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e-FARCORO 3-2017

FARCORO è la rivista musicale di AERCO, l'Associazione Emiliana Romagnola Cori

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vuoto, quella paura dello spazio materiale che negli spiriti più elevati si fa metafora della<br />

colpa originaria, e quindi della morte. Nel Barocco la morte non è solo il passaggio buio<br />

che attende l’uomo alla foce del tempo, ma è anche quel salto nella luce con cui inizia<br />

la sua momentanea avventura terrena: essa sta ai due estremi della corda tesa sull’abisso<br />

esistenziale. Ecco dunque il motivo delle false prospettive barocche: inventare chiese<br />

dentro chiese, vite dentro vite; ecco il motivo della prevalenza, in poesia, della metafora<br />

– che è corpo e soffio – sul simbolo, che è trascendente fissità. Così Ciro di Pers, allievo<br />

del Marino, pubblica un sonetto dedicato ad un grande orologio meccanico – ossessione,<br />

questa, dell’epoca – in cui già si intravede quella riduzione dell’uomo a congegno di molle,<br />

fantoccio creato dal Tempo per suo divertimento, così caro al romantico musico-poeta<br />

Hoffmann, ed insieme alla tradizione chassidica degli Ebrei, col loro mito del Golem,<br />

destinato a sfociare poi, in un dramma di Capek, nel moderno robot.<br />

A questo sconvolgente passaggio dell’uomo da centro dell’universo, qual era in Pico<br />

della Mirandola, a scheggia impazzita del tempo, la musica reagisce detronizzando il<br />

contrappunto – il luogo della coincidenza degli opposti – per esaltare l’armonia: questo<br />

microcosmo della forma in cui la perpetua improvvisazione degli abbellimenti (anch’essi<br />

segno di una coazione a riempire lo spazio) e la pulsazione del basso continuo – con il suo<br />

orbitare dentro a formule per cui la ragione individuale cerca di arginare la follia del nonsenso<br />

cosmico – si fa, anche qui per metafora, psicologia dell’animo umano.<br />

La nostra abitudine a riconoscere nella musica l’arte espressiva per eccellenza ci impedisce<br />

di sentire sulla nostra pelle quel senso di disagio e insieme di affascinata rivoluzione dei<br />

sensi che avvolse come una pioggia di lapilli infuocati il pubblico riunito, quella sera di<br />

Carnevale del 1624, in Palazzo Mocenigo, quando Monteverdi distillò nel glorioso genere<br />

del Mottetto tutti i veleni propri all’ancor giovane Diciassettesimo secolo: il secolo del<br />

complesso paterno, in cui le ancora vive libertà nazionali vengono sacrificate sull’altare<br />

dell’assolutismo, come a quel potere che, unico, può salvare dal senso di colpa – la<br />

Riforma è una lotta fratricida tra Cristiani; un insulto a Dio, di cui oscura il Dogma – e dal<br />

conseguente collasso dell’Io.<br />

Il Combattimento di Tancredi e Clorinda è l’alba della passione. Monteverdi, che ne era<br />

ben consapevole, ritenne quindi opportuno ricorrere<br />

all’artificio di una lettera al Mocenigo, per preparare gli<br />

ascoltatori a quella destrutturazione traumatica di ogni<br />

convenzionale sintassi. ‘Sapendo che gli contrarij affetti<br />

sono quelli che grandemente muovono l’animo nostro,<br />

fine del movere che deve avere la bona musica (...) diedi<br />

di piglio al divino Tasso, come poeta che esprime con<br />

ogni proprietà e naturalezza con la sua oratione quelle<br />

passioni che tende a voler descrivere’: così Monteverdi,<br />

in un passaggio di una sapienza retorica davvero barocca,<br />

dove si afferma, quasi distrattamente, che la musica è<br />

un’ ‘arte del movere’ – e quindi dramma – ornata di ogni<br />

‘oratione’, di ogni tecnica della persuasione, secondo<br />

un’idea dell’accordo di suoni come gerarchia dei luoghi<br />

‘topici’ occulti nell’animo umano che porterà Marpurg a catalogare gli stili musicali in<br />

base alle articolazioni dell’orazione classica definiti da Quintiliano: inventio, dispositio,<br />

elocutio, narratio... Ma la grande intuizione di Monteverdi sta in quella litote dell’ ‘oratione<br />

espressa con naturalezza’: uno scontro di significati, come si vede, alla cui base c’è la stessa<br />

dinamica che porta il Bernini, nella Fontana del Tritone, a fare della coda di un delfino una<br />

serto rampicante su cui l’acqua costruisce ponti d’arcobaleno. È il trionfo di quello che<br />

il compositore stesso chiama ‘il concitato genere’: il tactus ritmico racconta l’aritmia del<br />

cuore, in contrapposizione dinamica col melos patetico; a questa opposizione costruttiva,<br />

nell’architettura sacra barocca, corrisponde l’invenzione dello spazio vuoto, a perdita<br />

‘La ‘seconda<br />

pratica’ di<br />

Monteverdi,<br />

è ben più che<br />

una rivoluzione<br />

stilistica: è il<br />

trionfo del mare<br />

della soggettività<br />

contro i pilastri<br />

del rinascimentale<br />

mondo dei<br />

simboli’<br />

‘Tancredi ferito’ del Guercino<br />

la morte della luce | 23

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