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OSSERVATORIO SULL'INDUSTRIA METALMECCANICA - Fiom - Cgil

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Politiche nuove per i sistemi produttivi in Italia<br />

namento competitivo. Rimangono esclusi – come è<br />

facile constatare ex post – i settori high tech, in cui<br />

esiste una barriera tecnologica all’ingresso difficile<br />

da sormontare; i prodotti di grande serie, che le grandi<br />

corporations possono ottenere a costi più bassi grazie<br />

alla standardizzazione e ai volumi, irraggiungibili<br />

per le piccole e medie imprese italiane; e i prodotti<br />

di largo consumo, in cui le innovazioni di uso sono pilotata<br />

dalla pubblicità e dai mass media, con costi di<br />

accesso al mercato talmente elevati da restare del tutto<br />

fuori portata per le nostre imprese.<br />

La formula competitiva tipica dell’industria italiana<br />

(tecnologia importata, bassi costi dei processi, innovazioni<br />

di uso nei prodotti) ha dimostrato una discreta<br />

capacità di espansione nel periodo 1970-2000, ossia<br />

dall’inizio della crisi del fordismo (anni Settanta)<br />

al momento in cui questo ciclo di espansione arriva al<br />

suo punto terminale, per effetto di diverse cause. A<br />

parte la crisi congiunturale post 11 settembre, nei primi<br />

anni del nuovo secolo maturano due condizioni<br />

che decretano un forte depotenziamento dei vantaggi<br />

competitivi acquisiti:<br />

a) le aree del centro-nord investite dalla proliferazione<br />

dei distretti e delle piccole imprese arrivano<br />

a una situazione di saturazione, in cui i fattori produttivi<br />

chiave forniti dal territorio (lavoro, spazi,<br />

infrastrutture, ambiente) sono esauriti e diventano<br />

dunque indisponibili o sempre più costosi;<br />

b) entrano in gioco, dopo la caduta del muro di Berlino<br />

e il periodo di assestamento iniziale, i paesi ex<br />

comunisti dell’Est Europa (compresa la Russia)<br />

con un grande potenziale di lavoro abbastanza istruito<br />

ma a basso costo, rispetto agli standard dell’Europa<br />

occidentale; e si convergono all’economia di<br />

mercato paesi continentali come la Cina e l’India,<br />

che mettono in campo, in certi settori, lavoro a bassissimo<br />

costo con una buona capacità di importazione<br />

delle conoscenze esterne.<br />

Questi due cambiamenti modificano per sempre il senso<br />

e la forza del nostro posizionamento competitivo.<br />

Prima di tutto, per mancanza di «benzina», si ferma<br />

il motore dello sviluppo quantitativo – che replicava<br />

– a basso costo, e con rilevanti economie di scala<br />

– le stesse conoscenze, gli stessi processi e gli stessi<br />

prodotti nelle aree distrettuali e nei sistemi produttivi<br />

locali.<br />

In secondo luogo i vantaggi di costo nei processi vengono<br />

meno di fronte alla presenza di concorrenti low<br />

cost, che diventano sempre più capaci di copiare, imitare<br />

e comprare macchine e tecnologie moderne (con<br />

l’aiuto delle multinazionali che, per prime, sono andate<br />

a sfruttare il potenziale di crescita di queste aree).<br />

Anche nei settori a elevata varietà e variabilità in cui<br />

siamo specializzati, il differenziale di costo si è ormai<br />

rovesciato a nostro sfavore: i committenti tedeschi o<br />

di altri paesi che una volta si rivolgevano ai nostri fornitori,<br />

oggi possono trovare sul mercato offerte più<br />

convenienti provenienti dai paesi emergenti. Dunque,<br />

ai nostri non resta che ritirarsi in buon ordine, o accettare<br />

margini decrescenti, che alla lunga soffocano<br />

le capacità di innovazione e di sopravvivenza dell’impresa.<br />

Pochi sono ancora quelli che reagiscono investendo<br />

le risorse di cui ancora dispongono per riposizionarsi<br />

sul mercato, sottraendosi a questa tenaglia.<br />

In questo campo di battaglia, bisogna aggiungere l’euro<br />

a 1,30 sul dollaro, che aggrava tutti i problemi.<br />

Da un lato c’è da chiedersi, sul piano macroeconomico,<br />

che senso abbia per l’Europa ghettizzarsi su politiche<br />

che scoraggiano la domanda interna e le esportazioni,<br />

alimentando la stagnazione interna, quando<br />

altri paesi (il blocco del dollaro) procedono allegramente<br />

con politiche di espansione keynesiana della<br />

domanda, alimentate dal deficit americano e mantenute<br />

dal finanziamento del deficit che i creditori fanno<br />

all’America (cosa che impedisce anche la fisiologica<br />

rivalutazione delle loro monete). L’Europa, se<br />

vuole creare un’identità collettiva vicina alla percezione<br />

degli europei, deve fare una scelta politica chiara<br />

dal lato dello sviluppo, subordinando anche la politica<br />

monetaria a questo obiettivo.<br />

Ma, stante il livello del cambio attuale – che potrebbe<br />

non modificarsi ancora per diversi anni – bisogna prendere<br />

atto di un fatto: le imprese europee sono spinte<br />

dalla pressione del cambio verso una strada in salita,<br />

che appaiono riluttanti a imboccare ma che, volenti o<br />

nolenti, devono intraprendere: la strada dell’aumento<br />

forzato, e in poco tempo, della loro produttività.<br />

Attenzione: contrariamente a quanto si dice, il cambio<br />

a 1,30 col dollaro non penalizza soltanto le esportazioni<br />

«extra euro» (che sono la parte minore dell’export<br />

nazionale) ma peggiora la competitività su<br />

tutti i mercati, compreso quello nazionale e quello di<br />

grandi mercati europei di sbocco, per noi tradizionali,<br />

come quello tedesco o francese. Il fatto è che il cambio,<br />

mettendo in campo concorrenti «extra euro» che<br />

hanno un vantaggio di costo del 30% finisce per alte-<br />

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