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dicembre 2011 - Pubblicazioni Ufficiali dello Stato - Istituto ...

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170 Notiziario / 92-97<br />

La Convenzione quadro sul valore dell’eredità culturale per la società<br />

(Faro, 27 ottobre 2005)<br />

Erminia Sciacchitano<br />

Ultima nata nella famiglia delle Convenzioni internazionali in ambito<br />

culturale, la Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore dell’eredità<br />

culturale per la società, aperta alla firma degli stati membri il 27<br />

ottobre 2005 ed entrata in vigore il 1° giugno <strong>2011</strong>, traccia un nuovo<br />

quadro di riferimento internazionale per le politiche di valorizzazione 1 .<br />

Un arazzo raffinato, ordito sul riconoscimento del diritto dell’individuo a<br />

partecipare liberamente alla vita culturale della comunità e di godere delle<br />

arti, definito nell’art. 27 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo<br />

e impreziosito dalla declinazione delle possibili accezioni del “valore”<br />

dell’eredità culturale, secondo un approccio multidimensionale che rileva<br />

il suo contributo allo sviluppo dell’essere umano e della società.<br />

La Convenzione di Faro non si sovrappone agli strumenti del Consiglio<br />

d’Europa esistenti, la Convenzione per la salvaguardia del patrimonio<br />

architettonico d’Europa (Granada 1985) e la Convenzione europea per<br />

la protezione del patrimonio archeologico (La Valletta 1992), piuttosto li<br />

integra, aggiungendo alla tradizionale domanda “Quale patrimonio culturale<br />

tutelare e in che modo?”, quella “Perché e per chi valorizzarlo?”.<br />

Uno spostamento dell’attenzione dall’oggetto al soggetto che la accomuna<br />

ad altri strumenti nati sulla soglia del XXI secolo: la Convenzione europea<br />

del paesaggio del Consiglio d’Europa (Firenze 2000), la Convenzione<br />

UNESCO per la Salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale (Parigi<br />

2003) e la Convenzione UNESCO sulla protezione e la promozione della<br />

diversità delle espressioni culturali, firmata a Parigi appena una settimana<br />

prima della Convenzione di Faro, il 20 ottobre 2005.<br />

Le radici della Convenzione di Faro affondano, infatti, nel dibattito sorto<br />

nella comunità internazionale quando il conflitto nei Balcani di fine anni<br />

‘90 ha messo in luce che i danni al patrimonio culturale non sono solo dovuti<br />

a cause naturali ma spesso sono di matrice antropica: dalle forze economiche<br />

e speculative che guidano lo sfruttamento e impoverimento del<br />

territorio, fino ai conflitti etnici, che colpiscono in primis monumenti e<br />

siti rappresentativi delle rispettive identità culturali, che l’una e l’altra parte<br />

mirano a distruggere. Una consapevolezza che emerge nel 1993, quando<br />

nel corso del conflitto bosniaco fu distrutto il Ponte di Mostar, costruito<br />

nel 1566 in armonia dalle popolazioni che abitavano le due rive, e che<br />

matura mentre nel 2001 le televisioni del mondo trasmettono le immagini<br />

di Bamiyan, ex crocevia di civiltà lungo la Via della Seta in Afghanistan,<br />

che documentano la distruzione delle colossali statue di Buddha sotto la<br />

furia iconoclasta talebana 2 . Questa presa di coscienza della dimensione<br />

1<br />

Il testo della Convenzione di Faro e altra documentazione utile sono reperibili sul sito<br />

del Consiglio d’Europa (http://www.coe.int/t/dg4/cultureheritage/heritage/identities/default_en.asp).<br />

La definizione “eredità culturale” data all’art. 2 è la più ampia fornita dagli<br />

accordi internazionali sulla materia: «un insieme di risorse ereditate dal passato che<br />

alcune persone identificano, indipendentemente da chi ne detenga la proprietà, come<br />

riflesso ed espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni costantemente<br />

in evoluzione. Esso comprende tutti gli aspetti dell’ambiente derivati dall’interazione<br />

nel tempo fra le persone e i luoghi». Il testo non indica esplicitamente se la natura di tali<br />

risorse sia materiale o immateriale, perché il suo obiettivo non è l’identificazione di una<br />

specifica categoria di beni né la definizione di misure per la protezione delle stesse ma il<br />

riconoscimento del significato che l’eredità culturale, nel suo insieme, ha per la società. Al<br />

fine di non mettere in discussione il concetto “materiale” di patrimonio culturale contenuto<br />

nel Codice dei beni culturali e del paesaggio, in fase di redazione del dossier di firma si è<br />

comunque mantenuta nella versione italiana una distinzione fra la definizione all’art. 2<br />

della Convenzione e quella data dal Codice, mediante la traduzione del termine Cultural<br />

heritage come “eredità culturale”.<br />

2<br />

Paolo Rumiz coglie la dimensione identitaria del conflitto balcanico nel racconto della<br />

distruzione del Ponte di Mostar: «Quando crollò, il 9 novembre del 1993, la valle della Neretva<br />

si riempì di silenzio. I cannoni tacquero, muti davanti al ponte vecchio che non c’ era<br />

più. Il rimbombo si spense, poi tacquero pure i cecchini. Quelli dei bosniaci, che l’avevano<br />

costruito quattro secoli prima. E quelli dei croati, che l’avevano tirato giù a colpi di granate.<br />

L’ intera Mostar si fermò. Tutti, intorno, capirono che qualcosa di terribile era accaduto. Una<br />

identitaria dei conflitti, conduce nel 2003 gli Stati membri del Consiglio<br />

d’Europa a formulare un nuovo strumento giuridico, che riconosca l’importanza<br />

dei valori della cultura per tutti gli aspetti della vita, nel contesto<br />

della nuova situazione politica europea e della mondializzazione, e che<br />

individui nell’eredità culturale, che conserva le tracce della travagliata<br />

storia europea, una fonte condivisa di ricordo, di comprensione, d’identità,<br />

di coesione e creatività per le popolazioni. Non è un caso che i primi Paesi<br />

a raccogliere questo messaggio e a ratificare la Convenzione di Faro, siano<br />

stati quelli che, nel sud est europeo, nell’ultimo decennio del XX secolo,<br />

hanno vissuto allo stesso tempo la distruzione del patrimonio culturale e<br />

la disgregazione del tessuto sociale 3 .<br />

La Convenzione chiama quindi le popolazioni stesse a svolgere un ruolo<br />

attivo nel riconoscimento dei valori dell’eredità culturale, e invita gli Stati<br />

a promuovere un processo di valorizzazione partecipativo, fondato sulla sinergia<br />

di competenze fra tutti gli attori nel campo dell’eredità culturale: le<br />

pubbliche istituzioni, i cittadini privati, le associazioni, quei soggetti che la<br />

Convenzione all’art. 2 definisce comunità di eredità, costituite da «persone<br />

che attribuiscono valore a degli aspetti specifici dell’eredità culturale,<br />

che desiderano, nell’ambito di un’azione pubblica, sostenere e trasmettere<br />

alle generazioni future».<br />

Le fondamenta di quest’approccio risiedono nel riconoscimento del diritto<br />

del cittadino europeo, e della sua responsabilità, a partecipare all’eredità<br />

culturale, a contribuire al suo arricchimento, e quindi a beneficiare delle<br />

attività corrispondenti, con riferimento agli ideali e principi fondatori del<br />

Consiglio d’Europa, al diritto della persona a partecipare liberamente alla<br />

lacerazione nella comunità, una ferita non rimediabile. Non era caduto solo un ponte, ma<br />

un simbolo grandioso di unione fra Oriente e Occidente. […] L’architetto turco Hajruddin,<br />

che lo fece, fu solo il coordinatore di un gruppo di tagliatori di pietre bosniaci che lavorarono<br />

empiricamente, correggendo le soluzioni adottate in corso d’opera e mescolando procedure<br />

orientali e occidentali, venete e ottomane. Nulla fu calato dall’alto o deciso dall’inizio. Tutto<br />

nacque dal cantiere e nel cantiere, espresso dalla collettività locale. Il suo coinvolgimento<br />

nella costruzione fu tale e durò così a lungo che la cittadina prese il nome dal ponte. […]<br />

Era quel simbolo, e non il manufatto, che si era voluto colpire. La pietra non interessava ai<br />

generali croati. Il ponte, difatti, non aveva alcun interesse strategico. Non serviva a portare<br />

armi e uomini in prima linea. Esisteva, semplicemente. Era il luogo della nostalgia, il segno<br />

dell’appartenenza e dell’alleanza tra mondi che si volevano a tutti i costi separare». (Paolo<br />

Rumiz, Mostar e il ponte che non unisce più in: “La Repubblica”, 2/11/2003).<br />

3<br />

Gli Stati firmatari ad oggi sono 17: Bosnia e Herzegovina, Croazia, Georgia, Lettonia,<br />

Lussemburgo, Moldova, Montenegro, Norvegia, Portogallo, Repubblica Ex Jugoslava di<br />

Macedonia, Serbia, Slovenia hanno firmato e ratificato la Convenzione, mentre Albania,<br />

Armenia, Bulgaria, San Marino, Ucraina, per il momento, l’hanno solo firmata.<br />

Rapporti internazionali

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