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10 marzo
Oggi egli mi aspettava con impazienza, ne sono certa. Appena ha
udito la chiave nella serratura deve aver lasciato la scrivania per
venirmi incontro perché, quando ho richiuso la porta, era già di
fronte a me, nell’ingresso. Io ho riso sottovoce, come se fossi
arrivata lì dopo una fuga. Anche lui ha riso aiutandomi a
togliermi il cappotto. Sulla mia scrivania ho trovato un rametto
di mimosa. Mentre lo guardavo, per assicurarmi che fosse stato
lui prima di ringraziarlo, egli ha detto, quasi scusandosi:
«Abbiamo il giardino pieno di mimose, sono già tutte in fiore.
Così ne ho colto un rametto, ma l’ho messo in tasca e s’è
appassito». Ho detto appena grazie, non volevo dare importanza
a un gesto che in fondo è naturale; la mimosa aveva un profumo
caldo, l’ho odorata a lungo, poi l’ho messa all’occhiello del
vestito. Egli era di fronte a me, mi guardava in silenzio: io ho
alzato gli occhi su di lui, sorridendo, e per la prima volta ho
pensato che si chiama Guido.
Abbiamo lavorato durante due ore; io ero molto nervosa. Ho
visto tante volte la sua firma, il suo nome sulla carta intestata,
eppure ogni volta che egli mi guardava io pensavo “Guido” e,
arrossendo, chinavo di nuovo la testa sul lavoro. Mi sentivo
impacciata, commossa: mi sembra che solo da oggi egli mi guardi
come una creatura umana. Ecco, è tutto qui. Non c’è altro.
Abbiamo sbrigato molta corrispondenza, discusso alcuni problemi
urgenti, poi egli ha detto: «Adesso basta» e a me pareva di aver
lavorato per ischerzo. «Basta» ho ripetuto, come smettendo un
giuoco. Mi ha chiesto se ero stanca e come impiegassi la
domenica. Avrei voluto accennare al diario, ma non ho osato; ho
detto che andavo a trovare mia madre, scrivevo qualche lettera.
Lui ha detto che non scrive più lettere personali da anni e che un
uomo che lavora molto finisce per non avere più veri amici, ma
solo conoscenze d’affari, amicizie obbligate, calcolate, quasi.
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