Il numero di Playboy con Stephanie Seymour
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gente che piglia il bas anziché il motorino, che<br />
beve il tì ogni giorno, cascasse il mondo, alle<br />
faiv o clòc anziché la birra al <strong>di</strong>scount.<br />
Nirvana, che nome poi. Mi ricordava le ore <strong>di</strong><br />
religione alle scuole me<strong>di</strong>e, quin<strong>di</strong> vi associavo<br />
non un fricchettonismo, o una critica ironica<br />
dello stesso, ma piuttosto un moto <strong>di</strong> rivolta<br />
<strong>con</strong>tro la suora <strong>di</strong> turno. All’inizio non <strong>di</strong>stinguevo<br />
bene un pezzo dall’altro: questo era un<br />
fatto positivo nel mio giu<strong>di</strong>zio estetico do<strong>di</strong>cenne.<br />
Sembrava che non ci fosse nemmeno da<br />
sapere la lingua: prima gri<strong>di</strong> “eeeh”, poi<br />
“oooh”, qualche volta, semmai, “ueeei”. La batteria<br />
suonava forte, precisa; le chitarre gracchiavano<br />
senza violare la mia verginità auricolare;<br />
i bassi erano cupi e fighi (avevo già<br />
scelto il mio strumento). Mi sentivo adolescente<br />
per la prima volta nella vita, la volta<br />
giusta.<br />
Due giorni fa ho riascoltato Nevermind. Quella<br />
storia del club dei ventisette mi stomaca, ma ci<br />
casco sempre. Non che vada in giro a <strong>di</strong>rlo a<br />
tutti, ma non deve essere un caso se proprio<br />
quei ragazzi morti prematuri siano rimasti<br />
bloccati in un’eterna giovinezza su pagine <strong>di</strong>