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EDITORI MUSICALI,UNA PASSIONE LUNGA UN SECOLO - Siae

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VIVAVERDI<br />

38<br />

anniversari<br />

Festival: accanto alle opere di Sellars quali<br />

Peony Pavilion (1998), che parte da un testo del<br />

poeta cinese Tang Xianzu (XVI sec.), e The Story<br />

of a Soldier (1999), che traduce in epoca<br />

moderna, attraverso i latinos (gli immigrati<br />

messicani in America), il senso di esclusione<br />

vissuto da Stravinskij, ci sono il Woyzeck (2002)<br />

di Büchner, che Wilson ha costruito insieme<br />

alla musica di Tom Waits, espressione visiva,<br />

rarefatta e non retorica del sentimento, e<br />

Voyage au bout de la nuit (1999) della Socìetas<br />

Raffaello Sanzio, trascrizione in forma di dolorosa<br />

partitura vocale del celebre dramma di<br />

Céline. Ma queste sono solo alcune delle opere<br />

che hanno raccontato, con testi di tradizione,<br />

una storia tutta contemporanea, con un linguaggio<br />

che non ha concesso molto alle abitudini<br />

dello spettatore; e se scorriamo velocemente<br />

i cartelloni, saltano fuori i nomi del belga Jan<br />

Fabre (1987, 2001), che riunisce in sé i ruoli di<br />

regista, drammaturgo, coreografo e scenografo<br />

dando vita a un teatro personalissimo e provocatorio,<br />

in cui ogni materia e funzione del corpo<br />

si fanno linguaggio di scena; il gruppo catalano<br />

de La Fura dels Baus, nato alla fine degli anni<br />

Settanta come compagnia di strada e approdato<br />

poi ai più importanti palcoscenici internazionali,<br />

conservando sempre quella particolare<br />

vocazione alla scomoda denuncia oltre che al<br />

dialogo non convenzionale con lo spettatore;<br />

Giorgio Barberio Corsetti, presente nel cartellone<br />

del festival fin dalla prima edizione del<br />

1986 ed ospitato nel 2003 in un singolare esperimento<br />

drammaturgico in collaborazione con<br />

Giovanni Lindo Ferretti, ex leader dei CCCP;<br />

William Kentridge, che mescola animazione e<br />

spettacolo dal vivo, denunciando senza retorica<br />

la dura condizione di vita nel Sudafrica dell’apartheid;<br />

Alessandro Baricco o Stefano Benni,<br />

entrambi chiamati a mettersi in scena attraverso<br />

letture che chiedono alla parola di farsi spazio<br />

e spettacolo; Francesca Lattuada con il suo<br />

circo che racconta storie più che offrire solo<br />

numeri di acrobazia, o Bartabas, che attorno al<br />

cavallo ha costruito un altro modello di vita;<br />

Frank Castorf, infine, il cui sguardo crudelmente<br />

fisso su un mondo omologato denuncia<br />

la nevrosi quale condizione dominante ed abituale<br />

nella vita quotidiana.<br />

Il palcoscenico, zona franca, si è trasformato<br />

così nel luogo ideale per un attraversamento<br />

delle frontiere – nel senso linguistico ed artistico,<br />

geografico e sociale –, dove gli artisti mesco-<br />

lando in modo libero e denso di significato ogni<br />

forma e linguaggio, hanno cercato l’espressione<br />

ed il modo adatto a dare voce alle tensioni del<br />

mondo contemporaneo, alle sue contraddizioni,<br />

alla sua molteplicità di messaggi e di strumenti<br />

di comunicazione.<br />

Non a caso, infatti, alcune delle opere ospitate,<br />

soprattutto per la danza e per la musica, hanno<br />

presentato un uso strumentale o critico della<br />

tecnologia: tecnologia come mezzo per indagare<br />

e sperimentare le molteplici possibilità del<br />

suono (da Berio a Nono a Xenakis) oppure quale<br />

elemento che modifica il rapporto dell’uomo<br />

con il corpo e con lo spazio, agendo sulla percezione<br />

stessa – veicolo primo dell’esperienza.<br />

Alla danza soprattutto, ontologicamente, si<br />

mostra affidato in questo ultimo ventennio del<br />

ventesimo secolo il racconto del corpo – ovvero<br />

della vita in prima persona. E così le coreografie<br />

dicono di un corpo sempre in movimento<br />

oppure immobilizzato, apparentemente libero<br />

e pronto alle più estreme esperienze eppure<br />

spesso insensibile, insoddisfatto, incapace di<br />

avvicinare un altro corpo, di reagire al circostante;<br />

il corpo come zona di confine fra dentro<br />

e fuori, fra l’interiorità ed il mondo esterno,<br />

non più negato: esso è l’uomo stesso, nella sua<br />

totalità. Da Susanne Linke a Karin Saportà; dalla<br />

divertita danza senza “stile” di Jean Claude<br />

Gallotta a quella innovativa e colorata della<br />

Compagnie Montalvo-Hervieu; da Michael<br />

Clark e i DV8 a Jirí Kylián (cha ha abbattuto il<br />

tabù di una danza consacrata alla giovane età,<br />

creando una straordinaria compagnia di ultraquarantenni)<br />

e Angelin Preljocaj fino al White<br />

Oak Dance Project, compagnia di giovani danzatori<br />

guidata dalla grande esperienza di<br />

Mikhail Baryshnikov, e ai giovani – ma non<br />

troppo – gruppi italiani (Enzo Cosimi, Lucia<br />

Latour, Virgilio Sieni, Paola Rampone,<br />

Kinkaleri, Sosta Palmizi) per giungere poi a<br />

nomi che sembrerebbero abitare ormai soltanto<br />

i manuali quali Trisha Brown, Carolyn<br />

Carlson, Alain Platel, Merce Cunningham,<br />

William Forsythe, Maurice Bejart e Bill T. Jones.<br />

Il corpo recuperato dalla danza moderna, s’è<br />

detto, ma anche quello che dalla tradizione ha<br />

recuperato la propria ragione, i propri ritmi ed<br />

un immaginario ancestrale come è il caso del<br />

flamenco (1990, 1991, 1992, 1995, 1997 – con le<br />

compagnie di Blanca Del Rey, Cristina Hoyos,<br />

Joaquin Ruiz), o del patrimonio culturale asiatico,<br />

con il Balletto dell’Accademia Reale Khmer<br />

(1997) o con le interpretazioni del Ramayana da<br />

parte di compagnie indiane, tailandesi e balinesi<br />

– e qui lo spettacolo è anche rito.<br />

Scorrendo il programma, emerge tuttavia con<br />

evidenza come sia la musica a esser sempre il<br />

vero fulcro del festival, in una gamma di possibilità<br />

che comprende il repertorio classico contemporaneo<br />

come le avanguardie elettroniche,<br />

passando per le tradizioni popolari.<br />

Nato come festival di musica contemporanea –<br />

ha ospitato Bussotti (1986, 1988), Xenakis<br />

(1988, 1994), Maderna (1992), e poi Boulez<br />

(1987, 1988, 1991), Berio (1991, 1995), Heiner<br />

Goebbels (2000) e Michael Nyman (2001) –,<br />

negli anni RomaEuropa ha ampliato la propria<br />

programmazione fiino ad includere, accanto<br />

alle raffinate composizioni contemporanee,<br />

punto fermo per tutti i venti anni, le musiche<br />

del Novecento in molte delle sue declinazioni,<br />

compreso lo sterminato panorama dell’ultima<br />

musica elettronica: dal progetto intermusicale<br />

che ha affiancato Manu Dibango all’Orchestra<br />

Nazionale di Lille (nel 1989), all’apertura alle<br />

musiche del mondo con i primi concerti italiani<br />

di Cheb Khaled (1990), Angelique Kidjo<br />

(1990), Cesaria Evora (1992), Taraf de Haidjuk<br />

(1993), fino agli incontri singolari quali quello,<br />

rivoluzionario, tra Robert Wilson e Philip Glass<br />

(Monsters of Grace 2.1), quello, più meditato ed<br />

evocativo, tra Bill T. Jones e Max Roach, il più<br />

grande batterista vivente (Another History of<br />

Collage), o anche quello, tutto barocco, fra<br />

François Raffinot e Michael Nyman (Garden<br />

Party, 1990).<br />

E così, con il passare degli anni, RomaEuropa<br />

Festival una sua identità l’ha costruita, e crescendo,<br />

talvolta in modo discontinuo, ha sviluppato<br />

un percorso artistico che ha fatto della<br />

capitale un palcoscenico della modernità, sia<br />

essa quella accattivante, colorata e divertita, che<br />

quella più difficile della denuncia e della sperimentazione,<br />

rinnovando ogni anno la sfida<br />

piuttosto difficile presentata da un mondo<br />

dominato sempre più da una globalizzazione<br />

sorda ed egoista. Ma molto poco cosmopolita.

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