a scaricare sulla magistratura l’impossibile<br />

accertamento di una verità giudiziaria dei fatti e dei “retroscena” – anche fattuali – che era<br />

volutamente monca del presupposto fondamentale: perché tutto questo?<br />

Con quale scopo? Poteva esserci la risposta giudiziaria giusta se mancava la domanda politica<br />

essenziale, fondante?<br />

Ci vorranno altri dodici anni per “ritrovare”, dietro un pannello murato nell’intercapedine accanto<br />

un termosifone nella stessa base Br milanese di via Monte Nevoso, un altro mazzo di carte di Moro.<br />

Era sempre l’ottobre, ma del 1990, e quelle lettere non furono poi così deludenti come dicevano i<br />

Br.<br />

Moro scrive di non aver mai creduto alla pista “rossa” per Piazza Fontana e che dietro quegli<br />

attentati, che avevano l’obiettivo di normalizzare l’Italia del 1968, c’erano centrali straniere. Moro<br />

svela anche che, nel 1971, quando al Quirinale venne eletto Giovanni Leone, la Dc bruciò la sua<br />

candidatura a Presidente della Repubblica, spiegando, nei verbali degli “interrogatori” ritrovati nel<br />

1990, che quella carica era stata promessa a lui dai maggiorenti del partito. In un’assemblea Dc<br />

Moro parlò, avendo come garanzia una riservatezza assoluta che non ci fu, della grave crisi politica<br />

e dell’avanzare della destra che “è senza dubbio più potente di quello che risulta manifesta”. Tra<br />

l’altro Moro elogiò il Pci che “ha mostrato un notevole senso di responsabilità verso il Paese perché<br />

non ha giuocato un ruolo di rottura, non ha mirato a coprire e a riempire il vuoto prodottosi fra le<br />

forze sociali e le forze politiche con un’azione distruttiva”. E Moro nel discorso che doveva<br />

rimanere segreto allude più volte al “partito della strategia della tensione”: “Non servirebbe allo<br />

scopo – dice - investire con una nostra rigorosa e pubblica denuncia il partito e il governo. Una<br />

simile denuncia determinerebbe la caduta degli attuali vertici del partito e la crisi di governo”. E’ un<br />

esempio perfetto del modo di agire di Moro. Della sua prudenza, del suo cercare comunque e<br />

sempre il compromesso. Di coprire, sedare, tacere, rinviare quando non si può o è controproducente<br />

affrontare, denunciare, decidere. Una scelta che Moro ha fatto già altre volte e farà ancora tanto da<br />

divenire l’uomo degli omissis della Repubblica. E’ l’altra faccia di Moro; quella oscura che lo fa<br />

circondare di una ‘corte’ legata in gran parte allo scandalo dei petroli; che fa depositare in Svizzera<br />

i soldi della corrente per fronteggiare le conseguenze sul suo gruppo e sulla sua famiglia di un<br />

possibile golpe; che gli fa stringere inusitate alleanze con generali notoriamente di destra, ma a lui<br />

fedeli, magari in virtù di coperture offerte in momenti difficili per la loro carriera militare, come nel<br />

caso di Vito Miceli. Gli esempi sono tanti. Fu Moro a porre gli omissis sulla questione del luglio<br />

1964; ancora lui a coprire Miceli che invocava il segreto “politico –militare” per quella che poteva<br />

essere la Gladio; lui a coprire con gli omissis la vicenda Sogno; ancora lui a legittimare e non<br />

denunciare l’utilizzo del “ segreto politico-militare” nell’inchiesta sulla strage.<br />

Nel “carcere del popolo” Moro si soffermerà a lungo su questo importante discorso del 1971.<br />

“Questo episodio mi valse ancora una volta (come già nel 1969) la qualifica di antipartito, una<br />

posizione registrata ed esemplificata tra i gruppi parlamentari che giocò il suo ruolo, come è<br />

naturale decisivo, ai fini della mia qualificazione personale per la carica di Presidente della<br />

Repubblica. Tanto poco dominavo il partito che in quel caso fui battuto da altro parlamentare”, cioè<br />

Giovanni Leone, eletto grazie ai voti del Msi. E Moro sarà battuto nella corsa al Quirinale anche nel<br />

1978 e questa volta non dalla Dc, ma da un partito ben più ampio e oscuro, forte e trasversale, che<br />

ha potuto giovarsi anche del fuoco delle Br per fermare la sua ascesa alla massima carica della<br />

Repubblica.<br />

33<br />

33


Dal Quirinale Moro avrebbe potuto con maggior libertà chiudere le maglie ancora non serrate del<br />

compromesso storico con la presenza del Pci nel governo, e non più nella sola maggioranza (magari<br />

in cambio di un’ampia riforma in senso presidenziale della Repubblica).<br />

Anche nel 1969 Moro era considerato un “antipartito” perché, nel novembre 1968, a un Consiglio<br />

nazionale, dopo mesi e mesi d’isolamento prossimo all’ostracismo conseguenza della sconfitta<br />

socialista del 19 maggio che decreta la fine di una fase del centrosinistra, aveva pronunciato uno<br />

storico intervento che aveva messo in moto una reazione fortissima, sotterranea e oltre modo<br />

pericolosa che aveva ben interpretato il senso politico dell’improvvisa attenzione di Moro al<br />

sociale; ai sommovimenti che stavano attraversando tutta l’Europa.<br />

C’era da parte di Moro la volontà politica e il progetto di “aprire” al Pci, per intavolare una<br />

discussione con chi stava, in Italia, al di là del muro di Jalta. Specie dopo la dura condanna<br />

dell’invasione sovietica della Cecoslovacchia da parte del Pci e un congresso del partito che aveva<br />

segnato una svolta reale per i comunisti italiani. Moro dice che “tempi nuovi si annunciano e<br />

avanzano come non mai”. Ecco perché lascia la corrente dorotea al fine di “rendere più vigorosa e<br />

feconda la dialettica con le opposizioni, sì da valorizzare ogni dato sociale che emerge in questo<br />

confronto e rafforzare, mediante un’intelligente apertura a tutte le realtà, la posizione della<br />

maggioranza.” 46<br />

Nel novembre del 1977 – e nessuno sembra accorgersi di questo parallelismo con quanto era già<br />

avvenuto nel novembre del 1968 – il Pci vota una mozione alla Camera in cui si affermava che la<br />

Nato e la Cee sono i due assi fondamentali, non scindibili, della politica estera italiana:<br />

immediatamente si mette in moto un’altrettanto dura reazione di chi ha ben capito che il Pci stava<br />

ormai sulla porta del governo del Paese. Ed è una ‘forbice’ che ha certamente almeno due tagli: Usa<br />

e Urss. Anche i comunisti italiani sarebbero entrati a breve nella (vuota) “stanza dei bottoni”,<br />

evocata da Pietro Nenni per spiegare il fallimento della formula di centrosinistra organico. Nel 1969<br />

c’è Piazza Fontana, nel 1978 il rapimento di Moro. L’inizio e la fine di un progetto politico; forse<br />

l’unico dopo l’esaurirsi del centrosinistra, capace di sanare le anomalie profonde della società e<br />

della politica italiana.<br />

C’è un precedente illuminante, fondante, rispetto a questo arco politico che si regge sui due tragici<br />

pilastri di Piazza Fontana e Via Caetani ed è quello del tentativo del 1964, sul quale sempre Moro<br />

fece calare il silenzio della ragion di Stato imponendo gli omissis sul Piano Solo, cioè la<br />

pianificazione antisommossa predisposta dal generale De Lorenzo. Era l’epoca in cui su autorevoli<br />

giornali della Capitale comparivano editoriali che invitavano praticamente a “far fuori”<br />

politicamente Moro e la sua scelta a sostegno del centrosinistra organico.<br />

Senza entrare nella ormai speciosa e inutile diatriba se i fatti del giugno-luglio di quell’anno<br />

rappresentino o meno un vero e proprio golpe 47 , vale la pena citare tra i molti documenti disponibili<br />

un memorandum dell’ambasciata Usa a Roma del 14 agosto 1964, alla vigilia, della riunione a casa<br />

Morlino dello stato maggiore Dc per valutare la situazione dell’ordine pubblico in caso di<br />

scioglimento delle Camere. Il documento, intitolato “ The July Rumors of an Italian Coup d’Etat” si<br />

sofferma su una soluzione gollista da dare alla crisi politica in atto prevedendo la possibilità di un<br />

governo del Presidente pronto a lavorare “per il bene della nazione”. Sganciato dai partiti il<br />

governo non avrebbe la fiducia delle Camere e allora il Presidente dovrebbe portarlo dalla sua parte<br />

“con un solenne e drammatico appello ai partiti; un appello al popolo per la salvezza del paese”. In<br />

effetti il memorandum citava un famoso articolo del settimanale Epoca e questa coincidenza si<br />

ripeterà nel 1969, alla vigilia della strage 48 .<br />

Il 17 luglio la crisi è superata con la nascita del secondo governo Moro. La Dc era stata per alcuni<br />

drammatici giorni immobile ad un bivio: esecutivo Moro-Nenni o governo appoggiato dalle destre<br />

46 Tutte le citazioni sono tratte da Felice La Rocca, L’eredità perduta. Aldo Moro e la crisi<br />

italiana, Rubbettino, Palermo,2001 e Aldo Moro, Una politica per i tempi nuovi, Agenzia “Progetto”,Roma,<br />

s.d.<br />

47 <strong>Paolo</strong> <strong>Cucchiarelli</strong>- Aldo Giannuli, op. cit., p.229<br />

48 vedi in particolare, Claudio Accogli, Kennedy e il centro-sinistra.Nenni, i missili e il mistero<br />

di Dallas, Nuova Editrice MondOperaio, Milano, 2003, pp.148-149<br />

34<br />

34


(o del Presidente). Alla fine tra mille contrattazioni la scelta che prevale è quella di “annacquare” il<br />

programma politico ma non abbandonare la formula di centrosinistra resistendo alle forti pressioni<br />

di Antonio Segni che in agosto, dopo un drammatico confronto con Giuseppe Saragat e Aldo Moro<br />

al Quirinale, sarà colpito da una trombosi invalidante che in dicembre lo costringerà alle dimissioni.<br />

Il Presidente della Repubblica aveva minacciato elezioni anticipate- e temuto fortemente reazioni di<br />

piazza - per affossare il centrosinistra di Moro e Nenni e alla fine di fatto è l’ictus che colpisce<br />

Antonio Segni a chiudere lo scontro politico in atto nell’estate del 1964.<br />

Uno dei pochi libri che parlano delle vicende degli “uomini del Quirinale” dà una lettura incrociata<br />

di due drammatici colloqui avvenuti nelle stanze del Colle più alto nel 1964 e nel 1969.<br />

“Accadde per Antonio Segni accusato da Giuseppe Saragat (presente Aldo Moro: l’uno era ministro<br />

degli Esteri e l’altro Capo del Governo) d’atti tanto corposi da ‘meritare l’Alta Corte di Giustizia’.<br />

Ma quali atti? Possibile, come venne detto, soltanto d’ingerenze in un rimescolamento<br />

d’ambasciatori? Si raccontò d’un valletto quirinalesco, o di qualcuno in veste di valletto, che aveva<br />

potuto ascoltare il riferimento all’Alta Corte di Giustizia urlato da Saragat. Poi più niente.<br />

Nemmeno una prova e bocca cucita da parte dei protagonisti. Uno dei quali per sempre: Antonio<br />

Segni colpito in quel frangente da ictus cerebrale.<br />

Accadde per il suo successore. Per Giuseppe Saragat accusato da Aldo Moro di aver preso<br />

misteriosi accordi politici a quattr’occhi con il presidente americano Richard Nixon. E si disse che<br />

Aldo Moro, a quel tempo ministro degli Esteri, fosse stato informato da uomini dei servizi segreti<br />

americani ‘vicini’ al Partito Democratico (Nixon era repubblicano). Poi più niente. Nemmeno una<br />

prova e ancora bocche cucite da parte dei protagonisti. Uscì però un pamphlet (Il Golpe) scritto da<br />

un saggista della sinistra Dc e dedicato scopertamente al Presidente e alle strutture sia militari, sia<br />

civili del Quirinale. Fece scalpore nei palazzi romani, se lo passarono di mano in mano magistrati<br />

della Procura generale, ma non venne portato in tribunale come forse sperava l’autore, Giovanni Di<br />

Capua”. 49<br />

La possibile continuità di situazione e uomini, tra il 1964 e il 1969, è certamente forte e in qualche<br />

misura suggestiva. Un passaggio drammatico che, in situazioni simili, è bissato ma a ruoli invertiti<br />

tra i due politici. Si potrebbe spiegare così anche lo schierarsi di Saragat con la linea della trattativa<br />

durante i 55 giorni e quelle sue drammatiche ma veritiere parole dopo l’omicidio quando affermò<br />

che con il cadavere di Moro scendeva nella terra anche la Prima Repubblica.<br />

“Moro era l’artefice dell’incontro con i comunisti, era un soggetto a rischio. Del resto basta<br />

guardare gli anni delle bombe. Quando Moro si marginalizza, anche le bombe si marginalizzano”,<br />

dice Giovanni, il figlio del Presidente della Dc che definisce, giustamente, il rapimento di suo padre<br />

come “un’operazione di chirurgia sulla politica italiana per fermare il suo progetto”. Anche qui le<br />

similitudini esistenti tra i tre passaggi -1964, 1969, 1978- suggeriscono percorsi di analisi così densi<br />

di elementi, richiami, soggetti nazionali e non e motivazioni nazionali e internazionali, da<br />

sgomentare.<br />

Nel novembre 1968, Moro teme veramente, come tanti in quei mesi, che la Repubblica scivoli verso<br />

Weimar e, soprattutto, che l’irruenza operaia e studentesca possa innescare contraccolpi drammatici<br />

a destra anche perché, dice nel gennaio del 1969, le contestazioni nei confronti delle forze politiche<br />

non sono portate solo da “gruppi di intellettuali conservatori o da qualunquisti incorreggibili” ma<br />

trovano alimento “anche in ambienti democratici”.<br />

Durante la prigionia in mano alle Br, rievocando come seppe della strage del 12 dicembre, mentre<br />

era a Parigi insieme alla figlia per i lavori del Consiglio d’Europa, quello che colpisce ancora oggi è<br />

il senso di sgomento umano e politico di Moro allorché affiora netta la sensazione che “qualcosa d’<br />

imprevedibile e di oscuro si fosse messo in moto”. “Siamo in guerra” aggiunge poco dopo parlando<br />

con i familiari al telefono. “Si sta preparando per un pranzo ufficiale. E’ allegro. Poi qualcuno gli<br />

porta la notizia della strage di Piazza Fontana a Milano. Lo vedo invecchiare in un istante”, racconta<br />

la figlia Agnese di quei momenti. 50<br />

49 AaVv.Gli uomini del Quirinale, Laterza, 1984,p.156<br />

50 Agnese Moro,Un uomo così, Rizzoli, Milano, 2003,p.60<br />

35<br />

35


A Moro fu consigliato caldamente dal Pci, tramite Tullio Ancora, di avere qualche accorgimento<br />

sull’ora della partenza, sul percorso e sul trasferimento di ritorno. “Io ritenni […] di adottare le<br />

consigliate precauzioni e rientrai a Roma non privo di apprensione”. Insomma Moro e il Pci<br />

temevano, quantomeno, una sterzata autoritaria, un golpe istituzionale che forzasse le regole dettate<br />

dalla Costituzione.<br />

Nel novembre del 1968 Moro afferma che quella che si sta manifestando “nel profondo è una nuova<br />

umanità che vuole farsi, è il moto inarrestabile della storia”. Moro non è un rivoluzionario, ma il più<br />

serio, rigoroso e realista dei Dc.<br />

“Il meno implicato di tutti”, come disse Pasolini ma al contempo il più addentro, con Andreotti, in<br />

segreti e tutele necessarie, imposte dalla situazione nazionale e internazionale. Il più pronto a<br />

coprire anche storture gravi ma per cercare di costruire. Un uomo che non chiude gli occhi e<br />

condanna, ma che cerca di capire, di colmare il solco immenso che si apre in quei mesi tra chi sfila<br />

nelle strade e chi guida la politica. “No, abbiamo capito. Non abbiamo saputo dare ai giovani la<br />

sensazione di un nostro impegno per cambiare”. In quel riferimento alla “sensazione” c’è tutto<br />

Moro con la sua forza e i limiti.<br />

Al Consiglio nazionale del 17 gennaio 1969 Moro lancia per la prima volta la sua formula che<br />

condensa la ‘svolta’ politica e programmatica: è la “strategia dell’attenzione” al Pci a cui si<br />

risponderà presto nelle piazze e nelle banche.<br />

“La situazione che si era creata avrebbe dovuto portare a un colpo di Stato” dice oggi Gerardo<br />

D’Ambrosio, il magistrato che di più, insieme a Emilio Alessandrini, indagò sul significato di un<br />

reato, la strage di Piazza Fontana, che per sua stessa natura, mancando la “firma” degli autori, ha in<br />

sé tutte le spiegazioni del suo scopo politico. Anni prima Giovanni Ventura aveva spiegato con<br />

chiarezza a D’Ambrosio la logica e il retroterra dell’azione politico-militare attuata nell’ultima parte<br />

del 1969 da vari gruppi della destra estraparlamentare che agitavano lo spauracchio di una uscita<br />

dell’Italia dalla Nato come conseguenza del confronto in atto tra Moro e parte della Dc e il Psi e il<br />

Pci. “Nonostante io sollecitassi Freda egli non volle darmi ulteriori precisazioni sugli autori e sui<br />

finanziatori del piano. Comunque mi fece capire che c’era tutto un retroterra politico-parlamentare<br />

che avallava questa strategia, o meglio, che traeva profitto avvantaggiandosene da questa strategia,<br />

che non le era sconosciuta. Successivamente, da cartelle informative passatemi da persona di cui<br />

non ho voluto fare il nome (in effetti Guido Giannettini, informatore del Sid, NdA), ebbi conferma<br />

che gli attentati dell’agosto non erano che il prodromo di altri più grossi attentati, attentati che si<br />

erano poi concretizzati in quelli del 12 dicembre 1969; e che così come aveva detto il Freda si<br />

inquadravano in una strategia di progressione sul territorio. In altri termini Freda, in occasione degli<br />

attentati dell’agosto mi aveva detto che la situazione politica avrebbe potuto trovare uno sbocco nel<br />

quadro di una prospettiva di restaurazione, intensificando il programma d’attività terroristica,<br />

accompagnato da iniziative dirette a riunire tutti i gruppi aventi per intenzione l’abbattimento delle<br />

istituzioni e dell’ordinamento democratico”.<br />

La strage è, se la si vuol leggere fino in fondo, un biglietto da visita.<br />

Poco più di due mesi dopo la strage, nel febbraio del 1970 il settimanale Panorama, imbeccato da<br />

una “fonte autorevolissima” fa una rivelazione: lo Stato sa tutto sulla strage ma non può parlare.<br />

Gruppi neofascisti hanno avuto una parte negli attentati di Roma e Milano. Le autorità inquirenti<br />

conoscerebbero i nomi e i ruoli avuti negli atti terroristici. Per ora, però, non se ne parla, visto il<br />

delicato momento politico e le trattative in corso per la non facile formazione del governo del dopo<br />

strage.<br />

“Lunedì 16 (febbraio) prendendo la parola sul programma di governo esposto da Rumor, un<br />

rappresentante della corrente Dc della Base, l’On. De Poli, disse testualmente: ‘Il governo di centro<br />

sinistra che nasce sulle bombe di Milano, che sono bombe di destra, dovrà stabilire nuovi rapporti<br />

tra maggioranza e opposizione, soprattutto a salvaguardia del sistema democratico del Paese,<br />

esposto a pericoli d’involuzione autoritaria’. Il Presidente del Consiglio non batté ciglio e<br />

ugualmente impassibili rimasero alcuni presenti che erano tutti al corrente di voci che circolavano<br />

36<br />

36


insistentemente a proposito di una prossima clamorosa svolta nelle indagini sulle bombe. […]<br />

Secondo queste voci, raccolte da fonte autorevolissima anche dai redattori di Panorama, negli<br />

attentati avrebbero avuto un ruolo anche individui o piccoli gruppi d’estrema destra (ma non<br />

collegati al Msi). Sempre secondo queste indiscrezioni le autorità inquirenti già conoscono i nomi e<br />

la parte giocata da ciascuno di essi. Ma l’opportunità di non turbare in questo momento delicato,<br />

date le trattative di governo, l’opinione pubblica, avrebbe consigliato di tenere per il momento<br />

riservate queste notizie, pur prendendo tutti i provvedimenti pratici necessari ad assicurare alla<br />

giustizia i presunti colpevoli”.<br />

De Poli altro non è che il legale, veneto, di Guido Lorenzon, l’amico Dc di Giovanni Ventura,<br />

l’editore di destra legato a Franco Freda e tramite, grazie alla sua immagine d’editore di sinistra,<br />

con i gruppi anarchici e della sinistra estraparlamentare. Lorenzon è colpito da rimorso subito dopo<br />

la strage per quanto gli racconta il suo stretto conoscente, Ventura, che fa rivelazioni sulla cellula<br />

veneta di Ordine nuovo e sulla scelta strategica delle bombe come arma per costringere il sistema a<br />

“forzarsi”, a piegarsi a una superiore esigenza di sicurezza nazionale contro la marea montante – in<br />

verità ormai scemata a dicembre – dell’autunno caldo, pericolo evocato, temuto ma anche atteso,<br />

per varare l’operazione. L’articolo del settimanale chiama in causa direttamente Presidenza del<br />

Consiglio (Rumor) e Viminale (Restivo).<br />

De Poli, nel 1972, rivelò che quando prese la parola “volle rammentare a Mariano Rumor, allora<br />

Presidente del Consiglio incaricato, che le forze democratiche, nerbo della Resistenza, e i sindacati<br />

avrebbero fatto una barriera insormontabile contro ogni tentativo reazionario. Rumor non rispose”.<br />

I servizi segreti stilarono una nota, in anticipo sull’uscita del pezzo, a proposito della tesi del<br />

settimanale e la Procura di Roma esaminò l’opportunità di denunciare Panorama per “diffusione di<br />

notizie false, tendenziose e atte a turbare l’ordine pubblico.”<br />

I passaggi,drammatici, di quella lunga crisi di governo successiva alla strage furono ancora molti.<br />

Rumor rinunciò all’incarico datogli da Saragat di formare un nuovo governo, così come Moro, dopo<br />

una vera e propria congiura in casa Dc giocata sul “segreto della Repubblica’’, un segreto che non è<br />

tale, almeno politicamente. L’Unità scrisse il 22 marzo 1970: “All’Italia che esce dall’esperienza<br />

dell’autunno caldo, si è cercato di rispondere con un quadripartito, con le minacce di soffocamento<br />

anticipato della legislatura, con le proposte di ‘direttorii’ ambigui e velleitari e con una serie di<br />

documenti meschini (‘preamboli’, ‘pacchetti’, eccetera)”. Uno scontro senza precedenti di cui si<br />

coglie in superficie solo l’allarmatissima preoccupazione del Pci. Quali erano e da chi avrebbero<br />

dovuto esser composti i “direttori ambigui” di cui parla il giornale del Pci? Più avanti troveremo<br />

un’ipotesi che potrebbe avere un suo fondamento.<br />

Alla fine, Rumor ricostituirà uno striminzito e traballante governo, frutto di una serie d’ aspri ricatti,<br />

sostanzialmente pubblici, come dimostrano i giornali di quelle settimane. E una affermazione fatta<br />

da Armando Cossutta nel novembre del 1998 può aiutare a capire il “sommerso” di quelle<br />

drammaticissime settimane quando i giornali di sinistra invitavano al “controllo democratico” visti i<br />

rischi che correva la democrazia. Cossutta dà una versione tutta in positivo di un incontro riservato<br />

con Saragat, impossibile in quel contesto politico, che induce a ‘leggerla’ in ben altro modo. In<br />

quelle settimane il Pci era pronto, con documenti falsi, imbarcazioni e travestimenti a mettere in<br />

salvo Saragat nel caso di tentativi eversivi. Cossutta era all’epoca coordinatore della segreteria del<br />

Pci e andò da Saragat per esporgli i timori del partito per lo “sferragliar di sciabole dei militari” che<br />

potevano portare ad un colpo di Stato. “Se gli avvenimenti prenderanno una piega irreparabile<br />

siamo pronti a metterti in salvo – gli dissi – e Saragat allora mi abbracciò”. Così nel nome della<br />

democrazia da salvare quell’abbraccio superò “anni di dura polemica che contrapponevano<br />

comunisti a socialdemocratici”. Cossutta ha spiegato che è probabile che quel colloquio si sia svolto<br />

tra il 3 e il 12 marzo a cavallo del pre-incarico dato a Moro da Saragat. “La data non la ricordo. Era<br />

comunque durante una crisi di governo….Potrebbe essere”. L’esponente dell’ex Pci ha aggiunto<br />

che il riferimento alle sciabole “fu usato pochi mesi dopo, quando si venne a conoscenza del Piano<br />

Solo e del tentativo del golpe Borghese” 51 . In effetti nel 1970 del ‘Piano Solo’ già si sapeva dato<br />

51 “Cossutta rivela, nel ’70 il Pci pronto a mettere in salvo Saragat”, Ansa del 12 novembre 1998<br />

37<br />

37


che Eugenio Scalfari e Lino Jannuzzi erano stati condannati per diffamazione nei confronti del<br />

generale De Lorenzo, già nel marzo del 1967. Questo episodio ha quindi due possibili letture: o<br />

Cossutta volge al bene un colloquio ben più drammatico e diretto, visto quello che scriveva L’Unità<br />

in quei giorni, e quindi il giudizio di oggi è ‘velato’ da un rovesciamento di senso, oppure il Pci<br />

sapeva che l’altra cordata della trama eversiva, quella che prevedeva l’arresto di Saragat da parte di<br />

Licio Gelli e del manipolo che doveva occupare il Quirinale nel dicembre del 1970, si stava<br />

dispiegando con il sostegno di un’ala della Dc, come ha accertato l’inchiesta Salvini.<br />

Altra variante possibile è che gruppi o realtà politiche facessero pressioni pesanti sul Presidente<br />

della Repubblica (basta rileggere i giornali di quei giorni per verificarlo) per impedire la nascita di<br />

un gabinetto Moro, magari minacciando rivelazioni su presunte suggestioni o ipotizzate<br />

disponibilità. L’episodio comunque è interessante perché è francamente inspiegato e inspiegabile<br />

che il maggior partito di opposizione, in quel contesto, si offrisse di garantire l’incolumità del Capo<br />

dello Stato. Minacciata da chi?<br />

L’ipotesi più drammatica vede il Pci dare la sua disponibilità a ‘salvare’ un Saragat sotto ricatto da<br />

parte di strutture, uomini, gruppi che si sentivano minacciati dal traballante ma comunque attivo<br />

avanzare delle inchieste e quindi , in caso di reazione della “piazza di destra” o della ‘cordata’<br />

politico-istituzionale che si sentiva minacciata, il Pci avrebbe offerto con il suo apparato una via di<br />

fuga concreta al Capo dello Stato.<br />

Prima della strage, il Psdi, evocando i poteri di scioglimento delle Camere di Saragat, aveva posto<br />

una serie di rinnovati ultimatum contro la rinascita del centrosinistra organico, proponendo il ritorno<br />

al centrismo, cioè un governo con dentro i liberali che avrebbero sostituito i socialisti accusati di<br />

aver scelto l’intesa strategica con il Pci, proprio nel momento in cui il sistema economico e le<br />

contrattazioni sindacali, che si stavano chiudendo, davano segnali confortanti di aver retto alla tanto<br />

temuta vampata rivoluzionaria dell’autunno caldo.<br />

Una sterzata politica programmata in vista della verifica che si trascinava da ottobre-novembre,<br />

quando il Presidente del Psu, Mario Tanassi, con un’intervista a Epoca aveva posto il problema se<br />

la Dc volesse o no il Pci nell’area di governo, chiedendo che sulla questione i cittadini si<br />

esprimessero. La Dc era in subbuglio. La sinistra interna aveva posizioni di dichiarata apertura al<br />

confronto con il Pci. Botteghe Oscure stava alla finestra in attesa dello sbocco della crisi. Psdi e<br />

liberali invocavano le elezioni con il Pri che, più debolmente, condivideva la linea d’intransigenza.<br />

Il tutto, dopo i rinnovi contrattuali che si stavano positivamente chiudendo in quei giorni, era<br />

rimandato a metà dicembre.<br />

La strage arriva quando si deve decidere che strada imboccare e Rumor, poche ore dopo la bomba,<br />

quando a Milano la sinistra schiera migliaia d’operai per impedire quella che lo stesso Presidente<br />

del Consiglio definirà in un’intervista di qualche giorno dopo una “folle avventura”, chiede subito<br />

un incontro con tutti i segretari del centrosinistra per far rinascere l’intesa.<br />

In tutta la vicenda, quindi, sembra di intravedere due linee di sviluppo operative: una di vecchio<br />

stampo, repressiva e legata direttamente agli apparati fascisti, sopravvissuti alla Resistenza, e l’altra<br />

legata a uomini della Resistenza “bianca”, a logiche di una gestione meno traumatica e più politica<br />

della “strategia della tensione”. Uno scontro di ‘cordate’ che ruota anche attorno alla gestione delle<br />

commesse militari in scadenza; all’emergere di gruppi come il Mar, dell’ex “partigiano bianco”<br />

Carlo Fumagalli, o del comandante Junio Valerio Borghese che probabilmente vede fallire il ‘suo’<br />

golpe già in gestazione nel dicembre del 1969 proprio perché non ci si fida, politicamente, di un<br />

uomo troppo ingombrante visto il suo passato e le dichiarate aspirazioni politiche “in proprio”.<br />

Due linee incarnate, va precisato e chiarito, in chiave strettamente politica, anche dai due uomini al<br />

vertice dello Stato: Giuseppe Saragat e Mariano Rumor, stretti in un “gioco politico” che ai vari<br />

livelli operativi sottostanti veniva visto, desiderato e interpretato in maniera concretamente diversa.<br />

Linee politiche quindi distinte ai vertici, e che alla fine, dopo la strage, si separano lungo elementi<br />

di differenziazione ancora mai evidenziati per intero, ma che avevano molti punti di contatto a<br />

livello operativo: di uomini, di strutture dispiegate sul territorio, di contatti nei gangli dello Stato, di<br />

referenti nei gruppi impegnati nell’innalzamento del livello di infiltrazione e scontro. Obiettivo<br />

38<br />

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massimo sarebbe stata la reazione del Pci nelle strade e lo scontro aperto che avrebbe imposto,<br />

senza tentennamenti da parte di nessuno, l’uso dei militari. Quello, cioè, che si era realizzato ad<br />

Atene dopo una sapiente preparazione di bombe ‘pilotate’ e di ‘sobillazione’ frutto di<br />

manipolazione e infiltrazione. Quell’operazione venne gestita e organizzata direttamente da agenti<br />

del Kyp, il servizio segreto greco e dei servizi americani, sia militari sia della Cia.<br />

Insomma si trattava di “aiutare la realtà” a dare i frutti politici desiderati e ricercati, costruiti con un<br />

sapiente gioco di specchi tra false veline dei servizi che ipotizzavano intese tra Dc e Pci e<br />

conseguenti reazioni di destra e i gruppi della destra radicale che, con in mano queste veline<br />

passategli dai servizi, prendono contatti, si attivano, agiscono avendo l’idea di essere parti di un<br />

progetto tutelato, ‘coperto’.<br />

Al centro, Aldo Moro, inviso a tutti e due i fronti per il suo voler vedere fino in fondo le richieste<br />

che vengono dalla tumultuosa realtà italiana. Alla vigilia della strage, Il Secolo d’Italia tira fuori un<br />

rapporto sulle terre di Berlinguer in Sardegna con intrighi edilizi e speculazioni per centinaia di<br />

milioni. Un attacco diretto che però ha una curiosa origine: quelle carte vengono dalla rete di<br />

Mosca, incaricata di screditare il giovane vice segretario del Pci. Le ritroveremo, pari pari, nel<br />

rapporto Impedian di Vassily Mitrokhin, a conferma che Mosca ostacolò in tutti i passaggi<br />

fondamentali l’evoluzione del Pci e il suo allontanarsi dalla ‘Casa Madre’, specie quando c’era la<br />

prospettiva, grazie a Moro, dell’apertura di una fase pericolosamente nuova per la politica dei<br />

blocchi. Lo stesso era accaduto già nel 1964, come abbiamo visto, quando l’obiettivo politico di<br />

fondo era ancora Moro e la sua interpretazione aperta del centrosinistra. Come poteva piacere a<br />

Washington e a Mosca un uomo che, subito dopo la strage, al Consiglio d’Europa che aveva<br />

espulso, in concomitanza con le bombe, la Grecia dei colonnelli, chiedeva il superamento dei<br />

blocchi?<br />

Il Pci temeva il golpe, o quantomeno una levata di scudi: a partire dal marzo del 1969 impartì<br />

direttive interne per rafforzare i controlli e revisionare gli archivi, distruggendo materiale di un<br />

certo rilievo.<br />

Il Pci si preparava comunque a quello che, bastava leggere i giornali, si veniva costruendo giorno<br />

per giorno: una cornice entro cui muoversi per ‘forzare’ il sistema, le sinistre messe all’angolo e,<br />

sulla scia di uno scontro modello 1948, ricominciare da capo visto che il ciclo politico della<br />

Repubblica nata dalla Resistenza (in quei giorni il Corriere della sera pubblicava un’inchiesta<br />

titolata: “Siamo nel 1922?”) si pensava irrimediabilmente esaurito.<br />

Occorre un altro passo indietro per capire ulteriormente la motivazione politica della strage. A<br />

Roma, nel febbraio 1969, arriva il neoeletto presidente americano Richard Nixon, accompagnato da<br />

Henry Kissinger. “Il Segreto della Repubblica” spiega in dettaglio l’importanza di questo viaggio.<br />

Sulla base dei documenti scritti da Kissinger dopo l’incontro Saragat-Nixon, fattigli avere dai<br />

servizi inglesi prima della strage, Bellini afferma che Nixon si era impegnato a “tenere sotto<br />

costante controllo l’evolversi della situazione italiana e a usare tutti i mezzi a disposizione del<br />

governo americano per contrastare le manovre dei fautori dell’apertura ai comunisti: con<br />

discrezione, ma anche in termini e provvedimenti efficaci”. 52 “Saragat ha espresso la sua forte<br />

preoccupazione per la crescita inarrestabile dell’influenza comunista, e ciò nonostante la presenza<br />

di un sicuro amico dell’America, Rumor, al vertice del governo. Alle spalle di Rumor, ma molto più<br />

influente, si sta preparando ad agire, indirettamente e quasi impercettibilmente, Aldo Moro, in vista<br />

di quei cambiamenti che dovrebbero portare il Partito comunista a un passo dalle leve del potere”,<br />

scrive Kissinger nel documento che riescono ad avere i servizi inglesi dopo l’incontro. 53<br />

L’incoraggiamento che viene da Nixon alla linea dura rappresentata da Saragat, come rivelano ora<br />

anche i documenti americani declassificati 54 , è decisivo. Incontrando Nixon, in via riservata, Saragat<br />

52 Fulvio e Gianfranco Bellini, op.cit., Milano, Selene Edizioni, 2005, p.31<br />

53 Ibidem,p.31<br />

54 Tutte le citazioni dei documenti Usa fanno riferimento agli articoli pubblicati da Ennio Caretto<br />

nel marzo-aprile del 2004 sul Corriere della sera<br />

39<br />

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si lascia andare a un’analisi particolarmente preoccupata della situazione politica italiana. Il<br />

generale Vernon Walters, futuro direttore della Cia, alla fine, ottiene direttamente (o tramite il<br />

traduttore presente all’incontro) la trascrizione delle parole pronunciate del Presidente della<br />

Repubblica: “Agli occhi degli italiani, il Pci si fa passare per un partito socialista attivista e<br />

rispettabile ma è dedito agli interessi del Cremlino; il suo capo, Luigi Longo, è a tutti gli effetti un<br />

funzionario sovietico. I comunisti hanno condannato l’invasione della Cecoslovacchia e la nostra<br />

stampa, e quella internazionale, vi hanno visto un distacco dall’Urss. È un errore, lo hanno fatto<br />

perché gli italiani sono indignati, e per essere liberi di denunciare la Nato: la vogliono distruggere,<br />

rendere prima l’Italia neutrale e poi allinearla con Mosca”. Saragat si propone, implicitamente,<br />

come alternativa politica, quantomeno accanto alla Dc, dato che questo partito è “forte perché ha<br />

l’appoggio del Vaticano, e lo merita perché è il pilastro della libertà e della democrazia in Italia. Ma<br />

il Papa <strong>Paolo</strong> VI – una persona per bene – non ne capisce molto di politica, bisognerebbe dirgli che<br />

se il comunismo vincesse finirebbe in esilio o diverrebbe come il metropolita Alexei in Urss”. Il<br />

Presidente della Repubblica italiana continua dicendo tra l’altro: “Il Psi ha una frangia estremista di<br />

sinistra, come pure la Dc, anche se con un peso maggiore: grazie alla complicità di questi due<br />

gruppi antiatlantici, il Pci è in grado di causare grossi guai”. La nuova amministrazione Usa prese<br />

tanto sul serio il discorso fatto “con il massimo candore” da Saragat da affidare al Consiglio di<br />

sicurezza della Casa Bianca, diretto da Kissinger, un’inchiesta sul comunismo italiano che, alla fine,<br />

portò all’invio a Roma di un nuovo ambasciatore, il “falco” Graham Martin, poi destinato a Saigon,<br />

che aveva carta bianca per spingere verso una svolta a destra del governo. Strategia non condivisa<br />

dalle “colombe’’ di Washington, tra cui vi era il Segretario di Stato William Rogers, favorevole al<br />

centrosinistra ma con poco potere reale nelle sue mani. Nel luglio 1969 cade il primo governo<br />

Rumor. Poco dopo nasce il nuovo governo Rumor, un monocolore con Moro agli Esteri al posto di<br />

Nenni. Un rapporto della Cia di quei giorni ipotizza che il governo potrebbe cadere “a causa dei<br />

torbidi movimenti operai e studenteschi”. In ottobre le “convulsioni italiani” secondo gli Usa sono<br />

tali da spingere il ministro dei Trasporti Usa, John Volpe, che poi sarà ambasciatore a Roma, a<br />

recarsi da Saragat che è sempre più allarmato. Il Capo dello Stato avverte l’inviato americano che<br />

Nixon ora deve mantenere gli impegni e proteggere non solo l’Italia “ma tutta l’Europa, altrimenti<br />

l’Urss tenterà di fagocitarla come Praga”, e arriva a dare agli Usa lo stesso ruolo che ebbe l’impero<br />

romano, “arbitro dell’equilibrio e della pace mondiali”.<br />

Saragat incontrando Nixon aveva indicato solo una strada di salvezza per l’Italia; un ritorno agli<br />

equilibri politici antecedenti la “catastrofica linea politica” del centrosinistra voluta da Moro.<br />

Volpe chiede a Nixon di invitare Rumor e Saragat a Washington per un chiarimento. Le due linee<br />

sono evidenti anche agli analisti Usa. Bisogna mettersi d’accordo, chiarire la logica e i ruoli. Il<br />

Segretario di Stato William Rogers e il Consigliere della sicurezza nazionale della Casa Bianca non<br />

si trovano d’accordo sull’invito. Rogers vuole che la situazione si chiarisca subito. Poco dopo, lo<br />

stesso Rogers fa sapere a Kissinger di aver ricevuto una lettera “dell’avvocato <strong>Paolo</strong> Pisano, che<br />

dice di rappresentare l’editore Vittorio Vaccari e Rumor, secondo cui se non interverranno, a Roma<br />

andrà al governo un Fronte popolare con i comunisti”. Secondo Pisano, “Moro è pronto all’intesa<br />

con il Pci, facilitata dall’abbandono da parte del Vaticano della sua politica anticomunista”.<br />

Kissinger tergiversa e chiede un’inchiesta dei servizi segreti americani sull’Italia e il Vaticano. Alla<br />

fine propone il gennaio 1970 per la visita di Rumor (che poi non avverrà proprio per le bombe del<br />

12 dicembre), e il luglio dello stesso anno per quella di Saragat. Kissinger sollecita Nixon a formare<br />

una commissione d’inchiesta “sulle implicazioni per gli Usa di un ingresso comunista al governo di<br />

Roma. [...] C’è il pericolo che in due o tre anni il Pci salga al potere, sarebbe prudente esaminare<br />

l’emergenza, non possiamo farci cogliere impreparati”, scrive. Il capo della commissione è un nome<br />

che ritroviamo nel libro di Fulvio Bellini, Elliot Richardson, un uomo di Nixon 55 . Il rapporto finale<br />

dell’inchiesta però è ancora oggi segreto.<br />

55 E per Richardson che Kissinger stese il rapporto sull’incontro Saragat- Nixon che poi,<br />

tramite i servizi inglesi, arriva a Bellini.<br />

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In tutto questo fitto scenario internazionale bisogna inserire un elemento molto rilevante: il<br />

congresso comunista del febbraio 1969 che segna una svolta reale rispetto al passato. Ecco come<br />

qualche mese dopo, in novembre, Mario Tanassi, presidente di quel Psu nato in estate dalla<br />

scissione socialista, rievoca quell’importante passaggio che spinse Saragat a chiedere il supporto e<br />

l’aiuto americano: “Il congresso fu preceduto da un tambureggiamento propagandistico<br />

d’eccezione. Sembrava che per i comunisti fosse arrivato il momento della palingenesi democratica.<br />

Che il Pci sarebbe uscito dal congresso completamente trasformato e pronto a condividere le<br />

responsabilità del potere. [...] I tre obiettivi fondamentali (del Congresso, N.d.A.) erano: isolare e<br />

distruggere le forze socialdemocratiche; creare alleanze sempre più nuove e numerose in comuni<br />

province e regioni, in attesa dell’alleanza col centrosinistra sul piano nazionale; provocare un<br />

cambiamento nella maggioranza all’interno della Dc e del Psi. [...]<br />

“In aprile, in maggio, era molto diffuso uno stato d’animo di rassegnazione: l’ingresso dei<br />

comunisti nella maggioranza era visto come un fatto imminente e ineluttabile. Molti uomini politici<br />

si preparavano a saltare sulla diligenza del nuovo regime. A destra c’era chi pensava, per reazione,<br />

ai colonnelli. Insomma, si era perduta la prospettiva democratica e si credeva che in un modo o<br />

nell’altro la Repubblica che conosciamo, quella nata dalla Costituzione, stesse per morire”.<br />

L’alternativa che il Psu temeva maggiormente era quella di un governo Dc-Psi sostenuto “da tutte le<br />

forze sinceramente democratiche” cioè con l’appoggio esterno del Pci. Moro “apre” e tutto si mette<br />

in gioco rapidamente; alla sua “strategia dell’attenzione” verso il Pci si risponde con la “strategia<br />

della tensione’’ verso il Paese, per impaurirlo e condizionarlo. Con uno schema che si ripeterà nel<br />

’77-’78 dopo essere stato già sperimentato nel ’64, come abbiamo già visto.<br />

E’ in quelle settimane di febbraio-marzo che si gettano le basi di quella solida inimicizia tra<br />

Kissinger e Moro di cui si è a lungo parlato e che si è manifestata sempre nei momenti cruciali:<br />

1975-76, 1977-78. Il “conforto” dato dagli americani a Saragat è evidente ma è chiaro che il<br />

Presidente prende a modello più De Gaulle che i colonnelli greci. Ma qualcuno che a lui si ispira, in<br />

chiave non strettamente politica, non la pensa così. “Roma fu la sola capitale dove Nixon venne<br />

accolto da manifestazioni antiamericane di qualche rilievo…Gli incontri ebbero luogo in modo un<br />

po’ casuale. Il Presidente Giuseppe Saragat volle ricevere Nixon senza la presenza dei ministri<br />

italiani perché aveva paura, alla loro presenza, di esprimere i suoi cattivi presentimenti<br />

sull’avanzata comunista…” 56 . Curioso perché in quel governo non vi erano altro che ministri Dc.<br />

Quando Nixon arriva a Roma Il Secolo d’Italia riporta in ultima pagina un manifesto bilingue:<br />

“Signor Presidente c’è chi vuole far uscire l’Italia dalla Nato”. E’ l’inizio dell’operazione. Il via,<br />

con forti infiltrazioni della destra estrema negli scontri di quei giorni di visita a Roma del Presidente<br />

Usa, ricordati con grande drammaticità da Mariano Rumor nelle sue memorie, 57 avviene in quelle<br />

ore. Bisogna dimostrare che l’Italia è in mano ai “rossi”. Ingovernabile, alla deriva. Pronta a<br />

‘scivolar via’ dalla Nato.<br />

Peter Tompkins è stato agente americano a Roma, in clandestinità, durante l’ultima parte della<br />

guerra. Trovò rifugio a Palazzo Caeteani, in una stanza segreta ,ed è ben addentro alle vicende dei<br />

servizi segreti Usa in Italia.<br />

Autore di un volume di memorie, “Partigiano a Roma”, l’ex agente segreto ha raccolto le sue idee<br />

sulle attività dei servizi in un volume dedicato alla Strategy of terror 58 che , nel caso italiano, ha<br />

radici istituzionali che Tompkins individua nel ministero dell’Interno e in Umberto Federico<br />

D’Amato, reclutato dagli Usa con il nome in codice “Delilah.” 59 E’ lui per Tompkins il regista<br />

principale dell’operazione Piazza Fontana che poi subisce diversi “strattoni” da più mani. L’ex<br />

56 Henry Kissinger op.cit., p. 94<br />

57 Mariano Rumor, Memorie (!943-1970),Neri Pozza Editore,Vicenza,1991,p.401<br />

58 Manoscritto inedito di Peter Tompkins, 1991<br />

59 La prova del “reclutamento” Usa di D’Amato è stata rintracciata negli archivi americani da un<br />

professore dell’Università di Yale, Timothy J. Naftali, docente di Storia dell’Italia contemporanea<br />

che per primo ha potuto consultare i documenti desecretati dal Dipartimento di Stato Usa relativi ai<br />

rapporti tra i servizi segreti di Italia e Usa dal 1945 ai primi anni Sessanta. Vedi in particolare, “Servizi segreti:<br />

Rivelazioni - D’Amato 007 ‘reclutato’ da Usa”, Adnkronos , 6 febbraio 1999.<br />

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agente Usa fa sua pienamente la lettura che della vicenda dà fin dal 1978 “Il Segreto della<br />

Repubblica”: muovendo verso destra in piena solidarietà ed armonia con la crescente avversione<br />

popolare alla “strategia del terrore” che si stava sviluppando in quei mesi, e che l’opinione pubblica<br />

credeva opera della sinistra, “Saragat sperava di raccogliere 3 milioni di voti. Ma non poteva<br />

anticipare la data delle elezioni senza una maggioranza nelle Camere avendo soltanto il sostegno<br />

che aveva ricevuto da Nixon, la Cia e l’industria italiana”. Il grande spauracchio era appunto un<br />

governo Dc-Psi con appoggio del Pci e del Psiup: una coalizione che avrebbe rappresentato circa il<br />

70% delle forze presenti in Parlamento. “Per sconfiggere, annientare una tale coalizione, gli Usa<br />

potevano soltanto sperare di creare un’emergenza più grande che avrebbe isolato Moro e la sinistra<br />

Dc”, scrive Tompkins che cita proprio il libro di Walter Rubini, cioè Fulvio Bellini, a riscontro.<br />

“L’ambasciatore Usa a Roma, Martin aveva scelto di andare all’attacco”. Il suo canale in<br />

ambasciata con i vertici di Avanguardia Nazionale era rappresentato da Peter Bridges, Primo<br />

segretario all’ambasciata di Via Veneto. “All’organizzazione terrorista di Delle Chiaie fu dato disco<br />

verde ma Bridge disse che la responsabilità doveva cadere sulla sinistra”, scrive Tompkins. La<br />

Confindustria – scrive sempre Tompkins nel dattiloscritto – “chiedeva intanto al governo di<br />

eliminare gli scioperi ‘politici’ e, con un rapporto top secret, a Saragat un governo forte, senza i<br />

socialisti, che potesse controllare gli operai nel Nord d’Italia, proibire i ‘picchetti’ operai, e mettere<br />

fuori legge la ‘propaganda sovversiva’ e le ‘assemblee sediziose’”. In quelle settimane, a cavallo di<br />

giugno-luglio, Panorama riportava le parole di un anonimo funzionario del Viminale: “Basterebbe<br />

che un poliziotto fosse ucciso in una manifestazione, colpito dai dimostranti con armi da fuoco.<br />

Sarebbe quello che è utile per iniziare. Il Capo dello Stato e il governo potrebbero dichiarare lo stato<br />

d’emergenza”. Più avanti ritroveremo il giovane diplomatico Peter Bridges, che parlava<br />

fluentemente l’italiano, nei contatti che a fine 1969 l’ambasciata Usa intraprende, indirettamente,<br />

con il Pci.<br />

Anche nel ‘70-’71, come abbiamo visto, l’altro problema centrale dello scacchiere politico italiano<br />

è chi andrà al Quirinale dopo Saragat: Moro o Fanfani. I documenti americani danno conto di quella<br />

che definiscono quasi una “ossessione” della politica italiana e tra i due contendenti gli analisti<br />

americani indicano un outsider che farà strada, Sandro Pertini.<br />

Si sa che se Moro scalerà il Colle si potrà realizzare quella “Repubblica Conciliare’’ che tanto<br />

spaventa giornali come Il Borghese e Candido. Nel 1969 si parla di “nuovo patto costituzionale”<br />

(De Mita) e di “centrosinistra senza preclusioni” (De Martino). Nel 1978 di “compromesso storico”,<br />

ma il problema è lo stesso, e questo lega indissolubilmente la strage di Piazza Fontana a via Fani.<br />

Anzi la strada che porta in via Caetani, alle spalle di Botteghe Oscure, inizia proprio quel 12<br />

dicembre del 1969 ed ecco perché la strage del dicembre e l’omicidio di Aldo Moro rappresentano<br />

gli architravi del terrorismo italiano.<br />

Subito dopo la strage, Kissinger non esclude che le bombe siano di destra: “La polizia italiana sta<br />

arrestando anche i neofascisti con trascorsi terroristici”. Tra gennaio e febbraio né Rumor, né Moro,<br />

né Fanfani riescono a formare un governo: l’Italia sembra lì lì per naufragare. A marzo, tra mille<br />

dubbi, come già ricordato, ci riesce nuovamente Rumor.<br />

Veneto, noto per la sua mitezza, era citatissimo nelle strade dai giovani di destra grazie allo slogan<br />

“Le bombe fanno Rumor”. Dopo la strage, ricorda un suo stretto collaboratore di allora,<br />

Piervincenzo Porcacchia, andò in Galleria a Milano per far vedere che tutto era sotto controllo e che<br />

bisognava stare tranquilli. Però, Porcacchia ricorda anche che “in quei mesi arrivavano i giornalisti<br />

stranieri che facevano sempre la stessa domanda: ‘Che cosa ne sapete di un imminente colpo di<br />

Stato?’”.<br />

<strong>Paolo</strong> Emilio Taviani ha escluso con decisione che Rumor potesse essere il terminale della strategia<br />

stragista e quindi indotto a proclamare lo stato di emergenza all’indomani della bomba di Piazza<br />

Fontana. “È falso perché Rumor caratterialmente era incapace non solo di farlo ma anche di<br />

pensarlo”. È un fatto che Ordine Nuovo tentò più volte di uccidere Rumor per vendicarsi di<br />

qualcosa. Tentarono con Vincenzo Vinciguerra, nel 1971, (“doveva pagare perché ha tradito. Non<br />

ha approfittato della situazione, si è tirato indietro”, come gli disse Delfo Zorzi proponendogli<br />

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l’omicidio) e poi con l’ambiguo attentato di Gianfranco Bertoli, sedicente anarchico, ma ricattato<br />

dal gruppo ordinovista veneto, secondo l’inchiesta Salvini.<br />

Guido Salvini afferma che Rumor si defilò non avallando le richieste che venivano dal Quirinale fin<br />

dalla stessa sera del 12 dicembre.<br />

Vedremo che c’è qualche traccia di tutto questo tra le carte.<br />

Il problema, come affermano i “pentiti” dell’inchiesta Salvini, era che Ordine Nuovo (e non solo<br />

lui) “si aspettava” la proclamazione dello stato d’emergenza nazionale con relative sospensioni di<br />

alcune garanzie costituzionali. Ma in politica le aspettative sono tante quante le delusioni.<br />

Due linee strategiche si intersecano e si ricompongono: anzi, cerchi concentrici che si ignorano ma<br />

si sostengono l’uno con l’altro, creando un accadimento, un fatto, una strage, con la forza dei<br />

singoli cerchi che puntano, richiudendosi politicamente ed operativamente, sempre più al centro; al<br />

punto zero. Una spiegazione che è stata avallata da uno dei più stretti collaboratori di Aldo Moro,<br />

Corrado Guerzoni, con le parole pronunciate, nel 1995, davanti alla Commissione stragi. Se si<br />

riflette su questa descrizione, a suo modo esemplare, tutto diventa politicamente intelligibile. “Al<br />

livello più alto si dice che il paese va alla deriva, che ha dei grossi problemi, che i comunisti<br />

finiranno per avere il potere anche a causa dei propri errori e che si deve fare qualcosa. Tra questo<br />

cerchio e il successivo apparentemente non c’è un collegamento, perché sono appunto cerchi<br />

concentrici, equidistanti l’uno dall’altro. Sappiamo però che c’è una forza sottostante, una sorta d’<br />

onda lunga che li fa tenere in sintonia e li sprigiona. Al cerchio successivo si dice: ‘Guarda che sono<br />

preoccupati, che cosa possiamo fare?’. Nel nostro ambito dobbiamo fare questo, questo ancora,<br />

dobbiamo vedere di influire sulla stampa, eccetera’. Così si va avanti fino all’ultimo livello, quello<br />

che dice: ‘Ho capito’. E succede quello che deve succedere. È la costruzione sistematica di un clima<br />

che, così come per il potere e il comando, chi lavora è sempre all’ultimo livello, così anche in<br />

questo caso. Ognuno non ha mai la responsabilità. Se lei va a chiedere a questo ipotetico onorevole<br />

se lui è la causa di piazza Fontana, le risponderà di no, ammesso che sia in buona fede. In realtà è<br />

avvenuto questo ed è accaduto sempre più sistematicamente, perché la Dc era un partito<br />

sostanzialmente moderato”. Così, almeno uno dei cerchi si sente “coperto” e “autorizzato” a<br />

muoversi, magari autonomamente, anticipando tempi e modi di un percorso d’innalzamento dello<br />

scontro che era stato ipotizzato come più lungo e con passaggi non segnati dal sangue ancora per<br />

molto tempo. Ecco perché probabilmente senza il “cerchio” che faceva riferimento a Rumor non ci<br />

sarebbe stato quello che faceva riferimento a Saragat, e viceversa. Senza On non ci sarebbe stata<br />

An, senza il Sid non ci sarebbe stato l’Ufficio Affari Riservati del Viminale.<br />

Il quotidiano inglese The Observer, il 6 dicembre, lo stesso giorno in cui diventa irreperibile a<br />

Milano Giangiacomo Feltrinelli, pubblica un articolo in cui si sostiene che la Grecia sta preparando<br />

un golpe in Italia. Nei giorni successivi, il giornale inglese attacca duramente Giuseppe Saragat<br />

denunciando la sua “strategia della tensione” che aveva indirettamente incoraggiato l’estrema destra<br />

a passare al terrorismo. Dopo la strage, Londra denuncia un piano “da paura”: “L’inaspettata<br />

moderazione dell’autunno caldo minacciava di liquidare la paura della rivoluzione sulla quale aveva<br />

puntato l’intero schieramento di destra, dai socialdemocratici ai neo-fascisti. Quelli che hanno fatto<br />

esplodere le bombe hanno riportato indietro quella paura”. Una spiegazione chiara e convincente.<br />

Il 14 dicembre il giornale inglese, “imbeccato” dai servizi di Londra, come vedremo, avanza una<br />

analisi della scissione socialista e dei suoi fini reali: Saragat “stava cercando più che influenzare i<br />

socialisti, di spostare la Dc verso la destra. Il calcolo era che il governo Rumor sarebbe caduto a<br />

causa delle agitazioni nel settore industriale, che elezioni di emergenza si sarebbero tenute nel<br />

nuovo anno e che la paura del comunismo avrebbe spazzato via alle elezioni la forte corrente di<br />

sinistra della Dc. Questo avrebbe eliminato la possibilità di una coalizione con i comunisti”.<br />

Gli attacchi da Londra si susseguono, tanto che si arriva a un passo ufficiale di protesta<br />

dell’ambasciatore italiano nella capitale inglese (non si capisce se effettivo o “mimato” per la<br />

stampa). Il 20 gennaio, l’Evening Standard scrive: “Al momento del panico, dopo la bomba, il<br />

Presidente italiano, sostenuto da potenti forze economiche, aveva progettato una strategia della<br />

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tensione, tra cui lo scioglimento del Parlamento. Questo era un segreto che tutti in Italia sapevano,<br />

ma di cui nessuno poteva scrivere”.<br />

Nel 1975 Lino Jannuzzi pubblica su L’Espresso un articolo nel quale afferma che se si vuole sapere<br />

perché la Cassazione bloccò l’inchiesta del giudice D’Ambrosio, quando questi stava per<br />

interrogare l’ex capo dei servizi segreti Eugenio Henke, bisogna chiederlo a Saragat e Moro.<br />

Jannuzzi cita a lungo il capo dei servizi segreti Vito Miceli, uomo di Moro, che nell’articolo si<br />

difende così: “Io ho continuato a fare ciò che faceva il mio predecessore, l’ammiraglio Henke. E chi<br />

ha messo e mantenuto al Sid l’ammiraglio Henke se non Saragat e Moro? Chi ha indirizzato e<br />

coperto la gestione Henke, prima della mia gestione?”. Miceli accusa per difendersi, ma lega<br />

sistematicamente Saragat e Moro. Sta evocando un patto segreto? “Chiedete a Saragat, chiedete a<br />

Moro, domandategli di sciogliermi dal segreto militare, e io vi racconto che cosa ho ereditato da<br />

Henke, che cosa Henke ha fatto, come me, prima di me, più di me, sotto l’ombrello di Saragat al<br />

Quirinale e di Moro a Palazzo Chigi”. E Jannuzzi dà un altro affondo rivelando che Leslie Finer,<br />

l’autore dell’articolo sul The Observer, “non era soltanto un giornalista; era collegato ai servizi<br />

inglesi, all’Intelligence Service. Le accuse che in quello stesso periodo furono pubblicate a Londra<br />

dallo stesso giornale, e che indicavano nel Presidente Saragat lo stratega principale della tensione,<br />

non erano solo il frutto d’inchieste giornalistiche. Erano basate su informazioni riservate raccolte in<br />

Italia dai servizi greci e dai suoi agenti collegati con il Sid dell’ammiraglio Henke e con gli ‘amici’<br />

che Henke vantava al palazzo del Quirinale”. Saragat rispose, via agenzia, nel giro di poche ore,<br />

dicendo, e non è un caso, che l’articolo comparso su The Observer “fu scritto nella libreria<br />

Feltrinelli di via del Babbuino, a Roma. E questo spiega tutto”. Spiega tutto, perché, come ha<br />

dimostrato l’inchiesta del Pm Salvini, l’obiettivo di una delle due cordate all’opera era certamente<br />

l’editore “rosso”, l’unico che potesse portare al Pci, attraverso anarchici e gruppi limitrofi, come<br />

Lotta Continua, dato che da tempo lavorava a una struttura militar-resistenziale – i Gap – che già<br />

all’epoca era quasi operativa.<br />

Ed ecco Valpreda, il ballerino anarchico, il “mostro”, che già il 27 del 1969 novembre temeva di<br />

essere ormai in mano alla Questura di Roma, prigioniero di un gioco molto più grande di lui,<br />

“l’Oswald italiano” secondo Epoca, un settimanale particolarmente informato in quelle settimane<br />

ma anche in altri periodi cruciali, come abbiamo visto. Scriveva il ballerino ai suoi avvocati<br />

milanesi Mariani e Boneschi, a proposito dei dubbi sulla presenza di una spia nel circolo 22 Marzo:<br />

“La situazione è brutta, abbiamo avuto notizia che ieri, anzi questa notte, si è tenuta a Roma una<br />

riunione segreta fra alcuni militari di carriera, forze di polizia e due cardinali, alcuni industriali e<br />

magistrati, per cercare di far applicare alla lettera il Codice Rocco”. Valpreda disse ai magistrati,<br />

dopo l’arresto, che la voce veniva da due paracadutisti che parlavano di un colpo di Stato: la sinistra<br />

extraparlamentare sa anche la data, il 12 dicembre.<br />

Il 9 dicembre (il 10 a Padova si comprano alcune delle valigie usate per la serie di attentati, e a<br />

Roma si decide che un gruppo composito di Avanguardia Nazionale e di Ordine Nuovo andrà a<br />

Milano “per buttare tutto all’aria”), Mauro Ferri, tra i massimi esponenti dei socialdemocratici,<br />

lancia l’idea di un ritorno al centrismo con Dc, Psu e Pli “nel caso si presenti la drammatica<br />

necessità di garantire la libertà come con la crisi del luglio 1960”, cioè come accadde con lo<br />

sciopero generale contro il governo Tambroni appoggiato dalle destre.<br />

E quindi il cerchio si chiude: tutto il vortice messo in moto da Aldo Moro nel novembre 1968<br />

sprigiona tutta la sua forza. Il “Segreto della Repubblica” è il golpe caldeggiato, solleticato,<br />

stuzzicato da forze istituzionali che avevano perso la forza e la capacità di risolvere la crisi per via<br />

interne al sistema politico: una bomba che puntava a “innescare” il golpe militare, scelta alla fine<br />

venuta meno per il “tirarsi indietro” di alcuni settori della Dc. E sarebbe interessante sapere che<br />

ruolo abbiano avuto in questa scelta <strong>Paolo</strong> VI e la Chiesa .<br />

Lo smilzo pamphlet del 1978, nato dalle interpretazioni e dalle notizie in mano dei servizi inglesi,<br />

ha rivelato con il tempo tutta la sua forza di analisi. Tanto da indurre un giudice a chiedere<br />

all’autore quali fossero le fonti di una così chiara ricostruzione, che vedeva nello scontro tra Saragat<br />

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e Moro, risolto alla fine con la sostituzione del saragattiano Mario Tanassi al posto del moroteo<br />

Luigi Gui (lo stesso che il 22 dicembre, prima che Moro incontri il Presidente della Repubblica al<br />

Quirinale, gli fa avere il rapporto del colonnello Pio Alferano dove si indica con chiarezza la regia<br />

fascista della strage) nel fondamentale dicastero della Difesa (cioè alla guida politica dei servizi<br />

segreti) e la contemporanea “sterilizzazione” dell’indagine sulla pista neofascista, della crisi<br />

politico-istituzionale (e probabilmente militare) del dicembre 1969.<br />

Il tutto si risolve il 23 dicembre del 1969.<br />

Ora tocca a Moro affrontare Saragat. In quell’occasione viene stipulato un vero e proprio accordo<br />

politico che prevede, da parte del Psdi, l’abbandono della pregiudiziale anti-Psi e il proposito di<br />

sciogliere anticipatamente le Camere con connesse eventuali “folli avventure”, mentre Moro<br />

s’impegna a non trasmettere o utilizzare il rapporto Alferano; il che significa accantonare, al di là<br />

della volontà della magistratura, la “pista nera”.<br />

Ma qual era l’obiettivo politico di Saragat? A cosa puntava il Presidente della Repubblica? A<br />

svelarlo, quando Saragat è ancora vivo, è l’ex direttore de La Nazione e notista politico de Il Tempo<br />

Enrico Mattei, un giornalista di destra noto per la sua correttezza e la grande professionalità che<br />

all’epoca aveva più che altro un ruolo importante e riconosciuto di ‘alto consigliere’ dei politici.<br />

“La teoria della ‘strategia della tensione’ non risparmiava il Quirinale – scrive – anzi lo considerava<br />

il centro promotore, con l’accusa che veniva riecheggiata persino da autorevoli giornali inglesi di<br />

seria tradizione. […] Chi fu vicino a Saragat in quei momenti non poté non ammirare la fermezza<br />

con cui fece fronte alla più grave tempesta politica e istituzionale che abbia investito la Repubblica<br />

italiana. Fu in questa congiuntura politica procellosa che una mattina venni chiamato al telefono a<br />

Firenze: il Presidente della Repubblica avrebbe gradito fare colazione con me. L’indomani ero a<br />

tavola con lui nella palazzina Einaudi a Castel Porziano. Eravamo in tre, c’era anche il figlio di<br />

Saragat, Giovanni, giovane diplomatico temporaneamente occupato alla Presidenza della<br />

Repubblica. Dopo il caffè Giovanni tuttavia si alzò, salutò e si ritirò. Mi disse allora il Presidente<br />

che egli considerava con accresciuta angoscia la crisi della Repubblica democratica, a suo parere<br />

avviata alla paralisi funzionale. ‘La generazione della Costituente, la generazione di De Gasperi non<br />

ha eredi – mi disse –. C’è un’ondata di anarchia spesso violenta che assale da ogni lato. Manca una<br />

classe politica che la sappia fronteggiare. Ogni giorno lo Stato è costretto alla capitolazione. In<br />

queste condizioni mi sono più volte chiesto se non sarebbe toccato a me il compito di prendere<br />

qualche iniziativa per la salvezza della Repubblica. Ora vorrei sentire il suo parere. Non dovrei<br />

dimettermi da questa carica subito dopo aver sciolto il Parlamento, e assumere io la guida di una<br />

campagna elettorale di riscossa democratica, del tipo di quella che procurò la grande, decisiva<br />

vittoria del 18 aprile 1948?’ La mia risposta fu molto semplice. Osservai che le deformazioni che la<br />

Repubblica italiana aveva subito non erano piovute dal cielo, erano il frutto della gramigna<br />

partitocratica insinuatasi in tutte le strutture costituzionali. Un appello al popolo non ci avrebbe dato<br />

che un Parlamento simile se non peggiore di quelli degli ultimi anni. Se De Gaulle era riuscito a<br />

‘rifare’ la Repubblica in Francia, consunta dai nostri stessi mali, era stato perché aveva potuto fare<br />

approvare al Paese un progetto di riforma che estirpava le radici della partitocrazia. Ma per<br />

realizzare questo disegno c’era voluto il colpo di Stato di Ajaccio e di Parigi. C’era voluto il<br />

colonnello Massu, c’erano voluti i paracadutisti di Algeri e della Francia metropolitana. ‘Ma lei,<br />

signor Presidente, se la sente di mettersi su questa strada? E dove li trova i colonnelli Massu? E che<br />

cosa succederebbe in Italia se lei annunciasse con un suo proclama la sospensione quadrimestrale<br />

della Costituzione, affidando alle cinque più alte cariche dello Stato una riforma costituzionale<br />

risanatrice, da mettere in votazione con un referendum? Se anche prendesse l’impegno di costituirsi<br />

all’Alta Corte di Giustizia, nel caso che il referendum le fosse contrario, l’operazione sarebbe<br />

possibile?’ Saragat apparve contrariato dal mio discorso, facendomi capire che non avrei dovuto<br />

permettermi di avanzare una simile ipotesi alla sua presenza. ‘Comunque – mi disse – quello che si<br />

è fatto in Francia non sarebbe possibile in Italia. Sono stato ambasciatore a Parigi (oltreché esule) e<br />

conosco bene quel Paese. Ma io avevo desiderato conoscere il suo parere su ben altro disegno,<br />

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concepito nel quadro di una assoluta ortodossia costituzionale. I colpi di Stato non mi interessano,<br />

anche se sono convinto ammiratore di ciò che ha potuto fare De Gaulle in Francia”.<br />

È facilmente deducibile che la proposta fatta da Mattei del quadrumvirato (il “direttorio” di cui<br />

parlava L’Unità?) o era stato proposto nella conversazione da Saragat, oppure era a diretta<br />

conoscenza di Mattei. Certamente il direttore non avrebbe potuto citare un tale dettagliato piano di<br />

“forzate riforme” nella sua replica al Presidente, se non gli fosse stato quantomeno esposto dal<br />

Presidente o da lui confermato.<br />

Il magistrato Gerardo D’Ambrosio, dopo la sentenza della Cassazione che ha chiuso<br />

definitivamente la vicenda giudiziaria sulla strage, ha affermato che per sapere qualcosa in più ci si<br />

dovrebbe rivolgere al leader di Ordine Nuovo, Pino Rauti (era lui che teneva i contatti con ambienti<br />

Dc?), e a Giulio Andreotti che svelò la natura di informatore di Guido Giannettini, anello di<br />

collegamento tra il Sid e la cellula ordinovista veneta di Freda e Ventura. D’Ambrosio aveva<br />

scoperto che Giannettini era stato assunto dal Sid dall’allora capo di Stato maggiore, e che<br />

l’ammiraglio Henke continuava a pagarlo con i soldi dei servizi segreti anche durante la latitanza.<br />

La domenica successiva la Cassazione tolse l’inchiesta a D’Ambrosio e la spedì a Catanzaro.<br />

Interrogato durante il processo a Catanzaro Giulio Andreotti escluse che tra i motivi che lo<br />

indussero a rilasciare l’intervista che svelava il ruolo d’ informatore svolta da Giannettini vi fosse<br />

una lettera di D’Ambrosio al capo dello Stato Giuseppe Saragat. Henke aveva certamente nascosto<br />

alla magistratura la notizia su Giannettini “per motivi superiori”.<br />

Per dare il senso concreto dell’incomprensione tra Saragat e Moro in quei mesi citiamo sempre<br />

dalla stessa inchiesta di Mattei. “Ricordo quanto Saragat poco stimasse gli uomini politici italiani<br />

che assumevano posizioni ambigue sul problema del comunismo. Una volta mi confidò il fastidio<br />

che gli procurava Moro, che regolarmente evitava di ricordare che l’Italia era nel patto Atlantico,<br />

preferendo ricorrere a circonlocuzioni come ‘la collocazione internazionale dell’Italia’, o altre<br />

simili. ‘Questo comportamento - mi disse Saragat - mi ricorda quello delle monache di un tempo<br />

che per non nominare certe parti del corpo le chiamavano pudende’” 60 .<br />

Certamente quello fu un periodo particolare che inizia nel 1967, come ricorda il generale<br />

Gianadelio Maletti, dell’Ufficio ‘D’ del Sid in anni successivi e accusato di aver fatto fuggire<br />

alcuni dei neofascisti coinvolti nelle inchieste. Quando deve spiegare quelle sue azioni il generale<br />

dice di aver “ereditato” una certa situazione che si era determinata proprio in quegli anni, con la<br />

presenza di neofascisti con funzioni informative, e non solo, nei servizi segreti. Una “infiltrazione”<br />

frutto della paura del ‘nuovo’ che stava covando ma anche dell’affermarsi di teorie, prassi,<br />

manualistica e ‘logica d’ intervento’ legate ad una visione di contrasto attivo del ‘fronte interno’,<br />

cioè dei partiti e movimenti di sinistra. La ‘guerra’ era in casa anche se a ‘bassa intensità’ militare e<br />

ad ‘alta intensità’ sociale e politica e tutte le armi potevano e dovevano essere utilizzate.<br />

Una situazione politica poteva e doveva essere ‘costruita’, se necessario, e la strage, i suoi<br />

presupposti, lo furono con un sapiente, complesso e articolato gioco di specchi tra politici, servizi e<br />

neofascisti che infiltrarono e in alcuni casi condizionarono molti gruppi della nascente sinistra<br />

estraparlamentare. Ma anche nella Dc come accadrà con On a Mestre, come svelò un processo<br />

promosso da Lotta Continua, in settori del Psi, e in altri gruppi e partiti a livello locale.<br />

Vincenzo Vinciguerra intervistato nel carcere dove sconta la condanna per l’attentato di Peteano dà<br />

la sua interpretazione del 12 dicembre 1969. Una lettura interessante perché introduce un’ulteriore<br />

variante nel gioco a specchi tra politici e gruppi dell’estrema destra. “Il 12 dicembre non è un colpo<br />

di Stato che rovescia, che muta il regime, assolutamente no; è la proclamazione dello stato<br />

d’emergenza che rafforza il regime, elimina le opposizioni che sono da eliminare, a mio avviso<br />

anche le destre”. “Il 12 dicembre ha rappresentato il massimo momento di consenso, sul piano<br />

politico, di tutte le forze anticomuniste”, che subito dopo però litigano sulla strategia da sviluppare<br />

e soprattutto sulla ‘gestione’ della strage e delle sue conseguenze quando non accade quello che ci<br />

si attendeva. Ben diverso sarebbe stata la situazione se invece che 17 morti colpevoli solo di essere<br />

60 Enrico Mattei, “Saragat all’alba degli anni di piombo”, Il Giornale, 20 giugno 1985.<br />

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nel posto sbagliato di morti ce ne fossero stati 100. Le cose in quel caso sarebbero andate,<br />

probabilmente, in maniera diversa da come si sono sviluppate. Ma i ‘se’ poco aiutano a capire<br />

quello che in effetti accadde.<br />

Il ruolo di Rumor? “Direi che ha alzato gli elementi veneti, e non soltanto veneti, lui e Flaminio<br />

Piccoli che ha pesantissime responsabilità politiche mai evidenziate da alcuno, in tutta questa<br />

strategia chiamata della tensione”<br />

E Vinciguerra spiega la catena di ricatti che si sviluppò in Ordine Nuovo durante le indagini, con<br />

Franco Freda che “detta” a Marco Pozzan le parole che serviranno a motivare l’arresto del leader di<br />

On accusato di aver partecipato alla riunione del 18 aprile 1968 a Padova che diede il via alla<br />

strategia delle bombe. “E’ un avvertimento preciso, come un avvertimento ad un’intera classe<br />

politica e militare doveva essere l’eliminazione di Rumor. Nel momento in cui c’è il massimo di<br />

consenso da parte di tutte le forze anticomuniste, qualcosa o qualcuno impediscono di proclamare lo<br />

stato di emergenza. Quindi tutto quello che si è fatto diventa praticamente inutile. Non è da<br />

escludere che fra le persone che non se la siano sentita di arrivare alla proclamazione dello stato di<br />

emergenza, ci sia Rumor. Ma la rappresaglia contro di lui non scatta per questa decisione che<br />

probabilmente è influenzata dagli Usa, da eventi, da pressioni internazionali. Scatta dopo, quando<br />

per la prima volta (aprile del 1971 , NdA) Freda e Ventura vengono arrestati.” Allora nascono anche<br />

i dubbi sull’effettivo ruolo di Pino Rauti e “non a caso gli avvertimenti giungono uno a lui, con<br />

l’arresto, uno a Rumor con il tentativo di eliminazione, di omicidio”. Infatti nel settembre del 1971<br />

da Vinciguerra si presentano Maggi e Zorzi “chiedendo di eliminare Rumor”. Proposta rilanciata<br />

nel marzo del 1972:. “Io avrei fatto più che volentieri questo tipo d’operazione, un atto di giustizia<br />

politica, ma l’errore che compiono è quello di dirmi che non avrei avuto problemi perché c’era<br />

l’accordo con la scorta. A questo punto mi fermo”.<br />

- Ma perché uccidere Rumor?<br />

“Le motivazioni vere non me le dicono, affermano che è stato programmato un piano per eliminare<br />

alcune personalità politiche e fanno anche il nome di Moro, fanno il nome anche di altre persone.<br />

Alla fine non se ne fa nulla e c’è, nel maggio del 1973, la bomba alla questura di Milano, che<br />

doveva essere contro Rumor, di Gianfranco Bertoli.<br />

- Rumor è l’unico Dc oggetto di un attentato ad un politico, perché?<br />

“Chi agisce, ha agito sul piano operativo, compiendo un atto come quello di Piazza Fontana, non<br />

intende essere chiamato a risponderne di fronte alla magistratura di un paese che è guidata, asservita<br />

al potere politico, che è poi quello che ha determinato la strage di Piazza Fontana. Che prove<br />

possono portare? Chi potrebbe credere alle parole di una persona accusata di strage che chiama in<br />

causa il Presidente del Consiglio? Nessuno”.<br />

“La caratteristica della strage – dice ancora l’ex componente di On e An - è quella di colpire nella<br />

massa; ed è ciò che diceva Guerin Serac ed è quello che dicono i manuali dei servizi segreti<br />

francesi poiché l’Oas è una espressione di una parte dei servizi segreti francesi.(…) Il<br />

coinvolgimento dell’Aginter Press nelle vicende italiane comincia nel 1967-1968 nella ispirazione e<br />

nella direzione per l’esperienza che proveniva agli ufficiali francesi che avevano fatto parte<br />

dell’Oas di quelle che sono le tattiche di infiltrazione e sovversione; sono loro che addestrano<br />

principalmente gli italiani a fare poi quello che hanno fatto, sono loro che mandano i manuali. I<br />

francesi hanno addestrato gli italiani. Jean Denis era uno di questi, l’ho conosciuto personalmente.<br />

Addestrarono noi di Avanguardia Nazionale; c’insegnarono le tecniche.” 61 Vedremo che accanto ai<br />

francesi dell’Oas ci sono anche i tedeschi della rete dell’ex nazista Reinhard Ghelen, capo per molti<br />

anni del servizio segreto della Germania dell’Ovest.<br />

Quando esplode la bomba di Piazza Fontana, Moro è a Parigi dove presiede la riunione del<br />

Consiglio d’Europa che ha appena espulso la Grecia dei colonnelli – e questo pesa nella scelta del<br />

giorno della strage - Rumor è a letto, come molti altri milioni d’ italiani con l’influenza e Forlani,<br />

Segretario della Dc chiama il responsabile milanese del partito, Camillo Ferrari chiedendo di essere<br />

61 Intervista dell’autore a Vincenzo Vinciguerra<br />

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informato di tutto ogni mezz’ora. “L’impressione di Ferrari è che a Roma, in Piazza del Gesù, si<br />

tema il peggio e ci si prepari al peggio” 62 . Nelle sue memorie Mariano Rumor annota commentando<br />

l’immediato dopo-strage: “Era un segno di un attacco allo Stato? Era l’inizio di una rivolta<br />

terroristica contro i cittadini per colpire le istituzioni?”. Rumor decide di rivolgersi direttamente alla<br />

nazione dal tg delle 20. Non sembra avvertire nessuno di questa sua iniziativa. Subito dopo è<br />

previsto un Consiglio dei ministri notturno “per dare al paese la certezza che tutto il governo era<br />

consapevole della gravità della situazione e deciso a contrastare ogni tentativo d’intimidazione, di<br />

sovversione e di violenza”. A folle corsa su una macchina con pochi amici, senza scorta, Rumor va<br />

verso via Teulada, sede degli studi dei Tg.“I tempi stringevano e bisognava correre ogni rischio per<br />

non perdere la possibilità di parlare al primo tg della sera, dando un segno di immediatezza della<br />

reazione del governo all’evento tragico che aveva sconvolto la coscienza nazionale”. L’appello fu<br />

improntato a una dura condanna e al richiamo ai valori della Costituzione. “Occorre, cittadini, che<br />

ognuno di noi si riconosca nella legge, si senta parte di una comunità che può perdere se stessa se<br />

non si unisce alla legge che la garantisce e la difende”. 63 Andò bene. L’appello stemperò lo<br />

sbandamento: “C’era un Governo che aveva precisa la dimensione drammatica e rischiosa degli<br />

eventi ed era deciso a fronteggiare ogni attacco alla pace e alla serenità degli italiani e alla sicurezza<br />

dello Stato”. 64 Subito dopo il Consiglio dei ministri notturno che fu “più un fatto politico che<br />

operativo” 65 , Rumor s’incontra con Piccoli e Forlani e si decide di riproporre subito la formula di<br />

centrosinistra. Poi Milano, i funerali, con Nenni che piange in Duomo e l’invito a Rumor di uscire<br />

da una porta laterale per evitare problemi. “E’ un ricordo che non mi si cancellerà mai dalla mente.<br />

Una folla pressoché tutta di lavoratori gremiva la piazza del Duomo e gli accessi circostanti; senza<br />

vessilli, senza bandiere: era il popolo di Milano…”. “Nella mia vita politica non ricordo di aver<br />

partecipato ad un momento di tanta compostezza, di tanta austerità, di tanto rispetto: per i morti e<br />

per quelli che li avevano perduti”. Rumor sottolinea: “La partecipazione al funerale di Milano mi<br />

aveva infuso una strana fiducia di poter superare le tremende difficoltà che mi si paravano<br />

davanti” 66 . Il 23 mentre si svolge al Quirinale l’incontro Moro-Saragat Rumor vola a Milano per<br />

incontrare nuovamente i feriti.<br />

Per capire fino in fondo come si sia arrivati a tanto si deve ritornare nuovamente al fondamentale<br />

novembre 1968. Dopo il maggio francese, l’emarginazione di Moro, il suo “rientro” su posizioni<br />

nuove. “Era molto cambiato. Aveva avuto un periodo di calma e di riflessione e poi era tornato alla<br />

vita politica, ma in maniera nuova. E’ da quella pausa che emerge la sua elaborazione sul grande<br />

cambiamento in atto nella società (‘tempi nuovi si annunciano’) 67 . Nascono i ‘morotei’ e poche<br />

settimane dopo, a Battipaglia, la polizia spara su braccianti agricoli in lotta da 10 giorni per ottenere<br />

la parità retributiva: 2 morti e 50 feriti. Il 19 gennaio il Consiglio Nazionale elegge Piccoli<br />

segretario della Dc con 85 voti a favore, 87 bianche e 5 nulle. 19 “franchi tiratori” votano con la<br />

sinistra che annovera morotei, Forze Nuove e Base. Moro attacca duramente il suo partito. Il<br />

Secolo d’Italia scrive a commento: “Se un uomo della prudenza e dell’attendismo dell’ex<br />

Presidente del Consiglio si è deciso ad un passo che lo pone al di sopra di tutti, perché lo pone<br />

contro tutti, significa che veramente la casa democristiana brucia; significa, cioè che nella Dc la<br />

situazione è insostenibile anche per il più consumato e calcolatore dei suoi personaggi”. A fine<br />

febbraio la visita di Nixon e forse le richieste Usa si sommarono alle suggestioni del Presidente<br />

della Repubblica e di quello del Consiglio. Nixon è accompagnato a Roma dal generale Walker che<br />

incontra riservatamente i generali Aloja e De Lorenzo. Il Secolo d’Italia esce a tutta pagina con il<br />

titolo “Il governo commissiona al Pci le manifestazioni contro Nixon” criticando duramente la<br />

politica di “scivolamento” fuori dalla Nato attuata da Nenni alla Farnesina. Stefano Delle Chiaie e i<br />

suoi picchiatori partecipano alla manifestazione contro la visita di Nixon con dei braccialetti rossi e<br />

62 AaVv, Le bombe di Milano, Guanda Editore, Milano, 1970,p.77<br />

63 Tutte le citazioni sono tratte da, Mariano Rumor, op.cit.<br />

64 Ibidem<br />

65 Ibidem<br />

66 Ibidem<br />

67 Agnese Moro, op.cit.,p.51<br />

48<br />

48


distintivi comunisti. Alcune delle molotov lanciate contro uffici di società Usa a Roma sono<br />

scagliate dai gruppi infiltrati. Roma è tappezzata di manifesti che riportano questo slogan:<br />

“Attenzione Nixon! L’Italia si prepara a tradire gli impegni Atlantici sottoscritti con gli Stati Uniti e<br />

a portare i comunisti al potere”.<br />

Il Pci affronta il nodo dei rapporti con l’Urss dopo l’invasione della Cecoslovacchia al congresso di<br />

Bologna che nomina Berlinguer vicesegretario del partito. Una settimana dopo alla Direzione Dc<br />

Moro rilancia la sua “strategia dell’attenzione” verso i comunisti italiani.<br />

A marzo il dialogo avviato da Moro fa esplodere le contraddizioni nel Partito socialista unificato:<br />

“De Martino vanta la vittoria della sua politica che ha portato all’inserimento dei comunisti nella<br />

maggioranza e al superamento degli accordi programmatici”, scrive Il Secolo d’Italia. De Martino,<br />

vicepresidente del Consiglio, non aveva preso parte agli incontri con Nixon. Rumor attribuisce la<br />

causa ad un disguido del cerimoniale. Nenni, Ministro degli Esteri, sostiene l’oppositore del regime<br />

dei colonnelli, Papandreu, anche ‘operativamente’ attraverso la corrente che fa capo a Giacomo<br />

Mancini. Il Ministro degli Esteri lo incontra a Roma. Passo diplomatico di Atene e la destra parla<br />

subito di “sabotaggio alla Nato”. A Verona una bomba esplode il 22 aprile nell’atrio del palazzo<br />

della Coldiretti. L’inchiesta Salvini indica questo episodio come l’inizio della “strategia delle<br />

bombe” da parte del gruppo ordinovista veneto. Intanto cinque milioni di operai ed impiegati si<br />

preparano al rinnovo di 32 contratti di lavoro. Tra di loro 1 milione e 270 mila metalmeccanici,<br />

350.000 chimici, 800.000 edili, 1 milione e mezzo di braccianti. Confindustria e partiti moderati si<br />

chiedono se dopo il maggio francese ci sarà un ottobre italiano.<br />

“Come un arazzo – scrive Le Monde- gli episodi della vita italiana si sommano per dare<br />

l’impressione globale di una crisi profonda che potrebbe sboccare in una catastrofe”. Quasi con le<br />

stesse parole del quotidiano francese Nenni ha più volte, in quelle settimane, avvertito i suoi che il<br />

pericolo di un fallimento del centrosinistra non è l’apertura al comunismo, “la Repubblica<br />

conciliare”, ma una svolta se non proprio autoritaria, almeno di tipo moderato. Il 25 aprile bombe<br />

(fasciste) alla Fiera di Milano e al padiglione della Fiat. Due bombe anche alla Stazione centrale del<br />

capoluogo lombardo. L’indomani L’Unità scrive di “gravissime provocazioni”. “ Chi si trova dietro<br />

questi attentati. A chi servono? Le indagini della polizia non danno nessuna risposta, e intanto la<br />

stampa borghese mescola nel notiziario le esplosioni verificatesi in questi giorni alle provocazioni<br />

fasciste consumate nell’anniversario della Liberazione ad episodi di tipo completamente diverso,<br />

con lo scopo di alimentare la campagna di chi vuole accreditare la tesi dell’esistenza di una ‘spirale<br />

della violenza’ per imporre soluzioni scelbiane e autoritarie ai problemi dell’ordine pubblico” Ci<br />

sono degli arrestati ma sono anarchici e il 27 aprile sempre L’Unità esce con questo titolo: “Che<br />

cosa c’è dietro lo strano comportamento della polizia? Campagna eversiva e aperte provocazioni di<br />

destra. Il settimanale inglese The Economist denuncia il grave pericolo di un ‘regime autoritario’ in<br />

Italia”.<br />

Quindi gli inglesi seguivano attentamente la situazione già da allora ed erano ben informati sul<br />

significato reale di quello che accadeva in Italia, così come il Vaticano, che dopo la bomba del 2<br />

aprile al Palazzo di Giustizia aveva commentato attraverso le colonne del suo quotidiano,<br />

L’Osservatore romano: “ Il commercio degli esplosivi non è come il commercio degli ortaggi. E<br />

poiché la polizia non sta certo inattiva e non manca di collegamenti e controlli, si deve concludere<br />

che le iniziative sciagurate contano su una immancabile complicità o connivenza od omertà”. Il<br />

settimanale Tempo annuncia che il Viminale sta studiando i “colori politici” delle bombe. Non tutte<br />

sarebbero rosse, anzi le più pericolose “sarebbero fasciste”. “Le prove giudiziarie ci sarebbero: ora<br />

si tratta di compiere un’azione di setacciamento nelle sedi dei groupuscules d’estrema destra per<br />

ottenere le controprove e procedere. Potrebbe darsi che l’operazione abbia a scattare tra non molto,<br />

anche in virtù di specifiche richieste parlamentari”. A Giovanni Ventura arriva il rapporto dei<br />

servizi segreti, stilato da Giannettini, che parla di contatti “segreti tra Dc e Pci per un accordo di<br />

governo”. Nel rapporto si aggiunge che gli Usa, venuti a conoscenza di queste trattative, hanno<br />

posto il loro veto e contemporaneamente, per evitare sorprese, “hanno disposto un massiccio<br />

49<br />

49


finanziamento delle organizzazioni di destra”. Il settimanale Abc pubblica un articolo, a firma di<br />

Gregory Hunt, che si qualifica giornalista inglese, in cui si parla di un prossimo colpo di Stato in<br />

Italia, “ parecchi già si sono messi a studiare il greco, lo Stato organizza pellegrinaggi a Samo, la<br />

Nato ha preparato un programma per l’intercambiabilità dei quadri superiori, fra Roma e Atene, e<br />

non sto a dirti il resto”. Hunt scrive di 700 uomini liberi che alla fine saranno posti “tutti in galera”.<br />

In giugno sempre Abc denuncia l’esistenza di un “Piano T” che potrebbe scattare in agosto. Un<br />

piano Nato coperto dal segreto militare. In luglio la scissione socialista . Nel partito le due ali sono<br />

convinte che per salvare la patria dai comunisti (Tanassi-Ferri) o dai colonnelli (De Martino) si<br />

debba comunque spaccare il Psi, dividerlo inevitabilmente. Alla vigilia della scissione Andreotti<br />

prende nella notte un aereo militare e vola in Usa. I settimanali scrivono, in sostanza, che l’Italia<br />

rischia di slittare a sinistra, verso il Pci, e ogni mezzo è lecito per impedirlo: “Questa convinzione si<br />

era fatta strada nell’entourage di Nixon, fin dal viaggio del presidente in Italia il 23 febbraio, e poi<br />

con le visite private, in America, del repubblicano La Malfa, del socialdemocratico Lupis, del<br />

democristiano Andreotti”. 68 Domenica 7 settembre c’è la rivelazione di un allarme Nato in Italia<br />

durato poco meno di due mesi. C’è stata la mobilitazione delle basi militari, di reparti speciali<br />

dell’esercito e dell’Arma. Dovevano essere occupate e presidiate le sedi della Rai Tv, dei ministeri,<br />

dei partiti e dei giornali. In giugno Giangiacomo Feltrinelli ha pubblicato l’opuscolo, più volte<br />

citato, sul rischio golpe in estate. 69 Durante il processo per il golpe Borghese il Prefetto Angelo<br />

Vicari, capo della Polizia dal 1960 al 1973, dichiara in aula che la “Questura conduceva indagini sul<br />

Fronte nazionale (l’organizzazione di Borghese, NdA), per una serie di tentativi di colpi di Stato<br />

messi in atto prima e dopo la famosa notte di ‘Tora Tora’. Di questi episodi, ripeto, se ne sono<br />

verificati più d’uno, quello che destò maggior allarme avvenne nel luglio del 1969”. L’autunno<br />

arriva; travolge ma non annienta. A novembre il ministro dell’Interno Restivo afferma che lo Stato<br />

“dispone di una forza tale da dissipare in poche ore qualsiasi tentativo eversivo. So quello che<br />

affermo e racconto meno di quello che so”. E quando si debbono far “ingoiare ai sindacati gli<br />

accordi più controversi il ministro del Lavoro offre come alternativa secca il “rischio dei<br />

colonnelli”. E il 19, nel corso degli scontri durante lo sciopero generale, muore il poliziotto Antonio<br />

Annarumma. Saragat invia un telegramma di fuoco. Durante i funerali, a Milano, c’è la caccia al<br />

“rosso”. Il 24 altro sciopero generale. Due manifestazioni dei metalmeccanici, il 28 e il 4 dicembre<br />

conclusero le trattative per i contratti di lavoro: la ‘fiammata’ attesa non aveva acceso il ‘fuoco’ che<br />

si desiderava. Bisognava aiutarlo.<br />

Obiettivo principale della contrattazione è l’abolizione delle “gabbie salariali” che consentono un<br />

trattamento economico per lo stesso lavoro diverso da regione a regione e soprattutto si vuole la<br />

rottura del legame tra aumento salariale e aumento della produttività. Il 2 dicembre Il Secolo<br />

d’Italia annuncia che il Msi mobilita la Nazione contro la violenza “rossa”. Quanto è accaduto<br />

“ricorda altri tempi e nel ricordo dei tempi richiama ad imperiosi doveri che qualcuno deve pur<br />

adempiere. Di qui l’alternativa rigida: lo Stato funziona e ricaccia i sovversivi nelle fogne, o<br />

qualcuno deve pur assolvere a tale funzione… di qui la funzione insostituibile del Msi”. Il 7 e il 9 il<br />

Psdi torna alla carica con la richiesta di elezioni anticipate . Durante il primo confronto con i<br />

segretari del centrosinistra, subito dopo la strage, Rumor dice: “Non voglio essere Facta”,<br />

rievocando la figura dell’ultimo Presidente del Consiglio di un governo liberale prima del fascismo.<br />

Il 15 il segretario del Msi, Giorgio Almirante, annuncia la confluenza di On nel Msi, maturata già,<br />

pur tra contrasti interni, a novembre. Il Corriere della sera dal 18 dicembre si schiera nettamente<br />

per la ricostituzione del centrosinistra organico. Il 21 Epoca, che era uscita con una copertina<br />

tricolore in concomitanza con la strage, come nel luglio del 1964, invocando ordine, scrive che “c’è<br />

ancora in Italia una larghissima maggioranza anticomunista. Basta chiamarla a raccolta con parole<br />

semplici e convincenti”. Il 22 Giorgio Almirante: “L’autunno caldo è finito, ora occorre l’unità<br />

dell’Msi per far fronte all’unità del sistema.”<br />

68 Abc, 25 luglio 1969.<br />

69 Giangiacomo Feltrinelli, Estate 1969. La minaccia incombente di una svolta radicale e autoritaria<br />

di destra, di un colpo di Stato all’italiana., opuscolo.<br />

50<br />

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Come dire che l’occasione politica è svanita, ora si deve essere uniti per i contraccolpi inevitabili.<br />

Dopo la strage Saragat invia un telegramma che suona incitamento all’azione diretta: “Tocca ai<br />

cittadini assecondare l’opera della giustizia e delle forze dell’ordine democratico nella difesa della<br />

vita contro la violenza omicida”. Saragat convoca un vertice al Quirinale proprio mentre Rumor<br />

corre a folle corsa verso via Teulada per inviare il suo appello alla nazione. Al Quirinale arrivano il<br />

ministro degli Interni, Restivo, il comandante dell’Arma, Luigi Forlenza e diversi esponenti dei<br />

“corpi separati”. “All’ordine del giorno c’è la proposta di proclamare lo ‘stato di pericolo pubblico’<br />

in base agli articoli 214 e seguenti del testo unico delle leggi di Ps. Si tratta di un provvedimento di<br />

estrema gravità che non è mai stato adottato in oltre vent’anni di vita repubblicana. Nel dibattere la<br />

proposta presidenziale, il ministro degli Interni fa presente al Capo dello Stato l’opportunità di<br />

ottenere il consenso del Presidente del Consiglio prima di proclamare lo ‘stato di pericolo’. Saragat<br />

si vede perciò costretto ad aggiornare la riunione in attesa che la mobilitazione delle forze moderate<br />

e di destra, già in corso in tutto il Paese, dia i suoi frutti” 70 . Rumor dirà un ‘no’ che peserà<br />

enormemente su quello che poteva accadere il 14 dicembre a Roma e il 15 nel corso dei funerali<br />

delle vittime che dovevano bissare la caccia al “rosso” dei funerali di Annarumma. Gli operai<br />

milanesi, sollecitati dal Pci e dall’intero fronte antifascista, impediscono quell’ulteriore salto<br />

nell’escalation del terrore. Restivo, su esplicita richiesta di Nenni, vieta la manifestazione del 14<br />

che doveva rappresentare la “parata per la vittoria”, con annessi incidenti che avrebbero dato<br />

l’occasione definitiva per la stretta antidemocratica. Lo ‘stato di pericolo’ avrebbe autorizzato a<br />

‘direttori’ o soluzioni golliste. Tutto quindi si gioca tra il 13 e il 22 dicembre quando il colonnello<br />

dei carabinieri Pio Alferano consegna a Gui, che lo passa subito a Moro, un rapporto che ha<br />

sfruttato le indicazioni stilate dal Sid nella famosa velina del 17 dicembre nella quale si parla di<br />

Delle Chiaie e di Guerin Serac, sia pur in veste di improbabile anarchico. Un documento che<br />

arriverà ai magistrati solo qualche anno dopo e manomesso in più punti. Non si riuscirà mai a capire<br />

quale ne fosse il nucleo originario dato che la fonte, il fascista-informatore del Sid Stefano Serpieri,<br />

ne disconoscerà la presunta paternità né gli uomini del Sid chiariranno durante i processi la logica<br />

delle ripetute manomissioni.<br />

Nelle ore dopo la strage a svolgere le indagini è il capitano Francesco Valentini. Con questo<br />

rapporto nella cartella Moro va da Saragat il 23 dicembre del 1969. Si arriva ad un accordo politico<br />

che avrà ripercussioni sulle indagini e sugli 11 processi per la strage di Piazza Fontana. L’intesa<br />

prevede da parte di Saragat l’abbandono di velleità di scioglimento anticipato della legislatura con<br />

relativo abbandono della pregiudiziale anti-Psi, da parte di Moro la rinuncia ad utilizzare l’indagine<br />

parallela condotta dal colonnello Alferano, il che significa “accantonare” la “pista nera” costruita<br />

sull’ambigua informativa del Sid. L’indomani Tanassi, considerato il portavoce di Saragat nel<br />

partito, critica apertamente il “famigerato diktat (quadripartito ‘pulito’ o elezioni anticipate) su cui<br />

si era basata la propaganda Psdi fin a quel momento.<br />

Anche Piccoli si adegua alla politica sostenuta dal trio Moro-Forlani-Andreotti.<br />

Poche settimane dopo Delle Chiaie viene “invitato a fare due passi” mentre attende di essere<br />

interrogato al Tribunale di Roma. E’ il colonnello Antonio Varisco a dargli il “consiglio” 71 . E sarà<br />

sempre Piero Zullino, che interviene su Epoca, vicino a Italo De Feo, legato a filo doppio con i<br />

socialdemocratici, a dare una ulteriore indicazione rilevante e piena ancora oggi di elementi che non<br />

sono stati sviluppati, probabilmente per qualche altro ‘patto’ contratto in quei giorni. Una<br />

indicazione che Pietro Valpreda sembra avallare, indirettamente, quando nel luglio del 2001 arriva<br />

la condanna in primo grado per il gruppo ordinovista veneto che sarà poi ribaltata in appello e<br />

confermata definitivamente, nel 2005, dalla Cassazione. La sentenza di condanna rappresenta – dice<br />

Valpreda - “il raggiungimento di una mezza verità, forse di un decimo di verità, ma un punto di<br />

partenza per dire che le responsabilità stanno negli ambienti fascisti. Risalire a mandanti, a chi ha<br />

coperto e depistato, individuare i tanti attentati fatti in quel periodo e mai scoperti, sarebbe utile.<br />

70 Fulvio Bellini- Gianfranco Bellini, op. cit. , pp.102-105<br />

71 Intervista all’autore ad Antonio La Bruna<br />

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Chi lo farà più, ormai? Meglio un archeologo di un giudice….”. Anche da destra, su Epoca, viene<br />

nel gennaio del 1970 un’indicazione che suggerisce la complessità e forse un’ambiguità operativa<br />

della strage. Parla un ufficiale a riposo del vecchio Sifar: “Tanto più grave è l’episodio, tanto più<br />

vasto è il suo retroscena. Questa è una regola che non teme smentite. Posso solo dirvi che, se<br />

c’entrano i servizi segreti, allora Valpreda è l’Oswald della situazione, un povero scemo che si è<br />

fatto incastrare, un capro espiatorio. La polizia lo arresta e fa bene. Eppure non lo si riesce a vedere<br />

nei panni di un freddo organizzatore di un macello. Se è stato lui a deporre la bomba, gli hanno<br />

messo nelle mani un ordigno di potenza superiore al previsto, o regolato per esplodere prima della<br />

chiusura della banca anziché dopo, come forse Valpreda pensava. L’hanno incastrato. Perché i<br />

servizi segreti agiscono con leggi di ferro: ciascuno conosce solo il suo vicino. Il vicino del vicino,<br />

mai. Sei l’anello di una lunga catena che non sai dove comincia. Chi era il vicino di Valpreda?”<br />

III) Dove porta la ‘pista tedesca’ (mai battuta)<br />

Con due condanne sulle spalle, a 14 e 15 anni, Gianadelio Maletti 72 , oltre 80 anni, è uno dei pochi<br />

tra gli uomini dei servizi segreti italiani che ebbero un ruolo durante le inchieste su Piazza Fontana<br />

ad aver pagato un prezzo. Probabilmente troppo alto rispetto alle sue dirette responsabilità.<br />

Il generale è stato condannato per spionaggio (il dossier Mi. Fo. Biali, di fatto la vicenda dei petroli<br />

e la relativa azione del super servizio segreto de “L’Anello”) e per i depistaggi per la strage alla<br />

Questura di Milano. Rifugiatosi in Sudafrica è tornato in Italia per due giorni grazie ad un<br />

salvacondotto, in occasione dell’ultimo processo. In quella occasione il generale ha per qualche<br />

attimo aperto una botola sull’abisso che contiene la verità sulla strage.<br />

Per poche ore, però. Poi nulla.<br />

“La Cia voleva creare, attraverso la rinascita di un nazionalismo esasperato e con il contributo<br />

dell’estrema destra, On in particolare, l’arresto dello scivolamento verso la sinistra. Questo è il<br />

presupposto di base della strategia della tensione”, ha detto. Il servizio segreto italiano utilizzò On<br />

con i suoi infiltrati e i suoi collaboratori “in varie città italiane e in alcune basi della Nato: Aviano,<br />

Napoli…la Cia aveva funzioni di collegamento tra i diversi gruppi di estrema destra italiani e<br />

tedeschi e dettava le regole di comportamento, fornendo anche materiale”. Coordinamento tra i<br />

gruppi d’estrema destra italiani e tedeschi: un compito – dice Maletti - affidato alla Cia.<br />

Alla domanda se questo materiale comprendesse anche armi ed esplosivi, Maletti dà una risposta<br />

che non lascia dubbi: “Numerosi carichi di esplosivo arrivarono dalla Germania via Gottardo<br />

direttamente in Friuli e in Veneto”. Nel ’72 Maletti gira la notizia ai livelli più alti ma non accade<br />

nulla: “scoprimmo e segnalammo anche che l’esplosivo usato a Piazza Fontana veniva da uno di<br />

questi carichi”. Una notizia fondamentale.<br />

Che dovrebbe far sobbalzare perché non si tratterebbe quindi delle gelignite che sarebbe stata<br />

utilizzata dal gruppo di On per la strage secondo le testimonianze dei pentiti Digilio e Siciliano.<br />

Una notizia che dopo l’assoluzione dei tre di On e quindi anche la messa in discussione dell’ipotesi<br />

di utilizzo della sola gelignite del gruppo per la strage, cambia sostanzialmente la vicenda.<br />

Servizi segreti Usa dietro la strage? “Non ci sono le prove, ma è così”: cioè come ha sostenuto la<br />

pubblica accusa nell’ultimo processo che ha svelato il ruolo di controllo dei servizi segreti militari<br />

americani sui gruppi di On, dice l’ex responsabile dell’Ufficio ‘D’, di fatto quello che gestiva<br />

l’infiltrazione nei gruppi eversivi di destra e sinistra .<br />

Maletti, nella sua testimonianza al processo, non fa che ripetere quanto detto negli anni da <strong>Paolo</strong><br />

Emilio Taviani, il Dc che più, oltre Moro, ha cercato di raccontare la “verità” dello Stato sulla<br />

strage. Per Taviani la Cia non c’entra nulla nella strage ma l’esplosivo venne fornito a uomini di On<br />

72 Maletti è stato addetto militare in Grecia dal 1963 al 1967. Il 15 giugno del 1971 è nominato<br />

capo dell’ufficio ‘D’ (Affari riservati) del Sid. Nell’ottobre del 1975 è destituito e trasferito al<br />

comando di divisione dei granatieri.<br />

52<br />

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da un “agente nordamericano” che proveniva dalla centrale tedesca e apparteneva al servizio<br />

segreto dell’esercito (il Cic che abbiamo più volte incontrato? NdA), che è “ struttura “assai più<br />

efficiente della Cia”. Taviani quando entra in possesso di questa informazione?<br />

Colui che indicò a Maletti il traffico di esplosivo ed armi dalla Germania è la ‘Fonte Turco’, cioè<br />

Gianni Casalini, un informatore del Sid infiltrato in On che aveva fornito al centro Cs di Padova<br />

notizie importanti sul gruppo che non erano mai state trasmesse ai magistrati, come abbiamo già<br />

visto. Casalini era fortemente turbato da quello che era successo e cercò il contatto. Fornisce<br />

riscontri, indicazioni concrete, nomi. Gianni Casalini è legato al gruppo Freda e partecipa ad alcune<br />

delle azioni che precedono la strage.<br />

Dopo la fuga in Sudafrica, dove ancora vive, nella casa romana del generale Maletti fu trovato un<br />

fascicolo dal titolo “Caso Padova” nel quale era descritto il progetto, poi divenuto realtà di<br />

“chiudere” la fonte Gianni Casalini affinché non rivelasse particolari sulla responsabilità del gruppo<br />

di On negli attentati del 1969. L’estremista aveva partecipato con Freda alla collocazione degli<br />

ordigni alla Fiera di Milano nell’aprile del 1969 e poi entrò a far parte del gruppo che attuò la<br />

campagna d’attentati ai treni nell’agosto dello stesso anno. 73<br />

“L’impressione che ho avuto – dice Maletti - è che dietro la strage ci fosse una matrice d’Oltralpe.<br />

Quando dico questo non intendo la Germania. In Germania c’erano truppe di presidio”. Per essere<br />

chiaro che il riferimento fosse agli Usa. Il generale ha aggiunto qualcosa di più indicativo e diretto<br />

nell’aula del Tribunale di Milano, il 20 marzo 2001, “D’altra parte negli Usa gruppi neonazisti ci<br />

sono anche oggi”. “Quell’esplosivo credo provenisse da una delle forze d’occupazione in<br />

Germania”. Maletti ha confermato, per conoscenza diretta, che le basi degli agenti Cia coinvolti<br />

nell’infiltrazione tra i gruppi della destra estrema erano nelle sedi della Ftase e Setaf di Verona e<br />

Vicenza. “Io so che le cose stanno così anche perché ho fatto un corso di 2 anni negli Usa. Lo so per<br />

esperienza, lo so perché sapere quelle cose era il mio mestiere”. Quell’esplosivo era quindi di tipo<br />

militare e non polvere da mina. Arrivò nascosto in alcuni Tir e consegnato nei pressi di Padova a un<br />

“esponente dell’estremismo nero di Mestre. All’autorità giudiziaria però non lo dicemmo”, ha<br />

aggiunto Maletti. Perché? Solo per coprire il gruppo di On che all’epoca, nel 1971-’72 era già stato<br />

chiamato pesantemente in causa? Già nel ‘71-’72 On chiede a Vinciguerra di far fuori Rumor .<br />

Quell’esplosivo può essere importante anche per altre ragioni contingenti, successive alla strage?<br />

L’indicazione di Maletti si lega ad altri elementi, come ad esempio il coinvolgimento di molti<br />

uomini della destra estrema nel traffico di armi ed anche alle vicende che precedono la morte del<br />

Commissario Luigi Calabresi che nelle ultime settimane della sua vita indagava proprio su un<br />

traffico di armi ed esplosivi verso Veneto e Friuli che proveniva dalla Germania e aveva come<br />

terminale i gruppi di destra che preparavano il golpe.<br />

Dunque Maletti sa dell’esplosivo sul finire del 1971. Nel 1972 gira la notizia ai “livelli più alti” ma<br />

non accade nulla. Taviani arriva nel 1973 al Viminale e scioglie On, divenuto dal 21 dicembre 1969<br />

Movimento politico Ordine nuovo (MpOn). Calabresi è ucciso il 17 maggio del 1972.<br />

Probabilmente Taviani e Maletti condividono la stessa informazione che per loro è divenuta nel<br />

tempo una certezza personale. Tanto da sciogliere l’uno On, e da spingere l’altro – autore di gran<br />

parte dei favoreggiamenti attuati dal Sid nei confronti dei singoli componenti del gruppo di On e<br />

della cellula veneta su input politico - a “chiudere” la fonte dell’informazione e poi a fuggire in<br />

Sudafrica, dove oggi vive.<br />

La presenza tedesca è una costante anche dopo Piazza Fontana. Carlo Fumagalli, il capo del Mar, il<br />

Movimento di Azione Rivoluzionaria che si attiva già prima della strage riferì a Giorgio Zicari,<br />

giornalista del Corriere della sera dei suoi incontri in Germania.<br />

Zicari a verbale disse in proposito: “Mi indicò anche, con nomi e cognomi dei suoi accompagnatori,<br />

le date dei viaggi fatti in Germania, a Monaco, per incontrarsi con esponenti della destra bavarese di<br />

Strauss. A suo dire, in qualunque momento erano pronti a venire in Italia per compiere azioni<br />

terroristiche e portare materiale (…). In un’altra occasione mi disse che doveva incontrarsi a Roma<br />

73 Camillo Arcuri, Colpo di Stato. Storia vera di una inchiesta censurata. Il racconto del golpe Borghese,<br />

il caso Mattei e la morte di De Mauro,Milano, Bur,2004, p.118<br />

53<br />

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con un grande personaggio tedesco il quale, con la scusa di andare in vacanza a Rimini, doveva<br />

incontrarsi con esponenti del movimento di Valerio Borghese. Nel corso dell’incontro, cui lo stesso<br />

Fumagalli doveva partecipare, avrebbero elaborato un piano operativo per i mesi successivi”. 74<br />

Nessuna responsabilità per i tre, assolti dalla Cassazione, ma queste testimonianze in sede “storica”<br />

aiutano a capire il ruolo e le attività di On, così come quest’importante affermazione di Maletti 75 . E<br />

il generale, che era addetto militare in Grecia durante il golpe dei colonnelli nel ’67, si associa ai<br />

tanti che dallo Stato (e anche a destra) sostengono che quella bomba non doveva fare i morti.<br />

Accadde qualcosa che modificò il corso delle cose: “I morti ci furono per caso: non furono voluti o<br />

cercati”, dice il generale.<br />

In concomitanza con la strage di Piazza Fontana ci sono attentati lievi anche in Germania e a Parigi.<br />

Delle bombe erano state pre annunciate dalla Tribune de Genève in concomitanza con l’espulsione<br />

della Grecia dal Consiglio d’Europa. Tra i presidenti di quell’assemblea c’era proprio Aldo Moro.<br />

Quando gli inglesi attaccano duramente Saragat sulla stampa del loro Paese, il Pci, con <strong>Paolo</strong><br />

Bufalini raccoglie una voce autorevole che viene da un senatore socialista a cui è stato detto che<br />

“l’attacco dell’ Observer a Saragat verrebbe proprio da Wilson (Premier inglese, NdA). Il dato<br />

sarebbe la preoccupazione di Brandt e Wilson che il Pentagono si intrometta brutalmente nella<br />

situazione italiana”. In effetti, sottolinea Aldo Giannuli, l’attacco “quasi contemporaneo viene sia<br />

da giornali inglesi (d’orientamento socialdemocratico) che da organi di stampa tedeschi (parimenti<br />

orientati in senso filo socialdemocratico). Peraltro, le accuse a Saragat trovavano orecchie molto<br />

attente nel gruppo dirigente comunista di cui cogliamo segni anche nel verbale della prima<br />

direzione dopo la strage, negli interventi di Longo che sospettava nel Presidente il punto di raccordo<br />

delle forze impegnate per una svolta autoritaria e di Tortorella che sosteneva che una parte della<br />

polizia non obbediva al Ministro dell’Interno perché aveva trovato – forse proprio nel Presidente<br />

della Repubblica – un referente alternativo”.<br />

Ma perché oltre all’Inghilterra – schierata contro la svolta militare in Italia per ragioni geopolitiche<br />

e di prestigio - la Germania era così interessata, e coinvolta, in quello che stava accadendo in Italia<br />

nel 1969?<br />

Nel 1967 i servizi segreti tedeschi varano l’operazione “Alarico”: vale a dire la calata in forze degli<br />

007 tedeschi per controllare i contatti avviati tra socialdemocratici tedeschi e comunisti italiani cui è<br />

stato chiesto di fare, in sostanza, da intermediari con Mosca per aprire una nuova fase della politica<br />

tedesca. Si sta preparando la Ostpolitik. A guidare i servizi di Bonn è il generale Ghelen, ex nazista<br />

che temeva immensamente che Brandt riallacciasse i rapporti con Mosca mettendo in crisi la Dc<br />

tedesca. Un po’ come Moro con il Pci nel novembre del 1968. Da metà del 1967 è un via vai di<br />

uomini di Brandt a Roma e di comunisti italiani a Bonn. Il 28 novembre arriva una delegazione;<br />

l’incontro riservato avviene all’albergo Cavalieri Hilton. Per il Pci ci sono Berlinguer, Galluzzi e<br />

Segre. Si parla delle due Germanie e del rapporto Bonn-Mosca. Il 2 dicembre pranzo all’Eur,<br />

presente Luigi Longo. Brandt confida intanto a Pietro Nenni che sta gettando le basi per trattare con<br />

Mosca, tramite il Pci. Nel 1968 il giornale dell’ultrà bavarese della Cdu Franz Josef Strauss, amico<br />

di Ghelen, denuncia le trattative segrete in atto. Un deputato della Dc tedesca denuncia che Brandt<br />

ha accompagnato a Roma in febbraio il Cancelliere Kiesinger. L’incontro tra Longo e Brandt è<br />

avvenuto nella residenza di un deputato socialista. Alla fine la mediazione del Pci va a buon fine.<br />

Brandt lancia l’Ostpolitik.<br />

“Il nuovo corso della politica tedesca è nato a Roma”, racconta nelle sue memorie il Cancelliere che<br />

si gettò in ginocchio nel ghetto di Varsavia.<br />

I servizi segreti tedeschi non riescono a far fallire le trattative in corso a Roma ma s’intromettono<br />

pesantemente nelle vicende italiane con la creazione di una sorta di “partito tedesco” nel Sid. A<br />

metà del ’68 intanto Ghelen si è ritirato a vita privata avendo capito che ormai c’è poco da fare<br />

dopo il cambio di linea nella politica tedesca. E’ allora che accade qualcosa di rilevante per la nostra<br />

vicenda: Brandt decide una vasta “pulizia” nel Bnd che ha assorbito ‘l’organizzazione Ghelen’ e i<br />

74 Interrogatorio di Giorgio Zicari , in <strong>Paolo</strong> <strong>Cucchiarelli</strong>- Aldo Giannuli,op. cit, p 322<br />

75 “Maletti, la spia latitante. ‘La Cia dietro quelle bombe’”, La Repubblica, 4 agosto 2000<br />

54<br />

54


‘disperati’ della struttura, gli emarginati cercano di rientrare nel ‘gioco’ puntando sulla creazione di<br />

uno stato permanente di agitazione in Europa, a cominciare dall’Italia e dalla Francia. E’ un gioco<br />

pesante ma si vanno a toccare assetti che resistono dall’immediato dopoguerra, interessi economici<br />

consolidati, traffici immensi (armi, soprattutto) che alimentano la politica.<br />

Le preoccupazioni per l’apertura ad Est in Germania, frontiera dell’Occidente, si sommano con i<br />

grandi timori che si hanno per l’Italia , vero e proprio “fianco molle della Nato, se la linea di Moro,<br />

omologa alle iniziative di Brandt a Bonn, si dovesse pienamente affermare a Roma.<br />

E’ una situazione incandescente. Che rischia di travolgere i due Paesi “cerniera’’ della Nato.<br />

Inoltre bisogna capire il ruolo del Pci in questa trattativa Germania Ovest-Urss.<br />

Vediamo i riscontri. Un documento dei servizi spagnoli indica Freda e Ventura, che si è rifugiato in<br />

Argentina, terminale storico degli ex nazisti, come agenti tedeschi. Guido Giannettini, la spia del<br />

Sid che teneva i collegamenti con il gruppo Ordinovista va nell’autunno del 1969 in viaggio in<br />

Germania dove visita le fabbriche dei carri armati tedeschi. L’appoggio ricercato dai ‘disperati della<br />

ex Ghelen’ passa per la Paladin, potente organizzazione neonazista e per l’Aginter Press, di fatto la<br />

legione straniera del neonazismo internazionale che ricalca moduli, operatività e obiettivi dell’Oas.<br />

L’uomo che più si spinge in avanti nell’analisi della pista tedesca in Italia (traffici di armi ed<br />

esplosivo che servono anche sia per finanziare sia per alimentare i gruppi eversivi a fini di<br />

destabilizzazione) è Luigi Calabresi. Guido Giannettini arriverà a sostenere che a uccidere (o<br />

concorrere) all’uccisione del commissario sono stati gli ex uomini dei servizi segreti tedeschi che<br />

intendevano reagire all’era Brandt come l’Oas aveva reagito all’era De Gaulle. A fine 1969 sarà<br />

l’ambasciata Usa a Roma, tramite Peter Bridges, a intavolare contatti informali con il Pci attraverso<br />

Giuseppe Boffa per cercare di avere informazioni di prima mano.<br />

Ma torniamo alla Germania. E’ un fatto che alcune delle persone chiamate in causa subito dopo la<br />

strage si rifugiano in Germania. Nel momento del suo “crollo” nel 1973, quando è lì lì per<br />

confessare, Giovanni Ventura dice a verbale di aver saputo che la strage era stata eseguita da cinque<br />

persone provenienti dai campi di addestramento della Nato della Germania occidentale. Sono ampi i<br />

contatti della destra con la Germania e con le molte strutture e organizzazioni che fanno capo a<br />

Monaco di Baviera durante gli anni della guerra fredda: lì c’è Radio Free Europa, la Lega<br />

internazionale degli anticomunisti, la “National Zeitung”, il giornale neofascista che stampa oltre<br />

100.000 copie, le organizzazioni politiche e terroristiche degli esiliati dai Paesi socialisti (a<br />

cominciare dagli Ucraini di Jaroslaw Stetzko), c’è la Csu di Franz Josef Strauss, c’è il Bnd, il<br />

servizio segreto oltre a gran parte delle industrie delle armi pesanti. Si è parlato più volte di<br />

finanziamenti della Csu a Guido Giannettini e dei legami di tanti estremisti di destra con la<br />

Germania dell’Ovest.<br />

Le indagini condotte dagli investigatori che hanno lavorato con il Pm Salvini, così come le analisi<br />

dei periti che hanno esaminato le carte che emergevano dagli archivi legali e illegali o<br />

“dimenticati”, hanno evidenziato che se Yves Guerin Serac, che vive libero nelle Azzorre, era un ex<br />

ufficiale francese aderente all’Oas, la struttura operativa dell’Aginter Press non era niente altro che<br />

una “mutazione” genetica della ex rete Ghelen e del Bnd, il servizio segreto tedesco guidato da<br />

Ghelen.<br />

L’Aginter Press nacque dalle ceneri della organizzaione Ghelen, utilizzando come interfaccia tra le<br />

due strutture operative Robert Henry Leroy, cioè la mente politica della struttura mentre Guerin<br />

Serac ne rappresentava il vertice operativo-militare. Molti uomini della destra estrema, anche<br />

impegnati in un fecondo traffico di armi, lavoravano in Italia per la ‘rete’ tedesca.<br />

Nel 1968 a Ghelen, allontanatosi per i contrasti con i socialdemocratici tedeschi che “aprono” a<br />

Mosca e entrano nel governo, subentra il suo braccio destra Gerhard Wessel, anch’egli ex nazista.<br />

La continuità è assicurata .<br />

E’ facile identificare con l’Aginter Press e con parte della sua rete gli “sbandati” della ex rete<br />

Ghelen, spiazzati e preoccupati di perdere il controllo dei ricchi traffici di armi ed esplosivi che<br />

hanno sviluppato proprio nei Paesi oggetto dei grandi mutamenti politici in atto e cioè Francia (al<br />

centro delle attenzioni dell’Aginter già nel 1968), l’Italia del 1969 e la Germania della Ostpolitik. E<br />

55<br />

55


c’è un’ulteriore intreccio rilevante che spiega perché tante inchieste vennero fermate a Padova,<br />

ultima la fonte Casalini che aveva indicato la provenienza dalla Germania dell’esplosivo utilizzato<br />

per la strage di Piazza Fontana.<br />

Nel giugno del 1969 Saverio Molino, ex carabiniere, un duro che ha fatto la sua carriera nelle<br />

squadre politiche di due Questure, Trento e Padova, riceve l’ordine di perquisire l’abitazione di un<br />

noto fascista locale, Eugenio Rizzato. Una decisione maturata dopo tutta una serie di attentati in<br />

città, in gran parte messi in atto, come quello allo studio del rettore dell’Università, Opocher, dal<br />

gruppo Freda. A casa di Rizzato si trova una pistola, foto di Mussolini e un dossier con un elenco<br />

che contiene 400 indirizzi di uomini di sinistra, anche di “rango” elevato, che debbono essere<br />

colpiti, appunti operativi per un colpo di Stato, con elenchi di caserme e comandi militari da<br />

occupare. In quelle settimane in Senato Pietro Nenni aveva ripetutamente denunciato le manovre in<br />

atto per un’azione di forza e l’Italia viveva la psicosi dei colonnelli. Rizzato tace con la Questura<br />

del rapporto sul golpe e segnala il tutto all’Ufficio Affari riservati del Viminale, all’epoca guidato<br />

da Elvio Catenacci.<br />

Questa struttura operava con quella che è stata definita “la Gladio parallela”, cioè uffici distinti<br />

dalle normali questure che bypassavano i colleghi e i magistrati raccogliendo notizie in proprio. Era<br />

una vera e propria rete parallela che agiva in maniera centralizzata e autonoma dai normali uffici<br />

politici della questura. Molino fotocopiò tutto l’incartamento e lo “seppellì” nell’archivio della<br />

Questura di Padova. Nel 1973 a La Spezia si scoprono a casa di un medico della mutua, Giampaolo<br />

Porta Casucci, gli stessi piani trovati a Padova. “Questi piani vengono da Padova, me li diede un<br />

nostro capo, Rizzato”, dice Porta Casucci. Il secondo dossier è però ben più articolato. Tra l’altro<br />

contiene un elenco di 1617 personalità da eliminare al momento del “golpe”.<br />

Nell’archivio si ritrova la pratica iniziale del 1969: è sostanzialmente identica. Molino è lo stesso<br />

che ha definito “non interessanti” i nastri delle intercettazioni fatte sui telefoni di Freda e Ventura<br />

tra il 15 e il 19 aprile 1969, durante il vertice che diede il via, di fatto, alla stagione delle bombe.<br />

Nel settembre del 1969 nuova richiesta di intercettazione da parte del Procuratore Capo di Padova,<br />

Aldo Fais. La risposta fu identica, nulla. Quei nastri provavano invece che Freda stava acquistando i<br />

timer, congegni a tempo. La bomba di Piazza Fontana aveva un temporizzatore. Questi nastri,<br />

riascoltati nel 1972, divennero uno degli elementi principali dell’accusa a Freda e Ventura. Molino<br />

era lo stesso poliziotto che aveva “archiviato” la denuncia fatta dallo studente Giorgio Caniglia che<br />

aveva portato negli uffici della polizia di Padova una borsa simile a quella non esplosa e ritrovata<br />

nel pomeriggio del 12 dicembre alla Banca Commerciale di Milano. Convocata quattro giorni dopo<br />

la commessa della valigeria “Al Duomo” di Padova, questa dirà di averne vendute 4 uguali il 10<br />

dicembre. “A comprarle è stato un giovane alto, con i capelli neri”. L’avvocato di Ventura disse<br />

chiaro e tondo che “Molino conosceva bene Freda e l’aveva anche avvertito dei controlli telefonici.<br />

E’ il mio assistito che lo sostiene e lo ha detto ai giudici”. Freda, pochi lo ricordano, ha fatto il suo<br />

esordio operativo in Alto Adige, a contatto con la vicenda del terrorismo altoatesino che tanto<br />

interessava la Germania. I piani trovati a Padova altro non erano che quelli della “Rosa dei Venti”,<br />

un nome che non può che evocare il simbolo della Nato. Tra i referenti principali di quella<br />

organizzazione c’erano gli “Elmi di acciaio”, la più agguerrita organizzazione nazista operante in<br />

Germania. Tra gli aderenti anche Nobert Burger, ex professore all’Università di Innsbruck, ben<br />

conosciuto per le sue azioni terroristiche in Alto Adige. Della stessa organizzazione faceva parte<br />

anche un ex ministro Dc, Hans Krueger. Dagli “Elmi” proviene Von Thadden, fondatore nel 1964<br />

del partito neo nazista Npd. In Austria a fondare l’Npd è Norbert Burger. Porta Casucci è una<br />

aderente agli “Elmi d’acciaio” e spesso va a Monaco. Freda fu sospettato a lungo di essere l’autore<br />

di un attentato ad un treno che arrivava a Trento da Monaco di Baviera. Due poliziotti intervengono<br />

e portano la bomba giù dal treno. Muoiono mentre cercano d’aprirla. Nell’agosto del 1969 Livio<br />

Jaculano, un detenuto per fatti criminali, dice ai magistrati che “l’avvocato Fredda” di Padova è il<br />

mandante dell’attentato. Un verbale importante che finisce su un binario morto, è il caso di dire.<br />

A Padova tra gli uomini di Molino c’è un commissario vecchio stampo, Pasquale Juliano. Contano<br />

i fatti. E solo quelli. Nell’aprile 1969 indagando sulle bombe Juliano, grazie a balordi e confidenti,<br />

56<br />

56


stila un rapporto nel quale accusa in maniera circostanziata Freda e Ventura. Juliano aveva ritrovato<br />

un ordigno nella soffitta dell’abitazione di Massimiliano Fachini, consigliere missino, figlio del<br />

questore di Verona durante la repubblica di Salò. Juliano venne accusato di aver costruito le prove<br />

nei confronti di Fachini, Freda e Ventura. Il suo informatore è messo nella stessa cella con dei<br />

fascisti e ritratta tutto. Un testimone a suo favore, Alberto Muraro, è trovato morto nella tromba del<br />

condominio dove faceva il custode dopo un volo di alcuni piani di scale. Dopo la morte il corpo di<br />

Muraro era stato fotografato da un operatore dilettante. Quelle foto non combaciavano con quelle<br />

“ufficiali”. Il corpo era in posizione diversa, una scopa accanto era scomparsa. Sulla base di quelle<br />

foto e di altri elementi si ipotizzò, senza sbocco giudiziario finale, che nella morte ci fosse la<br />

presenza della cellula di On. Molino fece carriera, Juliano venne allontanato dalla polizia, sospeso<br />

dallo stipendio. “Non mi ci volle molto ad agganciare uno dei componenti della cellula neofascista.<br />

Da quel momento in poi ho scoperto praticamente tutto quello che c’era da scoprire. Erano a mia<br />

disposizione addirittura i disegni degli ordigni. Avevo già localizzato i depositi di armi, conoscevo<br />

l’organigramma di questo gruppo nei minimi dettagli. Altri venti giorni e li avrei assicurati tutti alla<br />

giustizia”. Juliano aveva una convinzione: “…di essere stato il classico granello di sabbia che ha<br />

rischiato di inceppare un meccanismo più grande di tutti i protagonisti della vicenda padovana, la<br />

cui mente probabilmente non era neppure italiana”. Il 23 luglio arriva un ispettore del Viminale che<br />

si rivolge in maniera dura a Juliano: “ Non le assicuro che lei non verrà arrestato, a meno che non si<br />

dimetta”, gli dice. Il giorno dopo è incriminato, sospeso dalle funzioni e dallo stipendio. Dal ’69 al<br />

’71 vive dalla suocera con la moglie e due bambini. Nel 1971 riammesso in servizio ma bloccato<br />

nel grado in cui era stato sospeso. Gli “consigliarono” di non tornare a Padova per la sua sicurezza.<br />

Ci vorranno 10 anni e 5 processi per veder riconosciuta pienamente la correttezza e la fondatezza<br />

della sua inchiesta.. “Quello che dovevo dire l’ho detto, quello che dovevo fare l’ho fatto”. Molino<br />

si è difeso affermando di aver sempre informato i suoi veri referenti, cioè gli Affari Riservati. Non<br />

solo Molino spedì tutte le carte a Milano, al Dottor Allegra, capo della “politica”, al responsabile<br />

romano, Provenza, oltre che al responsabile nazionale Catenacci. Ovverosia le stesse persone che<br />

sono state perseguite per aver tenuto nel cassetto la segnalazione delle borse acquistate a Padova il<br />

10 di dicembre del 1969.<br />

Ventura, durante i suoi interrogatori, tanto per sbandierare le protezione di cui “doveva” godere<br />

disse una volta che il suo gruppo “era saldamente protetto da catene e Catenacci”.<br />

Cosa rendeva così pericolosa l’inchiesta di Juliano, che poi tornerà d’attualità negli sviluppi delle<br />

indagini del golpe Borghese? L’aver individuato una località dove c’era la santabarbara del gruppo,<br />

lì dove erano cassette di armi con su stampigliato scritte in inglese e la dicitura di appartenenza:<br />

Nato. Il 14 agosto l’ informatore della polizia di Padova Jaculano prende il coraggio a quattro mani<br />

e chiede di parlare al magistrato anche di questo: il mandante degli attentati ai treni all’inizio del<br />

mese è sempre “Giorgio Fredda”. Non basta ancora.<br />

“Sono venuto a conoscenza dalle stesse fonti della presenza in una località di campagna compresa<br />

tra Treviso e Vittorio Veneto (ho qualche sospetto che tale località possa individuarsi nella cittadina<br />

di Paese) di un deposito di materiale che viene utilizzato per la preparazione degli esplosivi”, dice a<br />

verbale l’informatore che ha avuto modo di contattare le stesse fonti di Juliano. L’inchiesta Salvini,<br />

e quelle successivi di Meroni e della Pradella, hanno esattamente individuato dove sorgesse quel<br />

casolare e cosa vi fosse custodito. Ecco perché Juliano andava comunque fermato.<br />

Altro aspetto che colpisce è l’intreccio con la vicenda Borghese, perché il terminale politico di tutto<br />

un mondo è proprio il “principe nero”.<br />

Porta Casucci spiegò che la preparazione delle ‘reclute’ più promettenti avveniva in Baviera. Il tutto<br />

emerge nel 1973 quando per il 7 aprile era prevista l’ennesima strage sul treno Torino-Roma.<br />

Doveva essere attribuita a Lotta Continua ma Nico Azzi si fa esplodere la bomba tra le gambe<br />

mentre la prepara nel bagno del treno in corsa. Nonostante ciò il 12 del mese ci sono i duri scontri<br />

di Milano dopo che la questura, all’ultimo momento, ha vietato il corteo. I fascisti lasciano sul<br />

terreno, oltre all’agente Marino ucciso da una bomba Scrm, anche tessere della Cgil e del Pci.<br />

Afferma Vincenzo Vinciguerra a proposito di questi incidenti che “il piano predisposto nella<br />

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primavera del 1973 per giungere alla proclamazione dello stato di emergenza era la mera, identica,<br />

testuale ripetizione di quello attuato il 12 dicembre 1969. La strage, prima, gli incidenti sanguinosi<br />

di piazza, dopo” 76 . Azzi è un collega di Giancarlo Rognoni, assolto definitivamente da qualsiasi<br />

accusa nel 2005. Perché l’elemento disatteso da magistratura e storici è il profondo intreccio tra il<br />

1969 e il tentativo di Borghese del dicembre 1970 e quelli successivi: lo schema si ripete e si cerca<br />

anche per almeno altre due volte di arrivare al ‘colpo grosso’, cioè incastrare quello che già nel<br />

1969 è il vero obiettivo operativo della strage e cioè Giangiacomo Feltrinelli e la sua rete che<br />

avrebbe potuto, nella mente degli uomini della destra arrivare fino a qualificati esponenti del Pci e<br />

uomini rilevanti della base del partito. Nel 1971 si tenta di rapirlo nella villa in un’amica in<br />

Carinzia, nel 1973 ci si prova a mettere una parte dei timer rimanenti dello stock utilizzato per la<br />

strage nel giardino di una sua villa con l’intento di precostituire un ‘colpo’ da attuare subito dopo<br />

l’ennesimo golpe. Uno schema anche questo già collaudato, anche se non realizzato, nel 1969.<br />

Maletti in una intervista a L’Espresso del 15 marzo 1981 affermò che c’erano stati in Italia almeno<br />

cinque importanti tentativi di golpe. Quello di Borghese, quello della Rosa dei Venti (1973), quello<br />

“bianco” di Sogno, quello dell’agosto 1974 e l’ultimo nel settembre del 1974 “ad opera degli ultimi<br />

eredi del golpe Borghese”. Ma il golpe del dicembre 1970 non è che la ripetizione di quello del 12<br />

dicembre, non riuscito perché la strage ne congela gli sviluppi politici. Sergio Calore, pentito<br />

ordinovista dichiara a Salvini: “Mi fu riferito un discorso relativo al significato degli attentati del<br />

1969 in relazione ai progetti di golpe. Mi fu detto che secondo il programma il golpe Borghese, che<br />

fu tentato nel dicembre del 1970, doveva in realtà avvenire un anno prima, e che la collocazione<br />

delle bombe, nel dicembre del 1969, aveva proprio la finalità di far accelerare questo progetto<br />

comportando nel Paese una più diffusa richiesta d’ordine e il discredito delle forze di sinistra in<br />

genera che sarebbero state additate come responsabili e corresponsabili dei fatti”. Niente di più di<br />

quanto prevedeva Guerin Serac nei suoi manuali.<br />

Nel 1965 si costituisce, in concomitanza con l’irruzione degli estremisti di destra tra gli informatori<br />

del Sifar-Sid e con il convegno sulla “Guerra rivoluzionaria” che ne rappresenta il momento<br />

dottrinario e palese, il “Comitato italiano per l’Occidente”. Dentro ci sono tutti: Msi, On, An. E’<br />

una svolta. Va in cantina il nazionalismo. Subito dopo Avanguardia nazionale si scioglie. Borghese<br />

amico di Umberto Federico D’Amato, che lo portò in salvo, e del suo referente Usa, James Jesus<br />

Angleton, con il quale il principe trattò la sua resa alla fine della guerra, comincia a coordinare tutto<br />

il vasto mondo della destra radicale. Delle Chiaie ricostituisce, selezionando i componenti,<br />

Avanguardia Nazionale Giovanile e nel frattempo alcuni uomini sono addestrati all’uso delle armi e<br />

degli esplosivi da un ex ufficiale francese della legione straniera, aderente all’Aginter Press. Nel<br />

1966 On non rientra nell’Msi solo perché la richiesta non è pubblica. Nel 1968 nasce il Fronte<br />

Nazionale, guidato da un Borghese che fa ancora parte dell’Msi. Nel direttivo ci sono uomini<br />

notoriamente legati ad On. Il legame tra Fn e On si interromperà solo nell’autunno del 1970 ma per<br />

una questione di soldi. Nel 1969 il rapporto tra Borghese e Rauti era strutturato, solido, profondo.<br />

Scrive Vinciguerra analizzando l’apparente disunità della destra radicale che va invece vista come<br />

una galassia se non unita almeno unitaria nella strategia politica sviluppata: “Nell’autunno del 1969,<br />

a destra esistono solo due grandi gruppi politici: una formazione parlamentare rappresentata dal Msi<br />

di Almirante, ed una formazione extraparlamentare diretta dal missino Junio Valerio Borghese, il<br />

Fronte nazionale. Il dualismo è perfetto: la struttura legale e quella clandestina”. E cosa è il Fn di<br />

Borghese? Una nota del Sid del 9 agosto 1970 lo ‘fotografa’ in maniera essenziale ma chiara. “Il Fn<br />

è stato più volte segnalato come organizzazione per attuare un colpo di Stato; ha delegati provinciali<br />

in diverse città; è collegato con Ordine Nuovo e Avanguardia nazionale; è ritenuto il sodalizio più<br />

idoneo per influenzare in proprio favore le forze armate e di polizia”. Il 19 marzo 1969 si è svolta la<br />

prima manifestazione pubblica del Fronte. Il 12 aprile incontro riservato con gli armatori genovesi:<br />

Borghese annuncia la costituzione di Gruppi di salute pubblica per contrastare, “anche con l’uso<br />

delle armi, l’ascesa al potere del Pci”. L’ora X per il golpe è fissata tra giugno e settembre, in<br />

76 Vincenzo Vinciguerra, Silenzio di tomba, manoscritto consultabile nel sito della<br />

Fondazione Luigi Cipriani<br />

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58


concomitanza con l’allarme Nato poi scattato in quel periodo. Ad appoggiare il progetto anche la<br />

mafia. Mauro De Mauro, che scopre la connection, pagherà con la morte questo suo scoop. 77 Poco<br />

prima della strage di Piazza Fontana Luciano Liggio scappa con incredibile facilità dalla clinica<br />

romana dove è ricoverato. Ma su questo torneremo.<br />

Il 30 settembre Prospero Colonna dice, come riferisce una nota del Sid che riporta le confidenze<br />

raccolte da un ufficiale, che Borghese ha studiato un piano di “provocazione”, con una “serie di<br />

grossi attentati dinamitardi” per fare in modo che l’intervento armato di destra possa verificarsi in<br />

un clima di riprovazione generale nei confronti dei criminali ‘rossi’ e che “le vittime innocenti in<br />

certi casi sono purtroppo necessarie”. Il 23 novembre tiene un discorso a Fiesole. “Il sistema si sta<br />

demolendo da solo e presto potremo tutti intonare il de profundis. Tuttavia se occorrerà dare una<br />

piccola spinta perché il sistema crolli, noi gliela daremo. Agli industriali – tra i finanziatori, secondo<br />

Guido Giannettini, diversi armatori genovesi, il petroliere Monti, ed Eugenio Cefis dell’Eni -<br />

Borghese aveva chiesto soldi per poter insorgere “con un colpo di Stato onde poter instaurare un<br />

regime nazionalista di tipo gollista”. Anni dopo durante l’inchiesta su Borghese Maurizio Degli<br />

Innocenti, responsabile del Fronte per la Toscana e contatto di Tonino La Bruna, che raccolse la<br />

documentazione per il Sid sul golpe poi data nella versione non purgata e completa al giudice<br />

Salvini e Meroni e Pradella, ha parlato di un incontro avuto a giugno del 1969 con Mario Merlino<br />

già anarchico convertito. Prese botte per i suoi incitamenti ai gruppi marxisti leninisti e si andò a<br />

rifugiare a casa di Degli Innocenti, a Pistoia. In quel caso gli parlò di bombe in arrivo e di progetti<br />

clamorosi. Il 14 dicembre Borghese è a Lucca dove propone di costruire “una forza apartitica, in<br />

grado di affiancare le forze dell’ordine e della giustizia nell’eventualità che ci siano gravi<br />

perturbamenti dell’ordine pubblico”. Forse Borghese, dopo l’annullamento della manifestazione del<br />

14 a Roma aspettava gli eventuali scontri che la presenza operaia massiccia ai funerali delle vittime<br />

della strage impedì. Il 25 dicembre scompare Armando Calzolari, cassiere del Fronte. Lo<br />

ritroveranno a fine gennaio annegato in mezzo metro d’acqua. Mille gli elementi che collegano<br />

questa morte a Piazza Fontana ma i magistrati non si spingeranno mai ad aprire per intero questo<br />

“cassetto” della strage. Nel 1982 <strong>Paolo</strong> Aleandri, pentito ordinovista, rivela che tra i coautori del<br />

piano del golpe Borghese del 7 dicembre 1970 c’è Guido Giannettini. Tra le acquisizioni fatte dal<br />

Sid di Maletti sul golpe Borghese c’è la relazione stesa dall’allora dirigente di An Guido Paglia che<br />

fu consegnata ad Antonio La Bruna. “Per decisione di Delle Chiaie i rapporti tra i due ambienti si<br />

fecero sempre più stretti, tanto che spesso era l’Avanguardia a camuffarsi da ‘Fronte’ per svolgere<br />

azioni di una certa importanza. Borghese poté comunque contare sempre anche sulla disponibilità<br />

dell’apparato”.<br />

Avanguardia nazionale rinasce nel gennaio 1970 mentre On muore nel dicembre del 1969 per<br />

rinascere subito come Movimento Politico Ordine Nuovo.<br />

Ma il 7 novembre c’è a Viareggio una riunione importante. Nello studio dell’avvocato Giuseppe<br />

Gattai si riuniscono Adamo Degli Occhi, poi presidente della “maggioranza silenziosa” a Milano,<br />

l’ex partigiano “bianco” Carlo Fumagalli, il Presidente del Tribunale di Monza Giovanni Sabalich,<br />

il poeta Raffaele Bertoli. Degli Occhi metterà a verbale con il giudice istruttore di Brescia Giovanni<br />

Simoni, alcuni anni più tardi, che la riunione è patrocinata politicamente da Amintore Fanfani e<br />

Randolfo Pacciardi. Così nasce “Italia Unita” che non è che il cartello di “centro” del Fronte<br />

nazionale di Borghese. Il 7 novembre del 1969, mentre si sta giocando la partita tra “il cavallo di<br />

razza” e l’ambasciatore Usa a Roma si costituisce a Viareggio col patrocinio “ più o meno scoperto<br />

di Randolfo Pacciardi e di Amintore Fanfani” la “Lega Italiana Unita”. Il programma è la<br />

formazione di un fronte anticomunista unitario per la Repubblica presidenziale 78 . Il 9 novembre al<br />

vertice della Dc va il fanfaniano Arnaldo Forlani . Tra i presenti alla riunione di Viareggio anche il<br />

contrammiraglio in pensione Giuseppe Biagi. Un rapporto del Sid sul personaggio dice che “si è<br />

detto amico personale di Nicola Picella, della Presidenza della Repubblica e ha comunicato di aver<br />

77 Camillo Arcuri, op.cit.<br />

78 Atti dell’inchiesta del giudice istruttore di Brescia Giovanni Simoni.<br />

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inviato a Saragat un telegramma informandolo dell’iniziativa di ‘Italia Unita’ e sollecitando<br />

un’udienza”. 79 Quando nasce il Fronte nazionale di Valerio Borghese tra i tanti vi è anche Filippo<br />

De Jorio, ben introdotto negli ambienti reazionari Dc. L’avvocato è tra i più stretti consiglieri di<br />

Mariano Rumor. Ecco come rievocherà, con notazioni molto calzanti, quel periodo della sua vita<br />

quando frequentava Rumor: “A quel tempo ero deputato regionale per la Dc nel Lazio, ero<br />

consigliere politico dell’On. Rumor, allora presidente del Consiglio. Godevo della stima e della<br />

fiducia della classe dirigente del mio partito e partecipavo a riunioni del massimo livello. Possono<br />

attestarlo, fra i tanti, gli onorevoli Rumor, Piccoli e Giulio Orlando. A 37 anni, tanti ne avevo, ero in<br />

una posizione di rilevante prestigio, sia in ambienti governativi, sia nell’organizzazione del partito.<br />

Oggi si afferma che cospiravo e addirittura organizzavo un’insurrezione armata. Cospirazione e<br />

insurrezione contro chi? Contro il potere di cui facevo parte?” 80<br />

Picella, abbiamo visto, era l’uomo a cui Moro si rivolge per avere lumi sulla strage quando si trova<br />

a Parigi.<br />

Ecco divenire parzialmente palesi le due linee di cui abbiamo più volte parlato in questa inchiesta.<br />

Due linee che puntavano l’una a dilazionare gli attentati con una logica più politica e l’altra a<br />

forzare la mano ai referenti politici con una ‘disobbedienza’ che imponesse quello di cui si parlava<br />

tanto senza però che l’azione eclatante venisse mai in effetti realizzata. Uno stop ad go che<br />

qualcuno alla fine interrompe forzando la mano con una sofisticata operazione che probabilmente<br />

ha spiazzato anche alcuni degli uomini della destra coinvolti. Ma chi è che ha ‘fregato’ la cordata<br />

avversaria: il Sid o gli Affari Riservati, la cordata filo-Usa o quella degli italiani? Sono cordate e<br />

logiche che si mischiano, raccordano, spesso si sommano, si compongono e scompongono<br />

seguendo vie spesso indecifrabili. Ma che qualcuno sia andato oltre o che si sia predisposta una<br />

trappola in cui sono caduti anche esponenti della destra, magari per avviare un “ripulisti” di tipo<br />

gollista senza remora alcuna né a destra, né a sinistra, il risultato è stato lo stesso. La strage arrivò,<br />

puntuale come un temporale di pomeriggio in montagna. Saragat disse di non aver mai saputo prima<br />

delle rivelazioni ufficiali dei preparativi del golpe Borghese. Disse questo difendendosi dalle accuse<br />

reiterate da Londra di un suo ‘patronage’ politico al ‘partito americano’ anche se, come abbiamo<br />

visto il Presidente della Repubblica pensava più a un modello gollista, caro anche a una larga fetta<br />

della Dc dell’epoca, a cominciare da Fanfani, che però alla vigilia della strage si sposta a sinistra,<br />

cercando una maggiore vicinanza con Moro, così come fece del dicembre del 1977 quando<br />

appoggiò l’apertura al Pci che Moro stava attuando tra mille resistenze interne ed internazionali.<br />

Saragat seppe molto prima che arrivasse il 7 dicembre quello che bolliva in pentola. Lo seppe anche<br />

Mario Tanassi che aveva preso la poltrona che era stata del moroteo Luigi Gui, alla Difesa, proprio<br />

grazia all’intesa Moro-Saragat..<br />

Nel maggio del 1970, quando ormai la pista nera è delineata e soprattutto lo scontro politico sulla<br />

sua gestione è emerso, Franco Freda trasferirà il proprio domicilio a Regensburg,<br />

Kaiserwilhelmstrasse 69, presso Adolf von Thadden, che è il capo del neonazista Partito<br />

Nazionaldemocratico (Npd). La presenza di certi gruppi e referenti politici dietro i gruppi<br />

autonomisti che rivendicano l’indipendenza dell’Alto Adige – una delle prime ipotesi per la bomba<br />

del 12 dicembre – è grande. Sullo sfondo la figura di Franz Josef Strauss. Taviani diede ordine ad<br />

Angelo Vicari, ad esempio, di recarsi a Monaco di Baviera per proporre all’ex colonnello delle Ss<br />

Eugen Dollman di intervenire presso Strauss per arginare il clima “particolarmente aggressivo” che<br />

si era venuto a determinare in Alto Adige. In un congresso della Csu bavarese viene approvata una<br />

risoluzione che chiede l’autodeterminazione dell’Alto Adige e l’intervento “ per obblighi umani e<br />

germanici” del governo di Bonn presso quello di Roma. Nel ‘laboratorio’ dell’Alto Adige hanno<br />

fatto il loro esordio quasi tutti i protagonisti della nostra vicenda a cominciare da Franco Freda .<br />

79 ibidem<br />

80 Il Secolo d’Italia, 29 agosto 1975<br />

60<br />

60


Ancora Germania e Monaco, come dicono Maletti e Taviani. Questo è un capitolo tuttora<br />

inesplorato in rapporto a Piazza Fontana anche se i fili, come abbiamo visto, sono tanti. Tutti<br />

interessanti.<br />

Digilio tra i tanti elementi citati riporta un colloquio con uno dei tre ordinovisti scagionati da<br />

qualsiasi accusa per la strage: “Lui mi rispose che non dovevo fare critiche né morali né di tipo<br />

strategico in quanto i fatti del 12 dicembre erano la conclusione della nostra strategia e che c’era<br />

una mente organizzativa sopra la nostra che l’aveva voluta e diretta, anche da Roma”.<br />

Fin da subito dopo l’esplosione il generale Maletti sa “benissimo che la matrice era di destra”. “Chi<br />

ha portato avanti questo progetto che ha ucciso tanti italiani è italiano. E lo ha fatto, aderendo ad un<br />

progetto portato avanti da un servizio straniero per ottenere un proprio vantaggio. Di potere.”, dice<br />

“La vera responsabilità politica nella strategia della tensione è che nessuno ha mai preso delle<br />

decisioni, mai nessun uomo politico ha parlato e agito in termini politici”, accusa l’ex generale 81 .<br />

Maletti dimentica però di spiegare che una delle accuse nei suoi confronti nell’ultimo processo<br />

riguarda l’ipotesi che lui, unitamente ad alcuni ufficiali Usa, dovesse sequestrare il Presidente della<br />

Repubblica Giuseppe Saragat. Un fatto che potrebbe spiegare il colloquio con Cossutta al Quirinale,<br />

di cui abbiamo parlato, quando il Pci si offre di mettere in salvo il Presidente in caso di pericolo<br />

mentre si dispiegava la trama del ‘golpe Borghese’ che si concretizzerà nella notte della Madonna<br />

del dicembre 1970.<br />

Nel novembre del 1969, il 19, giorno della presunta sollevazione di cui parla Salcioli, viene lasciato<br />

fuggire a Milano il mafioso Luciano Liggio. Andrà a coordinare i ‘picciotti’ che saranno impiegati<br />

solo l’8 dicembre 1970. In aula nel 1986 dirà di voler parlare di “affari di Stato”. Nel 1970 – dice –<br />

i politici volevano portare il Paese sull’orlo dell’irreparabile. Avevano chiesto alla mafia uomini in<br />

armi e la garanzia che Liggio desse la sua approvazione. “Gli risposero che io ci stavo e mi<br />

promisero la libertà”. Sembra quasi che Liggio parli di quest’incontro avvenuto in condizioni di sua<br />

segregazione (“la libertà”) ma all’epoca il boss era già libero, latitante. Quindi quella libertà gli è<br />

stata promessa – e probabilmente data - prima di Piazza Fontana. Gli intrecci – anche in riferimento<br />

alle coperture politiche offerte o pesantemente ricercate – che si dipanano tra le due cordate sono<br />

fili ben lunghi nella nostra storia sulla strage. Anche l’affare delle tangenti Lookheed, concluso con<br />

la condanna di due‘referenti’ come Luigi Gui (Moro) e Mario Tanassi (Saragat) rientra<br />

probabilmente in questa sorte di duello, in questo caso finito alla pari.<br />

Quando il generale Miceli si troverà in difficoltà rievocherà i suoi iniziali rapporti con Saragat.<br />

“Dopo aver assunto il comando del Sid ebbi un primo colloquio col presidente, parlammo dei<br />

problemi della sicurezza dello Stato”. Saragat reagirà con la consueta smentita affermando – in<br />

maniera curiosamente paradossale – di non aver mai conosciuto il responsabile del Sid. Eppure nel<br />

luglio 1970 saranno proprio i socialdemocratici, con la collaborazione di Miceli, a bocciare la<br />

candidatura di Giulio Andreotti alla Presidenza del Consiglio, assegnata poi a Colombo. Per farlo<br />

utilizzeranno il mancato gradimento di Miceli che non diede il Nos, cioè le garanzie di segretezza e<br />

rispetto dei patti Nato che ogni governante occidentale doveva avere obbligatoriamente. Una<br />

vendetta per il ruolo svolto da Andreotti nell’immediato dopo-strage, quando fu determinante ad<br />

impedire la svolta autoritaria? Saragat darà indiretta conferma a questa ipotesi nel 1975 in una<br />

intervista al settimanale Tempo.<br />

“Per silurare Andreotti non avevo bisogno delle sollecitudini dei servizi segreti né del generale<br />

Miceli, del resto non ancora capo del Sid, che io dichiaro di non aver mai conosciuto. Bastò la mia<br />

personale avversione”. Avversione a che?<br />

Sentimento contraccambiato da Andreotti che, in vita e in morte, ha più volte polemizzato con<br />

Miceli, ma anche con Saragat.<br />

Alla fine per capire Piazza Fontana bisogna tornare al novembre del 1968, quando gli americani,<br />

dopo un’estate drammatica segnata dalla invasione sovietica di Praga e dall’avanzare visibile delle<br />

truppe dell’Armata Rossa, valutano una dato politico che acquista una valenza rilevante in quel<br />

contesto: in Italia la somma dei voti ottenuta dai socialisti e comunisti nelle politiche di maggio<br />

81 Tutte le citazioni sono tratte dalla intervista a La Repubblica del 4 agosto 2004<br />

61<br />

61


superava quelli della Dc. L’alleanza tra i due partiti avrebbe permesso, per via democratica, una<br />

politica quantomeno di differenziazione da parte dell’Italia. Lo ‘scivolar fuori’ dalla Nato dell’Italia<br />

non era più una ipotesi di scuola agli occhi di almeno alcuni analisti americani. L’attivazione<br />

dell’Aginter Press, struttura a cui faceva capo l’Oaci, Organisation Armèe contre le Communisme<br />

International, vero e proprio esercito clandestino anticomunisma, è quindi obbligata. Nel<br />

novembre 1969 un documento dell’Aginter, “La nostra attività politica”, codifica che elemento<br />

essenziale della strategia da attuare era che i comunisti dovessero essere incolpati delle violenze<br />

perpetrate e che tracce e indizi dovessero essere predisposti a questo fine i . Ma il campo di battaglia<br />

dell’Aginter, oltre le colonie portoghesi, si estendeva a Germania, Francia e Belgio.<br />

Le carte dell’Aginter sono in gran parte sparite e quelle disponibili sono gravate del segreto Nato<br />

che non le rende accessibili. Quando nel 1974 il regime portoghese cadde i giornalisti italiani<br />

accorsi poterono vedere alcuni dei fascicoli tra cui quello intestato alla mafia e quello ai “sostenitori<br />

finanziari tedeschi”. E si torna verso Monaco, dove nell’ex caserma di addestramento delle Waffen<br />

SS Reinhard Ghelen ii ha strutturato la sua organizzazione dopo essere stato reclutato dal Cic, lo<br />

stesso controspionaggio militare che arruolò Kalus Barbie, inviandolo in Argentina, dove oggi vive<br />

clandestino Giovanni Ventura.<br />

Quando Ghelen cade, nel 1968, non paga solo il cambio di vertice politico con l’entrata della Spd<br />

nel governo, come per tanto tempo si è scritto. Un’ inchiesta segreta e ancora oggi riservata nelle<br />

conclusioni lo costringe ad andarsene. Il Rapporto Mercker stila conclusioni sul Bnd che sono<br />

“devastanti”. iii<br />

La Spd e Brandt, non appena leggono il rapporto, non inviato a Ghelen in visone, decidono per il<br />

licenziamento mascherando il tutto con un ritiro dopo oltre 20 anni di guida dei servizi segreti<br />

tedeschi dell’ormai anziano generale. Ma la rete degli “sbandati” ha continuato ad agire, si è<br />

vendicata, ha tutelato traffici e interessi che non potevano essere troncati dall’oggi al domani?<br />

Ghelen nelle sue memorie si difende dicendo che tutto era nelle mani degli americani, sulla<br />

falsariga di quello che racconta il generale Gianadelio Maletti.<br />

E quello che non era riuscito nel 1969, venne bissato nel 1970. Scrive William Colby, ex direttore<br />

della Cia, che in quell’anno l’Agenzia “tentò un golpe militare, direttamente agli ordini del<br />

Presidente Nixon”. Il coinvolgimento del Presidente Usa fu confermato da Remo Orlandini al<br />

capitano del Sid Antonio La Bruna nelle bobine segrete dell’inchiesta sul golpe Borghese occultate<br />

per decenni ed entrate nell’inchiesta Salvini . Gli appoggi “esterni?”. “La Nato e la Germania. A<br />

livello militare, perché dei civili non ci fidiamo”, spiega. La Bruna gli chiede dei nomi. “Guardi, per<br />

l’America c’è Nixon, oltre al suo entourage”.<br />

E Maletti durante la sua lunga e importante deposizione durante l’ultimo processo su Piazza<br />

Fontana ha aggiunto un giudizio sull’ex Presidente Usa che, espresso da un uomo che sa, non può<br />

che far riflettere: “Non dimenticate che (quando c’é Piazza Fontana, NdA) era in carica il Presidente<br />

Nixon e Nixon era un uomo molto strano, un politico molto intelligente, ma anche un uomo dalle<br />

iniziative non molto ortodosse”. iv<br />

Alla pagina del 12 dicembre ’69 dei Diari di Andreotti sono riportate - ha detto il sette volte<br />

Presidente del Consiglio – molte riflessioni “sul senso di quell’attentato e sulle sue conseguenze”.<br />

Una storia che dura e che occulta ancora tanto sia per quel che riguarda la dinamica dell’ operazione<br />

e le modalità della strage, sia per la lunga scia di ricatti incrociati – politici e non - che da allora si è<br />

sviluppata. All’ultimo rimane solo il senso di sgomento per questa storia infinita, una sorta di<br />

‘guerra’ combattuta dai due fronti prima con l’esplosivo e poi nel nascondere perché esso era stato<br />

usato, da chi e con quale scopo e quali coperture, politiche e non. Una ‘guerra’ che ha avuto i suoi<br />

morti sul campo ‘militare’ e su quelli giudiziari, politici o di semplice valutazione nel giudizio<br />

dell’opinione pubblica italiana.<br />

Norberto Bobbio ha dato una spiegazione del fatto che solo l’Italia ha avuto in Europa il fenomeno<br />

dello stragismo, cioè della politica condotta – per ricatto – con le bombe: “Tutti i misteri italiani si<br />

spiegano col fatto che nel nostro paese c’è stato il partito comunista più forte d’Europa”. E allora<br />

per provare a sciogliere questi misteri bisogna, come dice Tiresia ne “L’Antigone nelle città” fare i<br />

62<br />

62


nomi “…sempre più in alto, fino a nomi impronunciabili”, perché “così i vostri morti avranno<br />

sepoltura e la terra fresca della verità coprirà finalmente i loro corpi. Poi si leverà il vento e il<br />

contagio della menzogna sparirà”. Ma perché questo accada altre cose si dovranno strappare alla<br />

‘botola’ ancora oscura del 12 dicembre 1969, venerdì, ore 16,37. Alla strage con i capelli sempre<br />

più bianchi.<br />

p.cucchiarelli@libero.it<br />

63<br />

63


i Daniele Ganser, Gli eserciti segreti della Nato .Operazione Gladio e terrorismo in Europa occidentale , Roma, Fazi<br />

Editore, 2005,p.142<br />

ii Ghelen fece la sua fortuna passando agli Usa l’immenso archivio raccolto sull’Urss durante la costituzione degli<br />

Eserciti Esteri d’Oriente messi su dai nazisti con il compito di combattere l’Urss, una sorta di Gladio dell’Est.<br />

Ganser, op.cit.,p.225<br />

iiiGanser, op.cit.,p.236<br />

iv Ganser, op.cit. p.144

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