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preferiscono chiudersi in loro stessi, non ammettono di subire un
giudizio, rischiando, così, di essere condannati.»
«E allora?» io insistevo.
«Be’, quando si è intelligenti e non ci si può rassegnare, bisogna
adattarsi a rimanere sole.»
Nella penombra distinguevo appena il profilo di lei, pesante sotto
gli occhi. Presto ella si addormentò e quel corpo ammassato
accanto al mio m’impaurì: il sonno la murava in una solitudine
amara e rassegnata che faceva nascere in me una incontenibile
rivolta. “È vecchia” pensavo schernendola. “Parla così perché è
vecchia.” Eppure, osservandola attentamente, consideravo che
poteva avere appena quarant’anni, e che, forse, il suo aspetto era
soltanto il risultato di un proponimento. Fu con sollievo che la
vidi andarsene, presto al mattino. Prima di uscire mi affidò
alcuni incarichi: la sua voce era diversa da quella che usava per
domandarmi se aspettavo un bambino.
M’aggiravo in questi pensieri quando Francesco si volse e mi
carezzò una spalla. Io mi volsi a lui, sorridendo; ma vidi che egli
aveva gli occhi chiusi e forse credeva d’essere ancora in prigione
quando, al risveglio, tutti i compagni di cella, e anche lui,
tacevano nel torturante desiderio di una donna. La sua carezza
era così insistente, limitata, esatta che rivelava appunto lo
stimolo di una pertinace ossessione. Non volevo servire soltanto
ad appagare quell’ossessione, non potevo ridurmi ad essere guida
alla fantasia. Mi avrebbe chiamato col mio nome, mi avrebbe
detto: “Alessandra” e così, ritrovandomi, sarebbe uscito
dall’incubo della nostra lontananza. Ma egli seguitava a tacere e
la sua mano invadeva tutto il geloso territorio della mia persona.
«No» io mormoravo: «No, Francesco» dicevo affannosamente,
ma egli non sentiva la mia voce, non ci conoscevamo più, non
ricordavamo più nulla di ciò che l’uno aveva amato nell’altra.
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