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e-FARCORO 3-2017

FARCORO è la rivista musicale di AERCO, l'Associazione Emiliana Romagnola Cori

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La lettera<br />

del Presidente<br />

Associazione<br />

Emiliano Romagnola<br />

Cori<br />

Dr. ANDREA ANGELINI<br />

Presidente AERCO<br />

‘Sembra che il confine<br />

tra il testo musicale<br />

e l’esecuzione si trovi<br />

nell’area delle alterazioni<br />

implicite’<br />

ALTERAZIONI SCRITTE ED IMPLICITE<br />

Fin dall’inizio dell’XI secolo i musicisti europei hanno avuto<br />

a loro disposizione tutto ciò che era necessario per segnare<br />

l’altezza delle note senza alcuna ambiguità. Nonostante<br />

ciò, i compositori di polifonia vocale sino alla fine del<br />

Rinascimento, ed anche oltre, non pensavano che avrebbero<br />

dovuto annotare ogni alterazione richiesta. Sapevano che<br />

alcune alterazioni potevano essere lasciate fuori dalla<br />

notazione, dal momento che i cantanti le avrebbero rese<br />

appropriate in ogni caso. Sappiamo dell’esistenza di questa<br />

pratica dalle rare ma esplicite dichiarazioni dei teorici del<br />

tempo, come ad esempio quell’autore che verso la fine del XIV<br />

secolo affermò che ‘in generale, non è necessario annotare [le<br />

alterazioni]’. Apprendiamo inoltre che, sebbene non ci fosse<br />

stato un accordo che prevedesse esattamente cosa annotare,<br />

la maggior parte dei musicisti scrisse alcune alterazioni, ma, al<br />

contempo, ne lasciò altre fuori. C’era una tendenza, infatti, a<br />

non trascrivere in particolare quelle alterazioni necessarie per<br />

evitare i tritoni melodici e quelle tipiche delle progressioni<br />

cadenzali. Dal primi anni del XVI secolo in poi i compositori<br />

hanno comunque sostenuto, con sempre maggiore frequenza,<br />

che le alterazioni dovevano essere sempre scritte.<br />

I teorici ci spiegano comunque perché alcune alterazioni<br />

sono state annotate mentre altre no. Poiché molte alterazioni<br />

erano implicite, come questione di convenzione nel contesto<br />

musicale, i compositori potevano contare sull’abilità dei<br />

cantanti per eseguirle correttamente, indipendentemente<br />

dal fatto che fossero scritte o meno. Lasciarle fuori dalla<br />

notazione non era necessario ma nemmeno proibito. Poiché<br />

non in tutti i contesti serviva indicare le alterazioni con la<br />

stessa medesima chiarezza, si poteva decidere di indicarne<br />

alcune anche se, in senso stretto, sarebbero state ridondanti.<br />

(Nei Choirbook o nei Partbook si trovano più facilmente le<br />

alterazioni usate nel contesto melodico e nelle formule<br />

cadenzali mentre è più difficile trovare quelle indicanti una<br />

relazione verticale.)<br />

E’ evidente, quindi, che la realizzazione delle inflessioni<br />

accidentali implicite apparteneva al contesto della prassi<br />

esecutiva. Ma se vogliamo evitare equivoci su quello che<br />

fecero i musicisti medievali e rinascimentali, allora abbiamo<br />

bisogno di comprendere chiaramente se le alterazioni<br />

implicite appartenevano alla sfera del testo musicale (che per<br />

ogni dato brano e per tutte le esecuzioni doveva rimanere<br />

invariato se l’opera voleva conservare la sua identità), o<br />

al campo esecutivo (che poteva variare in ogni singola<br />

esecuzione senza mettere in pericolo l’identità del lavoro).<br />

L’idea che uno degli aspetti di un’ opera poteva essere una<br />

questione di prassi esecutiva non tanto appartenente a<br />

quello che prima ho definito dominio esecutivo, ma piuttosto<br />

al dominio del testo musicale può apparire bizzarro solo in<br />

merito al presupposto anacronistico che la funzione della<br />

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