la Pianura P.112 - Camera di Commercio di Ferrara - Camere di ...

lezione Corrado Padovani, oltre al
“disegno garofalesco”, copertina
della prima edizione. Il libro –
afferma Scardino nella sua prefazione
– è “quasi un’enciclopedia,
uno straordinario anche se un po’
‘datato’ zibaldone ferrarese, dove
convivono aneddotica, antropologia,
retorica, filologia, colore
giornalistico, toni divulgativi, fine
psicologia, citazioni epistolari,
nozioni di storia dell’astrologia,
nel quale si tenta lodevolmente
di precisare, di far luce su vari
punti oscuri della cultura figurativa
cittadina e sulla letteratura
critica ad essa collegata”. Il volume
è di fondamentale importanza
per l’analisi critica dell’arte
ferrarese soprattutto del Quattro-
Cinquecento, ma anche del
Novecento, e già alla sua prima
uscita nel 1954 suscitò gli elogi
di autorevoli critici, quali Roberto
Longhi: “…La ricchezza di documentazione
che vi è raccolta è
tale che il libro diverrà indispensabile
per ogni ricercatore della
grande arte ferrarese…”. L’autore
era stato notevolmente influenzato,
nella stesura della sua opera,
dal volume di Roberto Longhi
Officina Ferrarese, uscito nel
1934 – e ispirato dalla mostra
allestita nel 1933 sui pittori ferraresi
del ‘400 e del primo ‘500
– lo stesso anno in cui il rondista
Antonio Baldini raccoglieva le
numerose letture del poema ariostesco,
Orlando furioso, nel volume
Ottava d’oro, pubblicato da
Treves, e tenute dal 1928 al
1932 in occasione del quarto
centenario dalla morte del poeta.
Le letture del poema ariostesco,
secondo gran parte della critica
successiva - in particolare il
Barberi Squarotti nel convegno
organizzato dall’Università di
Ferrara nel 1977/78 – erano
state tutte condotte e ispirate dal
Croce, che aveva definito
l’Ariosto poeta dell’armonia,
della perfezione formale, dell’idillio,
della bellezza, della
muliebrità eminentemente contemplativa.
Certamente le ceri-
monie in onore dell’Ariosto del
‘28-‘32 si collocavano nell’ambito
di un’atmosfera che “celebrava
la leggendaria impresa aviatoria
di Italo Balbo con la sua trasvolata
atlantica, che costituiva
la chiave di lettura degli avventurosi
viaggi dei personaggi ariosteschi”.
Il saggio del Longhi,
secondo Barberi Squarotti, orientava
invece l’interpretazione del
Rinascimento verso un’idea d’arte
come astrazione metafisica e
come demonicità, ravvisabile
nelle pitture di Cosmè Tura, di
Ercole de Roberti, di Francesco
del Cossa. Del Tura Longhi scrive:
“Come un astrologo, escogita
forme, predilige oggetti che siano
simboli pregnanti del suo sogno
stilistico: conchiglie, perle, tritoni,
draghi sono solo alcuni di
questi suoi stemmi. Nulla mi ha
meglio appreso sopra lo spirito
zodiacale del Tura che il vedere
dalla nube, sopra il Roverella in
ginocchio, spuntare l’unicorno
celeste”. E del Roberti negli
affreschi di Schifanoia: “Qui una
nuova pazzia scoppia nell’arte
ferrarese: questo giovane lavorante,
che si credeva abbandonato
dal Tura e tradito dal Cossa,
trova il modo di inventare un suo
personale cubismo, furente e
immaginoso”. E il Dosso Dossi è
definito dal Longhi “il più ariostesco
tra quelli del ‘400”, un
“barocco” prematuro, per il suo
gusto grottesco del colore, per la
policromia ironica che coinvolge
anche le figure. L’arte come
demonicità e astrazione metafisica
dei pittori ferraresi contiene
elementi che “non appaiono
molto lontani da quelli della poesia
se si pensa al Castello
d’Atlante o al mondo della luna”,
sintetizza Barberi Squarotti. Ma
Corrado Padovani, con la sua dettagliatissima
rassegna storicoartistica
dell’arte dal ‘400 al
‘900, ci procura anche validissime
testimonianze della vita culturale
e figurativa del periodo da
lui descritto, del quale coglie e
sottolinea situazioni, atmosfere,
scorci, consentendoci di approfondire
aspetti, profili e comportamenti
delle personalità più in
vista del periodo da lui rappresentato,
da Italo Balbo a Folco
Quilici, da Nino Barbantini a
Pietro Niccolini, da Giuseppe
Agnelli a Gualtiero Medri. E tanti
altri. Così ci descrive (1) “l’idea”
della esposizione della pittura
ferrarese del Rinascimento del
1933: “Già per iniziativa di
Enrico Vanni e di Antonio
Baldini, le conferenze ariostesche
dell’Ottava d’oro avevano
avuto principio con la lettura
inaugurale di Italo Balbo il 6
maggio del 1928 nel Salone del
Palazzo dei Diamanti (e si sarebbero
chiuse il 15 gennaio del
1933 con la lettura di Pietro
Nicolini [sic] nel salone dei
Giochi), quando nell’autunno del
1932, a Roma, Italo Balbo,
discutendo con altri ferraresi
sulla prossima celebrazione del IV
centenario della morte di
Ludovico Ariosto, colse l’idea di
una mostra d’arte antica da tenersi
a Ferrara e la fece sua. Con il
Direttore generale delle Belle
Arti, Arduino Colasanti, con Nello
Quilici, Direttore del “Corriere
Padano” e con Renzo Ravenna,
Podestà di Ferrara, decise così di
organizzare una esposizione dell’arte
antica ferrarese: niente di
più grandioso e di più concreto
nel tempo stesso poteva essere
pensato per esaltare, nella gloria
di Ferrara, la fama dell’Ariosto”.
Un altro esempio, la descrizione
dell’affanno e dello stupore del
senatore Pietro Niccolini,
Presidente della Cassa di Risparmio
di Ferrara, uno dei personaggi
più importanti e più in vista del
periodo, – già deputato, sindaco
della città, direttore del museo
Schifanoia, fondatore della
società Dante Alighieri nel 1897
(2), presidente delle più importanti
associazioni culturali della
città – mentre cerca le opere di
Galasso (l’allestimento della
mostra era stato assai approssimativo):
“L’ultimo degli studiosi
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