INTERVISTA ROBERTO CUPPONE
L’amatoriale sia teatro di libertà FESTIVAL A colloquio con il nuovo selezionatore finale del festival Maschera d’Oro di Alessandra Agosti Roberto Cuppone, classe 1955, salentino di origine e veneto di adozione, attore, autore e regista, docente al Dipartimento di Italianistica, Romanistica, Antichistica, Arti e Spettacolo dell’Università di Genova, è il nuovo selezionatore finale del Festival nazionale Maschera d’Oro. Un ruolo importante e un’eredità altrettanto di alto livello, visto che Cuppone è stato chiamato a succedere a Luigi Lunari, drammaturgo, scrittore e saggista scomparso la scorsa estate, per molti anni selezionatore del festival. Per questo abbiamo voluto scambiare qualche battuta con lui all’indomani della sua prima esperienza alla Maschera, anche per conoscere meglio il suo rapporto con il teatro amatoriale, che peraltro frequenta da molto tempo. Come ha accolto la proposta di Fita Veneto? Ne sono stato molto contento, naturalmente. È una responsabilità, ma una bella responsabilità, perché la Maschera d’Oro è senz’altro il più importante festival di teatro amatoriale che c’è in Italia e presenta ogni anno delle novità che fanno bene al teatro in assoluto, non solo al teatro amatoriale. Questa prima selezione com’è andata? Prima di me ha agito un gruppo di quattro selezionatori che voglio ringraziare, perché hanno fatto una parte molto importante del lavoro, visto che delle oltre settanta candidature arrivate, per me ne hanno scelte venti. Il mio compito è stato decidere, all’interno di questa rosa, quali spettacoli potessero ambire ai sette posti della finale. Il mio, insomma, non è stato un lavoro solitario e ne sono felice, perché mi considero un uomo di squadra; e non l’ho vissuto neanche come un lavoro da “giudice”, quanto semmai da talent-scout: credo che questo Cuppone nella duplice veste di attore e autore per Pigafetta. Non si farà più tal viagio sia un concorso che cerca di dare spazio a idee, a proposte nuove, a cose che confortino la passione di chi fa teatro. Proposte nuove anche nell’affrontare un “classico”? Non ci sono stati e non ci saranno ostracismi né di autori, né di epoche, né di repertorio. Credo che il senso di un buon festival di teatro amatoriale non dovrà mai essere quello di premiare le compagnie che sentono di dover “assomigliare” al teatro professionistico e credo anche che vincolare l’idea del teatro amatoriale ad una certa epoca sia nocivo. Semmai dobbiamo cercare e valorizzare la specificità del teatro amatoriale: dobbiamo chiederci che cosa può fare questo teatro che non può fare nessun altro? La risposta penso sia sperimentare con coraggio, trovare strade alternative, scrivere cose proprie, testimoniare cose nuove... Quindi non è questione di essere moderni o essere antichi: è che, a parità di qualità complessiva, tra la proposta di un modello di imitazione, magari fatto bene (anche benissimo, in certi casi), e un testo nuovo, o un lavoro sviluppato con originalità, di certo preferisco una cosa che porti in sé l’emozione della novità. Su quali criteri si è basato nella scelta? Premesso che tutti i lavori che mi sono stati presentati erano di notevole qualità, ho cercato prima di tutto di fare una valutazione tecnica complessiva e di base del gruppo. Poi ho guardato la recitazione, anche in questo caso cercando soprattutto l’interazione fra gli attori e anche l’emozione trasmessa: non tanto quella (per carità, assolutamente legittima) del piacersi narcisistico del bravo attore, quanto quella dell’attore che si sente portatore di una scrittura, di un’idea nuova. Infine, terzo criterio (ma primo per me), è stato il senso globale dell’operazione: perché si è scelta una certa idea? perché si è deciso di scrivere un testo, di recuperarne uno, di adattarlo? Lei conosce il teatro amatoriale da molto tempo. Un pregio? Mi riallaccio a quanto ho detto prima per ribadire che il teatro amatoriale deve approfittare della sua libertà. Ci sono stati episodi nella storia in cui un teatro fatto non a scopi profes- sionali è stato un laboratorio eccezionale: penso alle improvvisazioni che faceva lo stesso Goldoni a Bagnoli o a Bologna con l’Albergati, e credo che la sua scrittura sarebbe stata diversa se non avesse vissuto queste esperienze; oppure, nel cuore dell’Ottocento, George Sand e altri romantici che avevano laboratori privati in case di campagna; o tanti altri che nel Novecento hanno portato avanti la ricerca, magari in gruppi di lavoro o in “comuni”, lontano dalla città... Insomma, la parola amatoriale è un po’ riduttiva nell’accezione comune: diciamo che la possibilità di fare un teatro non vincolato ad una prestazione professionale è una grandissima risorsa per tutti, per il teatro e per la cultura. E poi c’è la lingua... Vale a dire? Per il teatro l’italiano è una lingua morta, difficile da gestire, mentre tutti i dialetti sono materia viva e quindi azione; per questo mi sono sempre interessato al teatro dialettale. Importante, quindi, è lo spazio che il mondo amatoriale ha sempre dato al teatro nelle lingue regionali, nel bene e nel male: nel male, per un certo compiacimento nostalgico; nel bene sperimentando contaminazioni linguistiche e tenendo viva anche una tradizione linguistica e lessicale. Un ricordo di Lunari? Un personaggio che ha avuto una grande storia, fin dagli anni in cui è stato nella stanza dei bottoni al Piccolo Teatro. Io l’ho sempre percepito come una persona di grande indipendenza intellettuale. Penso che non si sia adagiato in queste occasioni che la vita gli ha offerto proprio per spirito di indipendenza. Ho apprezzato molte sue pubblicazioni, sia come traduttore dei francesi, sia come divulgatore, e non ultimo, ovviamente, la sua opera come autore teatrale: era uno che scriveva per l’attualità, con l’attualità e con un grande senso dell’ironia. 9