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Mio padre aveva tolto dal cassetto un vecchio giuoco di carte e
andava disponendolo sulla tavola per un solitario. Era una cosa
che non faceva mai. Del resto anch’io, a quell’ora, leggevo
raramente. Pareva che entrambi tentassimo di prendere nuove
abitudini. [...]
Supponevo che mia madre a quell’ora fosse già molto lontana,
fuori dalla nostra città, dalle campagne che conoscevo; vedevo
due fari luminosi bucare la fitta oscurità, sotto un alto costone di
montagna. Non avrebbe più scritto, più dato notizie di sé.
Consideravo che questa ormai doveva essere la mia vita
quotidiana: l’altra era stata una vacanza, un regalo. Tuttavia non
soffrivo: mentalmente riuscivo persino a canticchiare quella
canzone: Me ne vogl’i’ a Surriento.
Poco dopo mio padre s’alzò e andò a chiudere la porta che dava
verso la cucina. Questo volermi isolare da Sista m’insospettì:
d’istinto scattai in piedi e misi le spalle al muro per difendermi.
«Alessandra» egli disse: «dov’è andata tua madre?»
Aveva parlato piano. Non gli conoscevo quella voce sommessa e
tagliente: somigliava a una lama che volesse far saltare la
serratura di uno scrigno. Così parlava con mia madre, certo,
quando si chiudevano nella camera. Non risposi e lo sfidai con la
durezza del mio sguardo.
Egli fece qualche passo verso di me e domandò ancora:
«Dov’è?»
Mi era vicino, vicinissimo: sentivo il fastidioso calore della sua
persona.
Nel taschino del panciotto si vedeva la chiave della casa dove
eravamo ormai condannati a vivere insieme.
Non avevo paura: pensavo che mia madre era lontana, e a me
toccava difenderla, anche a prezzo di patire aspramente per lei.
Perciò lo guardai per un momento e poi dissi, violenta e precisa,
come se gli lanciassi contro un coltello:
«È andata via.» «Dov’è andata?» «Non lo so.» «Lo sai.»
«Non lo so» ripetei. Volevo che mi credesse: così ella gli sarebbe
apparsa ancora più lontana, irreperibile.
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