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OSSERVATORIO SULL'INDUSTRIA METALMECCANICA - Fiom - Cgil

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Politiche nuove per i sistemi produttivi in Italia<br />

esperienze di successo osservabili su questo terreno.<br />

Lo Stato non ha ancora imparato bene a fare il regolatore,<br />

indipendente e trasparente, dei mercati, né a<br />

garantire l’accesso delle persone e delle imprese alle<br />

risorse essenziali per l’esercizio della cittadinanza, né<br />

a incentivare il dinamismo degli attori privati riducendo<br />

i loro fattori di incertezza e di rischio. Tre cose<br />

che invece deve assolutamente fare, accanto a un maggiore<br />

impegno per orientare e sostenere le capacità di<br />

innovazione del sistema produttivo.<br />

Tra le altre cose, manca la chiara percezione della direzione<br />

verso cui famiglie, imprese, sistemi locali e<br />

Stato possano e debbano andare. E c’è sfiducia nel fatto<br />

che, alla fine, il gioco possa avere successo.<br />

Per questo è importante che la politica economica del<br />

paese metta bene a fuoco un percorso di riposizionamento<br />

che orienti e aiuti le imprese a fare, ciascuna<br />

nel suo campo, i passi necessari, prendendosi i rischi<br />

relativi.<br />

1. Globalizzazione e smaterializzazione:<br />

le due sfide da affrontare<br />

Per uscire dalla crisi non bisogna solo riattivare la domanda<br />

e sistemare qualche crisi locale. Bisogna prendere<br />

atto del fatto che un ciclo di sviluppo è finito e<br />

che bisogna, dunque, metterne in cantiere un altro, apprezzabilmente<br />

diverso, introducendo mutamenti importanti<br />

nelle formule competitive delle imprese.<br />

Certo, non si può partire da zero, né immaginare che<br />

quello che c’è (le piccole e medie imprese, i distretti,<br />

i settori del made in Italy ecc.) diventino rapidamente<br />

qualche altra cosa. Il nuovo va creato plasmando –<br />

in forme nuove – le risorse e le capacità che abbiamo<br />

ereditato dal vecchio.<br />

Le capacità ereditate dalle precedenti formule imprenditoriali<br />

vanno mantenute e rigenerate: bisogna<br />

rimanere capaci di importare le migliori conoscenze<br />

altrui; bisogna mantenere fluidi e poco costosi i processi<br />

produttivi; bisogna intensificare le innovazioni<br />

di uso nei prodotti forniti al mercato. Ma queste cose<br />

vanno fatte in forme nuove, che tengano conto delle<br />

due grandi sfide che dobbiamo affrontare:<br />

• la globalizzazione delle filiere produttive;<br />

• la smaterializzazione del valore.<br />

La prima scelta implica l’apertura a monte (fornitura)<br />

e a valle (commercializzazione) delle filiere produttive<br />

che sono nate «raggomitolate» sui piccoli territori<br />

dei distretti e dei sistemi locali.<br />

La geografia delle filiere deve mutare in modo sensibile,<br />

per tenere conto della nuova logica della produzione<br />

e della concorrenza globale.<br />

La fornitura (a monte) va riorganizzata tenendo conto<br />

che esistono oggi possibilità di lavorazione e di approvvigionamento<br />

più ampie e differenziate che un tempo:<br />

se non vengono sfruttate, il vantaggio competitivo<br />

attuale – nei confronti di concorrenti che sono in grado<br />

di farlo – è in pericolo. La commercializzazione (a<br />

valle) va sviluppata in forme diverse che in passato, con<br />

un impegno diretto molto più importante nei marchi,<br />

nelle reti di vendita, nei canali di interazione diretta con<br />

gli intermediari e con i consumatori finali. In ambedue<br />

i casi sono necessari investimenti rilevanti e cambiamenti<br />

significativi nella rete di fornitura locale.<br />

Molti di questi appaiono, nelle cronache di tutti i giorni,<br />

sotto l’etichetta di «delocalizzazione», ossia di uscita<br />

dal territorio di qualcosa che c’è già, e che viene «spostata»<br />

altrove (in genere in paesi a basso costo). La diffidenza<br />

verso le scelte delocalizzative fatte da molte<br />

imprese sta montando, ed è un processo molto pericoloso<br />

perché tende a spostare l’opinione e la politica pubblica<br />

verso posizioni difensive che puntano a trattenere<br />

quello che c’è (finché dura).<br />

Se si guarda a quanto sta accadendo solo sotto il profilo<br />

delle delocalizzazioni, si vede quello che il territorio<br />

perde e non si vede quello che guadagna o potrebbe<br />

guadagnare. Uno stabilimento che chiude o<br />

viene spostato altrove genera in effetti un problema<br />

di disoccupazione locale (che deve essere gestito mediante<br />

ammortizzatori all’altezza del compito) ma<br />

provoca anche altri cambiamenti, non tutti negativi:<br />

libera risorse di lavoro e di spazio per attività sostitutive;<br />

può selezionare in loco le attività di qualità e<br />

dunque i lavori ad alto reddito; può creare il bisogno<br />

locale di lavoro terziario di connessione e direzione,<br />

giustificato dalla necessità di gestire efficientemente<br />

una struttura organizzativa multilocalizzata, indubbiamente<br />

più complessa di quelle attuali. Non<br />

sempre questi effetti «compensativi» ci sono, ma niente<br />

esclude che, in linea di principio, ci possano essere<br />

e possano essere incentivati in vario modo. Del resto,<br />

è questo il modo con cui si fa progredire la produttività:<br />

una parte del vecchio, che resiste all’innovazione,<br />

deve uscire di scena, liberando risorse e spazi<br />

per il nuovo. Il processo non è addizionale, ma sostitutivo:<br />

proprio per questo ha bisogno di una mano<br />

regolatrice che media tra i diversi interessi, impe-<br />

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