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Totalità e Infinito - Scienze della Formazione

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Corso di Ermeneutica filosofica 2007/08<br />

(<strong>Scienze</strong> dell’educazione)<br />

Prof. G. Bertolotti<br />

Dispensa delle lezioni su <strong>Totalità</strong> e <strong>Infinito</strong><br />

La fenomenologia dell’accoglienza di Lévinas<br />

di Luca Pinzolo<br />

Indice


Parte prima. Introduzione alla filosofia di Emmanuel Lévinas<br />

Premessa .....................................................................................................................................3<br />

Cenni sulla vita e la formazione filosofica ...................................................................................5<br />

La svolta husserliana e il metodo fenomenologico.......................................................................7<br />

Il Volto......................................................................................................................................10<br />

Nota sulla sociologia relazionale ...............................................................................................14<br />

Parte seconda. <strong>Totalità</strong> e <strong>Infinito</strong><br />

«Prefazione» .............................................................................................................................16<br />

L’infinito e la totalità: il problema .............................................................................................21<br />

La dimora..................................................................................................................................25<br />

Volto ed etica ............................................................................................................................34<br />

2


Parte prima. Introduzione alla filosofia di Emmanuel Lévinas<br />

Premessa<br />

L’itinerario filosofico di Emmanuel Lévinas può, nel complesso, essere presentato come lo sforzo<br />

di descrivere l’incontro con un’alterità assolutamente trascendente, di descrivere cioè una relazione<br />

che non si lascia pensare nella forma del rapporto tra soggetto e oggetto e pertanto è irriducibile<br />

all’ambito <strong>della</strong> filosofia teoretica. Nel corso del suo lungo cammino speculativo, egli ha intrapreso<br />

una radicale messa in questione dell’intera tradizione filosofica nonché dei suoi concetti-chiave,<br />

primo tra tutti quello di “essere”, già da Aristotele oggetto <strong>della</strong> filosofia prima, ossia <strong>della</strong> filosofia<br />

tout court.<br />

Potremmo anticipatamente definire il significato complessivo dell’operazione di Lévinas come il<br />

tentativo di ristabilire, rispetto all’ontologia, il primato <strong>della</strong> metafisica, identificando quest’ultima<br />

con il dominio dell’etica. Si tratterà, naturalmente, di rendere via via più esplicito il senso di questa<br />

affermazione.<br />

Emmanuel Lévinas è un filosofo lituano, di origine ebraica, formatosi filosoficamente in Francia. È<br />

stato tra i primi (assieme a P. Ricoeur) a tradurre Husserl in francese, e senz’altro il primo a<br />

scrivere, in Francia, su Heidegger. La sua riflessione ha affrontato esclusivamente temi morali, e in<br />

parte politici, al punto che Ph. Nemo lo ha definito «il più importante moralista del ’900». Il suo<br />

tema principale è quello <strong>della</strong> relazione con l’Altro (Lévinas è uno dei pensatori dell’alterità,<br />

assieme a Lacan, e in certa misura Derrida e Deleuze), come costitutiva del soggetto. Il soggetto è la<br />

relazione tra il Medesimo e l’Altro. Ma di questa relazione il soggetto non può fare esperienza, non<br />

nel senso che non se ne accorge, ma nel senso che non se ne può appropriare, non può farla sua. La<br />

relazione − la relazione sociale − è una sorta di “causa” del soggetto, che però gli rimane estranea,<br />

trascendente, anche se lo costituisce intimamente, gli dà la sua ossatura di soggetto. L’Altro è<br />

insomma radicato nel soggetto, e contemporaneamente rimane impensato: io non penso l’Altro,<br />

casomai lo subisco (affezione contro esperienza). Da questo punto di vista, il prototipo dell’Altro è<br />

sempre tutto quello che non sono e che non voglio essere: lo straniero, il povero, e − perché no? −<br />

anche il criminale e il deviante.<br />

3


Ecco quindi già una tesi. Se la relazione sociale è “causa” del soggetto (se il soggetto è una<br />

formazione locale di un fascio di relazioni che egli non è in grado di pensare), allora l’Altro c’è già<br />

sempre, e l’accoglienza è un fatto. Non si tratta di decidersi per l’accoglienza, né di “rispettare le<br />

differenze”, di optare per questa o quella politica dell’accoglienza. Non troverete mai in Lévinas<br />

delle prese di posizione sui problemi dell’immigrazione o del multiculturalismo: queste cose le fa lo<br />

Stato, sono oggetto <strong>della</strong> politica.<br />

In un’intervista, Lévinas ha sostenuto di non avere voluto elaborare un sistema di etica, ma di aver<br />

cercato di mostrarne il senso. Qual è il senso di un’etica? Non è la formulazione di un dover-essere,<br />

ma un esercizio fenomenologico: vale a dire la constatazione di un fatto, la sua descrizione e la sua<br />

analisi (la descrizione <strong>della</strong> sua struttura formale e delle circostanze fenomenologiche che ce lo<br />

fanno vivere). Il tono del discorso resta astratto, ma attraverso l’astrazione cerca di descrivere che<br />

cosa succede nei rapporti umani, cosa sono questi rapporti:<br />

«Si tratta di descrivere le “circostanze” fenomenologiche, la loro congiuntura<br />

positiva e come la “messa in scena” concreta di ciò che si dice in forma di<br />

astrazione». 1<br />

Il fatto è appunto quello dell’accoglienza nel suo nesso con la separazione, fatto che − abbiamo<br />

visto − si colloca al di là <strong>della</strong> mia libertà, che io insomma non scelgo.<br />

Allora: c’è accoglienza. Ma senza una separazione invalicabile non c’è accoglienza. La separazione<br />

non può essere ridotta, rimane sempre, anche nel contatto, nella stretta di mano, nella carezza.<br />

Anche nel contatto più intimo, io non posso fare a meno di avvertire una sproporzione, un vuoto, tra<br />

me e l’altra persona: avverto veramente la presenza di un’altra persona, ma a condizione di sentirmi<br />

solo (è un tema che è stato affrontato tra gli altri anche da Winnicott). Perché la separazione è e<br />

deve essere invalicabile?<br />

1. Se non vi fosse separazione, io non accoglierei nessuno. L’Altro sarebbe uguale a<br />

me, sarebbe me. In sostanza, accoglierei solo me stesso.<br />

2. L’impossibile fusione mi riguarda, mette in questione il carattere di nucleo<br />

identitario del soggetto. Io non posso ritrovarmi nell’Altro, ma da che c’è l’Altro (cioè da<br />

sempre), io non posso ritrovarmi in me stesso. Appunto perché io non sono una “cosa”, una<br />

sostanza, ma l’effetto di superficie di una struttura relazionale.<br />

1 E. Lévinas, Di Dio che viene all’idea, tr. it. di G. Zennaro, Jaca Book, Milano 1983, p. 9.<br />

4


Cenni sulla vita e la formazione filosofica<br />

Emmanuel Lévinas nasce a Kaunas (Lituania) il 12 gennaio 1906. Trasferito in Ucraina con la<br />

prima guerra mondiale, nel 1916, viene poi ammesso a uno dei posti destinati agli studenti ebrei nel<br />

ginnasio-liceo statale. Qui scopre i classici, in particolare Dostoevskij e Shakespeare. Nel 1923 è a<br />

Strasburgo a studiare filosofia. Si forma alla scuola di studiosi come Maurice Halbwachs, studia a<br />

lungo Durkheim.<br />

È ipotizzabile che la sua prima formazione risenta dell’influsso di quest’ultimo, unito alla lettura dei<br />

classici. Da Durkheim in particolare, Lévinas avrebbe acquisito il primato del legame sociale sugli<br />

individui, 2 da Dostoevskji il tema <strong>della</strong> responsabilità come forma di individuazione. Lévinas<br />

oscillerà sempre tra questi due poli: il primato del legame sociale, che lo porta a costruire una<br />

metafisica <strong>della</strong> relazione, la responsabilità morale, sempre e solo mia, che lo porta verso una sorta<br />

di individualismo etico. Avremmo, insomma<br />

• Da un lato, una metafisica <strong>della</strong> relazione sociale<br />

• Dall’altro lato, una fenomenologia e un’ontologia <strong>della</strong> separazione. 3<br />

Questi due poli si completano a vicenda, perché se da una parte si afferma che la relazione sociale<br />

costituisce gli individui, si può anche affermare che essa costituisce la forma stessa<br />

dell’individualità. In altri termini, la relazione sociale costituisce degli individui separati. Presentata<br />

così, questa tesi è una probabile eredità di Durkheim. Durkheim, infatti, ha mostrato come una<br />

caratteristica qualificante <strong>della</strong> società moderna consista nella nascita dell’individualismo, ossia alla<br />

costituzione di individui “egoisti”, chiusi in se stessi, capaci per lo più di rapporti sociali<br />

impersonali e anonimi. Tuttavia, la differenziazione sociale tipica <strong>della</strong> modernità – e segnatamente<br />

la divisione del lavoro – crea un sistema di interdipendenze tra gli individui stessi (ciò che<br />

Durkheim definisce “solidarietà organica”. L’individualismo, quindi, si accompagna alla reciproca<br />

dipendenza. L’individuo stesso, se vogliamo, è un fatto sociale, la solitudine stessa è una forma di<br />

relazione sociale, e la cosiddetta “sfera privata” è un fatto “pubblico”. L’interiorità, che definisce la<br />

sfera privata del soggetto, è prodotta da fattori esterni e precedenti il soggetto stesso.<br />

La relazione, cui pensa Lévinas, si articola in due poli: il Medesimo e l’Altro.<br />

Il Medesimo rappresenta il polo identitario: è ciò che ha l’identità come contenuto. 4 Non si tratta<br />

tanto di un essere che resta immutato e identico a se stesso, ma di quell’essere<br />

2 Per Durkheim, come noto, la società è un’entità reificata che si esprime inizialmente nei simboli religiosi.<br />

3 In Lévinas, come si vedrà, i termini “metafisica” e “ontologia” non sono sovrapponibili.<br />

4 E. Lévinas, <strong>Totalità</strong> e <strong>Infinito</strong>. Saggio sull’esteriorità, tr. it. di A. Dell’Asta, Jaca Book, Milano 1980 (d’ora in poi TI),<br />

p. 34.<br />

5


«il cui esistere consiste nell’identificarsi, nel ritrovare la propria identità attraverso<br />

tutto quello che gli succede. È l’identità per eccellenza, l’opera originaria<br />

dell’identificazione». 5<br />

Lévinas aggiunge che l’io, così inteso, più che essere gettato nel mondo – secondo una celebre tesi<br />

di Heidegger – soggiorna in esso, esiste stando nel mondo come a casa propria. L’abitare, il<br />

soggiornare, rappresenta per Lévinas la consistenza stessa dell’Io, la sua “stoffa”, la sua “polpa”,<br />

ma anche la condizione del suo potere:<br />

«La “propria casa” non è un contenente, ma un luogo nel quale io posso […]. Basta<br />

camminare, fare per appropriarsi di ogni cosa, per prendere. Tutto, in un certo<br />

senso, è nel luogo, tutto è a mia disposizione». 6<br />

Abbiamo, qui, una costellazione di concetti che ci permettono di avvicinarci al Medesimo:<br />

• Essere identico<br />

• Abitare<br />

• Possedere<br />

• Potere.<br />

Potere e possesso si definiscono l’uno a partire dall’altro, in quanto il possesso è un modo di ridurre<br />

l’alterità, quella delle cose, che inizialmente si distinguono da noi e ci fanno resistenza. Il possesso,<br />

afferma Lévinas, «sospende l’alterità di ciò che è altro solo a prima vista e altro rispetto a me». 7<br />

Di contro al Medesimo, l’Altro rappresenta il polo non identitario: l’Altro è altro in se stesso. Non è<br />

un altro rispetto a me: «l’alterità dell’Altro […] non dipende dalla sua identità, ma la costituisce». 8<br />

L’Altro non indica, però, un’alterità generica e indifferenziata, ma si riferisce all’altro uomo.<br />

L’Altro è l’altro uomo, ma questi non è alter-ego: non è mio simile, è portatore di una trascendenza,<br />

è tutt’altro, altri (alla terza persona). Lévinas ci presenta l’Altro sostenendo che è Volto. Ma il volto<br />

non si riduce a un insieme di tratti somatici o fisionomici. Non si tratta di una faccia, ossia di una<br />

parte del corpo umano. Quando Lévinas dice “volto” non pensa né a una bocca, né ad un naso, né al<br />

gioco delle sopracciglia, delle labbra o dei muscoli facciali. Lévinas sostiene, anzi, che il volto non<br />

è visibile, e, per escludere ogni componente percettiva si serve, a volte, del termine dévisage,<br />

facendo leva sulla polisemia del verbo francese dévisager che significa tanto “guardare qualcuno”,<br />

quanto “togliere il volto”.<br />

5 TI, p. 34.<br />

6 TI, p. 35.<br />

7 TI, p. 36.<br />

8 TI, p. 257.<br />

6


Il volto è prerogativa dell’umano. Le cose non hanno volto: esse hanno dei lati, <strong>della</strong> facce, ma non<br />

un volto. Le cose vengono percepite, il volto non è percepibile, o meglio, non è visibile. Non è che<br />

noi non vediamo le altre persone, certamente le vediamo, ma quel che vediamo non è il loro essere<br />

persone: vediamo semplicemente dei movimenti di corpi nello spazio, e tuttavia sappiamo già che<br />

si tratta di persone, senza che qualcuno ce lo spieghi, senza bisogno di pensarci su. E questo perché<br />

l’esperienza che noi abbiamo di un volto umano è principalmente l’ascolto del linguaggio. La<br />

parola è certamente un fatto “acustico”, qualcosa che si ode, ma essa viene percepita come già<br />

provvista di significato (noi non appiccichiamo i significati alle parole, ma le parole hanno già un<br />

significato, trasmettono dei significati, sono significati). L’esperienza che abbiamo dell’Altro come<br />

Volto si produce, quindi, al confine tra la percezione di un’immagine e il piano del significato. È<br />

l’oscillazione, la differenza, la sproporzione tra l’immagine (che è un fatto <strong>della</strong> sensibilità) e il<br />

significato (che non lo è). In questo senso Lévinas può affermare che il Volto «disfa la forma in cui<br />

si offre».<br />

La svolta husserliana e il metodo fenomenologico<br />

In molti passi delle sue opere principali Lévinas riconosce il suo debito nei confronti <strong>della</strong><br />

fenomenologia husserliana. Ciò che egli dichiara di aver privilegiato nella sua recezione del<br />

pensiero di Husserl non è la “lettera” <strong>della</strong> tradizione fenomenologica – che ne farebbe un baluardo<br />

<strong>della</strong> filosofia <strong>della</strong> coscienza rappresentativa – quanto lo “spirito”. Ora, lo spirito <strong>della</strong><br />

fenomenologia consiste, a dire di Lévinas, in un metodo di presentazione e sviluppo delle nozioni<br />

che vengono prese in esame. In questo senso Lévinas dichiara che l’articolazione del suo pensiero si<br />

svolge secondo coordinate fenomenologiche:<br />

«Le nostre analisi rivendicano la spirito <strong>della</strong> filosofia husserliana di cui la lettera é<br />

stata il richiamo, nella nostra epoca, <strong>della</strong> fenomenologia permanente come metodo<br />

di ogni filosofia». 9<br />

Il seguito <strong>della</strong> frase citata chiarisce in che cosa consista il metodo fenomenologico fatto proprio da<br />

Lévinas:<br />

9 E. Lévinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, tr. it. a cura di M. T. Aiello e S. Petrosino, Jaca Book, Milano<br />

1973, p. 226.<br />

7


«La nostra presentazione di nozioni non procede né attraverso la loro<br />

decomposizione logica, né attraverso la loro descrizione. dialettica. Essa resta<br />

fedele all’analisi intenzionale, nella misura in cui questa significa la restituzione<br />

delle nozioni all’orizzonte del loro apparire». 10<br />

Tra il 1928-29, Lévinas è a Friburgo come libero auditore per seguire i corsi di Husserl, che in<br />

quell’anno accademico vertono sul tema <strong>della</strong> costituzione dell’intersoggettività. Nel 1929 Lévinas<br />

tradurrà in francese le Meditazioni cartesiane di Husserl, che mettono al centro dell’attenzione<br />

proprio questo tema.<br />

La filosofia di Husserl che, come noto, studia le strutture pure dell’esperienza attraverso le due<br />

peculiari operazioni dell’epoché (o messa tra parentesi) e <strong>della</strong> riduzione, tenta di fondare<br />

l’esperienza dell’intersoggettività a partire dalla radicale messa tra parentesi di ogni forma di<br />

esteriorità del mondo, delle cose e delle persone. Tale riduzione ad una sfera che Husserl definisce<br />

“primordinale” è, in effetti, una sorta di esperimento mentale che prefigura una condizione di<br />

radicale solipsismo: ci sono solo io, tutto il resto – cose e persone – sono da concepirsi come mie<br />

apparizioni.<br />

In questo mondo puramente fenomenico che si svolge sotto i miei occhi come un film,<br />

l’apparizione dell’altro uomo presenta delle peculiarità: non si tratta solo di un corpo in<br />

movimento, perché anzi egli mi appare come portatore di un’intenzionalità (di una coscienza, per<br />

dirla in breve) analoga alla mia. Questa intenzionalità, presente nel modo stesso in cui l’altro si dà<br />

e si muove, non può, tuttavia, essere percepita (non posso leggere i pensieri degli altri), ma viene<br />

“appresentata”:<br />

«Dal punto di vista noematico, nell’oggetto di percezione presentativa-<br />

appresentativa manifestantesi nel modo del qui-stesso si deve distinguere ciò che vi<br />

è autenticamente percepito e l’eccedenza di ciò che vi coesiste senz’essere<br />

autenticamente percepito». 11<br />

L’appresentazione è quella struttura <strong>della</strong> nostra percezione che ci consente, a partire da quello che<br />

vediamo, di anticipare quello che noi non vediamo, ma potremmo vedere. Il lato visto di una cosa,<br />

afferma Husserl,<br />

10 Ibidem.<br />

11 E. Husserl, Meditazioni cartesiane − con l’aggiunta dei Discorsi parigini, tr. it. a cura di F. Costa, Bompiani,<br />

Milano 1960, p. 141.<br />

8


«appresenta sempre e necessariamente un lato posteriore <strong>della</strong> cosa stessa e ne<br />

presume un contenuto più o meno determinato». 12<br />

In altri termini, per fare un esempio, io posso girare intorno ad una casa perché so già che c’è una<br />

facciata e un retro, così come so già che la variazione di colore del tronco di un albero è un indice<br />

di voluminosità. Nella nostra facoltà percettiva è contenuta una facoltà “appresentativa” che ci<br />

permette di cogliere – nella percezione, anche se non percettivamente, ossia non attraverso<br />

specifici organi di senso – elementi spaziali come le superfici, i volumi etc…<br />

Nel caso dell’alter-ego, l’appresentazione indica qualcosa di differente, perché in questo caso<br />

quello che non vedo non potrò mai vederlo. I movimenti dell’altro, che fanno sì che io lo colga<br />

come alter-ego anziché come un qualsiasi altro corpo che si muove nello spazio, persino il suo<br />

stare immobile, alludono al fatto che egli ha dei pensieri, dei vissuti, delle emozioni, delle<br />

intenzioni e un’intenzionalità. Mi permettono di rappresentarlo in analogia con me, come simile e<br />

me, come un altro me.<br />

Insomma, io ho dell’altro sia una percezione (che però non mi dà l’altro come alter-ego), sia<br />

un’appresentazione, che mi dà immediatamente – anche se indirettamente – l’esperienza dell’altro<br />

come alter-ego. Nei termini di Husserl, l’alter-ego è una presenza secondaria resa possibile da<br />

un’intenzionalità indiretta. 13<br />

Cosa non posso vedere? Certamente i pensieri altrui, ma Husserl ha in mente qualcosa di più<br />

importante: l’esperienza dell’alter-ego, l’incontro con l’altro uomo, è l’esperienza di una<br />

irriducibile socialità, è l’esperienza del legame sociale, che Husserl chiama “accoppiamento”:<br />

«ciò che in virtù <strong>della</strong> relazione analogica viene appresentato non può mai darsi<br />

realmente al presente diretto, alla percezione autentica. Alla prima proprietà si<br />

connette quest’altra: l’ego e l’alter ego sono dati per sempre e necessariamente in<br />

un accoppiamento originario.<br />

L’accoppiamento ossia il presentarsi configurato come una coppia e<br />

successivamente come gruppo o moltitudine, è un fenomeno universale <strong>della</strong> sfera<br />

trascendentale». 14<br />

Quindi, gli altri si costituiscono in me come altri ma solo in quanto essi sono in comunità con me.<br />

L’elemento “invisibile” è il legame, ossia la comunità. Alter-ego è il nome che indica l’esperienza<br />

che io ho tanto <strong>della</strong> moltitudine degli altri uomini, quanto del legame degli altri uomini con me. Il<br />

12 Ivi, p. 130.<br />

13 Ivi, p. 129.<br />

14 Ivi, p. 132.<br />

9


fatto che tale accoppiamento sia un «fenomeno universale <strong>della</strong> sfera trascendentale» indica che la<br />

mia esperienza del mondo e delle cose passa necessariamente attraverso la loro condivisione con<br />

gli altri.<br />

Ma Husserl ci ha mostrato anche qualcosa d’altro: il tentativo di una coscienza di chiudersi in se<br />

stessa pensandosi sola al mondo non può che essere fallimentare – non può infatti eliminare in<br />

nessun caso la presenza di altri uomini che non sono me, non sono riducibili a me, non sono un<br />

mio sogno né una mia allucinazione. Il solipsismo è impossibile.<br />

Qui la riflessione di Husserl tocca un punto di problematicità che non può non aver colpito e<br />

influenzato Lévinas. Husserl è convinto che l’epoché – e la conseguente riduzione – sia<br />

un’operazione non solo possibile, ma anche necessaria se si vuole cogliere il fenomeno nella sua<br />

autenticità: è, infatti, esattamente l’epoché a restituirci il fenomeno nella sua datità fenomenica.<br />

Diverso sembra, però, il caso per quanto riguarda la riduzione <strong>della</strong> sfera primordinale, operazione<br />

con cui dovremmo poter avere l’esperienza dell’alter-ego. Qui, infatti, il “fenomeno” dell’alter-ego<br />

– oltre ad avere uno statuto fenomenologico del tutto peculiare (fenomenico e non fenomenico<br />

insieme) – soprattutto nel suo darsi in un “accoppiamento” indissolubile con l’ego che lo coglie,<br />

sembra rendere tale riduzione impossibile, e la stessa sfera primordinale un controsenso.<br />

Il Volto<br />

Lévinas riprenderà da Husserl senz’altro il tema del primato del legame, che in lui diventa il tema<br />

<strong>della</strong> “responsabilità”. Riprenderà anche certe movenze dell’argomentazione husserliana. Le<br />

sezioni di <strong>Totalità</strong> e infinito dedicate al mondo del Medesimo, al godimento, alla dimora, etc., sono<br />

l’equivalente <strong>della</strong> sfera primordinale husserliana, ma una sfera in cui fa continuamente irruzione<br />

l’Altro.<br />

Assai differente, invece, è il modo di intendere l’Altro, che, per Lévinas non è alter-ego, pur<br />

essendo, in effetti, l’altro uomo.<br />

Il suo intento fenomenologico lo porta a cercare di descrivere la struttura (a priori) di una relazione<br />

tra ego e alter concreta, ossia vissuta.<br />

Il punto di partenza è, quindi, il vissuto, e il vissuto è tale perché è sempre il vissuto di qualcuno. Il<br />

vissuto è sempre mio, o di un me in generale – è l’essere sempre mio di un me in generale – ossia,<br />

è il vissuto di qualcuno che può dire “io”, ma soprattutto di qualcuno che sperimenta il vissuto<br />

come proprio, anche e soprattutto nel senso che si sente in ciò che vive, e che per questo può<br />

10


avvertire il vissuto come proprio. Questa sorta di assoluta autoposizione definisce la sfera,<br />

altrettanto assoluta, del Medesimo.<br />

Ma, in una relazione, il qualcuno-Medesimo si relaziona a un Altro, ad un polo di alterità che è<br />

assoluta almeno quanto la sfera <strong>della</strong> medesimezza. La relazione è sempre asimmetrica, ossia tra<br />

termini eterogenei, che assumono valore diverso appunto perché poli di una relazione.<br />

L’asimmetria dell’interpresonale – sostiene Lévinas – significa l’impossibilità radicale «di parlare<br />

nel medesimo senso di sé e degli altri». 15<br />

Il tipo di relazione che Lévinas ha in mente è il discorso: il discorso è la modalità di approccio<br />

all’Altro inteso come Volto. Lévinas lo ripete in continuazione: «il Volto parla». Questa<br />

espressione significa che il Volto non è realmente tale se non nel discorso: il Volto non è tanto<br />

qualcosa che si guarda, quanto la voce che si ascolta e a cui si risponde:<br />

«Vedere il Volto è parlare del mondo. La trascendenza non è un’ottica ma il primo<br />

gesto etico». 16<br />

Il Volto, quindi, è discorso, pratica del discorrere e sorgente del discorso o, come dice Lévinas, è<br />

«dietro al segno». Ora, io dell’Altro so solo quello che egli stesso mi dice, quello che entra nel mio<br />

campo percettivo e intellettivo (le parole che odo e che comprendo). Il suo dire lo colgo solo nel<br />

suo detto, ma non colgo il dire in quanto dire: quello, propriamente parlando, lo accolgo.<br />

Il rapporto con l’Altro viene connotato da Lévinas come un “faccia-a-faccia”, ossia come una<br />

relazione, che è anche una pratica, un gesto, o un insieme di gesti. Si tratta di quello che, nel<br />

linguaggio ordinario, definiremmo “botta e risposta” e che, utilizzando l’apparato concettuale <strong>della</strong><br />

Scuola di Palo Alto, presenta due aspetti:<br />

1. di contenuto<br />

2. di relazione. 17<br />

Mentre l’aspetto relativo al contenuto è riducibile alla sfera del Medesimo – non foss’altro perché<br />

un contenuto può essere compreso, condiviso, assimilato e fatto proprio – l’aspetto di relazione<br />

non è riducibile. Se lo fosse, semplicemente, la relazione non ci sarebbe più (in una relazione<br />

bisogna essere almeno in due). La relazione rimane relazione, ossia qualche cosa che resta-tra. La<br />

relazione implica necessariamente una messa a contatto ed una messa a distanza. L’asimmetria di<br />

una relazione consiste nel fatto che il Medesimo è sempre rigettato in se stesso – sperimenta la<br />

15 TI, p. 52.<br />

16 TI, p. 177. Questa posizione di Lévinas si differenzia manifestamente da quella proposta da J. P. Sartre ne L’essere e<br />

il nulla, in cui il volto, più che parlare, guarda, soprattutto guarda me, e guardandomi, mi reifica e mette in pericolo la<br />

mia libertà.<br />

17 P. Watzlawick et alii, Pragmatica <strong>della</strong> comunicazione umana, tr. it. di M. Ferretti, Astrolabio, Roma 1971, in part. le<br />

pp. 43-46.<br />

11


elazione come propria, come qualcosa di suo, che riguarda solo lui – e nello stesso tempo è per<br />

l’altro, nel senso che si rivolge a Altri.<br />

In una relazione concreta e vissuta non è possibile scambiarsi le parti. Io rimango io (“l’io”), l’altro<br />

rimane l’Altro. Io rimango “qui”, e anche se mi sposto resto comunque “con me” e presso di me,<br />

l’Altro rimane sempre “là”, anche se viene ad occupare il mio posto. Il Medesimo è l’identità,<br />

l’Altro è sempre colui a cui mi rivolgo. L’a-cui apre la dimensione <strong>della</strong> distanza, che rende<br />

l’Altro il portatore di un’alterità assoluta: colui che non è me e non può essere me.<br />

In un saggio in cui Derrida ha cercato di far valere, contro Lévinas, la concezione husserliana<br />

dell’altro come alter-ego, leggiamo:<br />

«In effetti, o non c’è che lo stesso ed esso non può nemmeno più manifestarsi ed<br />

essere detto, e neppure esercitare la violenza […]; oppure ci sono lo stesso e l’altro,<br />

e allora l’altro non può essere l’altro − dello stesso − se non essendo lo stesso (di<br />

sé: ego) e lo stesso non può essere lo stesso (di sé:ego) se non essendo l’altro<br />

dell’altro: alter ego». 18<br />

In altri termini, l’Altro, se c’è all’interno di una relazione, non può che essere un altro-medesimo,<br />

un alter-ego. L’Altro, insomma, sarebbe pur sempre portatore di un’identità; se anche potesse<br />

scompigliare la mia pretesa di dominio conoscitivo, lo farebbe pur sempre a partire da un’identità,<br />

la sua. L’alterità non sarebbe pertanto assoluta, ma sarebbe quella di un’identità che si<br />

contrappone, o semplicemente si distingue, dalla mia.<br />

Si potrebbe però obiettare che un discorso del genere può essere fatto solo da uno spettatore che<br />

assiste ad una conversazione dall’esterno, senza prendervi parte, o che semplicemente riporta una<br />

conversazione a cui non ha preso parte. Ma qui l’analisi perde di vista la concretezza −<br />

l’immediatezza − del faccia-a-faccia. Scrive Lévinas:<br />

«Per mantenere la molteplicità è necessario che la relazione che si instaura tra me e<br />

Altri − atteggiamento di una persona nei confronti di un’altra − sia più forte del<br />

significato formale <strong>della</strong> congiunzione cui rischia di essere ridotta ogni relazione.<br />

Questa forza più grande si afferma concretamente nel fatto che il rapporto che si<br />

instaura tra Me e l’Altro non si lascia inglobare in una rete di relazioni visibili ad<br />

un terzo. Se questo legame tra Me e l’Altro si lasciasse interamente cogliere<br />

18 J. Derrida, «Violenza e metafisica», in Id., La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1971, p. 162.<br />

12


dall’esterno, nello sguardo che fosse capace di abbracciarlo, sopprimerebbe proprio<br />

la molteplicità legata da questo legame». 19<br />

Proviamo a spiegarci con un esempio.<br />

Se io parlo con qualcuno − poniamo: “Giuseppe” − ho pur sempre una rapporto con lui. Se poi io<br />

parlo di Giuseppe con Giovanni, a quel punto ho un rapporto con Giovanni, e Giuseppe è<br />

semplicemente l’oggetto del mio discorso. “Giuseppe” cambia radicalmente configurazione, a<br />

seconda che io parli con lui o che parli di lui. Nel primo caso, egli è l’Altro; nel secondo caso è un<br />

elemento <strong>della</strong> mia esperienza. Il fatto che si tratti <strong>della</strong> stessa persona è, di per sé, irrilevante. È,<br />

infatti, diverso il modo in cui io mi rapporto a Giuseppe, è diverso ciò che egli rappresenta per me.<br />

Scrive Lévinas:<br />

«il rapporto tra l’io e l’altro comincia nell’ineguaglianza dei termini […] in cui<br />

l’alterità non determina l’altro formalmente come l’alterità di B, distinta<br />

dall’alterità di A. L’alterità dell’Altro, qui, non dipende dalla sua identità, ma la<br />

costituisce». 20<br />

Di qui anche l’invito ad evitare un rischio, quello di ipostatizzare l’Altro, l’invito, cioè, a non<br />

pensare che qualcuno (la donna, l’extracomunitario, etc.) faccia sempre la parte dell’Altro, e<br />

qualcuno (l’occidentale, l’europeo, etc.) faccia sempre la parte del Medesimo. Medesimo e Altro<br />

sono solo due funzioni dell’immediata situazione comunicativa, quella che Lévinas chiama, per<br />

l’appunto, il faccia-a-faccia.<br />

Su questo piano, che potremmo chiamare pragmatico e che Lévinas stesso chiamerà dire,<br />

contrapponendolo al detto, abbiamo:<br />

• un io in generale, un polo identitario: il Medesimo<br />

• un altro in generale, l’Altro.<br />

Due poli che, come detto, sono due funzioni <strong>della</strong> relazione, e quindi non vanno ipostatizzati o<br />

reificati.<br />

19 TI, p. 121.<br />

20 TI, p. 257.<br />

13


Nota sulla sociologia relazionale<br />

Il tema forse principale delle scienze sociali è quello di relazione sociale. Un confronto con la<br />

declinazione sociologica di questo tema può forse permettere una migliore comprensione del testo<br />

di Lévinas. Come paradigma possiamo considerare la cosiddetta sociologia relazionale, sviluppata<br />

da P. Donati nell’intento di conciliare − e in certo senso superare − l’antitesi tra un modello<br />

interpretativo dei fatti sociali di stampo individualistico (notoriamente il filone che va da Weber a<br />

Boudon) e un modello esplicativo degli stessi di stampo strutturalista (da Marx a Parsons fino a<br />

Luhmann). 21<br />

Per la precisione,<br />

«Dal punto di vista filosofico − scrive Donati −, la relazione è una categoria<br />

primitiva dell’essere e del pensiero, e come tale non è “spiegabile”: può tuttavia<br />

essere esperita, osservata e (entro certi limiti) descritta. Come ogni nozione prima<br />

non può essere definita, ma può essere semantizzata. La sua importanza sta<br />

nell’essere sempre presente come fatto costitutivo sia <strong>della</strong> realtà sia <strong>della</strong><br />

conoscenza». 22<br />

«la relazione sociale è sempre bilaterale, mentre l’azione può essere unilaterale, e<br />

in ciò la relazione manifesta precisamente la sua più intima natura sociale,<br />

soggettive e strutturale al contempo, laddove il fatto sociale non consiste tanto<br />

nell’essere “collettivo”, quanto piuttosto nell’ “essere/stare fra” (inter, o legame)<br />

termini capaci di agire simbolico». 23<br />

Questa duplice dimensione − soggettiva e strutturale − <strong>della</strong> relazione sociale, è alla base <strong>della</strong><br />

definizione di due assi su cui si snoda la relazione sociale stessa.<br />

Il primo asse è quello relativo alla relazione intesa come “riferimento a” (refero): non è altro che il<br />

piano dell’interazione:<br />

21 In part. cfr. P. Donati, Introduzione alla sociologia relazionale, Franco Angeli, Milano 2002.<br />

22 Ivi, p. 204.<br />

23 Ivi, p. 205.<br />

14


«nella realtà e per l’osservatore, A si pone o agisce per riferimento a B, e in ciò vi è<br />

una libertà condizionale simbolica (aspetto attivo del rapporto fra A e B, dalla parte<br />

di A che è il termine osservato o agente)». 24<br />

Il secondo asse riguarda la relazione intesa come legame tra (religo): si tratta dell’aspetto<br />

contestuale e strutturale in cui si produce la relazione stessa:<br />

«nella realtà e per l’osservatore, l’interazione fra A e B si configura come legame o<br />

dipendenza reciproca, cioè vi è una libertà strutturalmente condizionata (aspetto<br />

passivo che ricade tanto su A che su B)». 25<br />

In tal modo, è possibile affermare che<br />

«La relazione sociale è il tramite che connette azione sociale (soggettività e<br />

intersoggettività) e sistema sociale (struttura oggettiva e oggettivata)». 26<br />

Proprio quest’ultima affermazione permette di misurare la distanza tra questo tipo di approccio e la<br />

riflessione di Lévinas. Il legame proposto da Donati, infatti, si riferisce al contesto strutturale <strong>della</strong><br />

relazione, allo sfondo <strong>della</strong> relazione stessa, costituito dalla società data e da valori e credenze<br />

condivise. Ed è esattamente questo presupposto che consente al sociologo di considerare la<br />

relazione sociale all’insegna <strong>della</strong> reciprocità: è infatti la totalità sociale, intesa come complesso<br />

strutturale di credenze e vincoli, a consentire la reciprocità e il riconoscimento degli attori tra di<br />

loro.<br />

In Lévinas le cose non stanno così: la relazione è senza contesto, perché il Volto stesso mi appare<br />

fuori da ogni contesto. E questo perché è nel faccia-a-faccia che si produce ogni contesto: il Volto,<br />

nel parlare al Medesimo, non dice «Io», ma «Il mondo», egli dice qualcosa del mondo anche<br />

quando sembra parlare di sé.<br />

24 Ivi, p. 204.<br />

25 Ivi, pp. 204-505.<br />

26 Ivi, p. 205.<br />

15


«Prefazione»<br />

Parte seconda. <strong>Totalità</strong> e <strong>Infinito</strong><br />

Cominciamo adesso la lettura di <strong>Totalità</strong> e <strong>Infinito</strong>, e iniziamo con la «Prefazione», che apre il<br />

volume.<br />

«Tutti ammetteranno facilmente che la cosa più importante è sapere se non si è<br />

vittime <strong>della</strong> morale». 27<br />

La frase che inaugura il testo è abbastanza sconcertante. Perché mai dovremmo essere vittime <strong>della</strong><br />

morale? In fondo, tutti noi abbiamo una morale e ci sembra legittimo comportarci in base a delle<br />

convinzioni morali. Per noi, l’essere “se stessi” coincide, per lo più, con l’agire in base a delle<br />

convinzioni che, in ultima istanza, sono morali.<br />

Lévinas ci dice che le cose non stanno esattamente così; egli ci mostra, cioè, che la nostra vita è<br />

regolata da un valore assai più alto, quello che già secondo Nietzsche era la verità (di cui egli<br />

intendeva, per l’appunto, indagare il valore) e che M. Foucault ha, a sua volta, chiamato la volontà<br />

di sapere. Si potrebbe anche aggiungere, di passaggio, che in Kant persino la morale è subordinata<br />

al principio <strong>della</strong> verità, coincidendo per lo più con la sincerità e la trasparenza.<br />

Lévinas chiama tutto ciò “lucidità”. La lucidità, «apertura dello spirito sul vero», 28 ci fa intravedere<br />

che, malgrado e contro la morale, c’è sempre la possibilità permanente − o il fatto − <strong>della</strong> guerra.<br />

La guerra è una “sospensione <strong>della</strong> morale” perché, nello stato di guerra gli imperativi etici<br />

vengono meno − dalla proibizione di uccidere si passa infatti alla possibilità e anzi al dovere di<br />

uccidere. 29<br />

Derrida ricorda 30 che Lévinas non cita mai Carl Schmitt. È, tuttavia, indubbio che riprende una sua<br />

tipica movenza, che lo porta a vedere la politica come conflitto e infine guerra − essa è l’arte di<br />

27 TI, p. 19.<br />

28 Ibidem.<br />

29 Si potrebbe anche aggiungere che nello stato di guerra inteso come stato di eccezione, anche le garanzie costituzionali<br />

vengono meno, spesso proprio quelle che concernono i diritti fondamentali.<br />

30 Cfr. J. Derrida, Le mot d’accueil, in Id., Adieu à Emmanuel Lévinas, Galilée, Paris 1997, p. 52 nota 2.<br />

16


«prevedere e di vincere con tutti i mezzi la guerra» 31 − (tema, in realtà, assai più vecchio, e<br />

risalente a Von Clausewitz), cui aggiunge l’identificazione <strong>della</strong> politica con «l’esercizio stesso<br />

<strong>della</strong> ragione» 32 nonché la sua connivenza con la filosofia:<br />

«per il filosofo l’esperienza <strong>della</strong> guerra e <strong>della</strong> totalità non coincide<br />

semplicemente con l’esperienza e l’evidenza?» 33<br />

Queste affermazioni si spiegano almeno in base a due motivi. Anzitutto, la guerra sospende la<br />

morale perché ci mostra la realtà effettuale rispetto alla realtà come dovrebbe essere. Si può<br />

ricordare che Hegel, contro la Pace perpetua di Kant, sostenne che le relazioni tra Stati sono<br />

relazioni di guerra e che questa coincide con la storia universale.<br />

In secondo luogo, Lévinas afferma che la guerra fa tutt’uno con il concetto di totalità:<br />

«Il volto dell’essere che si rivela nella guerra si fissa nel concetto di totalità che<br />

domina la filosofia occidentale». 34<br />

Si sa che nel corso di una guerra gli individui non contano in quanto tali e nella loro specificità<br />

individuale; essi sono tutti sostituibili, destinati o, quanto meno, disposti a sacrificare la propria<br />

vita affinché lo Stato sopravviva ed abbia la meglio nel conflitto (E. Junger affermò, nel periodo<br />

tra le due guerre, che la morte era diventata un “fatto impersonale”).<br />

Lévinas chiarisce questo punto così:<br />

«gli individui sono ridotti ad essere i portatori di forze che li comandano a loro<br />

insaputa. Gli individui traggono da questa totalità il loro senso (invisibile al di fuori<br />

di questa totalità stessa). L’unicità di ogni presente si sacrifica continuamente ad un<br />

futuro che è chiamato a rivelarne il senso oggettivo». 35<br />

Gli individui, insomma, sono parti di meccanismi sociali anonimi − come dice Marx, sono<br />

portatori di rapporti sociali che, proprio perché tali, sono impersonali. Gli uomini diventano,<br />

quindi, come degli ingranaggi di una macchina o come gli organi di un organismo, e hanno senso<br />

solo all’interno di questa totalità. Lévinas aggiunge che gli individui sono assoggettati al corso<br />

31 TI, p. 19.<br />

32 Ibidem.<br />

33 TI, p. 22.<br />

34 TI, p. 20.<br />

35 Ibidem.<br />

17


universale <strong>della</strong> storia: la mia vita, il mio presente, non sono nulla al di fuori del senso <strong>della</strong> storia<br />

che abbraccia, oltre che gli Stati, l’umanità tutta intera. Come si dice… «la storia giudicherà»!<br />

Si capisce, quindi, che la ragione e la politica si facciano beffe <strong>della</strong> morale («lo sguardo beffardo<br />

<strong>della</strong> politica» 36 ). Esse contrappongono la verità dei fatti all’astrattezza dei valori morali, e<br />

contrappongono le esigenze <strong>della</strong> comunità − il punto di vista <strong>della</strong> totalità “super partes” − alla<br />

relatività dei punti di vista individuali. Verità, oggettività, visione totalizzante, fanno quindi <strong>della</strong><br />

guerra l’esperienza per eccellenza, oltre che un fenomeno inevitabile ed inaggirabile. La pace<br />

stessa, infatti, non appare come l’opposto <strong>della</strong> guerra, ma solo come la sua temporanea<br />

interruzione: semplicemente una relazione tra Stati nemici che, anziché combattersi, fanno trattati<br />

e stabiliscono accordi.<br />

C’è un’alternativa? È l’escatologia profetica, ossia una sorta di corpo estraneo rispetto alla politica,<br />

alla guerra e alla filosofia, che non cerca un «diritto di cittadinanza nel pensiero assimilandosi ad<br />

un’evidenza filosofica». 37<br />

L’escatologia dei profeti ci presenta un’altra idea di pace − trattata in parte nelle «Conclusioni» −<br />

ma, soprattutto, una liberazione dal corso <strong>della</strong> storia che, riducendo il flusso del tempo alla<br />

dimensione del presente, inchioda gli individui alla loro responsabilità ora e qui:<br />

«l’escatologia, in quanto “al di là” <strong>della</strong> storia sottrae gli esseri alla giurisdizione<br />

<strong>della</strong> storia e del futuro − li colloca nella loro piena responsabilità e li porta ad<br />

essa». 38<br />

Sullo sfondo, abbiamo due grandi tesi.<br />

La prima la accenno solamente senza discuterla: è una tesi “storicistica”. L’Europa è «la Bibbia e i<br />

Greci»: l’Europa è l’ipocrisia di un mondo legato ai filosofi e ai profeti. Leggo il passo dove si parla<br />

di<br />

36 TI, p. 20.<br />

37 Ibidem.<br />

38 TI, p. 21.<br />

39 TI, p. 22.<br />

«Una civiltà essenzialmente ipocrita, cioè legata ad un tempo al Vero e al Bene,<br />

ormai antagonisti. È forse giunto il momento di riconoscere nell’ipocrisia, non solo<br />

una spregevole mancanza contingente dell’uomo, ma la lacerazione profonda di un<br />

mondo legato ad un tempo ai filosofi e ai profeti». 39<br />

18


Il termine greco da cui proviene “ipocrisia”, indica solo fino ad un certo punto la “finzione”. In<br />

realtà, originariamente significa “risposta”, ma anche il comparire sulla scena di un attore (in un<br />

contesto dialogico). Viene dal verbo upokrino, che vuol dire “separare”, e che nella forma media,<br />

upokrinomai, indica la risposta, la chiamata in giudizio e l’interpretazione.<br />

Questo vuol dire che non c’è un nucleo identitario europeo: una “razza”, una “cultura” e così via,<br />

così come è privo di senso, l’ideale di una «storia universale europea», tipico del tardo storicismo<br />

tedesco (Leopold Ranke, Ernst Troeltsch).<br />

Si potrebbe dire, forzando un po’ la mano, che l’Europa è un’immaginazione, perché se noi<br />

definiamo la confluenza di popoli e saperi in termini di ipocrisia, finiamo con il mettere da parte<br />

l’esistenza stessa di una tradizione. Non c’è tradizione, non c’è continuità dei saperi e degli eventi,<br />

ci sono degli imprevisti (Les imprévus de l’histoire è il titolo di una delle ultime raccolte di saggi di<br />

Lévinas, del 1994).<br />

In questa storia ricca di imprevisti il popolo ebraico acquista una funzione tutta particolare, quella di<br />

formulare ed esprimere in greco (nella lingua europea) la propria singolarità, la quale «non è una<br />

permanente ricaduta in un provincialismo superato» «ma rivela un aldilà dell’universalità, cioè quel<br />

che porta a compimento e perfeziona la fraternità umana», 40 o «un universale in grado di unire le<br />

persone senza ridurle a quell’astrazione che sacrifica la loro unicità di unico al genere». 41 Abbiamo<br />

qui un esempio di ospitalità: la lingua europea che ospita la singolarità ebraica per dire la non-<br />

omologazione, per dire la differenza.<br />

Ora, questa unificazione non inglobante <strong>della</strong> differenza, questo pluralismo per così dire “solidale”,<br />

è affidato ad un’ontologia <strong>della</strong> pace:<br />

«L’unità <strong>della</strong> pluralità è la pace e non la coerenza di elementi che costituiscono la<br />

pluralità. La pace non può quindi identificarsi con la fine dei combattimenti che<br />

cessano per mancanza di combattenti, per la sconfitta degli uni e la vittoria degli<br />

altri, cioè con i cimiteri o gli imperi universali futuri». 42<br />

La pace è insomma il nome filosofico del molteplice in quanto ad un tempo assoluto e relazionato.<br />

Questo introduce alla tesi ontologica forte, formulata nelle conclusioni di <strong>Totalità</strong> e <strong>Infinito</strong> in tre<br />

proposizioni, che rappresentano un vero e proprio manifesto filosofico, forse troppo azzardato<br />

(infatti verranno in parte abiurate dallo stesso Lévinas). Proviamo comunque a leggerle, anche se<br />

non nell’ordine esatto in cui compaiono nel testo:<br />

40 E. Lévinas, L’al di là del versetto, tr. it., Guida, Napoli, 289.<br />

41 Ivi, p. 53.<br />

42 TI, p. 314.<br />

19


«L’essere è esteriorità: l’esercizio stesso del suo essere consiste nell’esteriorità». 43<br />

«Abbiamo affrontato l’esteriorità dell’essere non come una forma che l’essere<br />

dovrebbe assumere eventualmente o provvisoriamente nella divisione o nella sua<br />

decadenza, ma proprio come il suo esistere». 44<br />

«L’essere si produce come multiplo e come scisso in Medesimo e Altro. Questa è<br />

la sua struttura ultima». 45<br />

L’essere è esercizio d’essere, esistenza. Tesi dinamica che fa dell’essere un processo di produzione<br />

e completa automanifestazione. Si confronti la «Prefazione» a <strong>Totalità</strong> e <strong>Infinito</strong>, p. 24:<br />

«il termine produzione indica e l’effettuazione dell’essere (l’evento “si produce”,<br />

un’automobile “si produce”) e la sua messa in luce o la sua esposizione (un<br />

argomento “si produce”, un attore “si produce”)».<br />

L’essere è interamente ed essenzialmente un processo di generazione ed esibizione: «si produce».<br />

L’essere è esteriorità, ossia: è fuori di sé. Non esiste una interiorità dell’essere che resta nascosta<br />

dietro le sue manifestazioni. Chi ha studiato Hegel al liceo, sa che il procedimento hegeliano<br />

consiste in una posizione dell’esteriorità e nella sua interiorizzazione. Tutto ciò che è “fuori” deve<br />

in qualche modo rientrare. La “sintesi” di cui parlano i manuali del liceo è appunto questa<br />

riconduzione dell’esteriorità e del molteplice nell’unità del sistema. Lévinas dice il contrario: questa<br />

sintesi, semplicemente, non c’è, e non c’è perché l’essere coincide con l’ek-sistere, con l’essere<br />

gettato fuori di sé (come già insegnava Heidegger). Non c’è – come invece in Hegel – passaggio<br />

dalla sostanza al soggetto, non c’è storia dell’essere che si ritira in se stesso e tende verso un fine,<br />

un destino, ma c’è la produzione d’essere come dispersione. L’essere è produzione di singolarità<br />

assolute, irrelate e finite, le quali proprio per questo soffrono di una costitutiva perdita d’essere.<br />

Per questo Lévinas può parlare di «individualismo dell’essere», che spesso avvicina − a torto,<br />

perché in effetti si tratta di cose diverse − al conatus essendi spinoziano, che diventa il modello<br />

dell’egoismo individualistico.<br />

Abbiamo insomma produzione di individualità separate e relazionate, paradosso che ripropone<br />

quello del rapporto tra accoglienza e separazione.<br />

• Da un lato abbiamo una metafisica <strong>della</strong> relazione: l’essere produce la relazione sociale,<br />

43 TI, p. 298.<br />

44 TI, p. 304.<br />

45 TI, p. 277.<br />

meglio, è la socialità stessa.<br />

20


• Dall’altro abbiamo una ontologia <strong>della</strong> separazione: l’essere è scissione, l’essere è fuori di<br />

sé, e qui produce esseri separati ed egoisti.<br />

L’infinito e la totalità: il problema<br />

<strong>Totalità</strong> e <strong>Infinito</strong>. Saggio sull’esteriorità. Gia titolo e sottotitolo ci suggeriscono che “<strong>Totalità</strong>” e<br />

“<strong>Infinito</strong>” non sono la stessa cosa, ossia che l’infinito si distingue, per non dire che si contrappone,<br />

alla totalità, e che l’argomento del saggio è l’esteriorità, ossia ciò che sta fuori dalla totalità.<br />

L’infinito sta fuori dalla totalità perché la totalità non può avere alcun fuori e perché l’infinito non<br />

si totalizza, perché se così fosse sarebbe finito. Sicché, in effetti, l’argomento del saggio è l’infinito<br />

nelle sue ripercussioni sulla totalità.<br />

«Questo libro si presenta… come una difesa <strong>della</strong> soggettività, ma non la coglierà<br />

al livello <strong>della</strong> sua protesta puramente egoistica contro la totalità, 46 né nella sua<br />

angoscia di fronte alla morte, 47 ma come fondata nell’idea dell’infinito.<br />

Esso procederà distinguendo tra l’idea di totalità e l’idea di infinito e affermando il<br />

primato filosofico dell’idea dell’infinito. Racconterà come l’infinito si produce<br />

nella relazione del Medesimo con l’Altro…». 48<br />

Qui Lévinas precisa che non si tratta tanto di contrapporre infinito e totalità, ma di partire dalla<br />

soggettività, mostrarne l’irriducibilità alla totalità in quanto fondata nell’infinito, e di mostrare,<br />

infine, che l’infinito si produce nella relazione tra Medesimo e Altro. In altri termini, questo<br />

equivale a dire che la soggettività non ha a che fare con la totalità, ma si fonda interamente nella<br />

relazione sociale. 49<br />

Prosegue Lévinas:<br />

«L’idea dell’infinito è il modo d’essere − l’infinizione dell’infinito. […] La sua<br />

infinizione si produce come rivelazione, come immiizzazione <strong>della</strong> sua idea. Essa si<br />

46<br />

Il riferimento, qui, è a Kierkegaard.<br />

47<br />

Il riferimento, qui, è all’essere-per-la-morte di Heidegger.<br />

48<br />

TI, p. 24.<br />

49<br />

Secondo Fabio Polidori, la mossa filosofica di Lévinas non è «tanto la rivendicazione di una posizione centrale<br />

dell’altro e dell’alterità in generale, quanto il fatto che questo ribaltamento di posizione, questa inversione − […] anche<br />

gerarchica − avvenga all’interno <strong>della</strong> filosofia, all’interno del discorso forse meno ospitale nei confronti dell’alterità e<br />

delle sue istanze, sul piano insomma del discorso entro cui si giocano i termini dell’appartenenza, del riconoscimento,<br />

<strong>della</strong> identità», cfr. F. Polidori, «L’Altro infinito», in P. A. Rovatti (a cura di), Scenari dell’alterità, Bompiani, Milano<br />

2004, p. 51.<br />

21


produce con il fatto inverosimile nel quale un essere separato fissato nella sua<br />

identità, il Medesimo, l’Io contiene nonostante tutto in sé − ciò che non può né<br />

contenere né ricevere in virtù <strong>della</strong> sua sola identità». 50<br />

Che significa che l’infinito si produce come “immiizzazione” <strong>della</strong> sua idea? Che vuol dire<br />

“immiizzazione?”. A prima vista, sembrerebbe un altro modo per dire “interiorizzazione”: se<br />

penso a qualcosa, questo qualcosa, in quanto è un’idea, è nella mia testa (un conto è un oggetto<br />

reale, un altro conto è lo stesso oggetto pensato: il primo è fuori di me, nello spazio, il secondo è<br />

nella mia mente). Lévinas, però, chiarisce che si tratta, piuttosto, di rivelazione. In genere, ciò che<br />

si rivela è la trascendenza, che anche se appare a me resta esterna a me, appartenente ad un’altra<br />

dimensione. “Immiizzazione” traduce il francese “mise en moi”, messa-in-me: l’io riceve qualcosa<br />

che non potrebbe contenere «in virtù <strong>della</strong> sua sola identità»; in altri termini, riceve qualcosa di<br />

estraneo, di straniero.<br />

«Questo libro presenterà la soggettività come ciò che accoglie Altri, come<br />

ospitalità». 51<br />

Derrida sostiene che <strong>Totalità</strong> e <strong>Infinito</strong> è un trattato sull’osptalità, anche se, in effetti, il termine<br />

ricorre poche volte, assai meno di quello di “trascendenza”. Questa parola (dal latino trans +<br />

scando) nella sua etimologia fa pensare ad un duplice movimento di attraversamento e risalita,<br />

indica, cioè, un movimento verso l’alto e verso l’altrove. È ciò che porta Lévinas a privilegiare la<br />

figura di Abramo, di contro a quella di Ulisse «che desidera soltanto di tornare a casa sua». 52<br />

La mossa teorica di Lévinas consiste nel rintracciare la trascendenza nel cuore stesso <strong>della</strong><br />

metafisica:<br />

« “La vera vita è assente”. Ma noi siamo al mondo. La metafisica sorge e si<br />

mantiene in questo alibi. Essa è rivolta all’ “altrove”, e all’ “altrimenti”, e all’<br />

“altro”». 53<br />

50 TI, p. 24.<br />

51 TI, p. 25.<br />

52 TI, p. 25. La contrapposizione è più esplicita qui: «Al mito di Ulisse che ritorna ad Itaca vorremmo contrapporre la<br />

storia di Abramo che lascia per sempre la sua patria per una terra ancora sconosciuta e che proibisce al suo servo di<br />

ricondurre perfino suo figlio a quel punto di partenza», E. Lévinas, La traccia dell’Altro, Tullio Pironti, Napoli 1979, p.<br />

30.<br />

53 TI, p. 31.<br />

22


La metafisica − oltre la fisica − è desiderio di un’altra realtà, più vera di quella in cui viviamo, ma<br />

inesperibile. Si pensi alla filosofia di Parmenide: la realtà consiste nell’unicità dell’Essere identico<br />

a sé, immobile, immutabile, di cui però non è possibile alcuna esperienza (perché, anzi,<br />

l’esperienza ci mostra la molteplicità, il divenire, etc…).<br />

L’esempio, in fondo, è calzante. La metafisica, secondo Lévinas, malgrado la sua aspirazione<br />

originaria, diventa un pensiero rivolto all’identità e all’immutabilità, all’eterno. In breve: un<br />

pensiero che cerca la “vera vita” nella totalità. La metafisica diventa ontologia, scienza dell’essere<br />

inteso come identità e totalità, il cui atto conoscitivo corrispondente è il concetto, che racchiude in<br />

sé i generi delle cose.<br />

«La filosofia occidentale è stata per lo più un’ontologia: una riduzione dell’Altro al<br />

Medesimo […]. Questo primato del Medesimo ha costituito la lezione di Socrate.<br />

Non ricevere nulla da Altri se non ciò che è in me, come se, da sempre, io<br />

possedessi ciò che mi viene dal di fuori […]. La conoscenza è il dispiegarsi di<br />

questa identità». 54<br />

La filosofia per Lévinas è, insomma, il tentativo di ridurre l’alterità all’identità, è il passaggio dalla<br />

differenza all’identità. Esempio paradigmatico è Socrate e il suo motto per cui la vera conoscenza<br />

è conoscenza di se stessi. La filosofia neutralizza ogni alterità, che diventa, quindi, oggetto e tema,<br />

vale a dire qualcosa che sta di fonte a me e che mi rappresento, in quanto entra nel mio orizzonte<br />

conoscitivo, qualcosa di cui parlo.<br />

«L’ente si comprende nella misura in cui il pensiero lo trascende, per misurarlo<br />

all’orizzonte nel quale si profila. Tutta la fenomenologia, a partire da Husserl, è la<br />

promozione dell’idea dell’orizzonte che, per essa, svolge un ruolo equivalente a<br />

quello del concetto nell’idealismo classico; l’ente sorge su uno sfondo che lo<br />

supera come l’individuo a partire dal concetto». 55<br />

L’ente è conosciuto non in se stesso, ma a partire da uno sfondo che lo ingloba. Questo sfondo può<br />

essere il concetto in Hegel, o l’orizzonte <strong>della</strong> coscienza in Husserl. In Heidegger questo sfondo<br />

diventa l’essere<br />

54 TI, p. 41.<br />

55 TI, p. 42.<br />

23


«Affermare la priorità dell’essere rispetto all’ente significa già pronunciarsi<br />

sull’essenza <strong>della</strong> filosofia, subordinare la relazione con qualcuno che è un ente (la<br />

relazione etica) a una relazione con l’essere dell’ente che, impersonale, consente il<br />

possesso, il dominio dell’ente. 56 […]<br />

Dire che l’ente si svela solo nell’apertura dell’essere significa dire che noi non<br />

siamo mai con l’ente in quanto tale, direttamente». 57<br />

Con Heidegger si può parlare dell’ente solo a partire dall’essere. Se l’ente in questione è l’uomo,<br />

questo comporta che si possa parlare dell’uomo, ma che non si parli più all’uomo.<br />

Contro l’ontologia, Lévinas sostiene il primato dell’etica intesa come la vera metafisica. La<br />

metafisica viene concepita, infatti, come desiderio e come viaggio:<br />

«Il desiderio metafisico tende verso una cosa totalmente altra, verso<br />

l’assolutamente altro. 58 […]<br />

Il desiderio metafisico non aspira al ritorno, perché è il desiderio di un paese nel<br />

quale non siamo mai nati. Di un paese straniero ad ogni natura, che non è stato la<br />

nostra patria e nel quale non ci trasferiremo mai. 59 […]<br />

Essa [la metafisica] consiste nell’andare là dove non l’ha preceduta nessun pensiero<br />

illuminante − cioè panoramico − nell’andare senza sapere dove». 60<br />

La metafisica, come tentativo di oltrepassare il piano <strong>della</strong> “fisica”, viene concepita come un<br />

desiderio dell’altro e dell’altrove, come un viaggio che non aspira al ritorno (forse neanche alla<br />

partenza, in realtà) perché è il desiderio di un paese mai visto. 61 Questo Altro, cui la filosofia<br />

tende, è un Altro assoluto e, quindi, non necessariamente qualcosa che sta da un’altra parte: 62 il<br />

mondo delle idee di Platone, per esempio, è il riflesso del mondo terreno, solo che viene concepito<br />

come più vero del nostro, perché eterno.<br />

Ancora, l’Altro è lo straniero, ma non tanto perché venga da un altro posto, quanto perché<br />

56 TI, p. 43.<br />

57 TI, p. 49.<br />

58 TI, p. 31.<br />

59 TI, p. 32.<br />

60 TI, p. 313.<br />

61 Si pensi all’affermazione di Aristotele secondo cui la filosofia comincia con lo stupore: si tratta dello stupore di<br />

fronte a ciò che c’è, che, d’improvviso, cessa di essere familiare.<br />

62 «L’Altro con il quale il metafisico è in rapporto e che egli riconosce come altro non è semplicemente in un altro<br />

posto», TI, p. 36.<br />

24


«viene a turbare la mia casa […]. Su di lui non posso potere. Sfugge alla mia presa<br />

per un fatto essenziale,anche se dispongo di lui. Non è interamente nel mio<br />

luogo». 63<br />

L’Altro irrompe nel mio spazio come un fattore di disturbo. Nello stesso tempo, egli è libero<br />

perché − come vedremo − inviolabile. L’Altro non si situa nel mio luogo perché è ospitato.<br />

Per poter descrivere con esattezza la relazione tra uomini come relazione tra termini assoluti −<br />

ossia distinti ed irrelati − Lévinas deve presupporre la possibilità <strong>della</strong> separazione. Questo<br />

significa ricorrere all’ipotesi teorica di un mondo originariamente popolato solo dall’esperienza del<br />

Medesimo. Questa esperienza si caratterizza come un godere del mondo e un soggiornare in esso.<br />

La dimora<br />

La sezione di <strong>Totalità</strong> e <strong>Infinito</strong> dedicata alla dimora può essere letta come una critica a Heidegger,<br />

che, tuttavia, viene chiamato in causa apertamente solo nelle «Conclusioni», a p. 307:<br />

«L’ultima filosofia di Heidegger […] pone la rivelazione dell’essere nell’abitazione<br />

umana tra Cielo e Terra, nell’attesa di dèi e in compagnia di uomini ed innalza il<br />

paesaggio o la “natura morta” ad origine dell’umano».<br />

Il riferimento è alla conferenza Costruire, abitare, pensare (1951), poi raccolta da Heidegger nel<br />

volume Saggi e discorsi (1954). 64 Qui Heidegger sostiene che<br />

• per costruire, bisogna già abitare<br />

• abitare non significa solo un radicamento originario<br />

• abitare indica uno stare sotto il cielo (si pensi alla pratica dell’agricoltura, che procede<br />

tenendo conto del clima, del ciclo delle stagioni etc…)<br />

• abitare è uno stare nell’aperto, un soggiornare presso gli dèi.<br />

C’è, indubbiamente, un radicamento, che tuttavia è anche un’apertura verso la trascendenza.<br />

Singolarmente, Lévinas rigetta − anche con una certa veemenza − questo motivo heideggeriano<br />

che, in fondo, avrebbe potuto portarlo a sostenere che il Medesimo soggiorna presso l’Altro ed è<br />

63 TI, p. 37.<br />

64 M. Heidegger, Saggi e discorsi, tr. it. a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976, pp. 96-108.<br />

25


esposto all’Altro, proprio in quanto il mortale cui fa riferimento Heidegger è esposto al cielo e al<br />

divino.<br />

Lévinas affronta il confronto con Heidegger su questo tema in almeno due altre occasioni.<br />

La prima è un articolo apparso sulla rivista «Esprit» nel 1934, intitolato Alcune riflessioni sulla<br />

filosofia dell’hitlerismo − Hitler ha appena preso il potere. Qui Lévinas attacca l’eccesso di<br />

biologismo tipico di quegli anni, che porta l’uomo ad essere inchiodato (être rivé) al proprio corpo,<br />

alla propria razza, al proprio territorio. La coscienza di être rivé viene posta all’origine<br />

dell’invenzione delle razze. Il riferimento esplicito al nome di Martin Heidegger comparirà solo<br />

nella prefazione del 1990 alla ripubblicazione dell’articolo in volume. 65 Qui Lévinas sostiene che il<br />

nazionalsocialismo non deve essere visto come una «contingente anomalia <strong>della</strong> ragione umana»,<br />

né come l’effetto di un «qualche malinteso ideologico accidentale». 66 Non si tratta, insomma, di un<br />

“incidente di percorso”, ma, in certo senso, di una necessità cui si incorre qualora ci si leghi<br />

all’elemento naturale. Questo legame, chiamato anche male elementale, è una minaccia per il<br />

soggetto e «s’inscrive nell’ontologia dell’essere che ha cura dell’essere […] secondo l’espressione<br />

heideggeriana». 67<br />

La seconda occasione è un saggio, apparso nel 1961 sulla rivista «Information Juive», poi<br />

ripubblicato in Difficile Libertà, dal titolo Heidegger, Gagarin e noi. L’articolo è − contro<br />

Heidegger − una difesa <strong>della</strong> tecnica, non solo perché questa ha consentito un miglioramento delle<br />

condizioni di vita, ma perché ha il merito di umanizzare il mondo. Essa, infatti, eliminando i<br />

luoghi, per così dire ci consente di ragionare in termini globali e di concepire l’uomo in quanto<br />

tale, indipendentemente dai contesti geografici o dall’appartenenza etnica e nazionale. La tecnica<br />

ci permette di<br />

«apercevoir les hommes en dehors de la situation où ils sont campés, laisser luire le<br />

visage humain dans sa nudité». 68<br />

Tutti coloro che si schierano contro la tecnica − tra cui, a questo punto, lo stesso Heidegger − sono,<br />

a detta di Lévinas, dei reazionari e dei sottosviluppati. 69 La tecnica, infatti, ha eliminato<br />

l’attaccamento ai luoghi, e soprattutto ha reso vana la superstizione del luogo propria del mondo<br />

hiedeggeriano. 70<br />

65<br />

E. Lévinas, Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo, tr. it. di A. Cavalletti, Quodlibet, Macerata 1996.<br />

66<br />

Ivi, p. 21.<br />

67<br />

Ibidem.<br />

68<br />

E. Lévinas, Heidegger, Gagarine et nous, in Id., Difficile Liberté, Albin Michel, Paris 1976, p. 325.<br />

69 Ivi, p. 324.<br />

70 Ivi, p. 325.<br />

26


Quali le ragioni di questa critica − forse ingiusta − a Heidegger? Lévinas forse respinge quella<br />

sorta di deriva mistico-teologica propria <strong>della</strong> cosiddetta “seconda fase” del pensiero di Heidegger,<br />

in cui vede un “materialismo vergognoso”, 71 e, senz’altro, una tesi solipsistica (in effetti, il<br />

problema di Heidegger non sembrano essere le relazioni umane). Forse, in Heidegger, l’apertura<br />

non porta all’accoglienza dell’Altro. Certo è che la critica a Heidegger è la strategia che serve a<br />

Lévinas per costruire il concetto di Medesimo.<br />

Dimorare, per Lévinas, significa ritirarsi. La costruzione <strong>della</strong> casa non è uno stare all’aperto, ma<br />

è l’evento <strong>della</strong> separazione. Dimorare non significa essere-nel-mondo, ma ritirarsi da esso, stare<br />

presso di sé.<br />

In queste pagine, il termine “mondo” viene utilizzato in due accezioni diverse: 72<br />

1. Natura, ossia l’elemento naturale, oggetti di godimento<br />

2. Mondo di cose, costituito dal lavoro umano, che trasforma il mero elemento naturale in<br />

oggetti e beni materiali..<br />

Il mondo naturale non è originariamente, su questo piano di analisi, termine di una<br />

rappresentazione (come in Husserl) e nemmeno un complesso di mezzi per uno scopo (come nelle<br />

teorie utilitaristiche), non è l’insieme degli utilizzabili (come in Heidegger). Il mondo, piuttosto, è<br />

termine del godimento umano, qualcosa che viene assimilato e che riempie la mia vita, ne<br />

costituisce il contenuto.<br />

«Noi viviamo di “grana”, d’aria, di luce, di spettacoli, di lavoro, di idee, di sonno,<br />

ecc… Non si tratta di oggetti di rappresentazione. Ne viviamo. Ciò di cui viviamo<br />

non è “mezzo di vita”, come la penna è mezzo rispetto alla lettera che permette di<br />

scrivere; né uno scopo <strong>della</strong> vita, come la comunicazione è scopo <strong>della</strong> lettera. Le<br />

cose di cui viviamo non sono dei mezzi e neppure degli utilizzabili, nel senso<br />

heideggeriano del termine. […] Vivere è come un verbo transitivo i cui<br />

complementi diretti sono i contenuti <strong>della</strong> vita. […] Vivere di pane, non è dunque<br />

né rappresentarsi il pane, né agire su di esso, né agire attraverso di esso». 73<br />

L’aspetto di critica verso Heidegger è riscontrabile anche nei passi in cui Lévinas fa riferimento<br />

all’indipendenza del godimento. Mentre l’essere-nel-mondo di Heidegger allude ad una<br />

dipendenza dell’uomo nei confronti delle cose (devo servirmi di esse, se voglio raggiungere i miei<br />

scopi), il godimento si risolve interamente nello sfruttamento e nell’assimilazione del mondo<br />

naturale da parte dell’uomo:<br />

71 TI, p. 307.<br />

72 Cfr. A. Zielinski, Lecture de Merleau-Ponty et de Lévinas, PUF, Paris 2002, in part. p. 137.<br />

73 TI, pp. 110-111.<br />

27


«mentre il ricorso allo strumento presuppone la finalità e sottolinea quindi una<br />

dipendenza nei confronti dell’altro, vivere di… mette in luce proprio<br />

l’indipendenza, l’indipendenza del godimento e <strong>della</strong> sua felicità che è il tratto<br />

originale di ogni indipendenza». 74<br />

Vivere non è uno scopo, ma semplicemente il fatto di godere dell’elemento naturale e il fatto di<br />

nutrirsi. La vita è il fatto dell’alimentazione che, sul piano dell’esistenza umana, coincide con<br />

l’assaporare dei sapori, con il gusto:<br />

«Il nutrirsi, come modo di riacquistare le forze, è la trasmutazione dell’Altro in<br />

Medesimo, che è nell’essenza del godimento: un’energia altra da me, riconosciuta<br />

come altra […], diventa, nel godimento, la mia energia, la mia forza, me stesso.<br />

Ogni godimento, in questo senso, è alimentazione». 75<br />

È chiaro, quindi, che il godimento rende indipendenti in quanto è assimilazione dell’elemento<br />

naturale e riduzione <strong>della</strong> sua alterità. Ma c’è un altro aspetto non meno importante: il godimento è<br />

«il fremito stesso dell’io». 76 È, cioè, una sorta di autoaffezione, un sentirsi attraverso ciò che si<br />

consuma e viene assimilato, è un sentire sé, attraverso la sensazione del sapore che si avverte nel<br />

momento in cui la lingua, i denti, entrano in contatto con il cibo, lo sciolgono e lo fanno a pezzi.<br />

«L’indipendenza <strong>della</strong> felicità dipende sempre da un contenuto: è la gioia o la<br />

fatica di respirare, di guardare, di alimentarsi, di lavorare, di maneggiare il martello<br />

e la macchina, ecc…». 77<br />

Potremmo dire che, nell’esistenza dell’uomo, il godimento è la fase <strong>della</strong> sensazione, intesa come:<br />

• Stimolazione degli organi di senso<br />

• Affezione: sentire le qualità delle cose<br />

• Autoaffezione: sentire se stessi attraverso la sensazione delle qualità delle cose.<br />

Qui siamo a contatto con elementi, ossia con qualità sensibili (colori, sapori, odori, etc.), e non con<br />

cose. Il fatto che, attraverso questo contatto, sentiamo noi stessi rappresenta una prima presa di<br />

distanza dall’elemento, ancora insufficiente, perché non ancora in grado di tradursi inesperienza.<br />

74 TI, p. 110.<br />

75 TI, p. 111.<br />

76 TI, p. 113.<br />

77 TI, pp. 110-111.<br />

28


È necessario che il soggetto si colga come corpo localizzato in un punto dello spazio, che abbia la<br />

possibilità di cogliersi come luogo, per distinguersi dal continuo degli elementi naturali. Questa è<br />

la fase del dimorare, ossia dell’insediamento, del prendere luogo.<br />

«La casa non radica l’essere separato in un terreno per lasciarlo in una<br />

comunicazione vegetale con gli elementi. Essa si pone in disparte rispetto<br />

all’anonimato <strong>della</strong> terra, dell’aria, <strong>della</strong> luce, <strong>della</strong> foresta, <strong>della</strong> strada, del mare,<br />

del fiume. […] La funzione originaria <strong>della</strong> casa non consiste nell’orientare l’essere<br />

con l’architettura dell’edificio e nello scoprire un luogo, ma nel rompere la totalità<br />

dell’elemento, nell’aprirvi lo spazio per l’utopia in cui l’ “io” si raccoglie<br />

dimorando a casa sua». 78<br />

Dimorare significa, pertanto:<br />

• Localizzarsi, prendere posto<br />

• Separarsi da un rapporto simbiotico con gli elementi naturali per rinchiudersi in sé, trovarsi<br />

in questo raccogliersi: «Il raccoglimento, nel senso abituale del termine, indica una<br />

sospensione delle reazioni immediate sollecitate dal mondo, in previsione di una maggiore<br />

attenzione rivolta a se stessi». 79<br />

• Rappresentarsi le cose del mondo (quelle che si possono vedere dalla finestra di casa<br />

propria: il mondo diventa uno spettacolo).<br />

Dal luogo, dallo spazio che si occupa, il mondo diventa composto di cose, che entrano nel campo<br />

visivo, e che sono oggetto del lavoro umano tanto quanto sono oggetto di una rappresentazione:<br />

«Concretamente, la dimora non si situa nel mondo oggettivo, ma il mondo<br />

oggettivo si situa rispetto alla mia dimora». 80<br />

Non bisogna trascurare, però, che la dimora, spazio del raccoglimento, è anche possibilità<br />

dell’accoglienza.<br />

Cerchiamo di chiarire questo passaggio con un excursus, riferendoci a un saggio Di Georg Simmel<br />

del 1909, Ponte e porta, 81 senz’altro conosciuto da Lévinas e citato tra le righe da Derrida.<br />

Ponte e porta, scrive Simmel, sono entrambi elementi che distinguono due luoghi nel momento<br />

stesso in cui li mettono a contatto: essi stabiliscono, in altre parole, una correlazione tra la<br />

78 TI, p. 159.<br />

79 TI, p. 157.<br />

80 TI, p. 156.<br />

81 G. Simmel, Ponte e porta, in Id., Saggi di estetica, tr. it. a cura di M. Cacciari, Liviana, Padova 1970, pp. 1-8.<br />

29


separatezza e l’unificazione. 82 Nel caso del ponte, l’aspetto di correlazione prevale su quello <strong>della</strong><br />

separatezza, tanto è vero che «non fa alcuna differenza in quale direzione si percorre un ponte». 83<br />

Differente è il caso <strong>della</strong> porta. Chi per primo eresse una porta − scrive Simmel − ritagliò un<br />

segmento dalla continuità indefinita dello spazio: «un frammento dello spazio viene con ciò in sé<br />

unificato e separato da tutto il mondo restante». 84 Questo segmento finisce con l’acquisire un<br />

senso, quello del dentro rispetto al fuori: «la porta indica con l’entrare e l’uscire una totale<br />

differenza nell’intenzione». 85 Tutto ciò diventa più chiaro se confrontiamo la porta con altre<br />

strutture come una finestra o una parete. La finestra serve per guardare fuori, essa è come un paio<br />

di occhiali, o meglio come un binocolo, la cui direzione univoca non consente di concepire la<br />

dimensione duplice del dentro/fuori. La parete, poi, è semplicemente una barriera.<br />

La porta può anche venire aperta, e quindi<br />

«la sua chiusura dà la sensazione di una separatezza nei riguardi di tutto ciò che è al<br />

di là di questo spazio, ancora più forte di quella che dà la mera e indifferente<br />

parete». 86<br />

È assai significativo il seguito di questa frase: «La parete è muta. Ma la porta parla». 87 La porta è<br />

già indice <strong>della</strong> possibilità di rivolgersi ad altri, direbbe Lévinas, e Derrida commenta che la porta<br />

rappresenta un “modo di parlare”, un’apertura verso la trascendenza dell’infinito.<br />

«La porte ouverte, façon de parler, appelle l’ouverture d’une extériorité ou d’une<br />

transcendance de l’idée de l’infini». 88<br />

Torniamo, quindi, al testo di Lévinas, a partire da una frase che riepiloga il percorso sin qui svolto<br />

nel ribadire che la dimora è qualcosa di più di un edificio, perché definisce una struttura<br />

dell’esperienza:<br />

«Il ruolo privilegiato <strong>della</strong> casa non consiste nell’essere il fine dell’attività umana,<br />

ma nell’esserne la condizione e, in questo senso, l’inizio. Il raccoglimento<br />

82 Ivi, p. 5.<br />

83 Ivi, p. 6.<br />

84 Ivi, p. 5.<br />

85 Ivi, p. 6.<br />

86 Ivi, p. 5.<br />

87 Ivi, p. 5.<br />

88 J. Derrida, Le mot d’accueil, cit., p. 56.<br />

30


necessario perché la natura possa essere rappresentata e lavorata, perché essa si<br />

delinei soltanto come mondo, si attua nella casa». 89<br />

Segue un’ulteriore presa di distanza da Heidegger. L’uomo<br />

«non viene da uno spazio intersiderale nel quale sarebbe già padrone di sé e a<br />

partire dal quale dovrebbe, in ogni istante, ricominciare un percorso di atterraggio.<br />

Ma non è brutalmente gettato e abbandonato nel mondo». 90<br />

Se l’uomo non è un puro spirito che aleggia nel vuoto, non è, del resto, nemmeno adeguata<br />

l’ipotesi heideggeriana <strong>della</strong> gettatezza. L’uomo non è “gettato” nel mondo ma comodamente<br />

alloggiato in esso, tuttavia, nel suo stare e nel suo risiedere, egli serve da «ingresso alla<br />

relazione». 91 L’uomo è contemporaneamente<br />

«fuori e dentro. Si pone all’esterno partendo da un’intimità d’altra parte questa<br />

intimità si apre in una casa che si situa in questo spazio esterno». 92<br />

È solo perché c’è un intimo che può esserci anche un fuori. La casa, però, occupa una posizione<br />

particolare. Essa, infatti, è fuori, perché si situa nello spazio esterno; tuttavia, non rappresenta il<br />

dentro del fuori, non è come l’anima rispetto al corpo. La casa è quell’interno a partire dal quale<br />

l’esterno può essere visto, rappresentato, interiorizzato, ma, tuttavia, è fuori, ha una porta, la porta<br />

può – e soprattutto deve – essere aperta per uscire, entrare, far entrare.<br />

«Così si apre, nell’interiorità, una dimensione nella quale potrà essere attesa e<br />

accolta la rivelazione <strong>della</strong> trascendenza». 93<br />

La dimora è, così, la possibilità dell’ospitalità, «il raccoglimento si riferisce ad un’accoglienza», 94<br />

è in se stessa accoglienza. L’aspetto dell’accoglienza e del raccoglimento è quel che Lévinas<br />

identifica nel femminile.<br />

Qui Lévinas si rifà, a modo suo, a una tradizione filosofica che risale ad Aristotele. Nello scritto<br />

L’amministrazione <strong>della</strong> casa, 95 Aristotele sostiene che l’uomo è un animale sociale e che lo Stato<br />

89 TI, p. 155.<br />

90 TI, p. 155-156.<br />

91 TI, p. 34.<br />

92 TI, p. 156.<br />

93 TI, p. 152.<br />

94 TI, p. 158.<br />

31


è un’unione di famiglie. La famiglia precede lo Stato, ma questo non è una “grande famiglia”: c’è<br />

una specificità <strong>della</strong> famiglia, che la rende oggetto di una apposita disciplina, ossia l’economia<br />

(che, originariamente, è l’amministrazione domestica).<br />

L’economia ha quindi per oggetto la famiglia, e la casa è una forma di relazione sociale<br />

riconducibile, però, alla sfera del possesso. Nel testo leggiamo che<br />

«Parti <strong>della</strong> famiglia sono l’uomo e la proprietà. Poiché la natura di ogni cosa si<br />

osserva principalmente negli elementi più piccoli, lo stesso varrà anche per la<br />

famiglia: perciò secondo Esiodo dev’essere “casa nella sua essenza la donna e il<br />

bove che ara”». 96<br />

Vediamo adesso in che modo Lévinas elabora questo tema. Il rapporto con il femminile<br />

rappresenta un abbozzo di socialità:<br />

«questo ritiro implica un fatto nuovo. È necessario che io sia stato in relazione con<br />

qualcosa di cui non vivo. Questo fatto è la relazione con Altri che mi accoglie nella<br />

Casa, la presenza discreta del Femminile». 97<br />

Si tratta di un abbozzo perché c’è sì un mondo umano, reso intersoggettivo, ma il rapporto è con un<br />

tu, anziché con l’Altro.<br />

Che differenza c’è? Nel caso del tu c’è congruenza e reciprocità, “tu” è qualcuno con cui si<br />

condivide qualcosa. Nel caso dell’Altro, c’è asimmetria: Altri è qualcuno a cui si dona:<br />

«per poter vedere le cose in se stesse, cioè per potermele rappresentare, per poter<br />

rifiutare sia il godimento che il possesso, è necessario che io sappia donare quello<br />

che possiedo». 98<br />

Tra l’uomo e il femminile – è più corretto servirsi di questo termine, anziché dire “donna”: il<br />

femminile è una modalità di relazione – c’è un idem sentire, un vedere le stesse cose, una<br />

comunione dei beni, anche se la donna è schiava (come, in effetti, intende il verso di Esiodo citato<br />

da Aristotele) e, aggiungerei, anche se, di fatto, in una casa non c’è nessuna donna. Quello che<br />

accomuna il Medesimo e il Femminile è la comune condizione di bisognosi e reclusi. “Femminile”<br />

95<br />

Aristotele, L’amministrazione <strong>della</strong> casa, tr. it. a cura di C. Natali, Laterza, Roma-Bari 1995.<br />

96<br />

Ivi, p. 60.<br />

97<br />

TI, p. 174. Nella stessa pagina, la “discrezione” del femminile viene contrapposta al «volto indiscreto di Altri che mi<br />

mette in questione».<br />

98 TI, p. 174.<br />

32


significa quindi esperienza <strong>della</strong> condivisione del bisogno e del possesso. Per questo, Lévinas fa<br />

riferimento a un<br />

«linguaggio senza insegnamento, linguaggio silenzioso, intesa senza parole,<br />

espressione nel silenzio». 99<br />

Si tratta di un principio di relazione sociale, che però non è ancora tale, è solo il principio<br />

dell’accoglienza. Con l’Altro non c’è condivisione, perché Medesimo e Altro non occupano lo<br />

stesso luogo, non hanno possessi in comune, non godono insieme delle stesse cose. La relazione<br />

tra Medesimo e Altro non è una relazione erotica. Importante, però, è il fatto che, per Lévinas, la<br />

dimora abbia una connotazione femminile in quanto, di per se stessa, luogo di raccoglimento e<br />

apertura all’accoglienza<br />

«Il femminile è stato incontrato in questa analisi come uno dei punti cardinali<br />

dell’orizzonte in cui si situa la vita interiore − e l’assenza empirica dell’essere<br />

umano di “sesso femminile” in una dimora, non cambia niente alla dimensione<br />

<strong>della</strong> femminilità che vi resta aperta, appunto come accoglienza <strong>della</strong> dimora». 100<br />

Con l’ospitalità cambia il senso del dimorare: «l’accoglienza del Volto […] risponde al desiderio<br />

inestinguibile dell’infinito». 101<br />

Vediamo i passaggi.<br />

Anzitutto «la trascendenza del Volto non esiste fuori del mondo». 102 Infatti,<br />

«La visione del Volto come Volto, è un certo modo di soggiornare nella casa, o<br />

[…] una certa forma di vita economica […] nessun volto potrebbe essere incontrato<br />

a mani vuote e a porte chiuse». 103<br />

Per donare, devo possedere; per accogliere, devo abitare da qualche parte: in questo senso l’Altro<br />

appare comunque nel mio mondo, e l’incontro con l’Altro è ancora un fatto che riproduce nella<br />

sfera dell’economia. L’Altro appare come colui che disturba la sfera privata, modificandone il<br />

senso e l’esperienza. Altri appare come un essere parlante ed introduce la dimensione del<br />

linguaggio in un mondo privo di parole. Il linguaggio è un modo per strutturare l’esperienza,<br />

99 TI, p. 158.<br />

100 TI, p. 161.<br />

101 TI, p. 153.<br />

102 TI, p. 175.<br />

103 TI, pp. 175-176.<br />

33


perché consente l’acquisizione <strong>della</strong> dimensione dell’oggettività del mondo, oggettività consistente<br />

nel fatto che il mondo diventa articolabile in parole e frasi, che possono circolare indefinitamente<br />

tra gli interlocutori.<br />

Volto ed etica<br />

«Il Volto è presente nel suo rifiuto di essere contenuto». 104 Questo è l’unico modo in cui un volto si<br />

può presentare: ossia come qualcosa di assolutamente esteriore a me. Il fatto che non sia<br />

“contenuto” significa che non può essere inglobato da me e che, a rigore, non posso nemmeno<br />

pensarlo, ossia tradurlo in un dato mentale mio, non posso inglobarlo con il pensiero, non posso<br />

ridurlo ad una modificazione <strong>della</strong> mia coscienza.<br />

Bisogna chiarire l’uso del termine “rifiuto”. Lévinas procede, per così dire, attraverso negazioni: ci<br />

spiega che cosa significa dicendoci in che modo questo termine non vada inteso.<br />

Anzitutto, “rifiuto” non equivale ad “antitesi”. L’Altro non è l’antitesi e la negazione dialettica del<br />

Medesimo; se così fosse, sarebbe un altro Medesimo, sarebbe – come in Hegel – un’altra<br />

autocoscienza che si oppone alla mia autocoscienza: «il carattere incomprensibile <strong>della</strong> presenza<br />

d’Altri […] non si descrive negativamente». 105<br />

Ancora, Lévinas afferma:<br />

«L’Altro, assolutamente altro – Altri – non limita la libertà del Medesimo.<br />

Chiamandola alla responsabilità, la instaura e la giustifica». 106<br />

Dobbiamo soffermarci su questa affermazione, che sembra in contrasto con altre relative allo<br />

stesso argomento – la libertà del Medesimo – presenti in altri luoghi del testo.<br />

A pag. 41 leggiamo, infatti,<br />

«Questa messa in questione <strong>della</strong> mia spontaneità da parte <strong>della</strong> presenza di Altri si<br />

chiama etica».<br />

A pag. 100, ancora,<br />

104 TI, p. 199.<br />

105 TI, p. 200.<br />

106 TI, p. 202.<br />

34


«Se definiamo coscienza morale una situazione nella quale la mia libertà è messa in<br />

questione, l’as-sociazione o l’accoglienza d’Altri è la coscienza morale».<br />

C’è contraddizione? Vediamo le cose in maniera più approfondita.<br />

La prima citazione – quella a pag. 41 – verte sulla spontaneità. La spontaneità non è la libertà, ma,<br />

più semplicemente, la tendenza naturale a soddisfare un bisogno naturale (ho sete, bevo etc…).<br />

nella sfera privata del Medesimo non c’è libertà ma, casomai, ciò che le scienze naturali chiamano<br />

istintualità e che, per Lévinas, è la felicità che accompagna il godimento.<br />

La cosa può essere chiarita attraverso una digressione, ossia riferendoci ad un testo molto noto di<br />

Hannah Arendt, The Human Condition (1958), tradotta in italiano con il titolo Vita activa. 107 In<br />

quest’opera – che tratta del passaggio dall’antichità alla modernità – la Arendt distingue,<br />

notoriamente, tre dimensioni dell’agire umano: il lavoro, l’opera, l’azione.<br />

Il lavoro – “sostantivo verbale”, lo definisce Arendt 108 – è quell’attività, o quel complesso di<br />

attività mediante le quali l’uomo soddisfa i suoi bisogni naturali. Lavorare significa «essere fatti<br />

schiavi dalla necessità», 109 e il lavoro è attività del corpo, un fatto motorio che, proprio per questo,<br />

nell’epoca antica è affidato alla schiavitù.<br />

L’opera è la fabbricazione di oggetti artificiali, attività dell’artigiano o dell’artista. Nel trattare<br />

<strong>della</strong> fabbricazione, la Arendt davvero sembra anticipare Lévinas, nel momento, cioè, in cui vede<br />

nell’operare l’aspetto del potere e <strong>della</strong> forza che trasformano la natura in mero “materiale”:<br />

«Il materiale è già un prodotto delle mani umane che lo hanno rimosso dalla sua<br />

posizione naturale, sia troncando un processo vitale, come nel caso dell’albero che<br />

deve essere abbattuto per fornire il legno, sia interrompendo uno dei processi più<br />

lenti <strong>della</strong> natura, come nel caso del ferro, <strong>della</strong> pietra o del marmo strappati dal<br />

grembo <strong>della</strong> terra […]. L’animal laborans, che con il suo corpo e con l’aiuto di<br />

animali addomesticati alimenta la vita, può essere il signore e padrone di tutte le<br />

creature viventi, ma rimane ancora il servo <strong>della</strong> natura e <strong>della</strong> terra; solo homo<br />

faber si comporta come signore e padrone di tutta la terra». 110<br />

Riassumendo, nell’attività lavorativa non c’è libertà, ma necessità naturale; nella fabbricazione c’è<br />

potere e forza, ma anche lì non c’è libertà. Questo perché la libertà compare solo nell’azione, in<br />

particolare nell’azione <strong>della</strong> deliberazione politica che si esercita nella sfera pubblica, sulla piazza,<br />

107 H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, tr. it. di S. Finzi, Bompiani, Milano 1994.<br />

108 Ivi, p. 59.<br />

109 Ivi, p. 60.<br />

110 Ivi, pp. 99-100.<br />

35


tra uomini che sono uguali perché tutti liberi: è la democrazia ateniese, nella quale non vi sono<br />

governanti né governati, perché tutti quanti governano e sono governati a turno.<br />

La sfera pubblica degli antichi si contrappone alla sfera domestica, in cui ritroviamo tanto l’aspetto<br />

<strong>della</strong> necessità naturale, quanto quello del potere. Anzitutto, la casa rappresenta un bene necessario<br />

per un uomo che desideri essere libero:<br />

«senza possedere una casa un uomo non poteva partecipare agli affari del mondo,<br />

perché in esso non aveva un luogo che fosse propriamente suo». 111<br />

La casa è il presupposto naturale – biologico – <strong>della</strong> politica, ma si distingue da essa così come la<br />

necessità naturale si distingue dalla libertà:<br />

«Il dominio <strong>della</strong> polis […] era la sfera <strong>della</strong> libertà, e se c’era una relazione tra<br />

queste due sfere, il controllo delle necessità <strong>della</strong> vita nella sfera domestica era<br />

evidentemente il presupposto <strong>della</strong> libertà nella polis». 112<br />

A differenza <strong>della</strong> sfera pubblica,<br />

«il tratto distintivo <strong>della</strong> vita domestica era che in essa gli uomini vivevano insieme<br />

perché spinti dai loro bisogni e dalla loro necessità. La forza che li spingeva era la<br />

vita stessa – i penati, gli dei <strong>della</strong> casa, erano, secondo Plutarco, “gli dei che ci<br />

fanno vivere e nutrono il nostro corpo” – che, per la sua conservazione individuale<br />

e la sua sopravvivenza come vita <strong>della</strong> specie, ha bisogno <strong>della</strong> compagnia di<br />

altri». 113<br />

Quindi, tutti i rapporti all’interno <strong>della</strong> sfera domestica sono all’insegna <strong>della</strong> non-libertà. In casa<br />

abitano coloro che sono in posizione subordinata, come le donne e gli schiavi, i bambini che hanno<br />

solo bisogni e necessità. Il maschio capofamiglia è anch’egli soggetto alla necessità, perché deve a<br />

sua volta nutrirsi e riprodursi e ha bisogno, per questo, degli schiavi e delle donne. Il maschio è,<br />

quindi, libero solo nell’agorà:<br />

111 Ivi, p. 22.<br />

112 Ivi, p. 23.<br />

113 Ivi, pp. 22-23.<br />

36


«Nella sfera domestica, dunque, non esisteva libertà; infatti il capofamiglia era<br />

considerato libero solo in quanto aveva il potere di lasciare la casa e accedere<br />

all’ambito politico, dove tutti erano eguali». 114<br />

Possiamo tornare a Lévinas e al tema <strong>della</strong> libertà. Le citazione tratta da pag. 100 fa riferimento ad<br />

una libertà messa in questione. Solo un essere libero può essere messo in questione, chi è libero<br />

può rispondere di se stesso, essere liberi significa essere responsabili. La citazione da pag. 202<br />

chiarisce questo punto: l’Altro non è portatore di una libertà che si contrappone alla mia, ma, anzi,<br />

attiva la mia libertà, mi rende libero.<br />

La contrapposizione tra le libertà è tema del pensiero dialettico, a partire da Hegel. Lo si ritrova nel<br />

pensiero di Sartre, esplicitamente richiamato da Lévinas nelle «Conclusioni»:<br />

«L’incontro d’Altri in Sartre minaccia la mia libertà ed equivale alla sconfitta <strong>della</strong><br />

mia libertà sottoposta allo sguardo di un’altra libertà». 115<br />

In Sartre l’Altro è come me, è un altro me, e quindi tende a farmi diventare suo oggetto. Non<br />

possiamo essere entrambi liberi perché, in questo modo di pensare, la libertà è concepita in termini<br />

di sovranità e, come tale, una e indivisibile.<br />

Al contrario, per Lévinas, la libertà coincide con la responsabilità e non con la sovranità: «la<br />

libertà non si giustifica con la libertà». 116 Se si giustificasse a partire da se stessa, la libertà<br />

coinciderebbe con la necessità. 117<br />

Ma se il Medesimo, nella sua sfera domestica, è schiavo <strong>della</strong> necessità, come può accadere che un<br />

essere necessitato possa diventare libero? La soluzione prospettata da Lévinas è solo<br />

apparentemente paradossale.<br />

Per diventare libero, il Medesimo deve perdere qualcosa, ossia quanto ha a che fare con la sfera<br />

<strong>della</strong> naturalità – deve perdere le cose in quanto materia del godimento e deve perdere il potere<br />

inteso come possesso. E questo è ciò che accade nell’accoglienza del Volto. 118<br />

Lévinas parte proprio dalla dimensione del potere: l’incontro con il Volto mi rende impotente. Io<br />

non ho – sul Volto – lo stesso potere che ho sulle cose. Non ne posso godere perché, come già<br />

visto, il Volto è discorso, e il discorso non me lo posso mettere in tasca e farlo mio; non lo posso<br />

114 Ivi, p. 24.<br />

115 TI, p. 311.<br />

116 TI, p. 312.<br />

117 Così è, p. es. in Spinosa: Dio è libero solo nel senso che agisce in base alla necessità <strong>della</strong> sua natura – il che<br />

equivale a dire che non è libero. Dio non sceglie di creare il mondo, né decide come crearlo, non può nemmeno fare<br />

miracoli, ossia contravvenire a delle leggi che promanano secondo necessità.<br />

118 «Noi chiamiamo questa situazione accoglienza del Volto», TI, p. 202.<br />

37


modificare a mio piacimento, così come da un albero posso ricavare un tavolo, etc… Certo, posso<br />

cercare di ucciderlo, ma già dire così è un controsenso, perché l’omicidio rivela una mancanza di<br />

potere.<br />

«Il Volto […] si offre ancora, in un cero senso, al potere. Ma solo in un senso: la<br />

profondità che si apre in questa sensibilità modifica la natura stessa del potere che<br />

da questo momento non può più prendere, ma può uccidere». 119<br />

L’espressione «non uccidere», per Lévinas è, quindi, «l’espressione originaria, è la prima<br />

parola». 120 Essa limita il potere del Medesimo con la proibizione dell’omicidio e con<br />

l’affermazione <strong>della</strong> sua impossibilità: «tu non mi puoi uccidere, perché l’uccisione non è una<br />

forma di potere: non è possibile possedere qualcosa che si ha eliminato».<br />

Il Volto appare in tre forme:<br />

1. espressione<br />

2. insegnamento<br />

3. significazione.<br />

Cominciamo con l’espressione. «Nell’espressione un essere si auto-presenta». 121 Chi si auto-<br />

presenta<br />

• dice qualcosa<br />

• presenta sé in quello che dice<br />

• mi fa segno.<br />

Questo aspetto del fare-segno – come già visto – è irriducibile, è l’aspetto pragmatico del discorso.<br />

Lévinas prosegue così:<br />

«L’essere che si manifesta assiste alla propria manifestazione e quindi fa appello a<br />

me […]. Manifestarsi assistendo alla propria manifestazione equivale ad invocare<br />

l’interlocutore e ad esporsi alla sua risposta e alla sua domanda». 122<br />

L’Altro resta, quindi, trascendente rispetto al suo stesso dire, ne è la sorgente, e il suo dire è la<br />

traccia che l’Altro lascia di sé. Altri non può essere ridotto a tema anche se sono io a parlargli di<br />

lui. L’Altro non si riduce a quello che io ne dico, non foss’altro che per il fatto che lo sto dicendo a<br />

lui.<br />

119 TI, p. 203.<br />

120 TI, p. 204.<br />

121 TI, p. 205.<br />

122 TI, p. 205.<br />

38


«Naturalmente, uno di essi può anche presentarsi all’altro come un tema, ma la sua<br />

presenza non si riassorbe nello statuto di tema. La parola che porta ad altri come<br />

tema sembra contenere altri. Ma essa si dice già ad altri che, in quanto<br />

interlocutore, ha abbandonato il tema che lo inglobava e spunta inevitabilmente<br />

dietro al detto». 123<br />

La parola del Volto è sempre insegnamento, è «il primo insegnamento razionale, la condizione di<br />

ogni insegnamento». 124<br />

Già accogliere l’Altro significa ascoltare la sua parola e riceverne l’insegnamento, e questo perché<br />

è l’Altro a portarmi la parola con il suo dire e con le sue richieste: il linguaggio non posso darmelo<br />

da me, mi viene sempre da Altri.<br />

«Un essere che riceve l’idea dell’infinito – che riceve, in quanto non la può trarre<br />

da sé – è un essere istruito in modo non maieutico». 125<br />

Il riferimento è a Socrate: per Socrate imparare significa ricordare e portare all’espressione quello<br />

che già si conosce e si possiede dentro di sé. Per Lévinas, imparare equivale ad accogliere quello<br />

che non si possiede, né si può possedere. Che cosa non è mai mio? Il sapere: il sapere non è mai<br />

mio, ma è tale solo se viene trasmesso e comunicato. Bisogna considerare che Lévinas ci propone,<br />

in quest’opera, un tipo di incontro con l’Altro basato su un paradigma pedagogico: la parola del<br />

Volto è sempre una parola magistrale, è insegnamento. Questo ci conduce al terzo e ultimo aspetto,<br />

la significazione. Lévinas afferma che il discorso instaura il significato. In che senso intendere<br />

questa affermazione? Si sa che il discorso si compone di significanti − ossia di componenti<br />

materiali come i fonemi e i grafemi − e che questi, di per sé, oltre ad essere arbitrari, non hanno<br />

significato; ma il discorso ha significato. Da dove viene il significato? Secondo Lévinas, il<br />

significato si produce nell’interazione, intesa come un atteggiamento del Medesimo nei confronti<br />

dell’Altro, ossia nel faccia-a-faccia:<br />

123 TI, p. 200.<br />

124 TI, p. 208.<br />

125 TI, p. 209.<br />

126 TI, pp. 209-210.<br />

«il linguaggio condiziona il pensiero: non il linguaggio nella sua materialità fisica,<br />

ma come un atteggiamento del Medesimo nei confronti di altri». 126<br />

39


Poco sotto, leggiamo ancora:<br />

«non è la mediazione del segno che fa il significato, ma è la significazione (il cui<br />

fatto originario è il faccia-a-faccia) che rende possibile la funzione del segno». 127<br />

Il segno, quindi, è significativo solo nel discorso, ossia in una concreta relazione tra interlocutori.<br />

Tale relazione modifica anche l’esperienza del Medesimo, perché introduce la dimensione del<br />

senso e del significato. Le cose, una volta nominate, diventano segni, ossia veicoli di significato.<br />

Certamente, posso ancora goderne, ma posso anche dirle ad Altri e, in quanto fornite di senso, le<br />

posso anche donare.<br />

«Un mondo sensato è un mondo in cui c’è Altri che fa sì che il mondo del mio<br />

godimento diventi tema fornito di significato. Le cose assumono un significato<br />

razionale e non solo di semplice uso, perché un altro è associato alle mie relazioni<br />

con esse. Designando una cosa la designo ad altri. L’atto di designare modifica la<br />

mia relazione, di godimento e di possidente, con le cose, situa le cose nella<br />

prospettiva d’altri. Utilizzare un segno […] permette di rendere le cose offribili, di<br />

staccarle dal mio uso, di alienarle, di renderle esterne […]. L’oggettività dipende<br />

dal linguaggio che permette di mettere in causa il possesso […]. Tematizzare<br />

significa offrire il mondo ad Altri con la parola». 128<br />

Questo periodo, assai denso, ci permette di riepilogare il percorso sin qui svolto. Lévinas ha<br />

ipotizzato un mondo popolato solo dal Medesimo. In questo mondo, senza linguaggio né discorso,<br />

le cose sono solo oggetto di godimento, ossia qualità sensibili (sapori, etc…) ed elementi da<br />

trasformare in base alle proprie necessità. Il mondo così inteso presenta un’alterità solo relativa al<br />

Medesimo, che può assimilarlo e trasformarlo sempre e solo per assimilarlo meglio. Questo mondo<br />

finisce con il coincidere interamente con il Medesimo: è il contenuto del godimento del<br />

Medesimo.<br />

L’apparizione dell’Altro coincide con l’ascolto <strong>della</strong> voce: il Medesimo, letteralmente, impara a<br />

parlare! Ma così cambia tutto; le cose nominate acquisiscono un’esteriorità e un’oggettività che<br />

prima non avevano: sono le stesse per tutti, e il mondo diventa un sistema di segni destinato a<br />

circolare e a trasmettersi integralmente nel discorso.<br />

127 TI, p. 211.<br />

128 TI, p. 214.<br />

40


Accogliere l’Altro significa, quindi, accoglierne la parola, una parola che ci consente di<br />

condividere un mondo e una casa, che non è più solo nostra:<br />

129 TI, p. 215.<br />

«Il soggetto sorvola sulla propria esistenza designando ciò che possiede all’altro,<br />

parlando. Ma solo l’accoglienza dell’<strong>Infinito</strong> dell’Altro gli dà la libertà da sé<br />

richiesta da questa espropriazione». 129<br />

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