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cittadinanza attiva - Archivio "Pace diritti umani"

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PADOVA<br />

CENTRO INTERDIPARTIMENTALE DI RICERCA E SERVIZI<br />

SUI DIRITTI DELLA PERSONA E DEI POPOLI<br />

A.A. 2006-‘07<br />

CORSO DI PERFEZIONAMENTO<br />

“DIRITTO, ISTITUZIONI E PRATICA DELLA DEMOCRAZIA GLOCALE”<br />

GRUPPO DI LAVORO<br />

“DEMOCRAZIA EUROPEA”<br />

CONTRIBUTO SUI TEMI<br />

“DEMOCRAZIA E CITTADINANZA ATTIVA”<br />

(RENATO MILAN)<br />

INTRODUZIONE<br />

ABSTRACT<br />

Il presente lavoro si colloca nell’ambito del tema generale del corso, “Diritto, istituzioni e pratica<br />

della democrazia glocale”, soffermando la propria attenzione sul tema specifico della “democrazia<br />

europea” e approfondendo quest’ultima nella direzione del nesso tra “democrazia e <strong>cittadinanza</strong> <strong>attiva</strong>”.<br />

1) Ai fini di un chiarimento delle nozioni utilizzate, la prima parte del lavoro è dedicata<br />

all’elaborazione di una serie di “definizioni”, atte a fornire, in modo possibilmente puntuale e sintetico,<br />

le coordinate logico-giuridiche e geopolitiche attuali, necessarie a circoscrivere adeguatamente<br />

il senso e il significato del lavoro complessivo. Tale prima parte è corredata di note con riferimento<br />

a passi del trattato costituzionale europeo, ripresi dall’attuale progetto di trattato europeo di riforma,<br />

che è stato redatto, su mandato del Consiglio europeo del 21-22 giugno 2007, dalla Conferenza intergovernativa<br />

del 2007, conclusasi a Lisbona il 18 ottobre 2007, e diverrà il nuovo trattato emendativo<br />

dei due trattati fondamentali (sull’Unione Europea e sulla Comunità Europea) con la firma di<br />

esso da parte dei capi di Stato e di governo degli Stati membri dell’UE il 13 dicembre 2007.<br />

2) Il senso e il significato del tema sono sviluppati poi nella seconda parte del lavoro, dedicata allo<br />

“sviluppo storico” del nesso tra democrazia e <strong>cittadinanza</strong> <strong>attiva</strong> in dimensione europea. Tale sviluppo<br />

è delineato a partire dalla Dichiarazione Schuman (9 maggio 1950) e dal suo sfondo storico<br />

sino alla firma del trattato costituzionale europeo (29 ottobre 2004), destinato a venire sostituito con<br />

il prossimo trattato emendativo del 13 dicembre 2007, che riprende sostanzialmente i contenuti del<br />

primo e che prevede la ridefinizione dei due trattati costitutivi o fondamentali dell’UE e della CE<br />

come trattato sull’UE e trattato sul funzionamento dell’UE (in analogia con le parti I e III del decaduto<br />

trattato costituzionale europeo).<br />

Tale ricostruzione storica, che tiene conto dei contemporanei sviluppi intervenuti a livello sia mondiale,<br />

sia nazionale, è incentrata soprattutto sul dibattito svoltosi in seno alle istituzioni europee e in<br />

particolare nel Parlamento Europeo, in ordine all’emersione (proporzionale al progressivo rafforzamento<br />

politico-istituzionale comunitario) del problema della “legittimità democratica”<br />

dell’Unione e dei modi di <strong>attiva</strong>zione di una “<strong>cittadinanza</strong>” europea, <strong>attiva</strong> non solo nella dimensione<br />

rappresentativa, ma anche nella dimensione partecipativa, e quindi della graduale configurazione<br />

di una “società civile europea” in interazione con le istituzioni dell’UE nella definizione di provvedimenti,<br />

che sempre più incidono nella vita degli stessi cittadini. In tale ricostruzione storica si è fatto<br />

largo uso sia dei trattati, sia delle conclusioni delle riunioni del Consiglio europeo, sia delle risoluzioni<br />

del Parlamento Europeo.<br />

3) Nella terza parte del lavoro si è fornita una serie di “riferimenti giuridici” ovvero di normative<br />

UE per i principali <strong>diritti</strong> dei cittadini europei (tra l’altro per il mediatore europeo, per le elezioni


europee nello Stato membro di residenza, per le elezioni comunali nello Stato membro di residenza,<br />

per la tutela diplomatica).<br />

4) Nella quarta parte, infine, del lavoro si è segnalata una serie di “proposte concrete di partecipazione”,<br />

attinenti a: a) il mediatore europeo, b) la petizione, c) il programma d’azione “Gioventù in<br />

azione”, d) quello “Media 2007”, e) quello “L’Europa per i cittadini” e f) quello “Cultura”.<br />

INDICE<br />

I. DEFINIZIONE p. 1<br />

1) Democrazia<br />

2) Popolo e comunità politica<br />

3) Cittadini e <strong>cittadinanza</strong><br />

4) Democrazia rappresentativa<br />

5) Democrazia partecipativa<br />

6) Cittadinanza <strong>attiva</strong><br />

7) Società civile p. 2<br />

8) Democrazia glocale<br />

9) Diversi livelli geopolitici<br />

10) Realtà regionali ed Europa<br />

11) Le cinque strutture regionali europee<br />

12) Il primo gruppo di realtà regionali europee (OSCE, OCSE e NATO)<br />

13) Il secondo gruppo di reraltà regionali europee (CdE e UE) p. 3<br />

14) Il Consiglio d’Europa<br />

15) L’Unione Europea<br />

16) I valori dell’UE p. 4<br />

17) Il principale obiettivo dell’UE<br />

18) I simboli dell’UE<br />

19) La Carta dei <strong>diritti</strong> fondamentali dell’Unione p. 5<br />

20) La <strong>cittadinanza</strong> dell’Unione<br />

21) Una comunità politica transnazionale<br />

22) La duplice <strong>cittadinanza</strong> p. 6<br />

23) I <strong>diritti</strong> di <strong>cittadinanza</strong> per tutte le persone residenti nell’UE<br />

24) I <strong>diritti</strong> civili validi per i cittadini dell’UE<br />

25) Il diritto di voto alle elezioni comunali nello Stato membro di residenza p. 7<br />

26) Il diritto di voto alle elezioni europee nello Stato membro di residenza<br />

27) I partiti politici a livello dell’Unione<br />

28) Vita democratica dell’Unione e principio dell’uguaglianza dei cittadini<br />

29) La laicità dell’UE<br />

30) Le parti sociali p. 8<br />

31) La trasparenza<br />

32) La democrazia europea<br />

33) La democrazia rappresentativa<br />

34) Il Parlamento Europeo p. 9<br />

35) La coscienza politica europea<br />

36) La democrazia partecipativa<br />

37) Rapporto UE - società civile p. 10<br />

38) Rapporto Commissione europea - parti interessate<br />

39) L’iniziativa legislativa popolare europea


II. SVILUPPO STORICO p. 11<br />

La dichiarazione Schuman<br />

A. Lo sfondo storico<br />

B. La proposta francese di Schuman p. 14<br />

La Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA) p. 15<br />

La (fallita) Comunità Europea di Difesa (CED) p. 17<br />

La Comunità Economica Europea (CEE) e la Comunità Europea dell’Energia Atomica (EURA-<br />

TOM) p. 19<br />

La “Comunità Europea” p. 21<br />

La Comunità Europea dei Nove e la nascita della “società civile” europea p. 23<br />

La CSCE e l’”identità europea” p. 24<br />

Il rafforzamento del Parlamento Europeo p. 26<br />

LA PRIMA LEGISLATURA EUROPEA (1979-1984) p. 30<br />

LA SECONDA LEGISLATURA EUROPEA (1984-1989) p. 34<br />

1. La nuova “Europa del popolo”<br />

2. L’Atto Unico europeo p. 43<br />

3. La bandiera europea e la Dichiarazione dei <strong>diritti</strong> del 1989 p. 46<br />

LA TERZA LEGISLATURA EUROPEA (1989-1994) p. 52<br />

1. La caduta del muro di Berlino e la “corsa” verso l’Unione Europea<br />

2. Il Trattato di Maastricht p. 73<br />

3. Dal principio di sussidiarietà al progetto di Costituzione Europea p. 83<br />

LA QUARTA LEGISLATURA EUROPEA (1994-1999) p. 103<br />

1. Una <strong>cittadinanza</strong> “consistente”, in quanto fondata sui <strong>diritti</strong> umani p. 107<br />

2. La fondazione della democrazia partecipativa e della democrazia rappresentativa p. 131<br />

3. Il Trattato di Amsterdam p. 140<br />

4. Il “dirigismo” del Consiglio Europeo e la “<strong>cittadinanza</strong> <strong>attiva</strong>” p. 157<br />

LA QUINTA LEGISLATURA EUROPEA (1999-2004) p. 171<br />

1. Lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia e la Carta dei <strong>diritti</strong> fondamentali dell’Unione<br />

2. Il Trattato di Nizza p. 199<br />

3. Verso la Convenzione sul futuro dell’Europa p. 204<br />

4. L’epoca della Convenzione sull’avvenire dell’Europa p. 216<br />

a) Il “peccato originale” della Convenzione p. 221<br />

b) Il buio a mezzogiorno ossia la guerra in Iraq p. 231<br />

5. Il Progetto di Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa p. 247<br />

a) La vera Costituzione Europea<br />

b) L’onnicomprensivo “trattato costituzionale” p. 251<br />

c) La CIG del 2003-’04 p. 253<br />

L’INIZIO DELLA SESTA LEGISLATURA EUROPEA (2004-2009) p. 272<br />

(L’inizio dei lavori dell’attuale Parlamento Europeo, la formazione dell’attuale Commissione europea<br />

e la firma del Trattato costituzionale europeo).<br />

III. RIFERIMENTI GIURIDICI EUROPEI p. 1<br />

- per il mediatore europeo<br />

- per le elezioni europee nello Stato membro di residenza<br />

- per le elezioni comunali nello Stato membro di residenza<br />

- per la “tutela diplomatica”<br />

- per una “<strong>cittadinanza</strong> effettiva” (comunicazione della Commissione)<br />

- per “<strong>diritti</strong> fondamentali e <strong>cittadinanza</strong>” (decisione sull’intero pacchetto dei programmi d’azione)


IV. PROPOSTE CONCRETE DI PARTECIPAZIONE<br />

1. per il mediatore europeo<br />

2. per la petizione<br />

3. programma d’azione “GIOVENTU’ IN AZIONE” p. 4<br />

4. programma d’azione “MEDIA 2007” p. 5<br />

5. programma d’azione “L’EUROPA PER I CITTADINI” p. 6<br />

6. programma d’azione “CULTURA” p. 7


I. DEFINIZIONE<br />

1) Il concetto di “democrazia”, che fa da tema generale del corso, nonché del gruppo di lavoro, significa<br />

letteralmente “potere del popolo”, nel senso che ogni atto giuridico debba poter trovare la<br />

propria legittimità nel fatto che il suo autore (le istituzioni) tragga la propria autorità dal fatto che<br />

essa gli venga attribuita, direttamente o indirettamente, dalla volontà del popolo, il quale risulti<br />

dunque l’autentico detentore della sovranità.<br />

2) Il concetto connesso di “popolo” fa tutt’uno con quello di “comunità politica”, per la quale si può<br />

intendere una popolazione e anzi una società di persone abitanti in un certo territorio che a) si riconoscono<br />

in e condividono certi principi fondamentali che dovrebbero essere alla base della loro<br />

convivenza civile in un rapporto fra persone libere, uguali e solidali fra loro e b) a tale scopo costituiscono<br />

delle istituzioni preposte a garantire ciò che si reputa siano i <strong>diritti</strong> naturali della persona<br />

ovvero i <strong>diritti</strong> umani, di tutti e di ciascuno, attraverso atti giuridici che li trasformino in effettivi <strong>diritti</strong><br />

(e doveri) civili, codificati, applicati e difesi contro eventuali loro violazioni.<br />

3) I membri del popolo inteso quale comunità politica sono pertanto i “cittadini”, ossia i soggetti e<br />

detentori sia dei <strong>diritti</strong> (e doveri) civili (universali), sia dei <strong>diritti</strong> (e doveri) politici (connessi<br />

all’esercizio della sovranità popolare), e questa “pienezza” giuridica propria del cittadino è espressa<br />

con il termine di “<strong>cittadinanza</strong>”.<br />

4) La “<strong>cittadinanza</strong>” è perciò l’elemento fondamentale della “democrazia” e trova il suo momento<br />

culminante nell’esercizio dei <strong>diritti</strong> politici e in particolare nella condivisione di orientamenti politici<br />

di fondo proposti da partiti politici e nella coerente partecipazione alle elezioni delle istituzioni di<br />

origine direttamente popolare. La “democrazia” che è peraltro qui in azione è solo una dimensione<br />

di essa ossia la “democrazia rappresentativa”, che consiste appunto nell’elezione diretta dei rappresentanti<br />

del popolo nelle istituzioni.<br />

5) Oltre alla “democrazia rappresentativa” esiste peraltro anche la “democrazia partecipativa”, che<br />

consiste nell’esercizio della “<strong>cittadinanza</strong>” nella forma di una partecipazione appunto, da semplice<br />

cittadino, al processo decisionale delle istituzioni in riferimento a particolari temi. Esempio classico<br />

di tale forma di “democrazia” è la partecipazione a referendum popolari, ma anche a petizioni popolari<br />

per il varo istituzionale di atti giuridici su determinati temi. Tuttavia la “democrazia partecipativa”<br />

è capace di per sé di ulteriori forme di attività.<br />

6) L’elemento fondamentale della “democrazia partecipativa” è infatti la “<strong>cittadinanza</strong> <strong>attiva</strong>”, che<br />

è l’esercizio costante della <strong>cittadinanza</strong>, a prescindere sia dalla difesa usuale dei propri interessi<br />

strettamente privati o di categoria lavorativa, sia dall’adesione a un partito politico o dalla semplice<br />

partecipazione agli appuntamenti elettorali fissati dalle istituzioni. Essa si caratterizza: a) per lo<br />

spiccato senso civico ossia per la sensibilità verso i <strong>diritti</strong> civili e anzi i <strong>diritti</strong> umani di tutti e insieme<br />

per il proprio senso di responsabilità civica in ordine a un’azione tesa a difenderli; b) per il suo<br />

carattere spontaneamente comunitario, orientato a costituire associazioni tra cittadini che condividano<br />

tali sensibilità, in ordine alla possibilità di incidere, attraverso le loro attività, sulle decisioni<br />

delle istituzioni; c) per l’assenza dell’obiettivo del controllo sociale o politico dell’insieme dei cittadini<br />

e quindi del conseguimento di un potere sociale o politico complessivo e perciò per la compiuta<br />

indipendenza dalle istituzioni.<br />

7) Per queste sue caratteristiche la “<strong>cittadinanza</strong> <strong>attiva</strong>” contribuisce potentemente all’arricchimento<br />

della società civile in termini politici ossia in ordine all’emersione di una effettiva e variegata comunità<br />

politica che, con le sue richieste, faccia da costante ponte con istituzioni, che, a loro volta,<br />

trovano, nella costante ricerca di ampie consultazioni con tali associazioni, una nuova fonte di trasparenza,<br />

legittimità, efficienza ed efficacia nel processo di decisione.<br />

8) Queste definizioni volutamente generiche permettono un’applicazione dei concetti di “democrazia”<br />

e di “<strong>cittadinanza</strong> <strong>attiva</strong>” ai più diversi livelli territoriali, dalla singola città al mondo intero, e<br />

anzi consentono l’esercizio di entrambe in forma, per così dire, “simultanea” e “trasversale”, nel<br />

senso che proprio l’azione entro la propria città riveste un ben maggiore beneficio dal fatto che tale<br />

azione sia collegata a risorse e conoscenze globali, tali da facilitare iniziative p.e. per la pace e lo


sviluppo sociali, come pure, inversamente, il collegamento fra le iniziative attuate in diverse città, a<br />

prescindere dalla loro appartenenza nazionale, si rivela un mezzo per porle come attori internazionali<br />

per affrontare sfide globali e promuovere sviluppo economico e attività di costruzione della pace,<br />

secondo l’approccio della “democrazia glocale” proprio del corso.<br />

9) Naturalmente la “democrazia glocale” è in grado di esplicarsi, tuttavia, solo nella conoscenza e<br />

nel rispetto delle diverse accezioni di “democrazia” che si giocano rispettivamente ai diversi livelli<br />

territoriali. Ben diverso è infatti il senso della “democrazia” che entra in gioco nella vita del Comune,<br />

della Provincia, della Regione e dello Stato da quello che caratterizza l’attività<br />

dell’organizzazione che copre in pratica l’intero ambito territoriale dell’umanità ossia<br />

dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU).<br />

10) L’elemento ideale di cerniera tra tali due istanze è dato dall’esistenza di realtà “regionali”, che<br />

definiscano meglio ossia con una maggiore capacità integrativa e quindi localmente gli obiettivi<br />

delle stesse Nazioni Unite (compresa la “democrazia”) e che operino perciò su scala prevalentemente<br />

continentale, coinvolgendo più da vicino gli Stati interessati. All’avanguardia in questo disegno è<br />

da sempre l’Europa.<br />

11) Interessanti l’Europa sono infatti almeno cinque realtà “regionali”, che, a diverso titolo ed estensione,<br />

coinvolgono molti Stati europei nella promozione e nella condivisione dei valori delle<br />

Nazioni Unite, fra i quali appunto la “democrazia”, e costituenti perciò altrettanti tipi di proposte di<br />

“democrazia europea”. Esse si possono peraltro distinguere in due gruppi ben differenziati tra loro.<br />

12) Il primo gruppo comprende tre realtà “regionali” europee, diverse tra loro quanto a intenti ed estensione,<br />

ma comunque proponenti un certo tipo di “democrazia europea”, di significato peraltro<br />

progressivamente più intenso. In primo luogo esiste l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione<br />

in Europa (OSCE), che coinvolge ben 56 Stati, dagli Stati Uniti d’America ai 12 Stati della<br />

Comunità degli Stati Indipendenti, e comprende tutti gli Stati europei. In secondo luogo esiste<br />

l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), che coinvolge 30 Stati,<br />

dal Messico alla Nuova Zelanda, e comprende almeno 21 Stati europei. In terzo luogo esiste<br />

l’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord (OTAN o NATO), che coinvolge 26 Stati,<br />

dagli Stati Uniti d’America alla Turchia, e comprende almeno 22 Stati europei. Tutte e tre queste<br />

realtà “regionali” sono effettivamente sorte, avendo come baricentro l’Europa e mirando a offrire,<br />

in modi diversi e con intensità diverse, maggiori garanzie per un’affermazione della democrazia in<br />

Europa e anzi di una “democrazia europea”. Tuttavia la prima di esse offre una proposta per così dire<br />

“minimale” (per gli standard europei) di “democrazia”; la seconda di esse si sta invece evolvendo,<br />

nella specificità del suo approccio, verso dimensioni ormai planetarie, che stanno ponendo sempre<br />

più in subordine l’originaria accezione “regionale” europea; la terza, infine, pur restando fedele<br />

all’originaria delimitazione nord-atlantica e perciò europea dei suoi Stati membri, sta assumendo<br />

tuttavia, nella sua specifica dimensione, un ruolo e una funzione anch’essa di portata planetaria e<br />

insieme sta andando incontro a una sua ridefinizione complessiva in relazione alla compresenza al<br />

suo interno di due accezioni di “democrazia”, soprattutto a livello internazionale, tendenzialmente<br />

differenti tra loro, quella americana e appunto la “democrazia europea”.<br />

13) Ben più rappresentativo della “democrazia europea” è il secondo gruppo di realtà “regionali”<br />

europee, costituito da due entità molto simili tra loro quanto al proprio carattere essenzialmente europeo,<br />

alla concezione dei <strong>diritti</strong> umani, della “democrazia” e della “<strong>cittadinanza</strong>” (<strong>attiva</strong> e non) e<br />

alla loro azione concertata, e aventi, non a caso, una stessa sede, una stessa bandiera e uno stesso<br />

inno. Tuttavia anche qui ci si trova in presenza di due proposte progressivamente più intense.<br />

14) La prima è quella propria del Consiglio d’Europa (CdE), che coinvolge ben 47 Stati,<br />

dall’Islanda alla Russia, e comprende almeno 40 Stati europei. Il Consiglio d’Europa, la prima in<br />

ordine di tempo di tali due realtà “regionali” europee, è definibile tuttora come il “cane da guardia”<br />

dei <strong>diritti</strong> umani in Europa (Europe’s human rights watchdog), nel senso che esso impegna gli Stati<br />

membri alla realizzazione di un elevato standard nel godimento dei <strong>diritti</strong> umani quali effettivi <strong>diritti</strong><br />

civili e anche politici, in ordine quindi alla piena affermazione di un’autentica “democrazia” e di<br />

una reale “<strong>cittadinanza</strong>” (<strong>attiva</strong> e non), tramite il costante monitoraggio della situazione dei <strong>diritti</strong>


umani all’interno degli Stati membri e la decisa segnalazione di eventuali casi di mancato rispetto di<br />

tali standard da parte di qualche Stato membro.<br />

Malgrado l’elevato impegno del Consiglio d’Europa e la sua lodevole attività in particolare per quel<br />

che riguarda il sostegno, il coordinamento e il complemento delle politiche culturali, formative ed<br />

educative degli Stati membri in ordine allo sviluppo della sensibilità delle nuove generazioni per i<br />

<strong>diritti</strong> umani, per la democrazia e per la <strong>cittadinanza</strong> <strong>attiva</strong>, tale organismo tuttavia lascia anch’esso<br />

ai singoli Stati la responsabilità ultima di declinare nella forma compiuta tali valori, limitandosi a<br />

indicare i requisiti minimi e a controllarne la realizzazione.<br />

Ciononostante il Consiglio d’Europa, nella sua lunga storia, ha fatto da apripista e da battistrada<br />

nella definizione di un elevato standard comune europeo per i <strong>diritti</strong> umani e anzi nella formazione<br />

di una comune coscienza civile europea, che ha contribuito, nell’ambito peraltro di un’altra realtà<br />

“regionale” europea formatasi nella sua scia, alla recente creazione di una vera e propria “democrazia<br />

europea”, basata su un’effettiva “<strong>cittadinanza</strong> europea” con assolutamente inediti caratteri transnazionali<br />

e sovrastatuali.<br />

Negli ultimi tempi il Consiglio d’Europa sembra anzi avviato al ruolo di promozione di tale comune<br />

coscienza civile europea soprattutto nei confronti degli Stati membri non o non ancora aderenti<br />

all’altra realtà “regionale” europea, ossia all’Unione Europea.<br />

15) La seconda realtà “regionale” europea è l’Unione Europea (UE), che comprende attualmente 27<br />

Stati membri e costituisce la più compiuta proposta di “democrazia europea”, in quanto deriva la<br />

sua stessa origine “dalla volontà dei cittadini [questa e ogni sottolineatura successiva sono mie] e<br />

degli Stati d’Europa di costruire un futuro comune” 1 . Si tratta, in altri termini, della prima forma<br />

storica di una democrazia e di una <strong>cittadinanza</strong> transnazionale e sovrastatale, che nasce “ispirandosi<br />

alle eredità culturali, religiose e umanistiche dell’Europa, da cui si sono sviluppati i valori universali<br />

dei <strong>diritti</strong> inviolabili e inalienabili della persona, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, e<br />

dello Stato di diritto” 2 . In altri termini la base unica di tale inedita forma di democrazia e di <strong>cittadinanza</strong><br />

transnazionale e sovrastatale non sono altro che tali valori universali, particolarmente cari agli<br />

Europei, in quanto storicamente assunti come il risultato di una plurimillenaria gestazione culturale<br />

dell’Europa.<br />

16) Tale volontà di costruire un futuro comune perciò si basa in ultima analisi sulla condivisione<br />

comune di una serie di valori, sui quali si fonda dunque la stessa UE e l’effettivo rispetto dei quali<br />

costituisce, per ogni Stato europeo, la discriminante fondamentale non solo quanto alla sua entrata<br />

nell’Unione 3 , ma anche quanto alla persistenza del godimento dei suoi <strong>diritti</strong> di voto in seno alle istituzioni<br />

dell’UE 4 . Ebbene tali valori sono quelli “del rispetto della dignità umana, della libertà,<br />

della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei <strong>diritti</strong> umani, compresi i<br />

<strong>diritti</strong> delle persone appartenenti a una minoranza. Questi valori sono comuni agli Stati membri in<br />

1<br />

Dal “Trattato che stabilisce una Costituzione per l’Europa”, art. I-1, par. 1. Questo trattato, di seguito indicato come<br />

“Trattato Costituzionale Europeo” (TCE), firmato a Roma il 29 ottobre 2004, non è stato ratificato, come è noto, da parte<br />

di tutti gli Stati membri e perciò non è entrato in vigore. Il Consiglio Europeo di Bruxelles del 21-22 giugno 2007 ha<br />

deciso di convocare per il 23 luglio 2007 una Conferenza Intergovernativa (CIG), alla quale ha fornito un preciso mandato<br />

per la stesura entro l’ottobre 2007 di un nuovo trattato emendativo dei trattati tuttora in vigore, chiamato “trattato<br />

di riforma” (TR), destinato a venire firmato entro il 2007 e ratificato fra il 2008 e il 2009 e ad entrare in vigore entro il<br />

17 giugno 2009, data di svolgimento delle prossime elezioni del Parlamento Europeo. Da tale mandato (che figura come<br />

Allegato I del documento 11177/07 del Consiglio dell’Unione Europea, emesso a Bruxelles in data 23 giugno 2007)<br />

emerge la sostanziale indicazione di una distribuzione dei contenuti del TCE all’interno dei due trattati in vigore,<br />

dell’Unione Europea e della Comunità Europea, destinati a divenire a loro volta rispettivamente il “trattato sull’Unione<br />

europea” (TUE) e il “trattato sul funzionamento dell’Unione” (di seguito denominato TFU). Nelle citazioni successive<br />

si indicherà rispettivamente l’articolo originario del TCE e quello di destinazione del TUE o del TFU, stabilito dal mandato<br />

del Consiglio Europeo per la CIG. Pertanto tutte le indicazioni di seguito riportate mantengono più che mai intatto<br />

il loro valore originario.<br />

2<br />

Vedi Preambolo TCE, ora in Preambolo TUE.<br />

3<br />

Vedi art. I-58 TCE, ora in art. 49 TUE.<br />

4<br />

Vedi art. I-59 TCE, ora in art. 309 TFU.


una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia,<br />

dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini.” 5<br />

17) Il principale obiettivo dell’Unione è anzi proprio quello “di promuovere la pace”, tali “suoi valori<br />

e il benessere dei suoi popoli” 6 . Ed essa è in grado di perseguirlo, per quanto attiene alle competenze<br />

a essa attribuite 7 , in quanto le viene riconosciuto che il diritto dell’Unione prevale “sul diritto<br />

degli Stati membri” 8 e quindi che essa “ha personalità giuridica” 9 . In altri termini si tratta effettivamente<br />

di una democrazia europea in primo luogo proprio perché si tratta di un “potere” effettivo<br />

dell’UE come soggetto politico-istituzionale (e non già come mera organizzazione internazionale o<br />

anche come semplice comunità o confederazione), abilitato a far valere i suoi atti giuridici, anche<br />

nella forma di veri e propri atti legislativi 10 , nei confronti degli Stati membri e ad agire in prima<br />

persona nel contesto politico mondiale nei confronti di soggetti terzi e all’interno delle vere e proprie<br />

organizzazioni internazionali, anche firmando trattati internazionali (per mezzo di un apposito<br />

Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza) 11 .<br />

18) Proprio perciò tale “potere” non può essere esercitato se non da un’autentica autorità, che tutti<br />

possano riconoscere in forma trasparente e anzi immediata in una serie di “simboli” dell’Unione (di<br />

fatto esistenti, ora e in futuro) 12 , quali la bandiera (il cerchio di dodici stelle su sfondo blu), l’inno<br />

(tratto dall’”Inno alla gioia” della Nona sinfonia di Ludwig van Beethoven), il motto (“Unita nella<br />

diversità”), la moneta (l’euro), nonché la giornata dell’Europa (il 9 maggio).<br />

19) Cosa “leggiamo” in tali simboli? L’esistenza di un’autorità “amichevole”, in quanto fondata su<br />

ciò che vi è di più umano. Infatti il necessario fondamento di tale autorità dell’Unione è proprio il<br />

fatto che essa riconosce, fa proprio e aderisce all’elevato standard di definizione e tutela dei <strong>diritti</strong><br />

umani, quale è formulato nel testo base del Consiglio d’Europa, ossia alla “Convenzione europea di<br />

salvaguardia dei <strong>diritti</strong> dell’uomo e delle libertà fondamentali” 13 e anzi su tale Convenzione basa un<br />

proprio testo (aggiornato e arricchito) di riferimento universale, costituito dalla “Carta dei <strong>diritti</strong><br />

fondamentali dell’Unione” (CDFU) 14 . Quest’ultimo documento indica con precisione i <strong>diritti</strong> “mi-<br />

5 Vedi art. I-2 TCE, ora in art. 2 TUE.<br />

6 Vedi art. I-3 TCE, ora in art. 3 TUE.<br />

7 Vedi art. I-1 TCE, ora in art. 1 TUE.<br />

8 Vedi art. I-6 TCE. La prevalenza del diritto dell’Unione non comparirà nel TR, né perciò nei due trattati fondamentali<br />

europei, il TUE e il TFU; tuttavia il citato mandato del Consiglio Europeo prescrive alla CIG di adottare una dichiarazione,<br />

in cui si richiama che “per giurisprudenza costante della Corte di giustizia dell’UE, i trattati e il diritto adottato<br />

dall’Unione sulla base dei trattati prevalgono sul diritto degli Stati membri alle condizioni stabilite dalla summenzionata<br />

giurisprudenza”. In altri termini la prevalenza del diritto dell’Unione continuerà di fatto a permanere.<br />

9 Vedi art. I-7 TCE, ora in un nuovo articolo nell’ultimo titolo (“Disposizioni finali”) del TUE.<br />

10 Vedi artt. I-33 e I-34 TCE. Le denominazioni previste di “legge europea” e “legge quadro europea” non compariranno<br />

nel TR, né perciò nei due trattati fondamentali europei, il TUE e il TFU; tuttavia viene pienamente mantenuta la presenza,<br />

tra gli atti giuridici dell’Unione, di veri e propri “atti legislativi”, anche se denominati, come d’uso, quali “regolamenti”,<br />

“direttive” o “decisioni”, come previsto in un nuovo articolo 250 TFU.<br />

11 Vedi art. I-28 TCE. La denominazione usata nel TCE di “ministro degli affari esteri dell’Unione” non comparirà nel<br />

TR, né perciò nei due trattati fondamentali europei, il TUE e il TFU; tuttavia la nuova denominazione designa una figura<br />

che godrà delle stesse prerogative stabilite dal TCE, come previsto in un nuovo titolo III (“Disposizioni sulle istituzioni”)<br />

del TUE.<br />

12 Vedi art. I-8 TCE. Di “simboli dell’Unione” non sarà fatta menzione alcuna né nel TR, né perciò nei due trattati fondamentali<br />

europei, il TUE e il TFU. Tuttavia è evidente a chiunque che tutti i “simboli dell’Unione” sopra descritti continueranno<br />

di fatto a esistere esattamente come ora. Per quanto riguarda uno di essi, la “moneta dell’Unione” ossia<br />

l’euro, è previsto l’inserimento nel nuovo articolo 3 del TUE (ex-art. I-3 TCE) del seguente punto: “3bis. L’Unione istituisce<br />

un’unione economica e monetaria, la cui moneta è l’euro”.<br />

13 Vedi art. I-9 TCE (par. 2), ora nel nuovo art. 6 TUE (par. 2).<br />

14 Vedi art. I-9 TCE (par. 1), ora nel nuovo art. 6 TUE (par. 1). Il testo integrale della “Carta” figurava come Parte II del<br />

TCE, mentre non comparirà né nel TR, né perciò nei due trattati fondamentali europei, il TUE e il TFU; tuttavia il citato<br />

passo del TUE recita, a proposito di essa, “che ha lo stesso valore giuridico dei trattati”. In altri termini è confermato il<br />

ruolo della “Carta” (attribuitole dal TCE) come fondamento giuridico ultimo della stessa Unione Europea sia quanto<br />

alla sua esistenza, sia quanto al suo funzionamento. A motivo, peraltro, della prevista decadenza del TCE, la “Carta”,<br />

pur conservando l’esatta configurazione avuta all’interno del TCE (comprese le “spiegazioni” annesse), dovrà venir di


nimi” (al di sotto dei quali neppure il singolo Stato membro può scendere) di tutte le persone che<br />

risiedono nell’Unione (a prescindere da qualsiasi loro <strong>cittadinanza</strong>, comunitaria o extracomunitaria),<br />

agendo come testo normativo originario, come una serie di “principi generali” 15 , che stanno alla base<br />

di tutto il diritto dell’Unione e quindi di tutti gli atti giuridici di essa. Questi ultimi, perciò, non<br />

hanno valore se non nella misura in cui non violano tali <strong>diritti</strong> umani e anzi li traducono in effettivi<br />

<strong>diritti</strong> civili. In questo modo tale Carta è l’autentico punto d’incontro tra i bisogni immediati e le aspettative<br />

concrete di tutti gli esseri umani, di tutte le persone, che risiedono nell’UE, e le risposte<br />

che a tali bisogni l’Unione, grazie alle competenze a essa appositamente attribuite 16 , è in grado di<br />

fornire. Perciò tale Carta costituisce anzi il vero legame tra la vita delle persone che vivono nell’UE<br />

e l’Unione stessa e dunque si presenta come l’autentico nucleo di legittimazione giuridica della sua<br />

autorità. E di conseguenza tali <strong>diritti</strong> umani sono chiamati “<strong>diritti</strong> fondamentali dell’Unione”, anche<br />

nel senso che essi e la loro traduzione in effettivi <strong>diritti</strong> civili e quindi la stessa Carta nella sua cogenza<br />

normativa costituiscono il fondamento, la ragion d’essere della stessa Unione e della sua autorità.<br />

20) La “Carta dei <strong>diritti</strong> fondamentali dell’Unione” costituisce peraltro l’autentico fondamento<br />

dell’UE anche perché in tale Carta stessa è definita e istituita la “<strong>cittadinanza</strong> dell’Unione” 17 ossia<br />

una “<strong>cittadinanza</strong> europea” nel senso proprio e pieno del termine. Si tratta cioè dell’istituzione di un<br />

complesso di <strong>diritti</strong> non solo civili, ma anche politici nei confronti della stessa UE, che la rendono<br />

soggetta alla volontà appunto anche dei suoi cittadini per quanto riguarda sia la scelta delle persone<br />

che devono ricoprire le cariche istituzionali dell’Unione, sia il contenuto degli atti giuridici che tali<br />

istituzioni producono. In altri termini tale Carta costituisce il vero fondamento dell’Unione anche<br />

perché stabilisce, attraverso l’istituzione della “<strong>cittadinanza</strong> dell’Unione”, le basi di una “vita democratica<br />

dell’Unione” 18 ossia di una “democrazia europea”, che legittima definitivamente l’UE<br />

nella propria autorità, proprio in quanto basata appunto sulla democrazia, sulla volontà dei cittadini<br />

europei in quanto tali, a prescindere dalle loro diverse nazionalità.<br />

21) La “<strong>cittadinanza</strong> dell’Unione” fonda dunque una democrazia come potere di un “popolo”, che<br />

in modo del tutto inedito non coincide con una nazione, bensì con una comunità politica di cittadini<br />

di diverse nazionalità, che si riconoscono nell’Unione solo e proprio in quanto essa ha come obiettivo<br />

principale quello di “promuovere la pace, i suoi valori e il benessere dei suoi popoli” 19 sia<br />

all’interno, sia all’esterno dell’UE, ovvero in quanto l’UE si fonda su <strong>diritti</strong> umani riconosciuti e<br />

condivisi, così come risultano delineati nella “Carta dei <strong>diritti</strong> fondamentali dell’Unione”. In tal<br />

modo i <strong>diritti</strong> umani diventano il vero fattore unificante di diversi Stati, di diverse nazioni, di diversi<br />

popoli, in una nuova comunità politica transnazionale e sovrastatuale, caratterizzata anch’essa, perciò,<br />

da una propria <strong>cittadinanza</strong> e da una propria vita democratica.<br />

22) Ma chi sono i “cittadini europei”, chi gode della “<strong>cittadinanza</strong> dell’Unione”? Poiché l’UE sorge<br />

“dalla volontà dei cittadini e degli Stati d’Europa di costruire un futuro comune” 20 , risulta che “è<br />

cittadino dell’Unione chiunque abbia la <strong>cittadinanza</strong> di uno Stato membro” 21 dell’UE. Ovvero la<br />

“<strong>cittadinanza</strong> europea” è, per così dire, una <strong>cittadinanza</strong> indiretta, che infatti “si aggiunge alla <strong>cittadinanza</strong><br />

nazionale e non la sostituisce” 22 . Tale suo carattere vuole con ciò significare che è del tutto<br />

nuovo promulgata dalle tre massime autorità istituzionali dell’Unione e pubblicata sulla “Gazzetta Ufficiale”dell’UE<br />

entro il 2007.<br />

15 Vedi art. I-9 TCE (par. 3), ora nel nuovo art. 6 TUE (par. 3).<br />

16 Vedi nota 7.<br />

17 La “<strong>cittadinanza</strong> dell’Unione” è prevista: nel preambolo e all’art. 2 del TUE, nella parte II (“Cittadinanza<br />

dell’Unione”) del trattato consolidato sulla Comunità europea, nel titolo II (“Cittadinanza”) della CDFU e nell’art. I-10<br />

TCE, il cui contenuto sarà mantenuto nella parte seconda (“Cittadinanza dell’Unione”) del TFU.<br />

18 Tale è la denominazione del titolo VI della parte I del TCE; il contenuto di tale titolo costituirà il nuovo titolo II (“Disposizioni<br />

relative ai principi democratici”) del TUE.<br />

19 Vedi nota 6.<br />

20 Vedi nota 1.<br />

21 Vedi art. I-10 TCE (par. 1), ma già nell’art. 17 del trattato consolidato sulla Comunità europea (par. 1).<br />

22 Ibidem.


fuori luogo pensare a un’Unione fondata sulla volontà di una comunità politica di cittadini avulsa<br />

dalla concreta situazione di appartenenza nazionale a uno degli Stati membri dell’UE. Questi ultimi<br />

sono e restano tutti Stati pienamente sovrani, non solo al loro interno, ma anche nei confronti della<br />

stessa UE. E perciò i cittadini europei, che esercitano, assieme a tali Stati, la sovranità sull’UE, non<br />

possono essere diversi dai cittadini dei rispettivi Stati membri. Spetta piuttosto a questi ultimi decidere<br />

in quale misura estendere la rispettiva <strong>cittadinanza</strong> nazionale e quindi pure la connessa <strong>cittadinanza</strong><br />

europea a persone residenti sul proprio territorio, ma provenienti da Stati non membri<br />

dell’UE.<br />

23) E tuttavia la stessa “Carta dei <strong>diritti</strong> fondamentali dell’Unione” prevede una serie di <strong>diritti</strong> di<br />

“<strong>cittadinanza</strong>” propriamente detta anche a coloro che non sono “cittadini dell’Unione”. Infatti essa<br />

riconosce a qualunque persona semplicemente risieda nel territorio dell’Unione i seguenti <strong>diritti</strong>: a)<br />

“alla protezione dei dati di carattere personale che la riguardano” 23 ; b) “ad una buona amministrazione”<br />

ossia “che le questioni che la riguardano siano trattate in modo imparziale ed equo ed entro<br />

un termine ragionevole” da parte dell’UE: “di essere ascoltata” prima di qualsiasi provvedimento a<br />

suo carico, “di accedere al fascicolo che la riguarda”, di esigere dall’amministrazione “di motivare<br />

le proprie decisioni”, “al risarcimento da parte dell’Unione dei danni cagionati” da questa, di “rivolgersi<br />

alle istituzioni dell’Unione in una delle lingue” degli Stati membri dell’UE e “ricevere una<br />

risposta nella stessa lingua” 24 ; c) “di accedere ai documenti delle istituzioni, organi e organismi<br />

dell’Unione, a prescindere dal loro supporto” 25 ; d) “di sottoporre al mediatore europeo casi di c<strong>attiva</strong><br />

amministrazione nell’azione delle istituzioni, organi e organismi dell’Unione, …” 26 ; e) “di presentare<br />

una petizione al Parlamento europeo” 27 . Pur nei loro limiti, si tratta di <strong>diritti</strong> che rientrano in<br />

pieno nell’ambito del rapporto tra i cittadini propriamente detti e le amministrazioni pubbliche responsabili<br />

propriamente solo di fronte a loro; perciò è comunque significativo che a godere di tali<br />

<strong>diritti</strong> siano tutte le persone residenti nell’Unione.<br />

24) Quel che resta viceversa assodato nella “Carta dei <strong>diritti</strong> fondamentali dell’Unione” è che la<br />

“<strong>cittadinanza</strong> dell’Unione” è la necessaria base giuridica per il godimento già di alcuni <strong>diritti</strong> civili,<br />

altrimenti preclusi, ossia: a) “il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli<br />

Stati membri” 28 ; b) “la libertà di cercare un lavoro, di lavorare, di stabilirsi o di prestare servizi in<br />

qualunque Stato membro” 29 ; c) la “tutela delle autorità diplomatiche e consolari di qualsiasi Stato<br />

membro, alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato” nel caso in cui il cittadino europeo si trovi<br />

“nel territorio di un Paese terzo nel quale lo Stato membro di cui ha la <strong>cittadinanza</strong> [nazionale]<br />

non è rappresentato” 30 .<br />

25) Il carattere transnazionale della “<strong>cittadinanza</strong> dell’Unione” è peraltro reso manifesto soprattutto<br />

dal fatto che essa dà luogo al godimento di un autentico diritto politico del cittadino europeo in<br />

quanto tale ossia a quello “di voto e di eleggibilità alle elezioni comunali nello Stato membro in cui<br />

risiede, alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato” 31 . In tal modo si configura infatti la piena<br />

partecipazione di ogni cittadino europeo alla vita non solo civile, ma anche politica della città in cui<br />

23 Vedi art. I-51 TCE, ma, con la stessa formulazione, anche nella CDFU (art. II-68, secondo la numerazione del TCE).<br />

24 Vedi la CDFU (art. II- 101, secondo la numerazione del TCE).<br />

25 Vedi art. I-50 TCE (par. 3), ma, con la stessa formulazione, anche nella CDFU (art. II-102, secondo la numerazione<br />

del TCE).<br />

26 Vedi art. I-49 TCE, ma anche nella CDFU (art. II-103, secondo la numerazione del TCE), nonché all’art. 195 del trat-<br />

tato sulla Comunità europea.<br />

27 Vedi art. I-10 TCE, ma anche nella CDFU (art. II-104, secondo la numerazione del TCE), nonché all’art. 194 del trat-<br />

tato sulla Comunità europea.<br />

28 Vedi art. I-10 TCE, ma anche nella CDFU (art. II-105, secondo la numerazione del TCE), nonché all’art. 18 del trat-<br />

tato sulla Comunità europea.<br />

29 Vedi la CDFU (art. II-75, par. 2, secondo la numerazione del TCE), nonché all’art. 39 del trattato sulla Comunità eu-<br />

ropea.<br />

30 Vedi art. I-10 TCE, ma anche nella CDFU (art. II-106, secondo la numerazione del TCE), nonché all’art. 20 del trat-<br />

tato sulla Comunità europea.<br />

31 Vedi art. I-10 TCE, ma anche nella CDFU (art. II-100, secondo la numerazione del TCE), nonché all’art. 19, par. 1,<br />

del trattato sulla Comunità europea.


egli risiede, in qualunque luogo del territorio dell’Unione essa si trovi, dando con ciò una prima<br />

grande conferma istituzionale del concetto di “democrazia glocale”.<br />

26) Tale carattere transnazionale della “<strong>cittadinanza</strong> dell’Unione” si rintraccia pure nel diritto politico<br />

in cui essa trova la sua piena realizzazione ovvero per quanto riguarda il Parlamento Europeo.<br />

Infatti, secondo la Carta predetta, “ogni cittadino dell’Unione ha il diritto di voto e di eleggibilità<br />

alle elezioni del Parlamento europeo nello Stato membro in cui risiede, alle stesse condizioni dei<br />

cittadini di detto Stato” 32 . In tal modo si conferma il carattere transnazionale del Parlamento Europeo,<br />

proprio in quanto rappresentativo dei cittadini europei in quanto tali, dato che sono essi propriamente<br />

il vero suo corpo elettorale (attivo e passivo) anche all’interno del territorio del singolo<br />

Stato membro.<br />

27) Proprio perciò la stessa “Carta dei <strong>diritti</strong> fondamentali dell’Unione” stabilisce non solo la legittimità,<br />

ma persino la necessità dell’esistenza di “partiti politici a livello dell’Unione”, dato che essi<br />

“contribuiscono a esprimere la volontà politica dei cittadini dell’Unione” in quanto tali, a prescindere<br />

dall’appartenenza nazionale dei cittadini europei e viceversa in connessione ai loro rispettivi<br />

grandi orientamenti politici di fondo 33 .<br />

28) Sulla base di questa duplice <strong>cittadinanza</strong>, nazionale ed europea, diventa dunque possibile una<br />

“vita democratica dell’Unione”, dal momento che l’UE riconosce la condizione essenziale della<br />

democrazia ossia “rispetta, in tutte le sue attività, il principio dell’uguaglianza dei cittadini, che beneficiano<br />

di uguale attenzione da parte delle sue istituzioni, organi e organismi” 34 . Il rispetto di tale<br />

principio fa scaturire, per l’avvento di una vita democratica dell’Unione, almeno tre conseguenze<br />

condivisibili da qualsiasi persona residente nell’UE.<br />

29) Una prima conseguenza del rispetto dell’uguaglianza dei cittadini e quindi della possibilità di<br />

una vita democratica dell’Unione è il riconoscimento da parte dell’UE delle diversità delle concezioni<br />

personali del mondo e della vita, e quindi delle organizzazioni che ne sono l’espressione ovvero<br />

sia “le Chiese e le associazioni o comunità religiose”, sia le opposte “organizzazioni filosofiche e<br />

non confessionali” 35 . L’UE riconosce il rispettivo status di cui ognuna di esse gode all’interno di<br />

ogni singolo Stato membro, rinunciando con ciò a ricercarne per ciascuna uno valido per l’Unione<br />

in quanto tale. Tuttavia, data l’universalità propria di tali organizzazioni, non può non imporsi<br />

l’attenzione su di esse anche a livello dell’Unione, la quale, “riconoscendone l’identità e il contributo<br />

specifico”, “mantiene un dialogo aperto, trasparente e regolare” con esse 36 . Tale disposizione positiva<br />

dell’UE è alla base di una concezione laica, e quindi non clericale, ma nemmeno laicistica e<br />

tanto meno anticlericale, della vita democratica dell’Unione. Proprio sulla base di tale concezione<br />

laica, l’UE anzi si discosta pure dalla semplice opzione multiculturalistica, che lascia ogni posizione<br />

chiusa in se stessa, e si propone invece come agente promotore del dialogo interculturale fra tali diverse<br />

posizioni.<br />

30) Una seconda conseguenza del rispetto dell’uguaglianza dei cittadini e quindi della possibilità di<br />

una vita democratica dell’Unione è il fatto che l’UE “riconosce e promuove il ruolo delle parti sociali<br />

al suo livello, tenendo conto della diversità dei sistemi nazionali. Essa facilita il dialogo fra tali<br />

parti, nel rispetto della loro autonomia.” 37 In tal modo si rende possibile un confronto fra associazioni<br />

degli imprenditori e quelle dei lavoratori (dipendenti) a proposito di problemi sociali, come<br />

quelli della crescita e dell’occupazione, che sono sempre più comuni alle pur diverse realtà nazionali<br />

ed esigono, in presenza di un mercato interno unico e persino di una moneta unica, delle soluzioni<br />

32 Vedi art. I-10 TCE, ma anche nella CDFU (art. II-99, secondo la numerazione del TCE), nonché all’art. 19, par. 2, del<br />

trattato sulla Comunità europea.<br />

33 Vedi art. II-72, par. 2 (secondo la numerazione del TCE) della CDFU.<br />

34 Vedi art. I-45 TCE, il cui contenuto è espressamente previsto sia da collocare nel nuovo titolo II (“Disposizioni rela-<br />

tive ai principi democratici”) del TUE.<br />

35 Vedi art. I-52 TCE, il cui contenuto è espressamente previsto sia da collocare alla fine del titolo II, sulle disposizioni<br />

di applicazione generale, del TFU.<br />

36 Ibidem.<br />

37 Vedi art. I-48 TCE, il cui contenuto è espressamente previsto sia da collocare all’inizio del capo sulla politica sociale<br />

del TFU.


comuni, anche attraverso il dialogo fra le parti sociali a livello europeo. Anzi a tale dialogo contribuisce<br />

un apposito “vertice sociale trilaterale per la crescita e l’occupazione” 38 , condotto dalla stessa<br />

Commissione Europea, che, prima di presentare proposte nei settori della politica sociale, consulta<br />

le parti sociali sul possibile orientamento di un’azione dell’Unione. In questo modo proprio il dialogo<br />

tra le parti sociali a livello europeo può incidere positivamente su iniziative legislative europee<br />

nella politica sociale, legittimandole anzi democraticamente.<br />

31) Una terza conseguenza del rispetto dell’uguaglianza dei cittadini e quindi della possibilità di<br />

una vita democratica dell’Unione è “la trasparenza dei lavori delle istituzioni, organi e organismi<br />

dell’Unione”, attuata proprio al fine di “promuovere il buon governo e garantire la partecipazione<br />

della società civile” europea 39 . A questo riguardo è quanto mai significativo che “il Parlamento europeo<br />

si riunisce in seduta pubblica, così come il Consiglio allorché delibera e vota in relazione ad<br />

un progetto di atto legislativo” 40 . Almeno quando si tratta del più impegnativo tipo di atto giuridico<br />

ossia di atti legislativi, dunque, le due istituzioni dell’UE, dotate di tale potere colegislativo, debbono<br />

operare pubblicamente e solo pubblicamente, alla luce del sole ossia in modo che ogni cittadino<br />

europeo possa persino essere fisicamente presente alla seduta o vederla o almeno udirla (tradotta<br />

nella propria lingua) in diretta o almeno in differita o leggerne in tempo reale (nella propria lingua) i<br />

testi integrali degli interventi. Ciò consente a chiunque la possibilità del controllo delle diverse posizioni<br />

degli interlocutori e quindi di un giudizio motivato su ciascuna di esse e sull’orientamento<br />

generale del processo legislativo in corso.<br />

32) Tuttavia la vita democratica dell’Unione si gioca soprattutto nello svolgimento dell’azione politica<br />

dei cittadini europei e dunque nella vera e propria democrazia europea, che a sua volta si presenta<br />

sotto due forme, la democrazia rappresentativa e la democrazia partecipativa.<br />

33) Per quanto riguarda la prima, “il funzionamento dell’Unione si fonda sulla democrazia rappresentativa.”<br />

41 Ciò significa che tutte le istituzioni dell’Unione, nessuna esclusa, traggono la loro legittimità<br />

dal voto dei cittadini. In altri termini non esiste una fantomatica UE irresponsabile, in<br />

quanto non eletta democraticamente dai cittadini, dal momento che tutte le istituzioni dell’Unione<br />

fanno capo, direttamente o indirettamente, a una precisa investitura popolare. Infatti l’Unione, in<br />

quanto basata sulla volontà dei cittadini e degli Stati d’Europa, ha due tipi di istituzioni, uno che<br />

rappresenta direttamente i cittadini europei in quanto tali, ed esso coincide con il Parlamento Europeo,<br />

l’altro che rappresenta gli Stati membri, ed esso trova la sua espressione nelle due istituzioni<br />

del Consiglio Europeo e del Consiglio (dei ministri) dell’Unione. Ma i capi di Stato o di governo<br />

per l’uno e i ministri per l’altro sono comunque responsabili dinanzi ai rispettivi Parlamenti nazionali,<br />

eletti a loro volta dai cittadini degli Stati membri, che coincidono con gli stessi cittadini europei.<br />

Perciò le stesse persone esercitano, in modo diretto o indiretto, i propri <strong>diritti</strong> politici anche a<br />

livello dell’Unione, per tutte le sue istituzioni.<br />

34) Naturalmente la democrazia rappresentativa europea si gioca soprattutto a proposito<br />

dell’istituzione che rappresenta direttamente i cittadini europei in quanto tali ossia del Parlamento<br />

Europeo. Ma, proprio per garantire il legame tra esso e i suoi elettori, è assolutamente indispensabile<br />

l’esistenza di veri e propri partiti politici europei. Infatti “i partiti politici a livello europeo contribuiscono<br />

a formare una coscienza politica europea e ad esprimere la volontà dei cittadini<br />

dell’Unione” 42 . In altri termini l’autentica svolta nella maturazione di una effettiva democrazia rappresentativa<br />

europea e anzi di una reale vita democratica dell’Unione consiste appunto nella formazione<br />

di una genuina “coscienza politica europea”.<br />

38<br />

Ibidem.<br />

39<br />

Vedi art. I-50 TCE, il cui contenuto è espressamente previsto sia da collocare all’articolo 255 del Trattato sulla comunità<br />

europea, articolo, che dovrà essere a sua volta spostato nella parte seconda (“Cittadinanza dell’Unione”) del<br />

TFU.<br />

40<br />

Ibidem.<br />

41<br />

Vedi art. I-46 TCE, il cui contenuto è espressamente previsto sia da collocare nel nuovo titolo II (“Disposizioni relative<br />

ai principi democratici”) del TUE.<br />

42<br />

Ibidem, par. 3.


35) “Coscienza politica europea” significa innanzi tutto la presa di coscienza, da parte dei cittadini<br />

europei in quanto tali, a prescindere dalla loro rispettiva appartenenza nazionale, dell’esistenza di<br />

una realtà politica europea, che: a) in primo luogo si rivela più che mai insostituibile in quanto è la<br />

sola in grado di affrontare crescenti problemi comuni ai cittadini europei e quindi ai vari Stati membri,<br />

che nessuno di questi ultimi da solo è ormai in grado di affrontare; b) in secondo luogo, proprio<br />

perciò, dispone di competenze specifiche e perciò dei poteri necessari e sufficienti a prendere decisioni<br />

in merito; e c) in terzo luogo, proprio al fine di ottenere la necessaria legittimazione democratica<br />

di tali poteri, mette direttamente a disposizione dei cittadini europei in quanto tali l’elezione dei<br />

loro rappresentanti come membri del Parlamento Europeo, abilitato a svolgere un ruolo chiave sia<br />

nel varo degli atti legislativi europei, sia nella formazione e nel controllo della Commissione Europea.<br />

La “coscienza politica europea” consiste dunque propriamente nella presa d’atto di tale situazione<br />

storica e dell’interesse del cittadino europeo a esercitare in tal modo un proprio ruolo diretto nella<br />

formazione delle scelte politiche di fondo in seno alle istituzioni europee (a prescindere dall’altro,<br />

legittimo e anzi doveroso, interesse nazionale, adeguatamente tutelato, in seno al Consiglio e al<br />

Consiglio Europeo, dai rispettivi governi nazionali). A tale partecipazione diretta il cittadino europeo<br />

può peraltro sentirsi attratto e dunque interessato solo in quanto gli venga di fatto prospettata la<br />

possibilità di scelta fra diversi grandi orientamenti politici europei, rappresentati da altrettanti partiti<br />

politici europei, caratterizzati, come tali, da una personalità giuridica, uno statuto,<br />

un’organizzazione e un programma essenzialmente europei e perciò “transnazionali”. Tali partiti<br />

politici europei, concorrendo con proprie liste di candidati, attraverso le elezioni del Parlamento Europeo,<br />

a raggiungere una posizione predominante in esso e dunque a contribuire alle scelte politiche<br />

fondamentali dell’Unione, stimolano con ciò i cittadini europei a diventare effettivamente tali, maturando<br />

una coscienza politica europea e perciò una volontà politica, e quindi a far sentire la loro<br />

voce, a seconda del rispettivo orientamento politico di fondo, attraverso un determinato partito politico<br />

europeo.<br />

36) La democrazia europea peraltro non si restringe alla democrazia rappresentativa, bensì si allarga<br />

all’altra forma di democrazia, costituita dalla democrazia partecipativa. Il motivo è dato dal fatto<br />

che il cittadino europeo è tale, anche se non si riconosce in alcun partito politico e soprattutto perché,<br />

a prescindere da una eventuale appartenenza politica, ha comunque a cuore la possibilità di incidere<br />

direttamente e costantemente sulle scelte delle istituzioni europee. In nome di tale protagonismo<br />

dei cittadini europei in quanto tali, che, uniti in apposite associazioni, si sentono chiamati ad<br />

agire, a livello europeo, in difesa di interessi collettivi su determinati temi specifici, “le istituzioni<br />

danno ai cittadini e alle associazioni rappresentative, attraverso gli opportuni canali, la possibilità di<br />

far conoscere e di scambiare pubblicamente le loro opinioni in tutti i settori di azione<br />

dell’Unione” 43 . In altri termini sono le stesse istituzioni dell’UE che si rendono promotrici della<br />

partecipazione <strong>attiva</strong> dei cittadini europei ovvero della <strong>cittadinanza</strong> <strong>attiva</strong> europea, ponendosi a disposizione<br />

di essi e anzi allestendo in prima persona p.e. “forum” dei cittadini europei su tematiche<br />

particolarmente sentite, sia attraverso Internet, sia attraverso veri e propri incontri, a livello locale,<br />

nazionale ed europeo, tra cittadini europei su temi riguardanti le competenze dell’Unione.<br />

37) Le istituzioni dell’UE si prefiggono anzi di ricercare costantemente le voci, non politicamente<br />

condizionate, di tali associazioni di cittadini ovvero la voce della variegata società civile, come stimolo<br />

insostituibile per un’azione dell’Unione costantemente sintonizzata sui bisogni e sulle aspettative<br />

concrete dei cittadini. Perciò “le istituzioni mantengono un dialogo aperto, trasparente e regolare<br />

con le associazioni rappresentative e la società civile” 44 . Ciò fonda la possibilità di una democrazia<br />

partecipativa europea come elemento strutturale della vita democratica dell’Unione e dunque lo<br />

spazio per la sperimentazione di una “democrazia glocale”, che, partendo p.e. dai bisogni analoghi<br />

43<br />

Vedi art. I-47 TCE, il cui contenuto è espressamente previsto sia da collocare nel nuovo titolo II (“Disposizioni relative<br />

ai principi democratici”) del TUE.<br />

44 Ibidem, par. 2.


di comunità locali, appartenenti a diverse realtà nazionali, ma unite tra loro nelle aspettative di soluzione,<br />

agiscono in comune nei confronti dell’UE, nella misura in cui la possibile soluzione a tali loro<br />

problemi rientri nelle competenze dell’Unione.<br />

38) Il carattere strutturale e persino originario della democrazia partecipativa per la vita democratica<br />

dell’Unione anzi si rivela pienamente nel fatto che è la stessa Commissione Europea, che si pone<br />

come obiettivo preliminare a ogni sua iniziativa legislativa europea in un determinato settore quello<br />

di raccogliere i pareri delle parti della società civile interessate ad esso. Infatti “al fine di assicurare<br />

la coerenza e la trasparenza delle azioni dell’Unione, la Commissione procede ad ampie consultazioni<br />

delle parti interessate” 45 . In tal modo è proprio la dimensione della democrazia partecipativa<br />

ad essere chiamata a dare, per così dire, il “calcio d’inizio” della lunga “partita” del percorso legislativo<br />

europeo, orientandolo fin dall’origine in una certa direzione, piuttosto che in un’altra.<br />

39) Tutto ciò avviene peraltro solo dietro apposito invito da parte della Commissione Europea, una<br />

volta che essa si sia convinta della necessità di avviare un’azione in un certo settore. Infatti è propriamente<br />

la Commissione Europea che gode del diritto dell’iniziativa legislativa europea. E tuttavia,<br />

la democrazia partecipativa europea e con essa la <strong>cittadinanza</strong> <strong>attiva</strong> europea viene talmente fatta<br />

propria dall’UE, che, a determinate condizioni, è riconosciuto agli stessi cittadini europei il diritto<br />

di esercitare una vera e propria iniziativa, anche legislativa, europea. Infatti “cittadini dell’Unione,<br />

in numero di almeno un milione, che abbiano la <strong>cittadinanza</strong> di un numero significativo di Stati<br />

membri, possono prendere l’iniziativa d’invitare la Commissione, nell’ambito delle sue attribuzioni,<br />

a presentare una proposta appropriata su materie in merito alle quali tali cittadini ritengono necessario<br />

un atto giuridico dell’Unione …” 46 . In tal modo sono veramente i cittadini europei in quanto tali<br />

ad avere la possibilità di determinare il tipo di “partita” da giocare ovvero lo stesso obiettivo di una<br />

certa azione, anche legislativa, dell’Unione, raggiungendo con ciò il vertice delle possibilità attuali<br />

e future prossime della vita democratica dell’Unione, nella dimensione della democrazia partecipativa<br />

e della <strong>cittadinanza</strong> <strong>attiva</strong>, giocate nel senso della “democrazia glocale”.<br />

II. LO SVILUPPO STORICO<br />

L’inizio della storia della democrazia europea si può dire coincida con l’inizio della storia della<br />

stessa integrazione europea, che a sua volta si può individuare nell’evento, la cui ricorrenza annuale,<br />

il 9 maggio, è stata stabilita come la Giornata dell’Europa.<br />

La dichiarazione Schuman<br />

Infatti alle ore 18.00 del 9 maggio 1950, nella sala dell’Orologio del palazzo del Quai d’Orsay a Parigi,<br />

si aprì una conferenza stampa, nel corso della quale il ministro degli esteri francese Robert<br />

Schuman pronunciò una dichiarazione (la “dichiarazione Schuman”, detta anche “discorso<br />

dell’Orologio”), nata dietro ispirazione del suo collaboratore, Jean Monnet, la quale ha dato origine<br />

al processo d’integrazione europea.<br />

45 Ibidem, par. 3.<br />

46 Ibidem, par. 4.


A. Lo sfondo storico<br />

La dichiarazione evocava in primo luogo lo sfondo storico da cui muoveva. Si ravvisava nel “contrasto<br />

secolare tra la Francia e la Germania” (risalente alla guerra franco-prussiana del 1870-’71) la<br />

causa principale della prima guerra mondiale (1914-’18), che a sua volta comportò, nei successivi<br />

trattati di pace (a partire dal 1919), sia l’affermazione dello Stato come Stato nazionale, sia la creazione<br />

della Società delle Nazioni (SdN), in cui entrò subito la Francia. Ne derivò per l’Europa la<br />

moltiplicazione del numero degli Stati, ognuno dei quali, nel difficile periodo del dopoguerra, tese a<br />

costruirsi un’economia nazionale chiusa, producendo una situazione economica generale<br />

dell’Europa sempre più frammentata e incapace di apportare nuovo sviluppo per qualunque Stato. Il<br />

mancato sviluppo economico poneva serie ipoteche anche alla situazione politica, perché dava ulteriore<br />

esca al nazionalismo ormai emergente dovunque e quindi al rischio di nuove guerre, in particolare<br />

tra la Germania e la Francia. D’altra parte la Società delle Nazioni, che aveva come suo<br />

compito primario quello di mantenere la pace mondiale, favorì il raggiungimento di alcuni accordi<br />

fondamentali, che sembrarono scongiurare proprio quel rischio, ovvero il Patto di Locarno (1925),<br />

con l’entrata della Germania nella SdN (1926), e il Patto Briand-Kellogg (1928). Protagonista di<br />

entrambi gli accordi fu il ministro degli esteri francese Aristide Briand. Egli riteneva tuttavia che il<br />

problema franco-tedesco potesse considerarsi effettivamente concluso solo in quanto si fosse provveduto<br />

a un accordo generale e stabile per tutta l’Europa, che fosse capace di garantire il superamento<br />

delle barriere economiche nazionali e quindi dello sviluppo dei nazionalismi e del rischio<br />

della guerra, attraverso la creazione di un’unione economica europea, da realizzarsi peraltro grazie<br />

all’istituzione di un’”Associazione Europea” a carattere politico tra gli Stati europei aderenti alla<br />

SdN, nella forma dunque di un’organizzazione regionale di quest’ultima. Il suo appello, lanciato a<br />

Ginevra il 5 settembre 1929 nella seduta plenaria dell’Assemblea della SdN, fu raccolto pochi giorni<br />

dopo, il 9 settembre, fra gli altri, dal ministro degli esteri tedesco Gustav Stresemann; l’adesione<br />

generale permise la redazione francese di un “memorandum sull’organizzazione di un regime<br />

d’Unione Federale Europea”, che fu presentato ai 27 Stati europei membri della SdN il 17 maggio<br />

1930 e che prevedeva la creazione di due organismi, uno generale, la “Conferenza europea”, e uno<br />

ristretto, il “Comitato politico permanente”. Nonostante l’adesione generale al memorandum 47 e la<br />

conseguente risoluzione dell’Assemblea della Società delle Nazioni del 17 settembre 1930, con la<br />

quale si decideva, in vista della creazione di un’Unione Federale Europea, l’istituzione di<br />

un’apposita “Commissione d’indagine per l’Unione Europea”, presieduta da Briand, quest’ultima<br />

non riuscì a condurre a termine il proprio compito, in pratica non sopravvivendo allo stesso Briand,<br />

spentosi il 7 marzo 1932.<br />

Infatti in primo luogo l’obiettivo era troppo ambizioso e insieme troppo vago e questa sarà la prima<br />

lezione appresa da Monnet e quindi da Schuman: “L’Europa non potrà farsi in una sola volta, né sarà<br />

costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto”, e non già alla<br />

fine (come per Briand), “una solidarietà di fatto”. In secondo luogo l’idea giungeva troppo tardi:<br />

appena poche settimane dopo il primo annuncio di Briand, esplodeva la grande crisi economica<br />

mondiale (crollo della borsa di Wall Street, dal 24 ottobre 1929), che di lì a qualche mese investiva<br />

la stessa Europa (rafforzando la tendenza dei singoli Stati al protezionismo doganale e lo sviluppo<br />

del nazionalismo), ma in particolare la Germania, dove il nazionalismo assumeva l’aspetto, sempre<br />

più di successo, di una proposta autoritaria, dittatoriale, totalitaria, fascista, come quella del partito<br />

nazionalsocialista, che, una volta giunto al potere, non esiterà a denunciare i trattati internazionali,<br />

sfidando apertamente la SdN, la quale era del resto già in crisi fin dal 1931 in seguito al fallimento<br />

del tentativo di contenimento della volontà espansionistica del Giappone in Manciuria ai danni della<br />

47 Per il “memorandum”, la serie delle osservazioni a esso da parte di ognuno dei 27 Stati e la sintesi finale francese di<br />

esse vedi (in lingua inglese) il documento SdN 15/9/1930 Documents relating to the Organisation of a system of European<br />

Federal Union, in: http://digital.library.northwestern.edu/league/le00328a.pdf e<br />

http://digital.library.northwestern.edu/league/le00328b.pdf .


Cina. Il crollo in pochi anni della credibilità della SdN, di fronte al ritiro della stessa Germania nazista<br />

dall’organizzazione internazionale (1933), al riarmo tedesco, alla guerra d’Etiopia (con il fallimento<br />

delle sanzioni economiche contro l’Italia), all’annessione tedesca dell’Austria, al congresso<br />

di Monaco (con la successiva spartizione della Cecoslovacchia), all’annessione italiana<br />

dell’Albania, all’alleanza italo-tedesca e all’attacco tedesco alla Polonia, fu il preludio a una seconda<br />

guerra mondiale, che peraltro fu aperta proprio grazie al coraggioso tentativo delle due maggiori<br />

potenze della moribonda SdN, 48 la Gran Bretagna e la Francia, di fermare la Germania nazista (settembre<br />

1939). Ma, intanto, come dirà Schuman: “L’Europa non è stata fatta: abbiamo avuto la guerra”.<br />

Nel corso di tale nuovo e ancor più devastante conflitto mondiale fu proprio la Francia a venire travolta<br />

(giugno 1940), vedendo confermata, nell’umiliante sconfitta, nell’occupazione militare tedesca<br />

di gran parte del territorio francese e nella creazione di uno Stato francese fascista e alleato della<br />

Germania nazista, la conferma del “contrasto secolare tra la Francia e la Germania” come minaccia<br />

costante per la stessa sopravvivenza del Paese. Lo sbarco anglo-americano nel Marocco e<br />

nell’Algeria francesi e la conseguente soppressione tedesca dello Stato francese di Vichy, con<br />

l’occupazione italo-tedesca di tutta la Francia e della Tunisia francese, (novembre 1942), il successivo<br />

riconoscimento alleato di una nuova Repubblica Francese democratica e in guerra contro la<br />

Germania nazista, con la partecipazione del capo del governo provvisorio De Gaulle alla conferenza<br />

alleata di Casablanca (gennaio 1943), lo sviluppo del movimento politico-militare della Resistenza<br />

in tutta la Francia e la liberazione alleata del Paese, iniziata con lo sbarco alleato in Normandia<br />

(giugno 1944) e culminata con l’entrata alleata e di De Gaulle a Parigi (agosto 1944), condussero la<br />

Francia all’entrata nel novero delle potenze alleate ovvero delle Nazioni Unite (dicembre 1944) e<br />

alla partecipazione, alla pari con gli altri alleati, all’invasione della Germania (marzo 1945).<br />

La vittoria finale alleata (maggio 1945) e la contemporanea fine del regime nazista e anzi della stessa<br />

Germania come Stato, con un’amministrazione militare interalleata del Paese (della quale faceva<br />

parte la stessa Francia), non mutarono per molto i termini della situazione. Infatti, pur in presenza di<br />

una nuova organizzazione internazionale a tutela della pace mondiale con la nascita<br />

dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ottobre 1945) (di cui la Francia è uno dei membri fondatori<br />

e, in quanto riconosciuta come grande potenza vincitrice, ha ottenuto nel Consiglio di sicurezza<br />

delle Nazioni Unite un seggio permanente con diritto di veto), lo scoppio della nuova “guerra fredda”<br />

tra i Paesi democratici filo-americani e quelli comunisti filo-sovietici, che veniva a dividere<br />

drasticamente in due il cuore stesso dell’Europa, poneva ancora una volta a repentaglio la pace<br />

mondiale e soprattutto europea.<br />

Al fine di rinsaldare i legami dei vari Paesi democratici europei, comunque usciti distrutti dalla seconda<br />

guerra mondiale, con gli Stati Uniti d’America, questi ultimi lanciarono il Piano Marshall<br />

(giugno 1947), che assicurò ai Paesi europei che vi aderirono (compresa la Francia) la possibilità di<br />

una rapida ricostruzione economica nazionale a partire dal 16 aprile 1948, quando venne fondata a<br />

tale scopo l’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE), che comprendeva<br />

pure la Francia e le zone d’amministrazione militare anglo-americana e francese della Germania. Il<br />

successo dell’OECE e, con essa, delle economie dei Paesi europei a essa aderenti, è dato dal fatto<br />

che essa si trasformerà nel dicembre 1960 nell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo<br />

economico (OCSE), destinata ad allargarsi a sempre più numerosi Paesi di quasi tutti i continenti, a<br />

configurarsi come l’organizzazione dei Paesi democratici economicamente più sviluppati del mondo<br />

e a generare dal suo interno, a partire dal 1975, un organismo informale ristretto, costituito dai<br />

Paesi OCSE con le più forti economie, ovvero un gruppo, che dapprima fu di 6 Stati (G6), poi, dal<br />

1976, di 7 Stati (G7) e, dal 1997, dopo la fine dell’Unione Sovietica e il riavvicinamento<br />

all’economia occidentale della Russia (che però non è tuttora membro dell’OCSE), di 8 Stati (G8).<br />

48 L’ultimo “canto del cigno” della Società delle Nazioni avvenne qualche mese dopo, quando, in seguito alla aggressione<br />

sovietica della Finlandia, iniziata il 30 novembre 1939, la Società delle Nazioni (guidata da Gran Bretagna e<br />

Francia) decretò il 14 dicembre 1939 l’espulsione dell’Unione Sovietica (di fatto alleata della Germania nazista).


Se l’OECE rappresentò la necessaria rete di sicurezza per la rapida ricostruzione economica dei Paesi<br />

democratici europei distrutti dalla guerra, la nuova minaccia alla pace in Europa, costituita da<br />

una “guerra fredda” sempre più allarmante, spinse il governo britannico a lanciare la proposta della<br />

creazione di una stabile alleanza politico-militare tra i Paesi democratici europei in funzione antisovietica<br />

per la difesa comune dei rispettivi territori, che condusse alla firma tra cinque di loro<br />

(Gran Bretagna, Francia, Belgio, Lussemburgo e Paesi Bassi) del trattato di Bruxelles del 17 marzo<br />

1948, che istituiva l’Unione Occidentale (UO). La determinazione politica, ma insieme<br />

l’insufficienza militare dell’UO condussero in breve alla creazione di una vera e propria alleanza<br />

politico-militare permanente con gli stessi Stati Uniti d’America ed altri Paesi, europei e non, ossia<br />

dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord (OTAN o NATO), creata il 4 aprile<br />

1949, di cui la Francia è uno dei membri fondatori. La NATO permetterà di affrontare e attraversare<br />

con successo tutta la parabola pluridecennale della “guerra fredda”, impedendo la trasformazione di<br />

questa in una guerra “calda”e anzi termonucleare e pervenendo comunque all’”estinzione” economica,<br />

sociale e politica del “nemico” ossia alla fine dell’Unione Sovietica e dei regimi comunisti in<br />

Europa e quindi della divisione del continente in due aree segregate una rispetto all’altra.<br />

Se la NATO è stata la risposta efficace al problema fondamentale della sicurezza politico-militare<br />

dei Paesi democratici europei, vi era tuttavia un problema ancor più di fondo da risolvere, in vista<br />

dell’obiettivo supremo della pace europea e perciò mondiale. A prescindere dal loro legame, economico<br />

e politico-militare, con gli Stati Uniti, si trattava del rapporto tra gli stessi Paesi democratici<br />

europei. Dopo decenni di divisioni tra i vari nazionalismi, tra regimi democratici e fascisti, dopo<br />

anni di feroce guerra tra loro e tuttora in presenza, all’interno di ogni Paese, di alternativi schieramenti<br />

politici, democratico e comunista, si trattava di ricostruire le basi di una convivenza civile,<br />

interna e internazionale, nell’Europa democratica, da acquisire attraverso la creazione di una comune<br />

civiltà giuridica europea. A questo scopo quanto mai fondamentale, soprattutto su iniziativa britannica,<br />

si è creato il Consiglio d’Europa, il cui Statuto fu approvato il 5 maggio 1949 e di cui la<br />

Francia è uno dei membri fondatori: un’organizzazione internazionale esclusivamente europea, avente<br />

il preciso obiettivo della creazione di una comune coscienza civile europea, nella consapevolezza<br />

che proprio quest’ultima sarebbe stata la vera base dell’unione tra i Paesi democratici europei.<br />

A tale scopo il Consiglio d’Europa decise subito di darsi quanto prima una sorta di vera e propria<br />

dichiarazione dei <strong>diritti</strong> dell’uomo in chiave europea e conseguirà questo suo obiettivo con il varo<br />

della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali<br />

(4 novembre 1950), vera “Magna Charta” della civiltà giuridica europea contemporanea e<br />

fondamentale punto di riferimento dei Paesi democratici europei nel perseguimento di un elevato<br />

standard comune di definizione, realizzazione e godimento dei <strong>diritti</strong> umani all’interno di ogni Paese<br />

democratico europeo. Da allora in poi, sulla base di questo documento, sarà introdotto il principio<br />

fondamentale della necessità, per ogni Stato europeo, di dimostrare l’effettivo rispetto di tale<br />

Convenzione, ai fini non solo dell’entrata, ma anche della permanenza di esso nel Consiglio<br />

d’Europa. In tal modo si creerà una interamente nuova realtà internazionale, che vedrà (in termini<br />

decisamente più restrittivi rispetto a qualsiasi altra organizzazione internazionale) la base della stessa<br />

coesione tra diversi Stati nel rispetto e nella garanzia, da parte di ciascuno di essi, di una serie universalmente<br />

riconosciuta di <strong>diritti</strong> dell’uomo e di libertà fondamentali nei confronti dei rispettivi<br />

cittadini. Ciò condurrà a sua volta allo sviluppo di un comune senso di appartenenza dei popoli europei<br />

a un’unica realtà non solo giuridica, ma anche morale e anzi etica, e come tale immediatamente<br />

sentita. E infatti il Consiglio d’Europa provvederà a creare dei simboli europei, in primo luogo<br />

una bandiera (il cerchio di dodici stelle dorate su sfondo blu), inaugurata il 13 dicembre 1955, e in<br />

secondo luogo un inno (il Preludio dell’”Inno alla gioia”, quarto movimento della Nona Sinfonia di<br />

Ludwig van Beethoven), inaugurato il 5 maggio 1972. Con la fine dell’Unione Sovietica e dei regimi<br />

comunisti in Europa, il Consiglio d’Europa diverrà infine la grande realtà, effettivamente continentale,<br />

attuale, comprendente ben 47 Stati membri, vero punto d’incontro e di dialogo tra le due<br />

anime, occidentale e orientale, di un’Europa peraltro priva di precisi contorni geografici, soprattutto<br />

verso est.


Tutti i sopra descritti sviluppi internazionali, intervenuti tra il 1945 e il 1949, avvennero, tuttavia,<br />

senza la Germania, che non esisteva più come Stato. Ma proprio il sempre più allarmante aggravamento<br />

della “guerra fredda” portò alla fine alla trasformazione unilaterale delle zone<br />

d’amministrazione militare interalleata, anglo-americana e francese, della Germania nella Repubblica<br />

Federale di Germania (RFG o Germania occidentale o Germania ovest), fondata il 23 maggio<br />

1949 ed entrata nello stesso anno nell’OECE.<br />

B. La proposta francese di Schuman<br />

Paradossalmente la nascita di un nuovo Stato tedesco, resa possibile anche grazie al consenso francese,<br />

diede alla Francia l’opportunità di realizzare il sogno di Briand. Il nuovo ministro degli esteri<br />

francese, Robert Schuman, era infatti convinto dell’insufficienza del pur promettente nuovo quadro<br />

di riferimento internazionale a salvaguardare la pace mondiale, minacciata dalla “guerra fredda”,<br />

ma prima ancora dal pericolo di risorgenti nazionalismi nei diversi Paesi democratici europei. Di<br />

fronte all’approccio britannico di soluzione di quest’ultimo problema ovvero al neonato Consiglio<br />

d’Europa, giudicato esso pure insufficiente, egli rivendicava invece, come già aveva fatto a suo<br />

tempo Briand, la necessità di creare una vera e propria “Europa organizzata e vitale”, sotto forma di<br />

una “Federazione europea”, che non solo rendesse impossibile la rinascita di qualunque nazionalismo<br />

in Europa, bensì anche contribuisse a una maggiore stabilità politica e a un più deciso progresso<br />

civile nel mondo, a tutto beneficio della pace non solo europea, ma mondiale.<br />

Tuttavia, mentre in Briand l’Unione federale europea rappresentava la premessa indispensabile alla<br />

creazione di una “solidarietà di fatto” tra gli Stati europei, che a sua volta sarebbe stata la condizione<br />

necessaria per una successiva ”unificazione economica” europea, per Schuman, memore del fallimento<br />

delle iniziative del 1929-’32, la vera molla dell’intero processo dovevano essere, viceversa,<br />

una serie di “realizzazioni concrete” sul piano economico, che portassero a creare, “rapidamente e<br />

con mezzi semplici”, una “fusione di interessi” nazionali per un ben maggiore sviluppo economico<br />

di tutti e di ciascuno e quindi alla nascita di quella “solidarietà di fatto” tra Paesi europei invano<br />

cercata in altro modo da Briand. Tali realizzazioni concrete avrebbero comportato gradualmente<br />

un’”unificazione economica” europea, che a sua volta sarebbe stata la premessa indispensabile della<br />

Federazione europea. Per le stesse ragioni, anzi, Schuman riteneva che l’avvio di tali “realizzazioni<br />

concrete” sul piano economico non dovesse essere intrapreso attraverso un preliminare coinvolgimento,<br />

troppo lento e complesso, di tutti i Paesi europei, né di tutti quelli aderenti all’ONU o<br />

all’OECE o alla NATO o al Consiglio d’Europa, bensì puntando all’intesa francese anche con un<br />

solo altro Paese democratico europeo, ma dietro solide garanzie di rapido e cospicuo successo.<br />

La scelta cadde proprio sul nuovo Stato tedesco, in quanto un’intesa francese proprio con esso avrebbe<br />

significato la fine di quel “contrasto secolare tra la Francia e la Germania”, che era stato sino<br />

ad allora il massimo esempio dei contrapposti nazionalismi europei, e indicato con ciò la chiara<br />

possibilità per tutti i Paesi europei di aderire al processo di unificazione. Ma la scelta avvenne proprio<br />

in quel momento, perché proprio allora il nuovo Stato tedesco era appunto appena nato, non era<br />

stato riconosciuto universalmente, non poteva concludere un trattato di pace con le Nazioni Unite,<br />

era sottoposto al regime di occupazione militare britannica, americana e appunto francese, non poteva<br />

aderire ad alcuna organizzazione internazionale (tranne l’OECE), insomma si trovava in una<br />

condizione di subordinazione politica, rispetto alla quale un accordo proprio con una delle potenze<br />

occupanti avrebbe potuto segnare la possibilità di una sua emancipazione. E d’altra parte tale situazione<br />

di inferiorità politica era dovuta anche alla estrema diffidenza altrui nei confronti di un Paese,<br />

che, anche se dimezzato, conservava delle potenzialità di sviluppo industriale, produttivo ed economico,<br />

che, qualora lo si fosse lasciato “libero”, avrebbero potuto ancora una volta essere poste al<br />

servizio di un riarmo e quindi della possibilità di una guerra.<br />

La felice intuizione di Schuman fu allora quella di “concentrare immediatamente l’azione su un<br />

punto limitato, ma decisivo”, ossia di proporre “di mettere l’insieme della produzione francotedesca<br />

di carbone e di acciaio sotto una comune Alta Autorità”, così da favorire lo sviluppo indu-


striale ed economico di entrambi i Paesi e insieme rendere impossibile che la produzione, proprio in<br />

quanto fondata su basi comuni, si orientasse ancora alla “fabbricazione di strumenti bellici”; il risultato<br />

sarebbe stato che “la solidarietà di produzione in tal modo realizzata farà sì che una qualsiasi<br />

guerra tra la Francia e la Germania diventi non solo impensabile, ma materialmente impossibile”. In<br />

questa maniera sarebbero stati di colpo fugati i dubbi non solo francesi, bensì di tutte le Nazioni Unite<br />

su qualsiasi possibilità di riarmo della Germania, consentendo a quest’ultima di accelerare il<br />

proprio sviluppo economico e insieme aprendo le porte a una progressiva riabilitazione internazionale<br />

dello Stato tedesco.<br />

A questo proposito è anzi da sottolineare come la proposta francese, che intendeva collocarsi soprattutto<br />

nell’alveo del quadro di riferimento generale europeo, proprio del Consiglio d’Europa,<br />

contribuisse all’accoglimento da parte di quest’ultimo già pochi mesi dopo, il 13 luglio 1950, della<br />

Germania occidentale come suo nuovo membro, anche se solo associato.<br />

La proposta di Schuman si segnalava inoltre per l’apertura ad eventuali adesioni alla futura “organizzazione”<br />

anche da parte di altri Paesi europei, nonché perché precisava che “questa produzione<br />

sarà offerta al mondo intero, senza distinzione né esclusione, per contribuire al rialzo del livello di<br />

vita e al progresso delle opere di pace”. In tal modo Schuman faceva capire che l’eventuale accordo<br />

franco-tedesco era davvero da intendere come un possibile primo nucleo di un accordo estendibile<br />

idealmente a tutti gli Stati membri del Consiglio d’Europa e che tale unione sarebbe stata comunque<br />

non già contro qualche Stato terzo, bensì a beneficio del mondo intero.<br />

La Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA)<br />

La persuasività della proposta francese venne subito confermata dall’adesione a essa non solo della<br />

Repubblica di Federale di Germania, ma anche del Belgio, dei Paesi Bassi e del Lussemburgo, nonché<br />

dell’Italia 49 ; inoltre essa ricevette il “nulla osta” degli altri quattro membri permanenti del Consiglio<br />

di sicurezza delle Nazioni Unite. Si pervenne così, il 18 aprile 1951, alla firma tra i sei Stati<br />

predetti del Trattato di Parigi istitutivo della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio<br />

(CECA).<br />

I rappresentanti dei sei Stati membri (tra cui il tedesco Konrad Adenauer) riprendevano nel Preambolo<br />

del trattato i contenuti essenziali della Dichiarazione Schuman e in particolare il fine ultimo di<br />

essa: “Risoluti a sostituire alle rivalità secolari una fusione dei loro interessi nazionali essenziali, a<br />

fondare con l’instaurazione d’una comunità economica le prime assise d’una comunità più vasta e<br />

profonda tra popoli per lungo tempo avversi per divisioni sanguinose, e a porre i fondamenti<br />

d’istituzioni capaci d’indirizzare un destino oramai condiviso,”. In altri termini si confermava che la<br />

49 Dopo la caduta del governo Mussolini e la fine del regime fascista (25 luglio 1943), l’armistizio con resa incondizionata<br />

agli Alleati (3 settembre 1943), l’entrata in guerra contro la Germania nazista (13 ottobre 1943), la resa incondizionata<br />

delle truppe tedesche in Italia (29 aprile 1945), il referendum istituzionale e le elezioni dell’Assemblea Costituente<br />

(2 giugno 1946) con la nascita della Repubblica Italiana, il trattato di pace con le Nazioni Unite (10 febbraio 1947) e<br />

l’entrata in vigore della Costituzione (1 gennaio 1948), l’Italia aveva aderito, come membro fondatore, sia all’OECE,<br />

sia alla NATO, sia al Consiglio d’Europa, ma non aveva ancora ottenuto, a motivo della propria condizione di potenza<br />

sconfitta, un consenso universale ad una sua entrata nell’ONU. Tale perdurante situazione di parziale inferiorità politica,<br />

unitamente alle persistenti scarse prospettive di sviluppo economico, favorirono la decisione di diventare membro<br />

fondatore di un risolutivo processo d’integrazione europea.<br />

Artefice di tale decisione fu peraltro Alcide De Gasperi. Cofondatore dell’Unione Politica Popolare del Trentino<br />

(UPPT) (1904) e del Partito Popolare Trentino (PPT) (1905), consigliere comunale di Trento (1909-’14), membro del<br />

Consiglio Imperiale della Cisleitania ossia della parte austriaca dell’Impero d’Austria-Ungheria (1911-’18), membro<br />

della Dieta del Tirolo (1914-’15), cofondatore del Partito Popolare Italiano (PPI) (1919), membro della Camera dei deputati<br />

del Regno d’Italia (1919-‘26), segretario del PPI (1924-’25), segregato per antifascimo (1927-’28), rifugiato nello<br />

Stato della Città del Vaticano (1929-’44), fondatore della Democrazia Cristiana (1942), cofondatore del Comitato Nazionale<br />

delle Opposizioni (CNO) e quindi del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) (1943), ministro (1944), segretario<br />

della DC (1944-’46), ministro degli esteri (1944-’46), Alcide De Gasperi era dal 1945 il presidente del Consiglio<br />

dei ministri del Regno d’Italia e poi della Repubblica Italiana. Per la sua scelta decisiva a favore della partecipazione<br />

dell’Italia alla CECA, gli sarà assegnato nel 1952 il “Premio Carlo Magno”, istituito ad Aquisgrana nel 1949 quale riconoscimento<br />

per le personalità maggiormente distintesi a favore dell’unificazione europea.


CECA non era altro che l’inizio di un percorso che avrebbe dovuto portare a una comunità economica<br />

integrale e infine a una vera e propria comunità politica.<br />

Ma cosa significava propriamente il termine “Comunità”? Esso differiva dal termine invalso di<br />

semplice “organizzazione” internazionale, perché intendeva qualcosa di più di quest’ultimo: il nuovo<br />

termine significava infatti un’unione di Stati sovrani e indipendenti, ma anche uguali fra loro e<br />

soprattutto solidali fra loro, nata dall’atto di porre appunto in comune le produzioni e i mercati nazionali<br />

del carbone e dell’acciaio in vista della creazione di una produzione e di un mercato comuni<br />

di tali beni economici, da affidare alla gestione di un’autorità sovranazionale, dotata di proprie istituzioni,<br />

che doveva assicurare “la distribuzione più razionale della produzione al più alto livello di<br />

produttività”, al fine di “contribuire … all’espansione economica, all’incremento dell’occupazione e<br />

al miglioramento del tenore di vita negli Stati membri”.<br />

Inoltre, pur essendo questo il fine principale, il trattato istitutivo della CECA sottolineava che esso<br />

andava perseguito “insieme tutelando la continuità dell’occupazione ed evitando di provocare, nelle<br />

economie degli Stati membri, turbamenti fondamentali e persistenti”. In altri termini il perseguimento<br />

del fine economico della produzione ottimale e del mercato competitivo non andava disgiunto<br />

dall’attenzione al fattore umano, personale dei lavoratori e nazionale dei popoli, coinvolti in tale<br />

operazione. Si può dire quindi nascesse fin da allora quell’ideale economico comunitario europeo,<br />

che sarà poi denominato con l’espressione di “economia sociale di mercato”.<br />

Le istituzioni della CECA, dotata di personalità giuridica, vedevano in primo luogo l’”Alta Autorità”,<br />

prevista dalla Dichiarazione Schuman. Essa era l’istituzione esecutiva ossia il “governo” sovranazionale<br />

della CECA, composto da nove membri (non più di due per ciascuno Stato membro) con<br />

un mandato di sei anni. E tuttavia, al fine di riprodurre in qualche modo nella CECA la natura democratica<br />

dei suoi Stati membri, tra le istituzioni comunitarie era prevista pure l’”Assemblea”,<br />

composta di 78 deputati, eletti, in misura proporzionale alle popolazioni dei rispettivi Paesi, dai loro<br />

Parlamenti nazionali, e dotata di poteri di controllo. Ma l’istituzione più alta era il “Consiglio”,<br />

comprendente i rappresentanti dei sei Stati membri con una presidenza a turno di tre mesi e avente<br />

l’ultima voce in capitolo per le decisioni più importanti della CECA. E infine v’era pure<br />

l’istituzione della Corte di Giustizia della CECA, deputata a decidere, sulla base della propria interpretazione<br />

del trattato di Parigi, di ogni vertenza giudiziaria riguardante le materie di competenza<br />

della Comunità. Inoltre era prevista la creazione di un’apposita “Gazzetta Ufficiale” della CECA,<br />

incaricata di pubblicare le norme emanate dalla Comunità, le quali, in quanto attuative del nuovo<br />

diritto comunitario e aventi valore di atti giuridici, dovevano essere perciò pubblicate e trarre<br />

dall’atto della loro pubblicazione il decorso della loro entrata in vigore. In definitiva già la CECA<br />

prevedeva un complesso di istituzioni che non aveva confronti con quelle delle organizzazioni internazionali<br />

propriamente dette e avrebbe portato a ulteriori sviluppi.<br />

Infine nel suo trattato istitutivo la CECA confermava le proprie relazioni privilegiate con il Consiglio<br />

d’Europa, ponendosi quasi come una sorta di avanguardia di quest’ultimo.<br />

La prima conseguenza politica della firma del trattato di Parigi fu perciò quella di contribuire<br />

all’accoglimento della Germania occidentale poche settimane dopo, il 2 maggio 1951, come membro<br />

a pieno titolo del Consiglio d’Europa.<br />

Il trattato istitutivo della CECA entrò in vigore il 24 luglio 1952 e, poiché esso stabiliva una propria<br />

durata massima nel periodo di 50 anni dalla data di entrata in vigore, la CECA terminò la propria<br />

vita il 24 luglio 2002. Ma il suo successo immediato fu tale che non occorse aspettare nemmeno<br />

cinque anni per assistere a sviluppi ulteriori del processo d’integrazione europea.<br />

La (fallita) Comunità Europea di Difesa (CED)<br />

Infatti persino già prima dell’entrata in vigore del trattato istitutivo della CECA era stato firmato<br />

sempre a Parigi anche il Trattato istitutivo della Comunità Europea di Difesa (CED).<br />

Si trattava di una nuova forma di comunità europea, nata peraltro da sollecitazioni esterne<br />

all’originario piano francese di Monnet e di Schuman. Infatti la Francia aveva posto come uno degli


obiettivi della stessa CECA quello di impedire un riarmo della Germania. Ma i nuovi e sempre più<br />

inquietanti sviluppi della “guerra fredda”, con lo scoppio della guerra di Corea, la concentrazione<br />

delle forze armate americane in Estremo Oriente, il rischio di un’imminente invasione sovietica<br />

dell’Europa occidentale e l’impossibilità di contrastarla senza l’ausilio di un nuovo esercito tedesco,<br />

condussero all’iniziativa britannica (Churchill) di proporre in sede di Consiglio d’Europa la creazione<br />

di un esercito europeo, a cui partecipasse la Germania. Il Consiglio d’Europa accolse la proposta<br />

e lanciò l’idea di porre il costituendo esercito europeo sotto l’autorità di un ministero della difesa<br />

comune e con un adeguato controllo democratico.<br />

Di fronte a tale proposta, accolta pure dalla Germania, la Francia, per non finire isolata, lanciò a sua<br />

volta la proposta di porre il costituendo esercito europeo sotto il controllo di una nuova comunità<br />

europea (con un ministro della difesa comune), analoga alla CECA, precisando che la divisione tedesca,<br />

che avrebbe partecipato all’esercito europeo, doveva essere l’unica unità militare nazionale<br />

permessa alla Germania. In tal modo la Francia si garantiva da un lato il totale controllo europeo del<br />

pur piccolo nuovo esercito tedesco e dall’altro approfittava del lancio della nuova comunità europea<br />

per accelerare decisamente il processo d’integrazione, avviato da Schuman, verso traguardi già decisamente<br />

di natura politica.<br />

Una volta che tale proposta francese ottenne il benestare degli Stati Uniti, anche l’Italia (De Gasperi)<br />

avanzò una propria proposta: constatata la natura politica di tale nuovo tipo di comunità, richiese<br />

che i forti poteri politico-militari attribuitile fossero controbilanciati dalla creazione successiva di<br />

una vera e propria comunità politica europea, come tale democraticamente legittimata attraverso<br />

l’elezione popolare diretta dell’Assemblea; De Gasperi suggeriva altresì che a studiare la creazione<br />

di tale comunità politica fosse l’Assemblea della nuova comunità europea proposta dalla Francia.<br />

Infine, dopo un ultimatum degli Stati Uniti che minacciava, in caso di mancato accordo immediato<br />

tra i Paesi europei, l’armamento americano di un nuovo esercito tedesco, i sei Paesi della CECA<br />

firmarono a Parigi il 27 maggio 1952 il Trattato istitutivo della Comunità Europea di Difesa<br />

(CED), che implicava il riconoscimento della piena sovranità della Germania.<br />

Il nuovo trattato di Parigi comportava peraltro, all’articolo 38, la ripresa della proposta italiana di<br />

affidare all’Assemblea della CED lo studio della creazione di un’Assemblea eletta democraticamente.<br />

Poiché, nel frattempo, il 24 luglio 1952, era già entrato in vigore il trattato istitutivo della CECA,<br />

i sei Paesi decisero, con un atto affrettato, quanto temerario, ossia con la risoluzione di Lussemburgo<br />

del 10 settembre 1952, di affidare immediatamente il compito di elaborare “un progetto di trattato<br />

istitutivo di una Comunità politica europea” alla stessa nuova Assemblea della CECA, allargata a<br />

membri dell’Assemblea consultiva del Consiglio d’Europa. Il risultato di tale studio fu la redazione<br />

di un progetto di Comunità politica europea, che tale assemblea allargata trasmise, il 9 marzo 1953,<br />

al Consiglio speciale dei ministri della CECA e approvò, il 10 marzo 1953, con il titolo di<br />

“Progetto di trattato recante uno Statuto della Comunità Europea”.<br />

Il progetto, sorretto dal Consiglio d’Europa e rivolto ai Paesi membri di quest’ultimo, prevedeva il<br />

varo di una Comunità Europea in senso politico (federale o confederale), attraverso uno Statuto che<br />

aveva tutti i caratteri di una vera e propria Costituzione. La prevista Comunità Europea, che doveva<br />

assorbire in sé sia la CECA, sia la prevista CED, sarebbe stata “fondata sull’unione dei popoli e degli<br />

Stati”, avrebbe avuto personalità giuridica, avrebbe avuto a suo punto fondamentale di riferimento<br />

la Convenzione per la salvaguardia dei <strong>diritti</strong> dell’uomo e delle libertà fondamentali, approvata<br />

dal Consiglio d’Europa, avrebbe prodotto delle vere e proprie leggi e avrebbe avuto competenze<br />

in materia economica, di salvaguardia dei <strong>diritti</strong> dell’uomo, di politica estera e sicurezza e di difesa.<br />

Per tali suoi caratteri tale Statuto anticipava di 50 anni esatti il progetto di “Trattato che stabilisce<br />

una Costituzione per l’Europa” del 2003. Rispetto a quest’ultimo lo Statuto prevedeva la creazione<br />

di un Parlamento bicamerale, con una Camera dei popoli, eletta a suffragio universale diretto,<br />

e un Senato, eletto dai Parlamenti nazionali dei diversi Stati membri. A queste due istituzioni legislative<br />

erano affiancate le altre istituzioni di un Consiglio dei ministri nazionali (con presidenza a<br />

turno), di un Consiglio esecutivo europeo e di una Corte.


Con tale Statuto il processo d’integrazione europea aveva conosciuto una drammatica accelerazione,<br />

fin troppo accentuata rispetto alla volontà politica proprio della Francia. Così il preliminare processo<br />

di ratifica del trattato istitutivo della CED, iniziato nella primavera del 1953, finì per essere<br />

pregiudicato da questi ultimi sviluppi rivoluzionari: la ratifica del trattato della CED fu equiparata al<br />

consenso sullo Statuto della Comunità Europea. Inoltre stavano venendo a mancare i motivi originari,<br />

che avevano spinto alla formazione della CED, ossia la minaccia di un’invasione sovietica<br />

dell’Europa occidentale: infatti la morte di Stalin e la fine della guerra di Corea sembravano allentare<br />

la tensione sul fronte della “guerra fredda” e far sembrare così inutile o anzi dannosa per gli interessi<br />

nazionali francesi (allora concentrati nella guerra d’Indocina) la stessa CED. Così, mentre<br />

Germania, Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo ratificarono effettivamente entro la primavera del<br />

1954 il trattato della CED, la Francia e l’Italia 50 attesero sino all’estate del 1954, quando il Parlamento<br />

francese (in cui prevalevano ancora forti riserve sia su eventuali limitazioni della sovranità<br />

nazionale in campo militare, sia su qualsiasi ipotesi di riarmo tedesco) lo respinse il 30 agosto 1954,<br />

determinando con tale suo atto l’affossamento del trattato, il fallimento della CED e a maggior ragione<br />

l’oblio dello Statuto della Comunità Europea ossia del progetto di trattato istitutivo di una<br />

Comunità politica europea.<br />

La questione, lasciata così aperta, del riarmo tedesco sarà risolta con i Protocolli di Parigi del 23 ottobre<br />

1954, che trasformeranno l’Unione Occidentale nella nuova Unione dell’Europa Occidentale<br />

(UEO), tuttora esistente, nella quale entreranno sia l’Italia, sia la Germania, a cui sarà comunque<br />

riconosciuta dalle potenze occidentali la piena sovranità nazionale e quindi il diritto alla propria difesa,<br />

a proprie forze armate e a un proprio esercito, anche se con precisi limiti quantitativi e qualitativi.<br />

La Germania entrerà nella NATO il 6 maggio 1955 51 e l’Italia entrerà nell’ONU il 14 dicembre<br />

1955.<br />

La Comunità Economica Europea (CEE)<br />

e la Comunità Europea dell’Energia Atomica (EURATOM)<br />

Restava il problema della Comunità Europea. Il suo scacco sembrava dover riflettersi sulla stessa<br />

CECA. Ma il successo di quest’ultima era così chiaro e completo che, anzi, i sei Stati membri erano<br />

comunque propensi a intensificare ed estendere la loro integrazione economica, riprendendo in tal<br />

modo l’originario disegno della Dichiarazione Schuman. La nuova proposta francese tendeva peraltro<br />

ad attuare una nuova Comunità europea in un nuovo settore economico specifico ovvero quello<br />

dell’energia atomica, particolarmente promettente per i suoi impieghi civili comuni. La nuova proposta<br />

di Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo, subito accolta da Germania e Italia, prevedeva, invece,<br />

di puntare direttamente alla creazione di una nuova Comunità economica europea in quanto tale,<br />

con l’obiettivo di attuare un mercato comune europeo generale, per tutti i beni economici. Nella<br />

conferenza di Messina dell’1-2 giugno 1955, i ministri degli esteri dei Sei decisero di accogliere entrambe<br />

le proposte, dando mandato a un apposito Comitato (presieduto da uno di loro, il belga Spaak)<br />

di preparare una relazione in merito, effettivamente presentata l’8 maggio 1956 con i progetti<br />

dei trattati delle due Comunità. Nella conferenza di Venezia del 29-30 maggio 1956 i ministri degli<br />

50 Nel frattempo De Gasperi, dimessosi dalla guida del governo italiano nell’agosto 1953, era diventato, nel 1954, presidente<br />

dell’Assemblea della CECA e in questa veste istituzionale europea concludeva, pochi mesi dopo, la sua operosa<br />

vita. A succedergli in questo incarico fu tra il 1954 e il 1956 l’italiano Giuseppe Pella (DC), già successore immediato<br />

di De Gasperi alla guida del governo italiano dal 1953 al 1954.<br />

51 Iniziava così per la Germania, pienamente integrata in tutte le strutture del mondo occidentale, uno sviluppo economico<br />

senza precedenti (potentemente sorretto dalla sua appartenenza alla CECA e soprattutto alle future CEE e CEEA),<br />

che la porterà a superare, quanto al PIL, non solo l’Italia, ma anche la Francia e persino il Regno Unito, diventando, entro<br />

il 1960, il Paese con la più forte economia nazionale di tutta Europa, come lo è tuttora.


esteri dei Sei approvarono la relazione Spaak, dando l’avvio a una Conferenza Intergovernativa<br />

(CIG), che condusse alla definizione e approvazione dei due Trattati, firmati a Roma il 25 marzo<br />

1957, istitutivi della Comunità Economica Europea (CEE) e della Comunità Europea<br />

dell’Energia Atomica (EURATOM). 52<br />

Il Trattato istitutivo dell’EURATOM nasceva - in un’epoca in cui il carbone e l’acciaio (e con essi<br />

la CECA) stavano per avviarsi all’obsolescenza tecnologica e alla saturazione del mercato - dalla<br />

preoccupazione di dotarsi di una fonte energetica inesauribile (al contrario di quelle di origine fossile)<br />

e propria (per garantire l’indipendenza energetica europea) e dalla necessità di unire le forze dei<br />

Sei in un settore, i cui alti costi di ricerca, progettazione, impianto e sfruttamento non erano sostenibili<br />

a livello nazionale. Per tali obiettivi il trattato anticipava di 50 anni esatti un tema, come quello<br />

della sicurezza e dell’indipendenza dell’approvvigionamento energetico, come pure del risparmio<br />

energetico, della resa energetica, delle fonti energetiche alternative ai combustibili fossili, nonché<br />

della lotta all’inquinamento e al cambiamento climatico, che dal 2007 saranno più che mai<br />

all’ordine del giorno dell’agenda politica europea. Tuttavia già pochi anni dopo la sua firma<br />

l’EURATOM andrà incontro a uno scacco: infatti il successivo emergere dei nuovi interessi strategici<br />

della Francia a una “forza d’urto” nazionale, autonoma rispetto alle forze combinate NATO e<br />

basata su un proprio arsenale atomico, con i primi esperimenti nucleari ossia con le esplosioni delle<br />

prime bombe atomiche francesi, condurrà a divergenze nella politica nucleare con gli altri cinque<br />

Stati membri, sempre più orientati invece a interessi esclusivamente economici, in cui contava soprattutto<br />

il calcolo costi-benefici. Il risultato fu un disaccordo sugli stessi obiettivi dell’EURATOM,<br />

che portò persino al blocco della sua Commissione. Infine i problemi di finanziamento di questa<br />

Comunità e soprattutto l’assenza di un programma di sviluppo globale delle Comunità (in particolare<br />

industriale e comprensivo della ricerca scientifica e tecnologica) determinarono un sostanziale<br />

“congelamento” dell’EURATOM. Del resto le stesse politiche nucleari nazionali andranno incontro<br />

a una grave crisi in seguito alla sciagura di Chernobyl, che condurrà a un’ulteriore diversificazione<br />

delle scelte nazionali in campo energetico (con il ritiro p.e. dell’Italia dal nucleare), che ridimensionerà<br />

alquanto l’orientamento strategico europeo sull’energia atomica.<br />

Il Trattato istitutivo della CEE aveva una ben maggiore ambizione politica.<br />

Già nel suo Preambolo esso prevedeva infatti: di “porre le fondamenta di una unione sempre più<br />

stretta fra i popoli europei” e quindi di configurare l’unificazione economica europea quale premessa<br />

di una successiva unione politica europea; di “confermare la solidarietà che lega l’Europa ai Paesi<br />

d’oltremare” e quindi di associare alla Comunità molti Paesi di diversi continenti; di “rafforzare,<br />

mediante la costituzione di questo complesso di risorse, le difese della pace e della libertà e facendo<br />

appello agli altri popoli d’Europa, animati dallo stesso ideale, perché si associno 53 al loro sforzo” e<br />

quindi di allargare in futuro la Comunità ad altri Stati europei.<br />

Il Trattato intendeva realizzare tale unificazione economica europea attraverso: a) “l’instaurazione<br />

di un mercato comune” e b) “il graduale ravvicinamento delle politiche economiche degli Stati<br />

membri”.<br />

52 Decisiva per la conduzione a buon fine delle trattative (attraverso gli incontri di Messina, Venezia e Roma) fu<br />

l’attività del governo italiano, guidato allora da Antonio Segni. Esponente della DC, membro dell’Assemblea Costituente<br />

(1946-’47) e della Camera dei deputati (dal 1948), ministro dell’agricoltura e foreste (1946-’51) e della pubblica istruzione<br />

(1951-’54), Antonio Segni era dal 1955 il presidente del Consiglio dei ministri e lo sarebbe rimasto fino al<br />

maggio 1957. Successivamente ministro della difesa (1958-’59), ridiventerà presidente del Consiglio (1959-’60), ricoprendo<br />

poi la carica di ministro degli esteri (1960-’62), fino alla sua elezione a presidente della Repubblica Italiana nel<br />

1962. In tale veste ricevette, in riconoscimento dell’apporto suo personale e dell’Italia al successo dei trattati di Roma, il<br />

“Premio Carlo Magno” nel 1964, pochi mesi prima che una grave malattia lo costringesse a venire sostituito e poi a dimettersi<br />

dalla funzione di capo dello Stato. Dal 1964 fu senatore a vita, sino al 1972.<br />

53 Veniva stabilito già qui il fondamentale istituto dell’”associazione” alla CEE, come atto preliminare alla vera e propria<br />

adesione a essa da parte di uno Stato europeo. I primi Stati, considerati entrambi europei, a venire associati alla<br />

CEE saranno la Grecia e la Turchia; tuttavia quest’ultimo Stato, pur diventando effettivamente associato alla CEE fin<br />

dal 1° dicembre 1964, resterà soltanto tale sino a tuttora. Peraltro l’istituto dell’”associazione” verrà previsto pure, come<br />

fine a se stesso, per definire lo stretto rapporto stabile e permanente che legherà diversi Stati non europei alla CEE in<br />

quanto tale.


Il mercato comune generalizzato avrebbe dovuto essere realizzato, in un periodo di 12 anni (scandito<br />

in tre tappe di 4 anni ciascuna), attraverso:<br />

A) l’instaurazione delle “quattro libertà” ovvero della libera circolazione:<br />

1) delle merci: tale obiettivo sarebbe stato raggiunto mediante la creazione di un’unione doganale,<br />

ottenuta mediante: a) l’abolizione dei dazi doganali e delle restrizioni quantitative fra gli Stati<br />

membri e b) la fissazione della tariffa doganale comune;<br />

2) delle persone (in particolare dei lavoratori e con il diritto di stabilimento), dei servizi e dei capitali.<br />

B) la creazione delle politiche comuni dell’agricoltura (PAC) e dei trasporti (PTC).<br />

La politica generale della CEE, invece, puntava a:<br />

1) stabilire delle norme comuni, ravvisate nei seguenti punti: a) la creazione di regole di concorrenza,<br />

intese a garantire che nel mercato comune “la concorrenza non sia falsata”, e quindi il divieto di:<br />

intese fra imprese, pratiche di dumping e aiuti concessi dagli Stati; b) delle disposizioni fiscali, tese<br />

all’armonizzazione dei regimi nazionali per le imposte indirette; c) un ravvicinamento delle legislazioni<br />

nazionali “nella misura necessaria al funzionamento del mercato comune” (con la possibilità<br />

dunque di avviare ulteriori politiche comuni);<br />

2) creare una politica economica, basata su: a) una politica di congiuntura ovvero un coordinamento<br />

delle politiche economiche nazionali teso ad affrontare in comune eventuali nuove circostanze economiche<br />

internazionali di segno negativo; b) una sana bilancia dei pagamenti ovvero un’azione<br />

concertata, tesa ad assicurare che in nessuno Stato membro potesse registrarsi un forte squilibrio<br />

nella propria bilancia dei pagamenti; c) una vera e propria politica commerciale comune (PCC) nei<br />

confronti degli Stati terzi;<br />

3) stabilire una parallela politica sociale, con relative disposizioni sociali comuni e soprattutto con<br />

l’istituzione del Fondo sociale europeo (FSE) (“allo scopo di migliorare le possibilità di occupazione<br />

dei lavoratori e di contribuire al miglioramento del loro tenore di vita”);<br />

4) creare la Banca europea per gli investimenti (BEI), “destinata a facilitare l’espansione economica<br />

della Comunità mediante la creazione di nuove risorse”.<br />

Infine il trattato prevedeva pure l’associazione alla CEE dei “Paesi e territori d’oltremare” ovvero<br />

delle aree extraeuropee poste sotto la sovranità sia di Stati membri della CEE, sia di Paesi terzi excolonie<br />

di tali Stati. 54<br />

Per quanto riguarda le istituzioni previste, ciascuna delle due nuove Comunità si dotava di organismi<br />

analoghi a quelli in vigore nella CECA, ossia di un proprio Consiglio, composto di membri dei<br />

governi degli Stati membri e avente il potere decisionale, e di una propria Commissione, nominata<br />

dal Consiglio e dotata dei poteri di proporre le iniziative di azione e di eseguire ossia applicare e far<br />

rispettare le decisioni prese. Inoltre ciascuna delle tre Comunità si dotava di proprie disposizioni finanziarie<br />

e dunque di un proprio bilancio.<br />

Entrambe le nuove Comunità peraltro si dotavano pure di un nuovo organismo, comune a entrambe,<br />

ossia il Comitato Economico e Sociale, “a carattere consultivo”, “composto di rappresentanti delle<br />

varie categorie della vita economica e sociale”, per lo più appartenenti al mondo del lavoro indipendente,<br />

al fine di porre il Consiglio e la Commissione in grado di chiedere e ottenere dei pareri qualificati<br />

in ordine alle decisioni da assumere. Per tale sua natura l’istituzione di tale organismo si può<br />

considerare come l’atto fondativo originario di quella che diventerà la dimensione della “democrazia<br />

partecipativa” europea.<br />

Entrambe le nuove comunità e la CECA si dotavano di una comune “Gazzetta Ufficiale delle Comunità<br />

Europee”, di una comune Corte di Giustizia e di una comune Assemblea (in modo analogo a<br />

54 Tale obiettivo verrà realizzato dapprima con la convenzione di Yaoundé del 20 luglio 1963 (un accordo<br />

d’associazione alla CEE di 17 Stati africani e del Madagascar (SAMA)), poi con la convenzione di Lomé del 28 gennaio<br />

1975 (un accordo di associazione di 46 Stati dell’Africa, dei Carabi e del Pacifico (ACP)) e infine con la convenzione<br />

di Cotonou del 23 giugno 2000 (che stabilirà l’inserimento di rappresentanti della società civile dei Paesi associati<br />

nel rapporto di partenariato e la creazione di aree regionali di libero scambio aperte al commercio senza barriere con la<br />

CE), sino alla situazione attuale (2007), che vede ben 79 Paesi ACP associati alla CE.


quanto valeva già per la CECA). Per quanto riguardava la nuova Assemblea comune, tuttavia, era<br />

già prevista, in base all’art. 144 del trattato CEE, la possibilità per essa di approvare un’eventuale<br />

mozione di censura verso la Commissione, che avrebbe comportato le dimissioni di quest’ultima<br />

(meccanismo di sfiducia); infine, all’articolo 138, comma 3, del trattato CEE, veniva ripresa la disposizione<br />

già prevista per la CED: “L’Assemblea elaborerà progetti intesi a permettere l’elezione a<br />

suffragio universale diretto, secondo una procedura uniforme in tutti gli Stati membri”, ai fini di una<br />

legittimazione democratica delle tre Comunità europee.<br />

I due trattati di Roma, istitutivi della CEE e dell’EURATOM, entrarono in vigore l’1 gennaio 1958<br />

e, poiché prevedevano una durata illimitata, resteranno in vigore sino a oggi, nelle rispettive versioni<br />

consolidate, ossia comprensive degli emendamenti apportati dai successivi trattati europei. 55<br />

La “Comunità Europea”<br />

Dal gennaio 1958 iniziava un lungo periodo in cui le tre Comunità europee, ma soprattutto la CEE,<br />

perverranno con successo e in tempi rapidi alla realizzazione degli obiettivi prefissati, ma proprio<br />

perciò produrranno nuove situazioni storiche, che richiederanno la definizione di nuovi traguardi,<br />

l’attribuzione di nuove competenze, la realizzazione di nuovi equilibri istituzionali più funzionali e<br />

la necessità di una maggiore legittimazione democratica.<br />

Ai fini di quest’ultimo punto, anzi, sono da segnalare alcune iniziative significative, risalenti già a<br />

quell’anno: infatti il primo regolamento del Consiglio, il 15 aprile 1958, decretava come lingue ufficiali<br />

delle Comunità tutte le lingue ufficiali nazionali, a riprova della condizione di uguaglianza e<br />

parità degli Stati membri, ma, insieme, il 13 maggio 1958 i deputati dell’Assemblea si riunivano,<br />

ripartiti per la prima volta per gruppi politici, anziché per nazionalità, a riprova della volontà di porre<br />

le premesse per la creazione di una “normale” assemblea politica, sia pur transnazionale. E infatti,<br />

durante la sessione del 27-30 marzo 1962, l’Assemblea decideva di cambiare il proprio nome in<br />

quello di “Parlamento Europeo”, che conserva tuttora: un’istituzione rappresentativa dell’unica volontà<br />

politica, e perciò politicamente, e non già nazionalmente, diversificata, dei popoli d’Europa. 56<br />

Il passaggio obbligato per una maggiore funzionalità del nuovo Parlamento Europeo, nonché delle<br />

stesse Comunità europee, era peraltro la possibilità di aver a che fare non già con tre diversi tipi di<br />

Consigli e di Commissioni, bensì con uno solo, valido per tutte e tre le Comunità. L’obiettivo fu<br />

raggiunto con il cosiddetto “Trattato di fusione degli esecutivi” delle tre Comunità europee, firmato<br />

a Bruxelles il 1° luglio 1965. Tale trattato entrò in vigore il 1° luglio 1967 e, nonostante la permanenza<br />

dei tre trattati costitutivi e quindi delle tre Comunità europee, da quel momento si userà<br />

per esse anche il termine complessivo, al singolare, della “Comunità Europea” (CE) in quanto tale.<br />

Questa nuova denominazione peraltro tradiva pure l’avvio di una serie di modificazioni che trasformavano<br />

le Comunità europee in una Comunità europea declinata in senso ormai politico.<br />

Una diretta conseguenza del trattato di Bruxelles del 1965 fu infatti la necessità di adottare una<br />

nuova disciplina di bilancio comunitario. Essa venne sancita con il “Trattato che modifica talune<br />

disposizioni in materia di bilancio”, firmato a Lussemburgo il 22 aprile 1970, che stabiliva la sostituzione<br />

dei bilanci distinti delle tre Comunità con un unico bilancio comunitario, nonché del sistema<br />

di finanziamento attraverso i contributi degli Stati membri con quello attraverso le risorse<br />

55 In quanto trattati fondamentali o costitutivi, i trattati di Roma comportavano che qualunque successivo trattato, in<br />

quanto emendativo di essi, entrasse in vigore, una volta che tutti gli Stati membri consegnassero i rispettivi strumenti di<br />

ratifica in Roma al governo italiano. Per la versione consolidata (1992) del trattato EURATOM, vedi: http://eurlex.europa.eu/it/treaties/dat/12006A/12006A.html<br />

. Per la versione consolidata (2002) del trattato CEE, poi e tuttora denominato<br />

della Comunità Europea (CE), vedi: http://eur-lex.europa.eu/it/treaties/dat/12002E/pdf/12002E_IT.pdf ; si ricorda<br />

che con la prossima CIG dell’estate-autunno 2007 questo trattato, ulteriormente emendato, assumerà la denominazione<br />

di “Trattato sul funzionamento dell’Unione europea”.<br />

56 Primo presidente del Parlamento Europeo (PE) diventava, tra il 1962 e il 1964, l’italiano Gaetano Martino. Esponente<br />

del Partito liberale italiano (PLI), membro dell’Assemblea Costituente (1946-’47) e della Camera dei deputati (dal<br />

1948), Martino era stato dal settembre 1954 al maggio 1957 il ministro degli esteri italiano e in tale veste il diretto artefice<br />

del successo diplomatico dei trattati di Roma.


proprie comunitarie, ai sensi del quale la Comunità europea avrebbe percepito i dazi doganali sui<br />

prodotti importati dagli Stati terzi, tutti i prelievi sulle importazioni agricole, nonché entrate provenienti<br />

dall’imposta sul valore aggiunto, e infine l’estensione dei poteri del Parlamento Europeo in<br />

materia di bilancio. Si trattava di una serie di misure che davano corpo e spessore finanziari<br />

all’individualità e all’autonomia della Comunità Europea, nonché compensavano tale crescita politica<br />

con una corrispondente legittimazione democratica di essa, per mezzo degli accresciuti poteri<br />

del Parlamento Europeo in materia. 57<br />

Del resto, entro il periodo prescritto dei 12 anni, conclusosi alla fine del 1969, erano già stati ormai<br />

conseguiti tutti gli obiettivi prefissati dal trattato CEE (relativi al mercato comune europeo (MEC))<br />

e si imponevano ormai nuovi traguardi, che il Consiglio (l’Aja, 1-2 dicembre 1969) aveva individuato<br />

ormai, sulla base della lontana Dichiarazione Schuman e delle attuali necessità strutturali,<br />

nella graduale realizzazione di un’”Unione economica e monetaria” e nella conseguente armonizzazione<br />

delle politiche sociali, nonché nell’allargamento della Comunità ad altri membri. 58<br />

Il Consiglio aveva affidato perciò, il 6 marzo 1970, a due Comitati il compito di formulare proposte<br />

rispettivamente per la realizzazione dell’Unione economica e monetaria (Comitato Werner) e in materia<br />

di cooperazione politica (Comitato Davignon). Il Consiglio decideva poi di accogliere sia la<br />

relazione Davignon sulla cooperazione politica, che sosteneva, tra l’altro, la necessità che l’Europa<br />

parlasse “con una sola voce” in politica estera (27 luglio 1970), sia il piano Werner sul coordinamento<br />

delle politiche economiche, che raccomandava l’armonizzazione delle politiche nazionali di<br />

bilancio e la riduzione dei margini di fluttuazione fra le monete (22 marzo 1971).<br />

Di conseguenza il Consiglio dava l’avvio alla prima fase di realizzazione dell’Unione economica e<br />

monetaria con l’istituzione, il 24 aprile 1972, del cosiddetto “serpente” monetario, in base al quale i<br />

Sei si impegnavano a limitare al 2,25% lo scarto massimo di fluttuazione fra le loro valute.<br />

Ma soprattutto il Consiglio, riunito a Parigi tra il 19 e il 21 ottobre 1972, decideva: a) la creazione<br />

del Fondo europeo di cooperazione monetaria e il passaggio alla seconda fase dell’Unione economica<br />

e monetaria, da realizzarsi fra il 1° gennaio 1974 e il 31 dicembre 1980; b) la definizione, sulla<br />

base della possibilità offerta dal trattato CEE, di nuovi campi di azione della Comunità ovvero<br />

l’avvio di politiche regionali, sociali, industriali, scientifiche e tecnologiche, ambientali ed energetiche<br />

comunitarie; d) lo sviluppo di una cooperazione politica fra gli Stati membri in direzione di una<br />

politica estera comune; e) il rafforzamento delle istituzioni e in particolare del Parlamento Europeo;<br />

f) la trasformazione “dell’intero complesso delle relazioni degli Stati membri in un’Unione Europea”,<br />

da realizzarsi entro il 1980.<br />

Quanto all’allargamento della Comunità a nuovi membri, già il 22 gennaio 1972 era stato firmato il<br />

Trattato di adesione alla CE del Regno Unito, Irlanda, Danimarca e Norvegia. Questo trattato<br />

era diventato oggetto dei primi referendum popolari nazionali aventi per tema la Comunità Europea.<br />

Nel caso della Norvegia il referendum popolare del 25 luglio 1972 aveva avuto esito negativo e il<br />

governo, il 9 ottobre 1972, aveva dichiarato di rinunciare alla prevista ratifica parlamentare del trattato,<br />

con il conseguente fallimento dell’adesione norvegese. Tale avvenimento sarà il primo di una<br />

lunga serie di “sorprese” lungo la strada dell’integrazione europea, al fine di “prevedere” le quali la<br />

Commissione europea non mancherà di dotarsi dei mezzi più opportuni. 59 In ogni caso il Trattato di<br />

57 La presidenza del PE era ricoperta in quel periodo, tra il 1969 e il 1971, dall’italiano Maria Scelba (DC), già capo del<br />

governo italiano dal febbraio 1954 al luglio 1955 e come tale “padrino” della conferenza di Messina.<br />

58 Ad accogliere tali indicazioni del Consiglio sulla nuova strategia della CE e a dar loro spessore avrebbe dovuto essere<br />

il nuovo presidente della Commissione europea, insediatosi, di lì a poco, nel giugno 1970, ossia l’italiano Franco Maria<br />

Malfatti. Esponente della DC, dal 1958 deputato e ministro in vari dicasteri, Malfatti era il primo cittadino italiano a ricoprire<br />

tale esclusiva carica europea. Tuttavia l’evenienza di elezioni anticipate in Italia (la prima di una lunga serie<br />

quasi ininterrotta sino al 1996 e quindi inizio della lunga crisi della “prima” Repubblica) sarebbe bastata a indurlo alle<br />

dimissioni già nel marzo 1972 ai fini della propria candidatura parlamentare. Da allora nessun cittadino italiano avrebbe<br />

ricoperto tale carica europea sino al 1999.<br />

59 Infatti, nella consapevolezza che tutta la storia successiva della Comunità europea sarebbe stata interessata e condizionata<br />

dall’incognita di referendum popolari nazionali, la Commissione europea si doterà, nel giro di un anno, del più


adesione risultava ristretto così ai tre Paesi del Regno Unito, Danimarca e Irlanda ed esso entrava in<br />

vigore il 1° gennaio 1973, con la trasformazione dell’Europa dei Sei nell’Europa dei Nove. 60<br />

La Comunità europea dei Nove<br />

e la nascita della “società civile” europea<br />

L’ingresso dei tre nuovi Stati membri nella Comunità era senz’altro la conferma più vistosa del successo<br />

della Comunità europea, ma anche veniva a cambiare il profilo di essa. Infatti soprattutto la<br />

Gran Bretagna, che, con il suo notevole potenziale demografico, economico e ancor più politico internazionale,<br />

accresceva di molto il prestigio della Comunità ed era anzi stata all’origine del processo<br />

d’integrazione europea (con il varo dell’Unione Occidentale, dell’OECE e soprattutto del Consiglio<br />

d’Europa), aveva peraltro diffidato da sempre del modello comunitario europeo, preferendo<br />

fondare l’EFTA, una semplice zona di libero scambio tra diversi altri Paesi democratici europei,<br />

salvo poi, di fronte al successo economico del modello comunitario, 61 presentare domanda di adesione<br />

alla Comunità e attendere anzi molti anni prima di vederla accolta. Tuttavia il suo ingresso avrebbe<br />

segnato nella vita della Comunità l’inizio della presenza di un modo d’intenderla diverso da<br />

quello dei Sei, con un ruolo talvolta più di freno che di propulsione, più di annacquamento che di<br />

intensificazione, più di isolamento che di condivisione, dovuto in definitiva a un unico grande principio:<br />

l’unica autorità democraticamente legittimata non può essere che quella dello (o entro lo) Stato<br />

nazionale, che perciò deve conservare non solo la piena sovranità (richiesta dalla stesso modello<br />

comunitario), ma anche l’assoluta indipendenza (incompatibile con esso). Con tutto ciò la lingua<br />

inglese, accolta fra le lingue ufficiali della Comunità, diventerà sempre più la lingua preferita dalle<br />

istituzioni comunitarie, persino più della lingua francese.<br />

Comunque la nuova Comunità dei Nove continuò a perseguire il disegno già tracciato dai Sei. E, in<br />

risposta alla nuova assunzione comunitaria di responsabilità nel campo della politica sociale, il 27<br />

febbraio 1973 veniva istituita la Confederazione dei sindacati europei, ideale parte sociale europea e<br />

primo embrione di una società civile europea. E un anno dopo, il 27 febbraio 1974, il Consiglio riconoscerà<br />

formalmente al Comitato Economico e Sociale (CES) il diritto di esprimere pareri di propria<br />

iniziativa e di pubblicarli, ponendo così i primi contorni di una democrazia partecipativa europea.<br />

La CSCE e l’”identità europea”<br />

Ma, soprattutto, era cambiato il clima internazionale nel mondo e in particolare in Europa. Entro il<br />

25 giugno 1973 tutti gli Stati europei (compresi i più minuscoli, sino allo Stato della Città del Vaticano),<br />

democratici e comunisti, dall’una e dall’altra parte della “cortina di ferro”, nonché gli Stati<br />

Uniti d’America, il Canada, l’Islanda, la Turchia e l’Unione Sovietica, si iscrissero alla Conferenza<br />

per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (CSCE), la cui prima sessione si svolse a Helsinki fra<br />

il 3 e il 7 luglio 1973, vero inizio della fine della “guerra fredda” che divideva da decenni il continente<br />

in due parti contrapposte fra loro. Per la prima volta nella storia si incontravano attorno allo<br />

stesso tavolo i rappresentanti di tutti quegli Stati, alcuni dei quali non erano ancora o non saranno<br />

neppure in futuro membri della stessa ONU, per discutere di un problema che stava davvero a cuore<br />

a tutti, quello di una pace stabile e duratura in Europa, fondata sulla sicurezza di ciascuno e sulla<br />

cooperazione fra tutti. La Conferenza di Helsinki condurrà, il 1° agosto 1975, all’approvazione<br />

potente strumento di rilevazione dell’opinione pubblica europea, l’”Eurobarometro”, entrato in funzione fin dal settembre<br />

1973 e tuttora esistente, con sondaggi regolari su campioni della popolazione.<br />

60 Contemporaneamente entrava in vigore un parallelo accordo di libero scambio tra la nuova CEE dei Nove e quattro<br />

Paesi EFTA, tra cui la Svizzera, che in tal modo veniva coinvolta nel processo d’integrazione europea.<br />

61 La controprova del successo delle Comunità Europee era stata data dal fatto che, anche grazie a esse, pure la Francia<br />

aveva conosciuto uno sviluppo economico tanto notevole, da permetterle, già nel 1963, di superare, nel PIL, la stessa<br />

Gran Bretagna, diventando così la seconda potenza economica d’Europa.


dell’Atto finale di Helsinki, sintetizzabile in un “decalogo”, che avrà a suo punto qualificante<br />

l’impegno di ciascuno Stato al rispetto dei <strong>diritti</strong> umani e delle libertà fondamentali come vero punto<br />

in comune tra Paesi tanto diversi tra loro sotto ogni aspetto. L’Atto finale di Helsinki porterà anzi<br />

alla trasformazione della CSCE in una Conferenza stabile e permanente, mirante al dialogo costante<br />

fra i due blocchi. Se in tal modo essa sembrerà garantire una coesistenza pacifica in Europa tra due<br />

sistemi politici tanto diversi, la CSCE costituirà invece il vero fattore di fermento, che condurrà alle<br />

prime manifestazioni di dissenso e di rimessa in discussione del sistema comunista, all’interno del<br />

blocco orientale, e soprattutto fornirà la preziosa rete di sicurezza e di cooperazione, quando, subito<br />

dopo la caduta del muro di Berlino, crolleranno tutti i regimi comunisti europei e finirà la stessa Unione<br />

Sovietica. Anzi, proprio allora, di fronte all’assenza di un vero punto di riferimento internazionale<br />

regionale per i nuovi regimi e i nuovi Stati sorti in Europa, la CSCE, in seguito al suo vertice<br />

di Helsinki del 1992, rivendicherà la propria natura di unico organo regionale paneuropeo realizzato<br />

per il mantenimento della pace secondo il capitolo 7 della Carta delle Nazioni Unite. E infine,<br />

in seguito alle sanguinose guerre civili che ciononostante interesseranno alcune aree europee, emergerà<br />

la decisione, presa a Budapest nell’autunno 1994, di trasformarsi in una vera e propria organizzazione<br />

internazionale regionale, l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa<br />

(OSCE), che inizierà la sua esistenza il 1° gennaio 1995 e resterà a tutt’oggi la più estesa organizzazione<br />

di riferimento regionale, comprensiva dell’intera Comunità degli Stati Indipendenti (CSI).<br />

All’inizio di tale processo storico, tuttavia, ossia nel 1973 questi risultati erano ancora imprevedibili.<br />

L’unico effetto immediato della nascita della CSCE fu il disgelo tra i due blocchi, che tuttavia<br />

condusse il 18 settembre 1973 all’entrata anche della Germania occidentale nell’ONU.<br />

Nella nuova situazione storica la stessa Comunità Europea si sentì allora interpellata, in quanto era<br />

così posta nella condizione di poter uscire dal ruolo pluridecennale di nicchia avanzata di uno dei<br />

fronti contrapposti e di giocare invece un ruolo in prima persona sullo scenario mondiale, accogliendo<br />

il suggerimento della relazione Davignon sulla necessità di una Comunità che si esprimesse<br />

“con una sola voce” sulle questioni internazionali, confermato dalle conclusioni del vertice comunitario<br />

di Parigi dell’ottobre 1972. Tale suggerimento presupponeva peraltro un problema di fondo:<br />

quale tipo di pensiero doveva essere espresso con una sola voce? Ovvero quale tipo di visione dei<br />

rapporti internazionali poteva avere la Comunità? Ma ciò rimandava al problema ultimo: quale autocomprensione<br />

aveva la Comunità di se stessa e quindi dell’Europa? Si trattava, in altri termini, del<br />

problema (destinato a divenire ben altrimenti famoso 30 anni dopo) dell’”identità europea”, affrontato<br />

per la prima volta dal Consiglio dei ministri degli esteri della Comunità Europea a Copenhagen<br />

il 14 dicembre 1973, con la pubblicazione della “Dichiarazione sull’identità europea”. Riallacciandosi<br />

alle conclusioni del vertice comunitario di Parigi dell’ottobre 1972, essi dichiaravano:<br />

“I nove Paesi membri delle Comunità europee hanno deciso che è venuto il tempo di redigere un documento<br />

sull’identità europea. Questo li metterà in condizione di ottenere una migliore definizione delle loro relazioni con altri<br />

Paesi e delle loro responsabilità e del posto che essi occupano negli affari mondiali. Essi hanno deciso di definire<br />

l’identità europea, avendo in mente la natura dinamica della Comunità. Essi hanno l’intenzione di portare avanti l’opera<br />

in futuro, alla luce del progresso fatto nella costruzione di un’Europa Unita.”<br />

In tale documento comparivano per la prima volta gli elementi fondamentali dell’identità europea,<br />

come fondativi non solo della Comunità esistente, bensì soprattutto dell’Unione futura e difatti essi<br />

saranno poi ripresi dai successivi trattati europei e soprattutto dal trattato costituzionale. In particolare<br />

nella prima parte della Dichiarazione (dedicata a “L’unione dei nove Paesi membri della Comunità”)<br />

si dichiarava al punto 1:<br />

“1. I nove Stati europei possono essere stati spinti verso la discordia dalla loro storia e dalla difesa egoistica di interessi<br />

malintesi. Ma essi hanno superato le loro passate inimicizie e hanno deciso che l’unità è una necessità fondamentale europea<br />

per assicurare la sopravvivenza della civiltà che essi hanno in comune.<br />

I Nove desiderano assicurare che siano rispettati i prediletti valori del loro ordine legale, politico e morale, e preservare<br />

la ricca varietà delle loro culture nazionali. Condividendo, come essi fanno, le medesime attitudini di vita, basate sulla<br />

determinazione a costruire una società che si commisuri ai bisogni dell’individuo, essi sono determinati a difendere i


principi della democrazia rappresentativa, del regno della legge, della giustizia sociale – che è l’obiettivo ultimo del<br />

progresso economico – e del rispetto dei <strong>diritti</strong> umani. Tutti questi sono elementi fondamentali dell’identità europea. I<br />

Nove sono persuasi che questa impresa corrisponde alle aspirazioni più profonde dei loro popoli, che devono partecipare<br />

alla sua realizzazione, in particolare attraverso i loro rappresentanti eletti.”<br />

In poche parole si faceva consistere il motivo essenziale della convivenza dei Nove nella difesa di<br />

una determinata civiltà, fondata su valori comuni alle diverse culture nazionali, e nella condivisione<br />

di determinati costumi, basati sul riconoscimento della dignità della persona, e di conseguenza si<br />

individuavano i principi della Comunità Europea nella democrazia rappresentativa, nel dominio della<br />

legge, nella giustizia sociale e nel rispetto dei <strong>diritti</strong> umani, come elementi fondamentali della<br />

stessa identità europea in quanto tale. E soprattutto se ne traeva una conseguenza quanto mai importante:<br />

proprio perciò i popoli dei Nove avrebbero dovuto partecipare al processo d’integrazione europea<br />

ossia esso doveva avere una legittimazione democratica, in particolare attraverso la dimensione<br />

di una nuova democrazia rappresentativa europea.<br />

Di conseguenza, al punto 2, i Nove riconoscevano già nella Comunità Europea esistente “una parte<br />

essenziale dell’identità europea”, ma, riallacciandosi alle deliberazioni del Consiglio di Parigi<br />

dell’ottobre 1972, dichiaravano anche: “i Nove riaffermano la loro intenzione di trasformare l’intero<br />

complesso delle loro relazioni in una Unione Europea[, da realizzarsi] prima della fine del presente<br />

decennio.” In tal modo la prevista Unione economica e monetaria europea, che non era altro che<br />

uno dei nuovi obiettivi delle perduranti Comunità Europee e come tale inserito nel loro quadro istituzionale,<br />

diventava la semplice premessa economica della realizzazione contemporanea di un nuovo<br />

quadro istituzionale ossia di un’Unione Europea di carattere politico, democraticamente legittimata<br />

attraverso la nuova dimensione della democrazia rappresentativa europea.<br />

Proprio quest’ultima poneva peraltro la necessità di definire un’identità europea in senso politico<br />

dei pur diversi popoli europei. Perciò, al punto 3, i Nove proclamavano:<br />

“3. La diversità di culture entro il quadro di una comune civiltà europea, l’attaccamento a valori e principi comuni, la<br />

crescente convergenza di attitudini di vita, la consapevolezza di avere specifici interessi in comune e la determinazione<br />

a prendere parte alla costruzione di un’Europa Unita, tutto [ciò] dà all’identità europea la sua originalità e il suo proprio<br />

dinamismo.”<br />

Posta tale dinamica identità politica europea, i Nove, al punto 4, si pronunciavano di conseguenza<br />

per l’allargamento della Comunità secondo il seguente nuovo criterio:<br />

“4. La costruzione di un’Europa Unita, che i nove Paesi membri della Comunità stanno intraprendendo, è aperta ad altre<br />

nazioni europee che condividano gli stessi ideali e obiettivi.”<br />

Infine, al punto 6, si poneva la necessità di avviare da subito una possibile politica estera comune:<br />

“6. Benché nel passato i Paesi europei fossero individualmente capaci di giocare un maggior ruolo sulla scena internazionale,<br />

gli attuali problemi internazionali sono difficili da risolvere per chiunque dei Nove da solo. Gli sviluppi internazionali<br />

e la crescente concentrazione di potere e responsabilità nelle mani di un piccolissimo numero di grandi potenze<br />

significa che l’Europa deve unirsi e parlare sempre più con una sola voce, se vuole farsi sentire e giocare il suo proprio<br />

ruolo nel mondo.”<br />

Peraltro, dopo aver illustrato, nella parte II della Dichiarazione (“L’identità europea in relazione al<br />

mondo”), gli elementi fondamentali di una possibile politica estera comune, i Nove ponevano, nella<br />

parte III (“La natura dinamica della costruzione di un’Europa Unita”), la stessa identità europea in<br />

fieri come mezzo necessario per la costruzione di una politica estera comune, la quale a sua volta<br />

veniva posta come strumento privilegiato per la fondazione dell’Unione Europea:<br />

“22. L’identità europea evolverà in funzione della costruzione dinamica di un’Europa Unita. Nelle loro relazioni esterne,<br />

i Nove propongono progressivamente di assumere la definizione della loro identità in relazione ad altri Paesi o<br />

gruppi di Paesi. Essi credono che, così facendo, rafforzeranno la loro propria coesione e contribuiranno<br />

all’inquadramento di una politica estera genuinamente europea. Essi sono convinti che l’edificazione di questa politica


li aiuterà ad affrontare con fiducia e realismo ulteriori tappe nella costruzione di un’Europa Unita, rendendo così più<br />

facile la trasformazione proposta dell’intero complesso delle loro relazioni in un’Unione Europea.”<br />

In generale, la “Dichiarazione sull’identità europea” indicava una chiara appropriazione da parte<br />

della Comunità Europea in quanto tale dei temi di natura più squisitamente fondativi, tipici del Consiglio<br />

d’Europa, come i <strong>diritti</strong> umani e le libertà fondamentali, la giustizia sociale, il dominio della<br />

legge, la democrazia rappresentativa, nella direzione della costruzione, su tali basi, di una politica<br />

estera comune, in grado di influenzare positivamente i lavori della CSCE e insieme di agevolare<br />

l’instaurazione di un soggetto politico, denominato Unione Europea.<br />

Il rafforzamento del Parlamento Europeo<br />

Le indicazioni presenti nella “Dichiarazione sull’identità europea” prospettavano chiaramente la necessità<br />

di dare nuovo impulso all’iniziativa europea attraverso il ravvicinamento delle politiche nazionali<br />

e la formulazione di politiche comuni, ma emerse ben presto che la costruzione della prevista<br />

Unione europea non poteva prescindere da una riforma delle stesse istituzioni comunitarie e in<br />

particolare da un miglioramento del processo decisionale comunitario. Tale miglioramento doveva<br />

riguardare innanzi tutto la politica di bilancio comunitaria, dal momento che dal 1° gennaio 1975<br />

sarebbe entrata in vigore la sostituzione integrale dei contributi finanziari degli Stati membri con risorse<br />

proprie della Comunità. Pertanto, riallacciandosi al Trattato del 1970, il Consiglio decideva, il<br />

3 dicembre 1974, di predisporre un progetto di trattato relativo ai poteri del Parlamento Europeo in<br />

materia di bilancio e all’istituzione di un nuovo organismo dedicato ossia della Corte dei conti.<br />

Il previsto aumento dei poteri di bilancio del Parlamento Europeo forniva poi l’occasione di dar<br />

corpo alle indicazioni della “Dichiarazione sull’identità europea” relative alla necessità di instaurare<br />

una nuova democrazia rappresentativa europea e in genere al rilancio dell’iniziativa europea. Il<br />

Consiglio, infatti, nella riunione di Parigi del 9-10 dicembre 1974, decideva di: a) riunirsi, come<br />

Consiglio Europeo (tra i capi di Stato e di governo), tre volte l’anno, b) approvare le elezioni del<br />

Parlamento Europeo a suffragio universale diretto, 62 c) istituire il Fondo europeo di sviluppo regionale,<br />

d) proseguire la realizzazione dell’Unione economica e monetaria europea e e) chiedere a un<br />

suo membro, il belga Tindemans, di presentare una relazione di sintesi su una futura Unione Europea.<br />

Si trattava di un corposo pacchetto di iniziative, che prefiguravano una decisa svolta nel percorso<br />

comunitario nella direzione indicata dalla “Dichiarazione sull’identità europea”.<br />

Avendo ormai presente questo sfondo generale, il Consiglio Europeo, nel quadro del rilancio della<br />

realizzazione dell’Unione economica e monetaria, adottava, il 18 febbraio 1975, un’unità di conto<br />

europea (ECU), basata su un paniere delle monete degli Stati membri, da inserire e utilizzare gradualmente<br />

in tutte le attività della Comunità.<br />

In previsione, invece, del conferimento di maggiori poteri in materia di bilancio al Parlamento Europeo,<br />

le tre istituzioni europee emanavano, il 4 marzo 1975, una Dichiarazione comune relativa<br />

all’istituzione di una procedura di concertazione tra esse, che, ridefinendo gli equilibri istituzionali,<br />

migliorava il processo decisionale comunitario in materia.<br />

In tale favorevole prospettiva il Parlamento Europeo guardava già al futuro, adottando il 10 luglio<br />

1975, quasi come un contributo al lavoro di Tindemans, una risoluzione “sull’Unione Europea”, in<br />

cui auspicava che “al fine di dare ai popoli della Comunità un senso di destino comune, sarà redatta<br />

una carta dei popoli della Comunità Europea e che saranno adottate misure pratiche capaci di contribuire<br />

allo sviluppo di una coscienza della Comunità Europea”.<br />

E finalmente il Consiglio europeo procedeva, il 22 luglio 1975, alla firma del “Trattato che modifica<br />

talune disposizioni finanziarie” ossia del previsto trattato che estendeva i poteri del Parlamen-<br />

62 In connessione con questa decisione, il Consiglio europeo poneva allo studio la possibilità di conferire ai cittadini degli<br />

Stati membri due grandi opportunità: la prima (punto 10 del comunicato finale) relativa a un passaporto uniforme<br />

come premessa di un’unione dei passaporti, con la meta finale dell’abolizione del controllo dei passaporti all’interno<br />

della Comunità; la seconda (punto 11) relativa alla concessione di “<strong>diritti</strong> speciali in quanto membri della Comunità”.


to Europeo in materia di bilancio e istituiva la Corte dei conti europea.<br />

L’avvenuta firma del nuovo trattato rilanciava a sua volta la prospettiva della nuova democrazia<br />

rappresentativa europea e infatti il Consiglio europeo, nella riunione svoltasi a Roma tra l’1 e il 2<br />

dicembre 1975, non solo confermava la propria decisione di istituire l’elezione del Parlamento Europeo<br />

a suffragio universale, ma anche decideva che si procedesse all’”unione dei passaporti”.<br />

Quest’ultima misura si collocava esattamente nel solco della “Dichiarazione sull’identità europea”,<br />

che aveva sostenuto la necessità, ai fini della costituzione di una democrazia rappresentativa europea,<br />

del rafforzamento del senso d’identità politica dei popoli europei. Ebbene, direttamente funzionale<br />

a questo scopo si presentava un’iniziativa, come questa, che prevedeva che il documento con<br />

cui una qualsiasi persona si presenta in giro per il mondo ovvero la sua carta d’identità universale<br />

dovesse essere un “passaporto uniforme” per tutti gli Stati membri, recante la scritta “Comunità Europea”<br />

anteposta alla dicitura del rispettivo Stato membro; inoltre il “passaporto di modello uniforme”<br />

avrebbe facilitato la circolazione dei cittadini degli Stati membri all’interno della Comunità,<br />

favorendo ulteriormente lo sviluppo del senso di appartenenza a essa.<br />

Contando sullo sviluppo del senso dell’identità europea in chiave politica presso i popoli europei, il<br />

Consiglio europeo, riunito a Bruxelles tra il 12 e il 13 luglio 1976, procedette quindi alla definizione<br />

degli ultimi accordi sulle elezioni del Parlamento Europeo, fissando il numero e la ripartizione dei<br />

seggi, nonché la data delle elezioni, prevista per la primavera 1978. E così si pervenne finalmente, il<br />

20 settembre 1976, alla firma dell’Atto relativo all’elezione del Parlamento Europeo a suffragio universale<br />

diretto. Esso stabiliva anche norme sull’incompatibilità del mandato parlamentare europeo,<br />

tra l’altro, con cariche sia nei governi nazionali, sia nella stessa Commissione europea, nonché<br />

lasciava al singolo Stato membro la possibilità di introdurre altre eventuali incompatibilità. 63 Sebbene<br />

l’Atto parlasse, ambiguamente, dei rappresentanti “dei popoli degli Stati riuniti nella Comunità”<br />

(con un’espressione più chiara, ma anche drasticamente riduttiva, nella successiva legge applicativa<br />

italiana del 1979: “rappresentanti dell’Italia”), ai più accorti non sfuggiva peraltro che la sostanza<br />

normativa racchiusa nell’Atto ossia l’elezione di una rappresentanza unitaria dei cittadini di<br />

tutti gli Stati membri comportava la nascita di veri e propri partiti politici europei. 64<br />

Tutte le recenti misure decise dalla CE erano peraltro dirette al fine ultimo della costruzione<br />

dell’Unione Europea. E la richiesta relazione Tindemans 65 su di essa era stata effettivamente pubblicata<br />

il 7 gennaio 1976 e discussa dal Consiglio europeo a Lussemburgo tra l’1 e il 2 aprile 1976.<br />

Nella successiva riunione all’Aja tra il 29 e il 30 novembre 1976, il Consiglio europeo venne infine<br />

a pronunciarsi ufficialmente in merito, pubblicando una “Dichiarazione sull’Unione Europea”. In<br />

essa il Consiglio europeo accoglieva il nuovo grande obiettivo finale, sottolineando peraltro la necessità<br />

di sviluppare preventivamente la cooperazione politica, soprattutto in politica estera, e il<br />

senso di appartenenza dei popoli alla Comunità e comunque di realizzare preventivamente l’Unione<br />

economica e monetaria.<br />

Nella “Dichiarazione sull’Unione Europea” era in ogni caso stato accolto uno dei punti fondamentali,<br />

già presenti nella “Dichiarazione sull’identità europea” e nella successiva relazione Tindemans,<br />

ossia la necessità di fondare la costruzione dell’Unione Europea come soggetto politico sulla appro-<br />

63 In Italia tale Atto sarà recepito con la legge 6 aprile 1977 n. 150. In base a essa la successiva legge 24 gennaio 1979 n.<br />

18 stabilirà (in considerazione dell’istituzione nel 1970 delle Regioni) l’incompatibilità anche con l’incarico di presidente<br />

di giunta o di assessore regionale.<br />

64 Di conseguenza, nello stesso 1976, veniva fondato il primo partito politico europeo ossia il Partito Popolare Europeo<br />

(PPE), che trovava il suo maggior elemento di coesione in forze politiche nazionali profondamente radicate nel rispettivo<br />

territorio e genuinamente omogenee tra loro, soprattutto la CDU/CSU tedesca e la DC italiana. Grazie alla loro volontà<br />

tempestiva di passare da un semplice gruppo parlamentare a un vero e proprio partito politico e al fatto che questa<br />

scelta precederà di interi decenni le scelte analoghe degli altri gruppi parlamentari, il PPE avrebbe goduto delle migliori<br />

condizioni non solo per divenire da subito la seconda maggiore forza politica all’interno del PE, ma anche per imporsi,<br />

sia pure dopo un ventennio, come il più forte partito politico europeo, quale è tuttora.<br />

65 Nella relazione Tindemans figurava il seguente importante principio: per lo sviluppo della Comunità europea<br />

nell’Unione Europea era “essenziale” che la Comunità non solo riconoscesse i <strong>diritti</strong> fondamentali dei cittadini della<br />

Comunità, bensì anche proteggesse questi <strong>diritti</strong>.


priazione, già da parte della esistente Comunità Europea in quanto tale, del tema del rispetto dei <strong>diritti</strong><br />

umani, così come definiti dalla Convenzione emanata dal Consiglio d’Europa. Perciò, il 5 aprile<br />

1977, le tre istituzioni europee emettevano una stringata, quanto decisiva “Dichiarazione comune<br />

sui <strong>diritti</strong> fondamentali”, 66 quale punto fondamentale della Comunità presente e prima pietra della<br />

costruzione dell’Unione Europea. In poche parole tutte e tre le istituzioni europee si pronunciavano<br />

per l’introduzione nel diritto comunitario di una fonte giuridica assente nei trattati costitutivi e ora<br />

posta invece al di sopra persino di essi, ossia i <strong>diritti</strong> umani. L’introduzione nel diritto comunitario<br />

di un tale tema, sinora appannaggio (nel campo del diritto positivo) delle Costituzioni degli Stati<br />

membri, comportava implicitamente la trasformazione della Comunità in senso politico e anzi la<br />

necessaria trasformazione di essa in un adeguato soggetto politico, l’Unione Europea.<br />

In questa ormai chiara prospettiva politica entrò poi finalmente in vigore, il 1° giugno 1977, il Trattato<br />

che estendeva i poteri del Parlamento Europeo in materia di bilancio comunitario, con<br />

l’acquisizione effettiva da parte di esso della ragion sufficiente a legittimare e soprattutto ad avvalorare<br />

praticamente, agli occhi degli stessi popoli europei, la sua prossima elezione a suffragio universale.<br />

In prospettiva di quest’ultima il Parlamento Europeo adottava anzi, nell’autunno 1977, una<br />

risoluzione “sulla garanzia di <strong>diritti</strong> speciali all’essere cittadini della Comunità Europea in attuazione<br />

della decisione del vertice di Parigi del dicembre 1974 (punto 11 del comunicato finale)”. Ricollegandosi<br />

alla possibilità ventilata al vertice di Parigi (vedi nota 68) e alla relazione Tindemans, il<br />

PE dichiarava tra l’altro:<br />

“- premesso che l’Unione Europea condurrà progressivamente a profondi cambiamenti nello stato civile e politico dei<br />

cittadini della Comunità, […]<br />

- premesso che, al fine di assicurare l’uguaglianza dei cittadini della Comunità nel godimento di <strong>diritti</strong> civili e politici,<br />

questi <strong>diritti</strong> saranno protetti non solo contro atti compiuti da organi della Comunità, bensì anche contro atti compiuti<br />

dai governi nazionali, come è già il caso per i <strong>diritti</strong> economici, […]<br />

Richiede alla Commissione delle Comunità europee<br />

1. Di redigere delle proposte relative a <strong>diritti</strong> speciali, alla luce dei suddetti preamboli e citazioni, e come un primo passo<br />

verso l’Unione Europea; […]<br />

La risoluzione anzi elencava una ben precisa serie di possibili <strong>diritti</strong> “speciali”, che costituirà la base<br />

delle discussioni e delle decisioni dei decenni successivi in merito. 67<br />

66 A firmare tale Dichiarazione quale presidente del Parlamento Europeo era l’italiano Emilio Colombo, esponente della<br />

DC e perciò del PPE. Membro dell’Assemblea Costituente (1946-’47) e della Camera dei deputati (dal 1948), ministro<br />

dell’agricoltura e foreste (1955-‘58), del commercio con l’estero (1958-’59), dell’industria, del commercio e<br />

dell’artigianato (1959-’63) e del tesoro (1963-’70), presidente del Consiglio dei ministri (1970-’72), ministro di grazia e<br />

giustizia (1971-’72), senza portafoglio (1972-’73), delle finanze (1973-‘74) e del tesoro (1974-’76), membro del PE<br />

(1976-’80), Colombo era dal marzo 1977 il presidente del Parlamento Europeo. In tale veste egli sarà insignito del<br />

“Premio Carlo Magno” nel 1979, come riconoscimento dell’apporto suo personale e del PE da lui presieduto al varo<br />

delle allora imminenti prime elezioni a suffragio universale diretto del PE e quindi alla nascita della “democrazia rappresentativa”<br />

europea. Alla vigilia dell’apertura del nuovo PE, nel luglio 1979, Colombo si sarebbe pertanto dimesso<br />

dall’incarico. Da quel momento nessun cittadino italiano avrebbe assunto la presidenza del Parlamento Europeo per i<br />

trent’anni successivi.<br />

67 La risoluzione infatti richiedeva alla Commissione : “3. Di considerare come un tema di priorità per i cittadini della<br />

Comunità, tra i <strong>diritti</strong> che devono essere garantiti, quelli seguenti:<br />

una protezione della Comunità per i <strong>diritti</strong> civili e politici equivalente a quella disposta nei trattati istitutivi delle Comunità<br />

europee per i <strong>diritti</strong> economici, […]<br />

[…] il diritto per i singoli di appellarsi alla Corte di giustizia delle Comunità europee,<br />

Il diritto di sottoporre delle petizioni,<br />

Il diritto di candidarsi per e di votare alle elezioni e di tenere qualsiasi ufficio pubblico per il quale darebbero normalmente<br />

eleggibili a livello di autorità locale,<br />

Il diritto dei cittadini della Comunità che sono stati residenti in uno Stato membro per almeno 10 anni di candidarsi per<br />

e di votare alle elezioni e di tenere uffici pubblici per i quali sono eleggibili in tutte le autorità amministrative regionali<br />

tra l’autorità locale e il livello statale (dipartimenti, province, contee, regioni ecc.),<br />

Il diritto di candidarsi per e di votare alle elezioni per un ufficio politico, per i cittadini della Comunità che soddisfino a<br />

condizioni speciali,


Tale risoluzione era stata adottata “non da ultimo in vista delle elezioni dirette nel 1978”. E tuttavia<br />

queste venivano differite di un anno. Tale dilazione consentì peraltro alla Comunità di procedere,<br />

nel frattempo, alla realizzazione di un’ulteriore tappa dell’unificazione economica e monetaria, con<br />

la creazione, decisa già dal Consiglio europeo di Brema il 6-7 luglio 1978, del Sistema monetario<br />

europeo (SME), istituito ufficialmente nella riunione di Bruxelles del 4-5 dicembre 1978 ed entrato<br />

in vigore il 13 marzo 1979. 68 Pochi giorni dopo, il 16 marzo 1979, moriva Jean Monnet, simbolo<br />

del modello comunitario, che proprio allora, dopo aver dimostrato tutte le sue potenzialità, stava per<br />

mostrare i suoi limiti.<br />

Infine, il 28 aprile 1979, veniva firmato il “Trattato di adesione della Grecia alla Comunità Europea”,<br />

dopo la liberazione del Paese da un regime di tipo fascista. Questo trattato avrebbe portato<br />

alla Comunità dei Dieci.<br />

Con tutte queste promettenti credenziali si procedette finalmente alle prime elezioni del Parlamento<br />

Europeo a suffragio universale diretto, svoltesi in tutto il territorio della Comunità Europea tra il 7 e<br />

il 10 giugno 1979. L’affluenza complessiva al voto fu del 63%, anche se si registrarono i casi insoddisfacente<br />

del 47,8% in Danimarca e preoccupante del 32,2% nel Regno Unito. Poche settimane<br />

dopo, fra il 17 e il 20 luglio 1979, si svolgeva a Strasburgo la prima sessione del nuovo Parlamento<br />

Europeo, con l’elezione a suo primo presidente di una donna politica francese di origini ebraiche,<br />

liberata dal campo di sterminio nazista di Auschwitz il 27 gennaio (futuro Giorno della Memoria)<br />

1945, Simone Veil.<br />

Si trattava di un evento davvero epocale nella storia non solo della Comunità Europea, bensì del<br />

mondo. Infatti per la prima volta nella storia un Parlamento, dotato di poteri effettivi almeno in materia<br />

di bilancio, veniva eletto a suffragio universale diretto non nell’ambito di uno Stato da parte di<br />

una nazione, bensì nell’ambito di una Comunità sovrastatuale da parte di diverse nazioni, unite fra<br />

loro dall’appartenenza a una Comunità transnazionale, che, se aveva ancora per obiettivo principale<br />

quello dello sviluppo economico, 69 aveva, peraltro, già allora, a proprio massimo punto di riferimento<br />

il rispetto dei <strong>diritti</strong> umani. Tale prima elezione del Parlamento Europeo del 1979 ha segnato<br />

l’effettivo atto di nascita della dimensione della democrazia rappresentativa europea, che sarebbe<br />

stata sempre più alla base dei successivi sviluppi del processo d’integrazione europea. 70<br />

Tutti i <strong>diritti</strong> connessi con il diritto a candidarsi per e votare alle elezioni, e in particolare la libertà di riunione e di associazione,<br />

Uguaglianza con i cittadini degli Stati membri nei quali il cittadino della Comunità interessato risieda, con riguardo<br />

all’affermazione dei <strong>diritti</strong> e all’accesso a uffici e a posti nella sfera professionale, sociale ed economica, se necessario<br />

dopo un adeguato periodo di residenza,<br />

Il diritto di appartenere a un sindacato di propria scelta,<br />

Il diritto di residenza per tutti i cittadini della Comunità,<br />

Il diritto dei cittadini della Comunità di usare la loro madre lingua e di scegliere liberamente dei legali da qualsiasi Stato<br />

membro per la loro difesa in procedimenti giudiziari,<br />

Il diritto dei cittadini della Comunità di aprire istituti educativi e d’insegnare e studiare alle medesime condizioni valide<br />

per quelli nazionali.”<br />

68 Allo SME partecipava pure la lira italiana, grazie all’opera soprattutto di Carlo Azeglio Ciampi. Dal 1946 al servizio<br />

della Banca d’Italia, Ciampi ne era divenuto il direttore generale nel 1978. Grazie al successo relativo allo SME, Ciampi<br />

sarebbe diventato di lì a poco, nell’ottobre 1979, il nuovo governatore della Banca d’Italia, guidando per parecchi anni<br />

la partecipazione della lira italiana al processo volto all’unione economica e monetaria (UEM) e guadagnando nel contempo<br />

la fiducia e la stima degli ambienti politico-finanziari e politico-istituzionali europei.<br />

69 Nella dimensione economica, anzi, almeno fin dal 1979 la Comunità Europea diventava l’unica potenza economica<br />

planetaria che fosse paragonabile a quella degli Stati Uniti d’America, in una sostanziale parità dei rispettivi PIL per<br />

tutti i decenni a venire.<br />

70 Ciononostante non si può peraltro non riflettere sul motivo per cui nei trent’anni successivi nessuno dei dodici presidenti<br />

del Parlamento Europeo (due per legislatura) sarebbe stato di <strong>cittadinanza</strong> italiana. Un tratto paradossale dei tre<br />

decenni successivi sarà il fatto che l’Italia sarà lo Stato membro che più difenderà le prerogative del PE, ma anche più<br />

disdegnerà di creare nel PE una stabile componente nazionale di una vera classe politico-parlamentare europea, con un<br />

avvicendamento frenetico di molti membri italiani, tanto più stonato rispetto alla durata “biblica” delle carriere di molti<br />

parlamentari nazionali.


LA PRIMA LEGISLATURA EUROPEA (1979- 1984)<br />

Con tutto ciò l’effettiva opera di costruzione dell’Unione Europea e anzi della stessa Unione economica<br />

e monetaria europea (UEM) conosceva negli anni successivi un notevole rallentamento. Il<br />

problema fondamentale, ai fini della creazione di entrambe le unioni, politica ed economicomonetaria,<br />

era costituito dalla necessità di apportare modifiche ai meccanismi e alle procedure delle<br />

istituzioni comunitarie. E infatti già nell’ottobre 1979 era stato presentato al Consiglio europeo dal<br />

cosiddetto Comitato dei Tre un “Rapporto sulle istituzioni europee”. Ma anche la scadenza del<br />

completamento della seconda fase dell’UEM, originariamente prevista per la fine del 1980, passava<br />

senza risultati apprezzabili.<br />

Un primo segnale positivo pervenne invece dal fronte dell’allargamento, con l’ingresso effettivo<br />

della Grecia nella Comunità Europea il 1° gennaio 1981, che comportò la nascita dell’Europa dei<br />

Dieci.<br />

Un secondo segnale positivo pervenne d’altra parte dal fronte della ricerca di una maggiore “identità<br />

europea”, con la risoluzione del Consiglio del 23 giugno 1981, che tradusse finalmente in una vera<br />

e propria direttiva comunitaria la disposizione sopra descritta del Consiglio europeo sulla creazione<br />

del “passaporto uniforme” europeo.<br />

Ma, sul decisivo fronte delle modifiche istituzionali, fu solo il 7 novembre 1981 che venne presentato<br />

il piano Genscher-Colombo (dai nomi dei due ministri degli esteri, tedesco e italiano 71 ), che mirava<br />

appunto a migliorare i meccanismi istituzionali europei. Esso si limitava peraltro a suggerire<br />

l’applicazione del metodo intergovernativo della cooperazione politica, già in uso nel campo della<br />

politica estera, a nuovi settori d’azione, laddove il problema ormai non era il numero delle aree<br />

d’intervento, bensì proprio il metodo adottato per intervenire.<br />

A questo punto si inserì decisamente nella dinamica istituzionale europea, ormai apparentemente<br />

bloccata, il nuovo Parlamento Europeo eletto a suffragio universale, partendo da una problematica<br />

allora drammaticamente sentita ossia quella del terrorismo, considerato soprattutto nella sua dimensione<br />

transnazionale ossia come “euroterrorismo”. Rifacendosi alla ormai decisa programmazione<br />

del passaporto uniforme europeo, prevedendo già tutte le future implicazioni dell’unione dei passaporti<br />

in ordine al libero movimento delle persone (compresi eventuali terroristi) tra gli Stati membri<br />

e quindi perorando la necessità di stabilire fra questi ultimi un regime di comune lotta senza riserve<br />

e senza quartiere al terrorismo, il Parlamento Europeo approvò la risoluzione del 9 luglio 1982<br />

“sull’area giudiziaria europea”, nella quale auspicava, tra l’altro, la predisposizione, a livello europeo,<br />

di “strutture specializzate per la centralizzazione dell’informazione confidenziale” e di “principi<br />

comuni per l’estradizione tra gli Stati membri”. Al di là del carattere circoscritto di tali proposte,<br />

con questa risoluzione il PE anticipava peraltro, più in generale, il drammatico nesso tra la futura<br />

libera circolazione delle persone all’interno della Comunità (che non a caso incontrerà numerose e<br />

lunghe resistenze tra gli Stati membri) e la necessità di fondarla appunto sulla creazione di un’”area<br />

giudiziaria europea” (che solo parecchio tempo dopo verrà effettivamente istituita) e anzi spiegava<br />

espressamente quel che ciò avrebbe significato in ultima analisi:<br />

“1. Presume che la creazione di un’area giudiziaria europea sarà relativa all’istituzione e alla salvaguardia dei <strong>diritti</strong> che<br />

sono conferiti ai cittadini, alla definizione delle obbligazioni incombenti su di loro e alla maniera in cui gli Stati membri<br />

coopereranno per assicurare che quei <strong>diritti</strong> possano essere liberamente esercitati, quelle obbligazioni mantenute e la<br />

società protetta contro qualsiasi attacco all’ordine pubblico e alla sicurezza nella forma dell’attività terroristica o di ogni<br />

altra attività criminale perpetrata da singoli o da gruppi di individui.”<br />

In altri termini si faceva chiaramente intendere che la futura “area giudiziaria europea” non avrebbe<br />

potuto stabilirsi se non attraverso una preliminare codificazione e salvaguardia condivisa dei <strong>diritti</strong><br />

71 Dopo essere stato presidente della Commissione “Affari politici” del PE (1979-’80), Emilio Colombo aveva lasciato<br />

il PE, essendo diventato nel 1980 il ministro degli esteri italiano. Rimarrà tale sino al 1983. Malgrado i limiti del piano<br />

che porta anche il suo nome, esso avrà il merito di “sbloccare” la situazione di stallo istituzionale e perciò politico, portando<br />

all’Atto unico europeo.


(civili) dei cittadini e l’impegno comune degli Stati membri a rispettare e a far rispettare tali <strong>diritti</strong><br />

civili come codificati e salvaguardati a livello comunitario.<br />

Tale originale impostazione del PE, che prospettava così una Comunità europea basata su una propria<br />

codificazione e salvaguardia dei <strong>diritti</strong> civili dei cittadini, poneva naturalmente la CE in quanto<br />

tale sempre più entro l’orizzonte proprio del Consiglio d’Europa e soprattutto della sua Convenzione<br />

e infatti il Parlamento Europeo, nella sua successiva risoluzione del 29 ottobre 1982 “sul memorandum<br />

della Commissione sull’accesso della Comunità Europea alla Convenzione per la protezione<br />

dei <strong>diritti</strong> umani e delle libertà fondamentali”, esprimeva il proprio pieno convincimento circa la<br />

necessità e l’urgenza di tale adesione.<br />

Anzi, il PE riteneva che la Comunità Europea, in quanto comunità transnazionale, avrebbe dovuto a<br />

maggior ragione imitare il Consiglio d’Europa, che, pur essendo una semplice organizzazione internazionale,<br />

aveva provveduto già da decenni a saldare il culto dei <strong>diritti</strong> umani, condivisi dai popoli<br />

europei, con la creazione di appositi simboli che identificassero immediatamente tale comune cultura.<br />

Perciò il Parlamento Europeo, quasi a rappresentare emblematicamente tale nuova svolta sua e<br />

della CE, approvava la risoluzione dell’11 aprile 1983 “sull’adozione di una bandiera per la Comunità<br />

Europea”, nella quale il PE<br />

“G. deciso a dare alla Comunità un simbolo nel quale i popoli europei possano identificarsi, […]<br />

2. decide che la bandiera europea adottata nel 1955 dall’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, bandiera che<br />

rappresenta una corona di dodici stelle dorate su fondo azzurro, sarà la bandiera europea; […]<br />

5. incarica inoltre il suo presidente di assicurarsi che i governi degli Stati membri della Comunità decidano che tutte le<br />

istituzioni europee inalbereranno questa bandiera;”<br />

Con tale atto il Parlamento Europeo dava insieme un chiaro segnale al Consiglio europeo in ordine<br />

alla ripresa senza indugi della costruzione del vero destinatario di tale nuova bandiera ossia<br />

dell’Unione Europea.<br />

E in effetti il Consiglio europeo di Stoccarda del 17-19 giugno 1983, vide finalmente un nuovo pronunciamento<br />

ufficiale sul futuro dell’Europa, con la cosiddetta “Dichiarazione solenne sull’Unione<br />

Europea”. Malgrado tale documento confermasse nel modo più chiaro tutti gli impegni già presi negli<br />

anni Settanta, anch’esso, proprio nel momento in cui recepiva di fatto il piano Genscher-<br />

Colombo, tradiva tuttavia la difficoltà di uscire dagli schemi sia della fedeltà assoluta alle disposizioni<br />

istituzionali dei trattati di Roma (per quanto riguarda le politiche comunitarie da essi consentite),<br />

sia del metodo della cooperazione politica (tipico della politica estera e di altri eventuali settori<br />

non consentiti dai trattati di Roma).<br />

Di fronte alla preoccupante paralisi del Consiglio europeo, fu proprio allora che il nuovo Parlamento<br />

europeo fece sentire forte e chiara la propria voce nella persona di un suo membro, Altiero Spinelli,<br />

massimo sostenitore del modello federalista europeo fin dall’ultimo conflitto mondiale, 72 che<br />

72 L’italiano Altiero Spinelli, a motivo del proprio antifascismo, trascorse dieci anni in prigione e fu poi relegato per altri<br />

sei anni al confino nelle isole di Ponza e poi di Ventotene, dove scrisse, insieme a Ernesto Rossi, in pieno periodo<br />

bellico, nel giugno 1941, un “Manifesto” (meglio noto come il “Manifesto di Ventotene”), che indicava nella creazione<br />

di un’Europa federale la definitiva via d’uscita dagli orrori della guerra. Successivamente Spinelli scriveva due saggi,<br />

“Gli Stati Uniti d’Europa e le varie tendenze politiche”, della seconda metà del 1942, e “Politica marxista e politica federalistica”,<br />

del 1942-’43. Dopo la propria liberazione Spinelli fondò a Milano il 28 agosto 1943 il Movimento Federalista<br />

Europeo (MFE). Con la data del 29 agosto 1943 fu pubblicato quindi il “Manifesto”, che conobbe un’ulteriore edizione<br />

il 22 gennaio 1944 con il titolo “Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto”, nell’ambito di una pubblicazione<br />

che comprendeva pure gli altri due saggi citati di Spinelli.<br />

Il MFE accompagnò, quale pungolo critico, lo sviluppo del processo d’integrazione europea fin dagli inizi e Spinelli fu<br />

tra l’altro l’ispiratore dell’iniziativa di Alcide De Gasperi, che portò all’inserimento nel trattato CED di quella clausola<br />

relativa alla possibilità di elezione a suffragio universale dell’Assemblea, che venne conservata nei trattati di Roma, costituendo<br />

la base giuridica del nuovo Parlamento eletto direttamente dai popoli europei.<br />

Abbandonato nel 1962 l’impegno diretto nel MFE, Spinelli collaborò alla rivista “Il Mulino” (1962-’65), tenne corsi<br />

universitari (1962-’66), fondò nel 1963 il “Comitato italiano per la democrazia europea” (CIDE) e nel 1965 l’”Istituto<br />

Affari internazionali” (IAI) e fu consulente per gli affari europei del ministero degli esteri (1968-’69). Spinelli diveniva<br />

poi membro della Commissione europea (per il settore della politica industriale e della ricerca) (1970-’76). Infine Spi-


presentò al Parlamento Europeo un rapporto, che, fatto proprio dall’assemblea, fu incorporato in<br />

un’apposita risoluzione del Parlamento Europeo sulla sostanza di un progetto preliminare di Trattato<br />

istitutivo dell’Unione Europea, 73 che, adottata il 14 settembre 1983, dava mandato al Comitato<br />

affari istituzionali (e quindi a Spinelli) di redigere, su tale base, un progetto di Trattato per<br />

l’istituzione dell’Unione Europea, da presentare entro il 1983 al voto del PE.<br />

Durante l’iter parlamentare del progetto Spinelli, la parabola discendente delle attività del Consiglio<br />

europeo toccò il suo punto più basso nel vertice di Atene del 4-6 dicembre 1983, a riprova<br />

dell’impossibilità di proseguire oltre secondo i metodi fino ad allora seguiti. Ciò diede ulteriore<br />

slancio al progetto Spinelli, che fu infine presentato alla seduta plenaria del Parlamento Europeo del<br />

14 febbraio 1984 per la sua votazione finale. In quell’occasione Spinelli presentò ai colleghi il suo<br />

progetto con un discorso illustrativo quanto mai chiaro. Si trattava, partendo da una prospettiva nettamente<br />

europea, quale solo il Parlamento Europeo poteva ormai proporre, di trasformare la Commissione<br />

in un vero e proprio organo esecutivo ossia in una sorta di governo dell’Unione, varare la<br />

condivisione del ruolo legislativo e di bilancio tra il Consiglio e il Parlamento Europeo, restringere<br />

la cosiddetta cooperazione politica ossia il metodo intergovernativo alla politica estera e anzi non<br />

escludere nel futuro il passaggio di questa dalla semplice cooperazione alla vera e propria azione<br />

comune. Inoltre Spinelli prevedeva, nel caso dell’approvazione parlamentare europea, che il trattato<br />

fosse direttamente firmato dal singolo Stato membro interessato e ratificato dal rispettivo Parlamento<br />

nazionale e che, se tale procedura fosse stata effettivamente completata da una larga maggioranza<br />

degli Stati membri, il trattato avrebbe dovuto entrare in vigore come tale. In seguito a tale discorso<br />

di Spinelli, il Parlamento Europeo procedeva in giornata alla votazione del progetto di Trattato<br />

istitutivo dell’Unione Europea, che veniva approvato a grande maggioranza. Tale approvazione<br />

avveniva attraverso il varo di un’apposita risoluzione del Parlamento Europeo sul progetto di trattato<br />

istitutivo dell’Unione Europea, che dava mandato al presidente di trasmettere il progetto di trattato<br />

direttamente ai governi dei singoli Stati membri (anziché al Consiglio europeo) e invitava il futuro<br />

Parlamento Europeo del 1984-’89 a prendere direttamente contatto con i Parlamenti nazionali, al<br />

fine di ottenere il loro consenso.<br />

Per parte sua il Consiglio europeo era invece costretto a firmare un autentico trattato, ma di<br />

tutt’altro segno. In un referendum consultivo, svoltosi il 23 febbraio 1982, infatti, la popolazione<br />

della Groenlandia, territorio autonomo sotto sovranità danese e come tale appartenente alla Comunità<br />

Europea, aveva manifestato la propria volontà di ritirarsi da quest’ultima. Perciò il governo danese<br />

aveva concluso con gli altri Stati membri un accordo in materia, che venne sottoscritto dai<br />

Dieci sotto forma di “Trattato emendativo con riguardo alla Groenlandia” il 13 marzo 1984.<br />

Prendendo atto del ritiro volontario della Groenlandia dalla Comunità, esso prevedeva l’entrata in<br />

vigore di tale ritiro per il 1° gennaio 1985 e nel contempo prospettava per la Groenlandia da tale data<br />

un regime di associazione alla Comunità, analogo a quello vigente per i territori d’oltremare degli<br />

Stati membri. Questo trattato, se da un lato dimostrava la duttilità della Comunità nella capacità di<br />

offrire comunque soluzioni di compromesso, stabiliva peraltro un importante precedente sulla possibilità<br />

effettiva di un ritiro volontario dalla Comunità, a maggior ragione se da parte di uno Stato<br />

membro di essa.<br />

nelli diventava membro (indipendente di sinistra) della Camera dei deputati (1976-’83) e del Parlamento Europeo (nel<br />

gruppo comunista) (dal 1976). Da membro del PE eletto a suffragio universale diretto, Spinelli contribuiva alla decisione<br />

del Parlamento Europeo (PE) del 9 luglio 1981 che istituiva la Commissione parlamentare sugli affari istituzionali, di<br />

cui Spinelli divenne il maggiore esponente. In questa sua veste, Spinelli fu l’artefice della risoluzione del PE del 6 luglio<br />

1982 “sulla posizione del PE riguardo alla riforma dei Trattati e al compimento dell’Unione Europea”. In base a<br />

tale risoluzione Spinelli preparò la “sostanza” ossia le linee fondamentali del progetto preliminare di un Trattato istitutivo<br />

dell’Unione Europea.<br />

73 Degna di nota è una delle motivazioni di tale risoluzione: “Premesso che in un mondo di mutamento e di crisi sta diventando<br />

sempre più essenziale per la Comunità Europea affermare la sua identità, perché possa far sentire la sua voce<br />

tra le due grandi potenze, l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti, perché costituisca una forza di trasformazione nelle relazioni<br />

inique ed esplosive che attualmente esistono tra il Nord e il Sud, cosicché costituisca un originale modello di democrazia<br />

politica, economica e sociale, in cui i suoi cittadini possano pienamente svilupparsi”.


Invece il Parlamento Europeo proseguiva la propria “offensiva” in direzione dell’Unione Europea,<br />

approvando la risoluzione del 13 aprile 1984 “sul ruolo delle regioni nella costruzione di un’Europa<br />

democratica e sul risultato della Conferenza delle Regioni”. In essa il regionalismo veniva decisamente<br />

assunto per la prima volta come nuova dimensione qualificante della “democrazia europea” e<br />

perciò esplicitamente collegato al progetto di trattato appena varato dal PE, che:<br />

“1. Nota che il rafforzamento dell’autonomia delle regioni nella Comunità e la creazione di una Comunità Europea più<br />

unificata politicamente, basata su istituzioni con reali poteri, rappresentano due aspetti complementari e convergenti di<br />

uno sviluppo politico che deve essere all’altezza dei futuri compiti della Comunità;”<br />

Il PE proponeva già allora “di rafforzare i poteri fiscali e di bilancio regionali”, nonché di far partecipare<br />

“rappresentanti eletti regionali alla formulazione delle politiche presenti e future della Comunità”<br />

e di “abilitare le regioni a stabilire e mantenere relazioni dirette con le istituzioni della Comunità<br />

in futuro”, prefigurando “un corpo accreditato, che sia nella posizione di parlare a nome delle<br />

autorità locali e regionali”.<br />

In tal modo il PE affiancava alla dimensione della “democrazia rappresentativa” europea, costituita<br />

dal Parlamento Europeo, un nuovo e più forte aspetto della dimensione della “democrazia partecipativa”<br />

europea, rappresentato appunto dalle istanze locali e soprattutto regionali, una volta fossero<br />

state adeguatamente rafforzate all’interno degli Stati membri.<br />

Chi avrebbe dovuto essere ridimensionato da tale duplice “sviluppo politico” erano evidentemente<br />

gli Stati membri come Stati nazionali, che sino ad allora avevano sia rallentato l’unificazione politica<br />

della Comunità, sia sottovalutato la dimensione delle autonomie regionali. 74<br />

Infine, dominate dal “provocatorio” progetto parlamentare di trattato sull’Unione Europea e dal<br />

clima di apparente scontro tra le istituzioni europee, si svolsero poi, tra il 14 e il 17 giugno 1984, le<br />

seconde elezioni del Parlamento Europeo. Esse videro già un sia pur leggero calo nell’afflusso<br />

complessivo alle urne (61%) e una partecipazione nazionale insoddisfacente per quanto riguarda<br />

l’Irlanda (47,6%) e preoccupante per quanto riguarda il Regno Unito (32,6%).<br />

LA SECONDA LEGISLATURA EUROPEA (1984-1989)<br />

In questi anni si assistette a una decisa ripresa del processo d’integrazione europea. Il progetto di<br />

trattato sull’Unione Europea, proposto dal Parlamento Europeo, era stato infatti percepito come un<br />

salutare colpo di frusta rispetto all’inerzia del Consiglio europeo. E i risultati si videro ben presto.<br />

Infatti già il Consiglio (dei ministri) proseguì con maggiore decisione la strada, indicata dal Consiglio<br />

europeo, di offrire ai popoli della Comunità un obiettivo più concretamente percepibile e appetibile<br />

e quindi, nella prospettiva dell’imminente emissione dei primi passaporti europei, adottò la<br />

risoluzione del 19 giugno 1984, che prevedeva “il libero attraversamento delle frontiere interne degli<br />

Stati membri da parte dei loro connazionali”, lasciando peraltro all’iniziativa degli Stati membri<br />

eventualmente interessati l’applicazione di tale decisione.<br />

I. La nuova “Europa del popolo”<br />

Riprendendo poi l’intero spirito generale della “Dichiarazione sull’identità europea”, il Consiglio<br />

Europeo, nella sua decisiva riunione svoltasi a Fontainebleau tra il 25 e il 26 giugno 1984, decise un<br />

rilancio del processo d’integrazione europea che doveva passare in primo luogo attraverso la formazione<br />

di un maggiore senso di appartenenza alla Comunità nei cittadini degli Stati membri. A tale<br />

scopo esso lanciò la proposta di “Un’Europa del popolo” (o “della gente” o “dei cittadini”), a pro-<br />

74 Per quanto riguarda l’Italia, è significativo constatare che proprio il giorno prima della risoluzione del PE ossia il 12<br />

aprile 1984, a Varese, nasceva la “Lega autonomista lombarda”, quasi subito ribattezzata “Lega lombarda”.


posito della quale si dichiarava: “Il Consiglio europeo considera essenziale che la Comunità debba<br />

rispondere alle aspettative del popolo d’Europa, adottando misure atte a rafforzare e promuovere la<br />

sua identità e la sua immagine sia per i suoi cittadini, sia per il resto del mondo.” In una sola frase si<br />

inseriva, al posto dell’espressione usuale “popoli d’Europa”, quella di “popolo d’Europa” e di conseguenza,<br />

al posto dell’espressione usuale “cittadini degli Stati membri”, quella di “cittadini della<br />

Comunità Europea”. Era la risposta, positiva, al motivo ispiratore del discorso e del progetto di trattato<br />

di Spinelli. Rispetto a quest’ultimo, il Consiglio europeo preferiva tuttavia battere ancora la<br />

strada della realizzazione di pur nuove e significative misure entro i limiti tracciati dai trattati di<br />

Roma. In questa prospettiva il Consiglio Europeo dava mandato a un apposito Comitato ad hoc<br />

(presieduto dall’italiano Pietro Adonnino, da cui il Comitato prese il nome) di studiare tali misure<br />

entro questi limiti. E tuttavia il Consiglio europeo dava pure mandato a un altro apposito Comitato<br />

ad hoc (sul tipo del Comitato Spaak degli anni Cinquanta) “sugli affari istituzionali” (presieduto<br />

dall’irlandese James Dooge, da cui prese il nome il Comitato), di presentare proposte per lo sviluppo<br />

della cooperazione europea, apparentemente ignorando il progetto di trattato proposto dal Parlamento<br />

Europeo.<br />

In considerazione di tali sviluppi generali e con particolare riferimento alla decisione del Consiglio<br />

sulla riduzione dei controlli sulle persone alle frontiere, i due Stati membri più importanti decisero<br />

anzi di andare subito oltre per conto proprio, procedendo alla firma a Saarbrücken il 13 luglio 1984<br />

dell’accordo franco-tedesco sulla graduale abolizione dei controlli alla frontiera franco-tedesca. Si<br />

era di fronte alla situazione inedita di una misura, di notevole interesse comunitario, ma decisa al di<br />

fuori della cornice istituzionale comunitaria e perciò di una nuova “provocazione”, diretta stavolta<br />

alla Comunità Europea in quanto tale e all’insufficiente grado di dinamismo che allora la caratterizzava.<br />

Il metodo, tanto sostenuto dal Consiglio europeo, della cooperazione politica assumeva la<br />

forma “unilaterale” dell’accordo tra due Stati membri, che prospettava l’avvio di un’Europa “a due<br />

velocità”, nella quale alcuni Stati membri palesavano con ciò la propria insofferenza per gli indugi<br />

troppo persistenti degli altri, ma insieme lasciavano a questi ultimi la porta aperta per associarsi alla<br />

nuova iniziativa.<br />

Altro elemento di dinamismo era poi la dimostrazione, da parte del nuovo Parlamento Europeo, 75<br />

della propria autorità in materia di bilancio, con il proprio rifiuto, il 14 novembre 1984, del discarico<br />

di bilancio delle Comunità dell’esercizio 1982. In tal modo il Parlamento Europeo faceva valere<br />

per la prima volta la propria determinazione a porsi come attore non di secondo piano della dinamica<br />

interistituzionale comunitaria, introducendo, nel modo più visibile, il principio del controllo democratico<br />

della politica di spesa (pubblica) della Comunità.<br />

Tuttavia era ormai sul fronte tracciato dall’iniziativa franco-tedesca di Saarbrücken che dovevano<br />

emergere le più ragguardevoli novità. La possibilità di un’estensione di tale accordo infatti si rivelava<br />

quanto mai matura, dal momento che, a partire dal 1° gennaio 1985, come previsto, venivano<br />

rilasciati effettivamente, dalla maggior parte degli Stati membri, i primi passaporti europei. Sembrava<br />

dunque naturale, in un regime di effettiva uniformità nell’identificazione dei cittadini degli<br />

Stati membri rispetto a Paesi terzi, prospettare la possibilità di una libera circolazione all’interno<br />

della Comunità, senza controlli né sulle persone, né sulle merci, alle frontiere interne.<br />

Inoltre veniva nel frattempo presentato al Consiglio Europeo di Bruxelles del 29 e 30 marzo 1985 il<br />

previsto “Rapporto del Comitato ad hoc su un’Europa del popolo”. In esso si sottolineava:<br />

“2. L’intento del Comitato è quello di proporre misure che siano di diretta rilevanza per i cittadini della Comunità e che<br />

offrano loro visibilmente benefici tangibili nella loro vita quotidiana. Particolare enfasi è posta su misure che abbiano<br />

una possibilità realistica di essere attuate in un tempo relativamente breve. L’obiettivo dovrebbe essere una facilitazione<br />

di norme e pratiche che causano irritazione ai cittadini della Comunità. Questo è di grande importanza nel rendere la<br />

Comunità più credibile agli occhi dei suoi cittadini.”<br />

75 Nel nuovo PE Altiero Spinelli era dal 26 luglio 1984 il presidente della Commissione “Affari istituzionali”.


Veniva, in altri termini, prefigurata già allora quella strategia dell’”Europa dei cittadini”, nel senso<br />

di una Comunità al servizio dei suoi cittadini, che sempre più sarà all’ordine del giorno dell’agenda<br />

europea sino a tuttora. Tuttavia si precisava insieme:<br />

“3. Dei passi in avanti non sono comunque una questione di adozione di nuove norme e regolamenti. Un progresso in<br />

vista dei cittadini è spesso ottenuto meglio, attuando decisioni già adottate e attraverso la loro amministrazione in situazioni<br />

di vita reale. Ciò può essere molto più importante di un progresso formale per mezzo dell’introduzione di nuove<br />

norme uniformi di piccola o nessuna conseguenza per il cittadino della Comunità nella sua vita di tutti i giorni. Questa<br />

considerazione è rilevante per le istituzioni della Comunità nell’adempimento delle loro responsabilità nell’ambito dei<br />

Trattati, ma anche per gli Stati membri stessi, sopprimendo formalità non necessarie e tenendo conto della dimensione<br />

comunitaria sia nella loro legislazione, sia nelle loro pratiche amministrative.”<br />

Questa osservazione intendeva precisare che le misure proposte dovevano essere tutte all’insegna<br />

della cosiddetta “liberalizzazione”. Più che aggiungere nuove norme comunitarie, occorreva piuttosto<br />

una semplice, ma effettiva razionalizzazione della pubblica amministrazione sia comunitaria, sia<br />

dei singoli Stati membri.<br />

Nell’ambito di tali precisazioni, il “Rapporto” proponeva l’adozione delle seguenti misure:<br />

1) “Una facilitazione di norme e pratiche che causano irritazione ai cittadini della Comunità e compromettono<br />

la credibilità della Comunità”, ossia in positivo: a) la libertà di movimento per i cittadini<br />

della Comunità 76 ; b) la libertà di movimento dei beni, inclusi i servizi di trasporto; c) le formalità<br />

amministrative per il traffico locale transfrontaliero;<br />

2) “I <strong>diritti</strong> dei cittadini della Comunità”, ossia “più ampie opportunità d’impiego e residenza”: a)<br />

libertà di movimento nella vita lavorativa; b) diritto di stabilirsi (in altri Stati membri); c) (riconoscimento<br />

di) qualificazioni professionali; d) diritto di residenza.<br />

Si trattava di un pacchetto di proposte, che sarebbero andate a costituire i futuri <strong>diritti</strong> civili dei cittadini<br />

europei all’interno di tutto il territorio della Comunità.<br />

Allo stesso Consiglio europeo di Bruxelles del 29 e 30 marzo 1985 veniva insieme presentato il<br />

previsto “Rapporto del Comitato ad hoc sugli affari istituzionali”. In esso si dichiarava:<br />

“Dopo la seconda guerra mondiale l’Europa si è data un inizio molto promettente fondando, prima con la Comunità europea<br />

del carbone e dell’acciaio (CECA) e poi con la Comunità economica europea (CEE), una costruzione senza precedenti,<br />

che non può essere paragonata ad alcuna entità legale esistente. La Comunità – basata sui principi della democrazia<br />

pluralista e del rispetto dei <strong>diritti</strong> umani, che costituiscono elementi essenziali per la partecipazione a essa e sono<br />

uno dei costanti obiettivi delle sue attività rivolte al mondo – ha corrisposto ai bisogni complessi e profondamente sentiti<br />

di tutti i nostri cittadini.<br />

Benché la Comunità abbia deciso di completare questa costruzione a partire dai vertici dell’Aja nel 1969 e di Parigi nel<br />

1972, essa è ora in uno stato di crisi e soffre di serie deficienze.<br />

Inoltre, comunque, gli Stati membri sono diventati prigionieri di differenze (fra loro), che hanno oscurato i considerevoli<br />

vantaggi economici e finanziari che si sarebbero ottenuti dalla realizzazione del mercato comune e dall’unione economica<br />

e monetaria.<br />

Inoltre, dopo 10 anni di crisi, l’Europa, a differenza del Giappone e degli Stati Uniti, non ha conseguito un tasso di crescita<br />

sufficiente a ridurre la preoccupante cifra di almeno 14 milioni di disoccupati.<br />

In questo stato di cose l’Europa è posta di fronte a sempre più importanti sfide, sia nel campo della crescente competizione<br />

industriale e tecnologica dall’esterno, sia nella lotta per mantenere la posizione d’indipendenza politica, che storicamente<br />

ha tenuto nel mondo.<br />

Posta di fronte a queste sfide, l’Europa deve recuperare fiducia in se stessa e lanciare se stessa in una nuova avventura<br />

comune – l’istituzione di un’entità politica basata su obiettivi prioritari, chiaramente definiti, unitamente ai mezzi per<br />

conseguirli.<br />

La Comunità non ha perso di vista il fatto che essa rappresenta solo una parte d’Europa. Risolti ad avanzare insieme, gli<br />

Stati membri rimangono consapevoli della civiltà che essi condividono con gli altri Paesi del continente, nella ferma<br />

convinzione che qualsiasi progresso nella costruzione della Comunità è in accordo con gli interessi dell’Europa in quanto<br />

tale.<br />

76 A questo riguardo il Rapporto prevedeva un”azione immediata”, ai fini della quale suggeriva: “Senza aspettare<br />

l’adozione di una direttiva del Consiglio, il Consiglio Europeo dovrebbe decidere ora che alcuni Stati membri dovrebbero<br />

compiere tutti i possibili passi pratici sulla strada verso la soluzione più comprensiva […]”.


Il Comitato ha posto se stesso fermamente a livello politico e, senza pretendere di redigere un nuovo trattato in forma<br />

legale, propone di esporre gli obiettivi, le politiche e le riforme istituzionali, che sono necessari a ridare all’Europa il<br />

vigore e l’ambizione del suo avvio.”<br />

In definitiva il Comitato proponeva che si istituisse effettivamente “una genuina entità politica”,<br />

sottolineandone i seguenti caratteri:<br />

“Non è sufficiente stendere un semplice catalogo di misure da prendere – persino se sono precise e concrete – dal momento<br />

che simili esercizi sono stati spesso tentati nel passato, senza ottenere risultati. Dobbiamo adesso fare un salto<br />

qualitativo e presentare le varie proposte in un modo globale, dimostrando così la volontà politica comune degli Stati<br />

membri. In definitiva ciò deve espresso attraverso la formulazione di una genuina entità politica: cioè un’Unione Europea:<br />

- con il potere di prendere decisioni in nome di tutti i cittadini, attraverso un processo democratico, che sia in accordo<br />

con il loro interesse comune allo sviluppo politico e sociale, al progresso economico e alla sicurezza e in accordo con le<br />

procedure che possono variare a seconda che il quadro sia quello della cooperazione intergovernativa, dei trattati della<br />

Comunità o di nuovi strumenti ancora da concordare;<br />

- in accordo con la personalità di ciascuno degli Stati costituenti.”<br />

La proposta del Comitato ad hoc sugli affari istituzionali andava dunque nella direzione della costruzione<br />

di un’Unione Europea, che fosse comunque fondata, come si esprimerà 18 anni dopo il<br />

progetto di TCE, sulla “volontà dei cittadini e degli Stati d’Europa”. Si veniva così conformando<br />

quella visione della duplice fonte di sovranità dell’Unione Europea, che determinerà i tratti costitutivi<br />

di quest’ultima anche sotto l’aspetto istituzionale.<br />

Gli “obiettivi prioritari” dell’Unione Europea proposta dovevano essere:<br />

1) la creazione di “un’omogenea area economica interna”, da attuare attraverso: a) “il completamento<br />

del Trattato (di Roma)” ossia: la creazione di un genuino mercato interno entro la fine degli anni<br />

Ottanta, l’accresciuta competitività dell’economia europea e la promozione di una convergenza economica;<br />

b) “la creazione di una comunità tecnologica”; c) “il rafforzamento del Sistema monetario<br />

europeo (SME)”; d) “una mobilitazione delle risorse necessarie”.<br />

2) una “promozione dei valori comuni di civiltà” , da attuare attraverso le seguenti misure: a) delle<br />

“misure per proteggere l’ambiente”; b) un “graduale conseguimento di un’area sociale europea”; c)<br />

un “graduale stabilimento di un’omogenea area giudiziaria”; d) “la promozione di comuni valori<br />

culturali”.<br />

3) “la ricerca di un’identità esterna”, da conseguire attraverso: a) una “politica esterna”; b) la ricerca<br />

di una politica comune di “sicurezza e difesa”.<br />

Si trattava di un impressionante pacchetto di impegnative proposte sui più svariati fronti, che lasciava<br />

intendere la serietà della considerazione dell’Unione Europea come di “una genuina entità<br />

politica”.<br />

Ma il Rapporto sottolineava infine quali dovessero essere “i mezzi” per il conseguimento di tali obiettivi<br />

prioritari, ossia delle “istituzioni efficienti e democratiche”. A questo proposito, esso suggeriva:<br />

1) un “più facile processo decisionale nel Consiglio” (con la proposta di un voto a maggioranza<br />

qualificata); 2) “una Commissione rafforzata”; 3) un rafforzamento della “Corte di Giustizia”;<br />

Molto più decisiva era peraltro la proposta finale del Rapporto, riguardante “il metodo” per pervenire<br />

alla fondazione di un’Unione Europea; vi si suggeriva:<br />

“Il Comitato propone che una conferenza dei rappresentanti dei governi degli Stati membri debba essere convocata nel<br />

futuro prossimo per negoziare un progetto di Trattato dell’Unione Europea, basato sull’acquis communautaire, sul<br />

presente documento e sulla Dichiarazione solenne di Stoccarda sull’Unione Europea e sia guidato dallo spirito e dal metodo<br />

del progetto di trattato votato dal Parlamento Europeo:<br />

- le parti [partecipanti] alla conferenza saranno gli Stati membri; […]<br />

- la Commissione Europea parteciperà ai negoziati;<br />

- il Parlamento Europeo sarà strettamente associato alla conferenza. Il suo risultato sarà sottoposto al [voto del] Parlamento<br />

Europeo.”


Con quest’ultimo punto del suo Rapporto, il Comitato ad hoc sugli affari costituzionali dava la prima<br />

chiara indicazione della necessità di attuare un nuovo trattato europeo, di valore costitutivo ossia<br />

analogo, per importanza, al trattato CECA e ai trattati di Roma. E lo faceva, proponendolo come<br />

una sorta di erede del progetto di trattato varato dal Parlamento Europeo, che veniva anzi coinvolto<br />

nel relativo processo decisionale, sia pur soltanto alla fine di esso.<br />

Il Consiglio europeo di Bruxelles del 29-30 marzo 1985 accoglieva i Rapporti di entrambi i Comitati<br />

ad hoc, raccomandando al Consiglio di decidere le proposte pervenute su “un’Europa del popolo”,<br />

77 riservandosi di riflettere ulteriormente sul Rapporto del Comitato sugli “affari costituzionali”<br />

78 e invitando invece il Comitato su “un’Europa del popolo” a proseguire i suoi lavori, al fine di<br />

proporre al successivo Consiglio europeo una nuova serie di iniziative anche sugli altri punti, non<br />

ancora presi in considerazione, del pacchetto di suggerimenti avanzato dal decisivo Consiglio europeo<br />

di Fontainebleau.<br />

Nel frattempo il Consiglio Europeo registrò pure un notevole successo sul fronte dell’allargamento,<br />

con la firma, il 12 giugno 1985, del “Trattato di adesione di Spagna e Portogallo” alla Comunità<br />

Europea. Esso segnava il ricongiungimento all’Europa comunitaria, fondata sul principio del rispetto<br />

dei <strong>diritti</strong> umani, dello Stato di diritto e della democrazia rappresentativa, degli ultimi due Stati<br />

europei che avevano vissuto, e per molti decenni, un regime di tipo fascista e, dopo la liberazione da<br />

questo, consideravano come loro destinazione naturale la costruzione del proprio futuro economico,<br />

sociale e politico all’interno della Comunità Europea.<br />

Infine, accogliendo l’invito (vedi nota n. 85) formulato dal Consiglio europeo, diversi Stati membri<br />

decidevano di procedere subito per conto loro a una realizzazione comune della prima parte delle<br />

misure previste a proposito di “un’Europa del popolo” e in particolare della “libertà di movimento<br />

per i cittadini della Comunità”. Così, il 14 giugno 1985, a Schengen veniva firmato un accordo sulla<br />

soppressione graduale dei controlli alle frontiere comuni da parte dei rappresentanti di Francia,<br />

Germania, Belgio, Lussemburgo e Paesi Bassi. Metà, dunque, degli Stati membri optava per una<br />

cooperazione politica “unilaterale”, assunta cioè al di fuori della cornice istituzionale comunitaria,<br />

su un tema di così evidente interesse comunitario. Tuttavia questa “provocazione”, proprio perché<br />

tale, sarebbe rimasta per diversi anni allo stato di una semplice dichiarazione d’intenti.<br />

Poco dopo si svolgeva la prevista riunione del Consiglio europeo a Milano fra il 28 e il 29 giugno<br />

1985. Esso si pronunciava sul Rapporto finale del Comitato ad hoc su “un’Europa del popolo”, pervenuto<br />

il 20 giugno 1985. Tale Rapporto finale affermava:<br />

“[…] le proposte, […], trattano di importanti aspetti dei <strong>diritti</strong> speciali dei cittadini, dell’educazione, della cultura e della<br />

comunicazione, degli scambi, e dell’immagine e dell’identità della Comunità; esse sono significative per il cittadino<br />

in vari aspetti della sua vita quotidiana e sono un sostanziale contributo alla realizzazione di una sempre più stretta unione<br />

tra i popoli d’Europa. Il Comitato ha ben presente che molto di ciò che è stato conseguito sinora in Europa è stato<br />

l’opera di coloro che hanno sperimentato gli orrori e la distruzione della guerra. La continuazione di questa avventura è<br />

basata sull’assunto che anche le generazioni future si capiranno e si apprezzeranno l’un l’altra attraverso le frontiere e<br />

realizzeranno i benefici che devono derivare da una più stretta cooperazione e solidarietà.”<br />

La nuova serie di proposte presenti nel Rapporto finale del Comitato verteva dunque su temi riguardanti<br />

soprattutto l’educazione delle nuove generazioni a una <strong>cittadinanza</strong> europea. Il Rapporto precisava<br />

quindi tali proposte, nel modo seguente:<br />

77 A proposito del Rapporto sul Comitato ad hoc sull’Europa del popolo e delle sue proposte per un’”immediata realizzazione”,<br />

una delle conclusioni del Consiglio europeo era: “Da ultimo, esso invita gli Stati membri ad attuare quelle decisioni<br />

che sono entro il loro campo di competenza”.<br />

78 Di fronte a tale pausa di riflessione del Consiglio europeo, il Parlamento Europeo adottava il 17 aprile 1985 una risoluzione<br />

“sulla posizione del Parlamento Europeo sulle deliberazioni del Consiglio europeo sull’Unione Europea”, in cui<br />

reclamava il diritto di esaminare, se necessario emendare, e infine votare sul progetto di trattato che avrebbe dovuto essere<br />

varato dalla futura Conferenza intergovernativa


“[…] il suo [del Comitato] miglior contributo all’Europa del popolo sarà dato da una combinazione di proposte specifiche<br />

che dovranno essere attuate senza ulteriore dilazione, e da obiettivi a più lungo termine, che renderebbero la Comunità<br />

più di una realtà per i suoi cittadini.<br />

In questo contesto il Comitato vuole sottolineare che il compito di semplificare l’amministrazione e restringere l’iperregolamentazione<br />

vale comunque. Ma, al di là di questo obiettivo, la Comunità Europea risponderà alle vedute dei suoi<br />

cittadini solo se essa rifletta pienamente il loro desiderio di operare insieme più strettamente e predisponga un canale<br />

per i loro ideali. Ecco perché ora avanziamo proposte su:<br />

1) i <strong>diritti</strong> speciali dei cittadini;<br />

2) la cultura e la comunicazione;<br />

3) l’informazione;<br />

4) la gioventù, l’educazione, gli scambi e lo sport;<br />

5) il lavoro volontario nello sviluppo del Terzo mondo;<br />

6) la sanità, la sicurezza sociale e le droghe;<br />

7) i gemellaggi;<br />

8) il rafforzamento dell’immagine e dell’identità della Comunità.”<br />

Il Rapporto finale prospettava dunque tale educazione alla <strong>cittadinanza</strong> europea come attuabile soprattutto<br />

attraverso l’offerta di concrete possibilità sia di interazione e di collaborazione tra cittadini<br />

europei di diversi Stati membri su temi comuni, sia di esprimersi pubblicamente sui propri ideali e<br />

sulle proprie proposte nei confronti della Comunità. Si trattava dunque della prima intuizione della<br />

possibilità di una democrazia partecipativa europea come strumento privilegiato di un’educazione<br />

alla <strong>cittadinanza</strong> europea.<br />

La prima condizione di quest’ultima doveva essere (a prescindere dai <strong>diritti</strong> umani, riconosciuti ,<br />

come tali, a qualunque persona residente nel territorio della Comunità) il riconoscimento de “i <strong>diritti</strong><br />

speciali dei cittadini” ovvero quei <strong>diritti</strong> che, all’interno della Comunità, occorreva riconoscere ai<br />

cittadini europei in quanto tali. A questo proposito il Rapporto finale diceva:<br />

“Il 14 dicembre 1973 al vertice di Copenhagen, i capi di Stato o di governo adottarono un rapporto sull’identità europea.<br />

Quel rapporto proponeva alcune linee guida e alcuni obiettivi che erano in grado di essere assunti come indici per lo<br />

sviluppo di <strong>diritti</strong> speciali per i cittadini per il fatto che esso dava espressione a una determinazione a difendere i principi<br />

della democrazia rappresentativa, del dominio della legge, della giustizia sociale e del rispetto dei <strong>diritti</strong> umani.<br />

Sulla base del rapporto e di successivi sviluppi nella Comunità e tra gli Stati membri, riguardanti <strong>diritti</strong> speciali dei cittadini,<br />

in particolare il Consiglio europeo a Parigi nel dicembre 1974, il Comitato sottopone delle proposte al Consiglio<br />

europeo nelle seguenti aree:<br />

1) Il cittadino come un [soggetto] che partecipa al processo politico nella Comunità<br />

2) Il cittadino come un [soggetto] che partecipa al processo politico negli Stati membri<br />

3) Consultazione dei cittadini su questioni transfrontaliere all’interno della Comunità<br />

4) Il cittadino in relazione agli strumenti legali della Comunità<br />

5) Il cittadino e la patente di guida europea<br />

6) Il cittadino come lavoratore al di fuori della Comunità.”<br />

Per quanto riguarda il primo di questi punti ossia “il cittadino come uno dei partecipanti al processo<br />

politico nella Comunità”, il Rapporto finale proponeva: a) “l’introduzione di un’uniforme procedura<br />

elettorale” per il Parlamento Europeo “prima della prossima elezione nel 1989” e comunque la possibilità,<br />

entro tale data, che un cittadino, residente in altro Stato membro, potesse partecipare ivi alle<br />

elezioni del Parlamento Europeo; b) l’introduzione del “diritto di petizione” europeo e della figura<br />

del “mediatore” europeo.<br />

Per quanto riguarda il secondo punto ossia “il cittadino come uno dei partecipanti al processo politico<br />

negli Stati membri”, il Rapporto finale proponeva: a) il diritto a votare e a candidarsi alle elezioni<br />

locali per i cittadini di altri Stati membri; b) l’equiparazione di tutti i cittadini della Comunità a<br />

quelli nazionali quanto alla libertà di parola e di riunione; c) il diritto dei cittadini residenti, ma provenienti<br />

da altri Stati membri, a venire ascoltati dalle autorità nazionali, quando queste stanno per<br />

prendere decisioni di speciale importanza (insegnamento di lingue straniere, condizioni per l’uso e<br />

l’acquisto di una casa ed emissioni di notizie in altre lingue).<br />

Per quanto riguarda il terzo punto ossia “consultazione dei cittadini su questioni transfrontaliere<br />

all’interno della Comunità”, il Rapporto finale proponeva, per i cittadini residenti in entrambi i ver-


santi di frontiere interne, il diritto all’informazione e alla consultazione preventiva su misure di rilevanza<br />

transfrontaliera come le maggiori opere pubbliche, temi ambientali, trasporti e materie aventi<br />

comunque rilievo per la salute e la sicurezza dei cittadini.<br />

Per quanto riguarda il quarto punto ossia “il cittadino in relazione agli strumenti legali della Comunità”,<br />

il Rapporto finale proponeva: a) una sistematica codificazione e semplificazione ovvero il cosiddetto<br />

“consolidamento” della legge della Comunità, allo scopo di fornire ai cittadini un quadro<br />

unitario e perciò immediatamente consultabile degli atti legislativi comunitari; b) la cessazione della<br />

produzione di atti giuridici, sia comunitari, sia nazionali, in settori dove essi si rivelassero non più<br />

necessari (con la conseguente nascita del principio di sussidiarietà); c) l’uso di un linguaggio più<br />

semplice e dunque più chiaro nella formulazione delle leggi; d) un uso della legge comunitaria mirato<br />

soprattutto all’armonizzazione delle leggi nazionali tra loro; e) l’attuazione piena, semplice e<br />

rapida della legge comunitaria da parte degli Stati membri.<br />

Per quanto riguarda il quinto punto ossia “il cittadino e la patente di guida europea”, il Rapporto finale<br />

proponeva che la patente di guida con formato di modello comunitario, decisa dal Consiglio<br />

già il 4 dicembre 1980, fosse di fatto disponibile entro il 1° gennaio 1986 e soprattutto fosse abolita<br />

la necessità di cambiare la patente di guida entro la Comunità in caso di un cambio di residenza.<br />

Per quanto riguarda il sesto punto ossia “il cittadino come lavoratore al di fuori della Comunità”, il<br />

Rapporto finale proponeva il diritto del cittadino a ottenere assistenza da parte delle autorità diplomatiche<br />

di un altro Stato membro, nel caso dell’assenza di quelle nazionali nel territorio dello Stato<br />

terzo in cui si trovasse.<br />

Tutti questi “<strong>diritti</strong> speciali dei cittadini” non solo saranno ripresi in trattati successivi, ma anche costituiranno<br />

(in particolare il quarto punto) uno dei principali motivi ispiratori dell’intera architettura<br />

del futuro Trattato costituzionale europeo.<br />

La seconda condizione dell’educazione alla <strong>cittadinanza</strong> europea doveva essere un’attenzione speciale<br />

ai temi “cultura e comunicazione”. A questo proposito il Rapporto finale così si esprimeva:<br />

“E’ anche attraverso un’azione nelle aree della cultura e della comunicazione, che sono essenziali all’identità europea e<br />

all’immagine della Comunità nelle menti del suo popolo, che può e deve essere cercato un supporto per l’avanzamento<br />

dell’Europa. L’eredità culturale europea non è comunque confinata ai territori degli Stati membri della Comunità, né,<br />

per questa materia, alle frontiere degli Stati del Consiglio d’Europa. 79 Dobbiamo perciò evitare ogni esclusività in<br />

quest’area e cercare una cooperazione con altri Paesi europei.<br />

Il Comitato si compiace di prendere atto che gli incontri del Consiglio e dei ministri della cultura della Comunità stanno<br />

continuando su una base regolare e che è stato fatto un progresso in quest’area, inclusa la decisione su un’annuale “città<br />

europea della cultura”, cominciando con Atene per il 1985.<br />

Il Comitato ha scelto, fra i vari spetti della cultura, quattro aree d’azione […]:<br />

1) Televisione (“l’area audiovisiva”)<br />

2) Accademia di scienza, tecnologia e arte<br />

3) Eurolotteria<br />

3) Accesso a musei e a eventi culturali”<br />

Per quanto riguarda il primo punto ossia la “televisione (“l’area audiovisiva”)”, il Rapporto finale<br />

proponeva a) l’incoraggiamento, a livello della Comunità, di “coproduzioni audiovisive europee al<br />

fine di promuovere un’industria veramente europea e competitiva”; b) la previsione nazionale di<br />

una certa aliquota dei fondi generali programmati, destinata a coproduzioni, se fatte da produttori<br />

cinematografici o televisivi europei provenienti da almeno due Stati membri; c) la dichiarazione del<br />

1988 come “Anno europeo del film e della televisione”; d) la possibilità che “ogni cittadino possa<br />

aver accesso al maggior numero di programmi emessi dai vari canali dei Paesi della Comunità”; e)<br />

la creazione di un “canale televisivo europeo”, con emissione “multilingue”.<br />

Per quanto riguarda il secondo punto ossia una prevista ”Accademia di scienza, tecnologia e arte”, il<br />

Rapporto finale sosteneva: “L’Europa ha bisogno di un’istituzione con influenza internazionale per<br />

mettere in evidenza le conquiste della scienza europea e l’originalità della civiltà europea in tutto il<br />

suo carattere comune e in tutta la sua diversità.”<br />

79 Tale espressione in negativo intendeva alludere ai Paesi europei a regime comunista [NdA].


Per quanto riguarda il terzo punto ossia una prevista “eurolotteria”, il Rapporto finale sosteneva curiosamente:<br />

“Per far sì che l’Europa divenga viva per gli Europei, un evento con richiamo popolare<br />

può aiutare a promuovere l’idea europea. […] La lotteria servirebbe a finanziare progetti nel campo<br />

della cultura. L’avvio e l’annuncio dei risultati sarebbero pubblici e trasmessi via televisiva attraverso<br />

la Comunità. Il risultato può essere espresso eventualmente in ECU.”<br />

Per quanto riguarda il quarto punto ossia l’”accesso a musei e a eventi culturali”, il Rapporto finale<br />

proponeva che tutte le condizioni e riduzioni speciali, disponibili in uno Stato membro per i giovani,<br />

fossero estese ai giovani provenienti da tutti gli Stati membri.<br />

Solo alcune di queste misure relative all’area “cultura e comunicazione” saranno effettivamente attuate,<br />

ma non saranno sufficienti a conseguire gli scopi previsti dal documento.<br />

La terza condizione dell’educazione alla <strong>cittadinanza</strong> europea doveva essere l”informazione”. A<br />

questo proposito il Rapporto finale enunciava le seguenti osservazioni:<br />

“Il Comitato ritiene che il popolo d’Europa non riceva un’informazione soddisfacente sulla costruzione dell’Europa.<br />

Questo è un problema per tutte le istituzioni della Comunità e per gli Stati membri.<br />

L’informazione sulla Comunità sarà intesa a spiegare i temi fondamentali che sottolineino l’importanza cruciale della<br />

Comunità per gli Stati membri – gli eventi storici che condussero alla costruzione della Comunità e che ispirano il suo<br />

ulteriore sviluppo nella libertà, nella pace e nella sicurezza e le sue conquiste e il suo potenziale nel campo economico e<br />

sociale. Gli Stati membri possono mostrare come l’azione nazionale è rafforzata dall’azione della Comunità. E’ anche<br />

necessario sottolineare al popolo quali costi ci sarebbero se la Comunità non esistesse.<br />

Il Comitato propone che il Consiglio europeo inviti le istituzioni della Comunità e gli Stati membri a cooperare più<br />

strettamente e a migliorare l’effettività di servizi, in particolare a livello regionale e locale, per procurare al cittadino<br />

un’informazione sulla Comunità.”<br />

Purtroppo queste proposte, pur messe poi in atto, si riveleranno drammaticamente insufficienti a risolvere<br />

il problema dell’”informazione”, che resterà sino a oggi il più grave problema in ordine<br />

all’educazione alla <strong>cittadinanza</strong> europea e dunque a un esercizio consapevole e condiviso della democrazia<br />

europea, sia rappresentativa, sia partecipativa.<br />

La quarta condizione dell’educazione alla <strong>cittadinanza</strong> europea doveva essere una serie di misure a<br />

proposito di “gioventù, educazione, scambi e sport”. A questo proposito, il Rapporto finale proponeva<br />

delle misure nei seguenti settori: a) insegnamento della lingua; b) scambi tra scuole; c) campi<br />

di lavoro volontario per giovani; d) l’immagine europea nell’educazione; 80 e) cooperazione universitaria;<br />

f) addestramento vocazionale; g) scambi di giovani e scambi professionali; h) sport.<br />

Le varie misure proposte saranno poi realizzate in vario grado, ma con risultati tuttora insufficienti,<br />

in particolare per quanto riguarda la prevista “immagine europea nell’educazione”.<br />

La quinta condizione dell’educazione alla <strong>cittadinanza</strong> europea doveva essere il “lavoro volontario<br />

nello sviluppo del Terzo mondo”. A questo proposito il Rapporto finale proponeva la piena partecipazione<br />

e cooperazione delle organizzazioni non governative (ONG) con la Comunità Europea, stabilendo<br />

la prima decisiva forma di collaborazione tra questi due soggetti.<br />

La sesta condizione dell’educazione alla <strong>cittadinanza</strong> europea doveva essere una serie di misure riguardanti<br />

“sanità, sicurezza sociale e droghe”. A questo proposito il Rapporto finale proponeva tra<br />

l’altro: a) la creazione di una Carta Sanitaria d’Emergenza di formato universale europeo, disponibile<br />

per ogni cittadino che la volesse, contenente dati sanitari personali e quindi utile per eventuali<br />

80 A questo proposito il Rapporto proponeva: a) la creazione in ogni Stato membro di Centri per facilitare l’opera di<br />

scuole e docenti e per informarli e aiutarli da un punto di vista educativo (da qui nascerà p.e. in Italia<br />

“PuntoeduEuropa”, l’ambiente web dell’”Indire” (Agenzia nazionale per lo sviluppo dell’autonomia scolastica) per percorsi<br />

di formazione per docenti (appartenenti alle scuole iscritte) per l’educazione alla <strong>cittadinanza</strong> europea); b) la preparazione<br />

e la disponibilità di appropriati libri di testo e materiali didattici; c) la conferma del 9 maggio di ogni anno<br />

come Giornata dell’Europa al fine di creare consapevolezza e dare informazione nelle scuole in particolare, così come<br />

alla televisione e negli altri mezzi di comunicazione; d) la predisposizione di un Centro che esponesse le acquisizioni<br />

europee, e l’eredità comune, sostenuto da una collezione di documenti e opere relative (la prima e più completa iniziativa<br />

in tal senso è quella costituita dal “Centro virtuale della conoscenza sull’Europa” (CVCE), con sede a Lussemburgo,<br />

e dal suo formidabile “European NAvigator” (ENA) (sito web www.ena.lu.), al quale rinviano i link di numerosi dei<br />

documenti qui citati).


emergenze lontano da casa; b) l’accesso di durata illimitata al trattamento medico in tutto il territorio<br />

della Comunità. Queste misure, poi effettivamente realizzate, costituiranno una grande conquista<br />

sul terreno dell’identità politico-sociale europea.<br />

La settima condizione dell’educazione alla <strong>cittadinanza</strong> europea doveva essere il “gemellaggio” tra<br />

città di diversi Stati membri. A questo proposito il Rapporto finale proponeva semplicemente un incoraggiamento<br />

e una promozione di tali iniziative.<br />

L’ottava e ultima condizione dell’educazione alla <strong>cittadinanza</strong> europea doveva essere il “rafforzamento<br />

dell’immagine e dell’identità della Comunità”. A questo proposito il Rapporto finale proponeva:<br />

a) l’adozione di “simboli” della Comunità e precisamente di una bandiera e un emblema, come<br />

pure di un inno, e precisamente di quelli già adottati dal Consiglio d’Europa, anche se, per quanto<br />

riguarda l’emblema e la bandiera, suggeriva, in totale divergenza rispetto al Parlamento Europeo,<br />

l’opportunità di distinguerli da quelli del Consiglio d’Europa e quindi di adottare al centro del cerchio<br />

di stelle la lettera dorata E ossia il disegno già in uso presso la Commissione europea e curiosamente<br />

consigliava, per quanto riguarda tutti i simboli della Comunità, un uso limitato solo a determinati<br />

posti e a determinate occasioni; b) la dedica di francobolli nazionali a eventi europei, con<br />

disegni identici per tutti gli Stati membri; c) l’estensione delle tariffe postali interne alle destinazioni<br />

in tutti gli altri Stati membri. Tutte queste misure saranno realizzate poi effettivamente in misura<br />

anche maggiore rispetto al previsto.<br />

In conclusione l’imponente pacchetto di tutte le misure proposte dai due successivi Rapporti del<br />

Comitato ad hoc su un’Europa del popolo era inteso a costituire “un complesso bilanciato, la realizzazione<br />

del quale darebbe al singolo cittadino una più chiara percezione della dimensione e<br />

dell’esistenza della Comunità.” Tale obiettivo sarà effettivamente raggiunto, ma non in tutte le sue<br />

parti, e perciò non sarà altrettanto conseguito quello, finale, di un maggiore senso di appartenenza<br />

del cittadino alla Comunità e quindi di un suo effettivo coinvolgimento nella costruzione di essa.<br />

Il Consiglio europeo di Milano approvava comunque anche il Rapporto finale di tale Comitato e anzi,<br />

a proposito del Rapporto iniziale (già approvato a suo tempo), richiamava sia le altre istituzioni<br />

della Comunità, sia gli Stati membri, ad applicare, senza ulteriori ritardi, le misure in esso previste<br />

(come l’abolizione universale delle frontiere interne nella Comunità).<br />

Il Consiglio europeo di Milano si pronunciava pure sui risultati del Rapporto del Comitato ad hoc<br />

sugli “affari istituzionali”. Ribadito il fine generale della creazione di un’Unione Europea, esso stabiliva<br />

che alcuni degli “obiettivi prioritari” di essa avrebbero dovuto essere realizzati subito ossia<br />

già nell’ambito dell’esistente Comunità Europea, e segnatamente quelli relativi alla creazione di<br />

“un’omogenea area economica interna”, in particolare: a) “il completamento del Trattato (di Roma)”<br />

ossia: la creazione di un genuino mercato interno entro il 1992, l’accresciuta competitività<br />

dell’economia europea e la promozione di una convergenza economica; b) “la creazione di una comunità<br />

tecnologica”.<br />

Ma soprattutto il Consiglio europeo recepiva pure la proposta relativa al “metodo” con il quale pervenire<br />

alla fondazione di un’Unione Europea, ossia la necessità di convocare una conferenza intergovernativa<br />

per la predisposizione del progetto di un nuovo trattato costitutivo. Tuttavia il mandato<br />

della CIG era molto ridimensionato rispetto alla proposta del Comitato: intendendo rimanere ancora<br />

nel quadro della Comunità esistente, esso prevedeva infatti la predisposizione dei progetti di due<br />

trattati, che anticipassero rispettivamente gli “obiettivi prioritari” dell’UE afferenti alla “ricerca di<br />

un’identità esterna” e i “mezzi” dell’UE ossia “istituzioni efficienti e democratiche”. Il progetto del<br />

primo trattato doveva vertere dunque “su una politica estera e di sicurezza comune”, mentre quello<br />

del secondo trattato doveva essere costituito da una serie di emendamenti al trattato CEE, in accordo<br />

con l’articolo 236 di quel trattato, richiesti per l’attuazione delle modifiche istituzionali riguardanti:<br />

a) la procedura decisionale del Consiglio; b) il potere esecutivo della Commissione; c) i poteri<br />

del Parlamento Europeo e l’estensione a nuove sfere di attività.


Nonostante tali limiti del mandato da affidare alla CIG, la convocazione di quest’ultima fu approvata<br />

solo a maggioranza (senza il voto favorevole di Gran Bretagna, Danimarca e Grecia). 81<br />

Ciononostante il Consiglio approvava comunque, il 22 luglio 1985, la convocazione di una conferenza<br />

intergovernativa destinata ad avviare la creazione del mercato interno, ad apportare modifiche<br />

istituzionali al trattato CEE 82 e ad elaborare un progetto di trattato in materia di politica estera e di<br />

sicurezza comune.<br />

Tale conferenza intergovernativa (CIG) si apriva il 9 settembre 1985, con la partecipazione dei ministri<br />

degli esteri dei Dieci e di Spagna e Portogallo. 83<br />

Il Consiglio europeo svoltosi a Lussemburgo tra il 2 e il 4 dicembre 1985 accoglieva quindi una serie<br />

di testi, concernenti: a) modifiche istituzionali da apportare al trattato CEE, intese ad agevolare<br />

la creazione entro il 1992 del “mercato interno”, inteso come “un’area senza frontiere interne, nella<br />

quale è assicurato, in accordo con le disposizioni del trattato [CEE], il libero movimento di beni,<br />

persone, servizi e capitali”, nonché riguardanti pure la “capacità monetaria”, la “coesione”, il “Parlamento<br />

Europeo”, “la gestione e i poteri attuativi della Commissione”, “ricerca e sviluppo tecnologico”,<br />

“l’ambiente” e la “politica sociale”; b) un “progetto di trattato su una cooperazione europea<br />

nella sfera di politica estera”. 84<br />

81<br />

Sulle conclusioni del Consiglio europeo di Milano così si esprimeva, con alcune riserve, il Parlamento Europeo nella<br />

sua risoluzione del 9 luglio 1985:<br />

“1. Concorda con l’intento di creare un reale mercato interno entro il 1992 e sottolinea che questo può essere conseguito<br />

solo rafforzando le politiche economiche e monetarie allo scopo di affrontare in maniera disciplinata ed equa i problemi<br />

della ristrutturazione industriale, della disoccupazione, specie tra i giovani, e delle disparità regionali nella Comunità.<br />

2. Fa proprio il rafforzamento della cooperazione politica europea, ma rifiuta i metodi considerati, dal momento che essi<br />

accentuano la natura intergovernativa di tale cooperazione, disponendo un trattato speciale e la creazione di un apposito<br />

segretariato, che può venire in conflitto con altre istituzioni della Comunità;<br />

3. Richiede che l’Europa sviluppi il suo proprio approccio e giochi un ruolo attivo come mediatore e operatore di pace<br />

nel mondo. […]”<br />

82<br />

Il Consiglio precisava che, a questo proposito, la base della discussione avrebbe dovuto essere il progetto di trattato<br />

emendativo del trattato CEE, presentato dalla presidenza lussemburghese il 4-5 luglio 1985, che conteneva i seguenti<br />

punti: a) miglioramento delle procedure decisionali entro il Consiglio, b) rafforzamento del potere esecutivo della<br />

Commissione, c) aumento dei poteri del Parlamento Europeo, e d) estensione delle politiche comuni a nuovi campi<br />

d’attività.<br />

83<br />

L’andamento effettivo di essa fu tale da suscitare l’allarme del Parlamento Europeo, che adottava il 23 ottobre 1985<br />

una risoluzione “sui lavori della Conferenza intergovernativa sull’Unione Europea”, in cui dichiarava apertamente:<br />

“1. Reitera la richiesta che il lavoro della Conferenza intergovernativa e il testo risultante debbano essere basati sul progetto<br />

di Trattato adottato dal Parlamento Europeo, l’unico testo che definisce in precisi termini legali l’estensione necessaria<br />

dei poteri non solo nel campo degli affari della Comunità, ma anche in quello della Cooperazione, che dispone<br />

procedure flessibili per muovere dalla cooperazione all’azione congiunta laddove necessario, e che definisce i mezzi<br />

istituzionali essenziali per attuare i nuovi poteri in una via efficiente e democratica.<br />

2. Considera essenziale che in ogni caso debba essere stabilito che:<br />

a) ogni nuovo potere della Comunità debba essere collegato a corrispondenti modifiche istituzionali e democratiche e<br />

formi parte di un unico quadro legale della Comunità;<br />

b) le modifiche istituzionali devono includere quelle seguenti:<br />

- reali poteri decisionali congiunti per il Parlamento Europeo,<br />

- il voto a maggioranza nel Consiglio come la norma,<br />

- maggiori poteri esecutivi per la Commissione;<br />

3. Sottolinea che la redazione di un trattato separato per la cooperazione politica distruggerebbe la solidarietà della Comunità,<br />

indebolirebbe l’azione congiunta della Comunità e si rivelerebbe un perpetuo ostacolo per il funzionamento di<br />

tutte le istituzioni della Comunità […]”<br />

84<br />

Sulle conclusioni del Consiglio europeo di Lussemburgo così si esprimeva, con accenti critici, il Parlamento Europeo<br />

nella sua risoluzione dell’11 dicembre 1985:<br />

“A. Premesso che il Consiglio europeo non ha nemmeno tenuto conto della Dichiarazione solenne fatta a Stoccarda il<br />

19 giugno 1983, in cui annunciava che sarebbe stata cercata l’opinione del Parlamento Europeo non appena fosse venuto<br />

il tempo di incorporare il progresso, conseguito sul sentiero verso l’unificazione europea, dentro un trattato<br />

sull’Unione.<br />

1. Riafferma la sua convinzione che una radicale riforma istituzionale della Comunità e della cooperazione politica non<br />

può essere più a lungo rinviata senza pericolo per il futuro politico ed economico e la dignità dell’Europa democratica,<br />

un fatto espressamente riconosciuto dalla riunione del Consiglio europeo a Milano nel giugno 1985;


Finalmente il Consiglio dei ministri degli esteri del 16 e 17 dicembre 1985 licenziò un testo finale<br />

che prevedeva, sulla scorta delle indicazioni pressanti del Parlamento Europeo, che i progetti dei<br />

due previsti trattati fossero fusi nel progetto di un unico trattato, a cui perciò fu dato il nome di Atto<br />

unico europeo, contenente sia le modifiche istituzionali ai trattati comunitari (necessarie alla realizzazione<br />

del mercato interno e delle nuove politiche comunitarie), sia le norme intese a creare una<br />

politica estera e di sicurezza comune.<br />

Con l’inizio del nuovo anno, il 1° gennaio 1986, la Spagna e il Portogallo entrarono effettivamente<br />

nella Comunità Europea, che divenne con ciò l’Europa dei Dodici, caratterizzata dalla massima espansione<br />

della CE sia nell’Ovest, sia nel Sud del continente. Inoltre, a partire da questa data, gli<br />

Stati membri iniziarono a rilasciare le prime patenti di guida europee.<br />

II. L’Atto unico europeo<br />

Dopo la risoluzione, “forzatamente” positiva, del PE del 16 gennaio 1986 “sulla posizione del Parlamento<br />

Europeo sull’Atto unico approvato il 16 e 17 dicembre 1985 dalla Conferenza intergovernativa”<br />

(relatore: Altiero Spinelli), 85 l’“Atto unico europeo” venne infine firmato a Lussemburgo il<br />

17 febbraio 1986 da nove Stati membri e all’Aja il 28 febbraio 1986 dagli altri tre (Danimarca, Italia<br />

e Grecia). 86<br />

2. Nota che l’opera della Conferenza Intergovernativa e le conclusioni raggiunte dal Consiglio europeo hanno definito<br />

la maggior parte dei problemi centrali della politica comunitaria che devono essere affrontati (creazione di un’area libera<br />

da frontiere interne, la capacità monetaria della Comunità, la coesione economica e sociale, la ricerca e lo sviluppo<br />

tecnologico, l’ambiente e la politica sociale);<br />

3. Nota che il Consiglio ha imboccato la strada della riforma, ma che, nella loro forma presente, le conclusioni rimangono<br />

incomplete e non consentono di conseguire gli obiettivi statuiti nel mandato della Conferenza, in particolare dal<br />

momento che, a causa dell’ambiguità di qualche testo, c’è, da un lato, ancora incertezza quanto allo stabilimento<br />

dell’area europea entro il 1992, in altri campi i poteri della Comunità sono definiti in termini restrittivi, la questione della<br />

riforma del sistema finanziario comunitario, in particolare quella dell’associazione del Parlamento Europeo in materia<br />

di entrate comunitarie, è completamente ignorata, e, dall’altro lato, le modifiche proposte al processo decisionale non<br />

offrono le garanzie necessarie quanto a efficacia e al suo carattere democratico;<br />

4. Ritiene che, in un tempo di disoccupazione e di squilibrio tra le regioni, non può essere ottenuta una genuina unione<br />

di popoli, a meno che non sia data una dimensione sociale all’area europea definita dal Consiglio europeo e a meno che<br />

non sia rafforzata la coesione di quest’area europea, mostrando solidarietà con i Paesi e le regioni meno sviluppate;<br />

5. Nota che il progetto di trattato sulla cooperazione con riguardo alla politica estera si è limitato a confermare ciò che<br />

già esiste e lascia aperto il problema dell’unità dei trattati; […]”.<br />

85 Quante riserve e quanta amarezza ci fossero nel Parlamento Europeo di fronte all’Atto unico, lo si può cogliere<br />

nell’ultimo discorso parlamentare in aula di Spinelli, pronunciato proprio in quell’occasione: “Onorevoli colleghi,<br />

quando votammo il progetto di Trattato per l’Unione, vi ho ricordato l’apologo hemingwayano del vecchio pescatore<br />

che cattura il più gran pesce della sua vita, lo vede divorare dai pescecani e arriva al porto con la sola lisca del pesce.<br />

Anche noi siamo ormai arrivati al porto e anche a noi, del gran pesce, resta solo la lisca. Il parlamento non deve per<br />

questo motivo né rassegnarsi, né rinunziare. Dobbiamo prepararci a uscire ancora una volta e presto in mare aperto,<br />

predisponendo i migliori mezzi per catturare il pesce e per proteggerlo dai pescecani.” (cfr. A. Spinelli, Discorsi al Parlamento<br />

Europeo 1976-1986, a cura di P.V. Dastoli, Bologna, Il Mulino, 1987, p. 373). Di conseguenza Spinelli presentava<br />

il 24 gennaio 1986 e illustrava all’inizio di febbraio 1986 alla Commissione affari istituzionali del PE la sua nuova<br />

strategia ovvero il piano Spinelli: il Parlamento Europeo avrebbe dovuto redigere, approvare e trasmettere direttamente<br />

ai governi degli Stati membri un testo di mandato costituente per lo stesso PE, che questi ultimi avrebbero sottoposto ad<br />

altrettanti referendum popolari nazionali in occasione delle elezioni del PE del 1989; in caso di esito positivo il PE si<br />

sarebbe trasformato nel giugno 1989 nell’Assemblea Costituente Europea, che avrebbe redatto la Costituzione<br />

dell’Unione Europea, che i governi degli Stati membri avrebbero sottoposto ad altrettante ratifiche parlamentari nazionali.<br />

Anche in questo caso dunque veniva evitato ogni riferimento al Consiglio europeo. Ma era anche emersa una novità<br />

di dimensione stellare: l’idea della “Costituzione Europea”, che avrebbe dominato sempre più il dibattito politico europeo<br />

per i successivi ventuno anni, sino a uscire dal suo orizzonte il 23 giugno 2007.<br />

86 Il differimento, deciso dai tre Stati membri, della loro firma fu dato dal fatto che il Parlamento danese aveva respinto<br />

il 21 gennaio 1986 il progetto di trattato, determinando con ciò una situazione politica che induceva i governi dei tre<br />

Stati a rinviare la propria firma. Tuttavia un successivo referendum popolare danese, prontamente convocato dal governo<br />

e svoltosi il 27 febbraio 1986, approvava invece l’Atto unico europeo, determinando l’immediata firma di esso anche<br />

da parte dei governi dei tre Stati membri. Per quanto riguarda l’Italia, il ritardo nell’avvenuta firma era stato determinato<br />

dalla risoluzione del Senato della Repubblica, che, in data 29 gennaio 1986, manifestava tutte le proprie riserve, con-


Nel suo Preambolo gli Stati membri affermavano:<br />

“Mossi dalla volontà di continuare l’opera intrapresa sulla base dei trattati che stabiliscono le Comunità Europee e di<br />

trasformare le relazioni come tali tra gli Stati in una Unione Europea, in accordo con la Dichiarazione solenne di Stoccarda<br />

del 19 giugno 1983,<br />

Risolti ad attuare questa Unione Europea sulla base, in primo luogo, delle Comunità, operando in accordo con le loro<br />

proprie norme, e, in secondo luogo, della Cooperazione europea tra gli Stati firmatari nella sfera di politica estera e a<br />

investire questa unione con i necessari mezzi d’azione,<br />

Determinati a lavorare insieme per promuovere la democrazia sulla base dei <strong>diritti</strong> fondamentali riconosciuti nelle Costituzioni<br />

e nelle leggi degli Stati membri, nella Convenzione per la protezione dei <strong>diritti</strong> umani e delle libertà fondamentali<br />

e nella Carta sociale europea, segnatamente la libertà, l’uguaglianza e la giustizia sociale,<br />

Convinti che l’idea europea, i risultati conseguiti nei campi dell’integrazione economica e della cooperazione politica, e<br />

il bisogno di nuovi sviluppi corrispondono ai desideri dei popoli democratici d’Europa, per i quali il Parlamento Europeo,<br />

eletto a suffragio universale, è un indispensabile mezzo d’espressione,<br />

Consapevoli della responsabilità incombente sull’Europa di mirare a parlare sempre più con una sola voce e di agire con<br />

coerenza e solidarietà allo scopo di proteggere più effettivamente i suoi interessi comuni e la sua indipendenza comune,<br />

in particolare di manifestare i principi della democrazia e del rispetto della legge e dei <strong>diritti</strong> umani, ai quali essi sono<br />

devoti, in modo tale che insieme essi possano arrecare il loro proprio contributo al mantenimento della pace e della sicurezza<br />

internazionali in accordo con l’impresa avviata a tal proposito da loro entro il quadro della Carta delle Nazioni<br />

Unite,<br />

Determinati a migliorare la situazione economica e sociale, estendendo le politiche comuni e perseguendo nuovi obiettivi,<br />

e ad assicurare un più agevole funzionamento delle Comunità, mettendo in grado le istituzioni di esercitare i loro<br />

poteri, a condizione che ciò sia al massimo in accordo con gli interessi della Comunità, […]”<br />

Veniva con ciò confermato lo scopo finale, quello di costruire un’Unione Europea, nonché i due<br />

mezzi per conseguirlo ossia quelli che sarebbero stati chiamati i due ”pilastri” dell’integrazione europea,<br />

da un lato le Comunità, basate sul metodo comunitario e aventi competenze sovrastatali in<br />

campo economico-sociale, e dall’altro lato la Cooperazione, basata sul metodo intergovernativo e<br />

rivolta al campo della politica estera e di sicurezza.<br />

Ma veniva anche confermato che ciò che teneva insieme questi due ambiti era la comune sottomissione<br />

di entrambi al principio fondamentale del rispetto dei <strong>diritti</strong> umani, così come sanciti in particolare<br />

dalla Convenzione decisa dal Consiglio d’Europa, e all’obiettivo della promozione, sulla base<br />

di essi, della democrazia.<br />

Quanto a quest’ultima si faceva intendere chiaramente che si doveva intendere per essa anche e soprattutto<br />

una democrazia europea, che trovava la sua insostituibile espressione rappresentativa nel<br />

Parlamento Europeo.<br />

Per quanto riguarda il secondo “pilastro” ossia quello della cooperazione europea in politica estera,<br />

si ponevano come scopi di quest’ultima la protezione degli interessi e dell’indipendenza<br />

dell’Europa nel mondo e insieme la promozione degli stessi obiettivi fondamentali della Comunità,<br />

i <strong>diritti</strong> umani, la legge e la democrazia, in tutto il mondo, nel supremo interesse della pace e della<br />

sicurezza internazionali e nell’osservanza della Carta delle Nazioni Unite.<br />

Per il primo “pilastro”, infine, quello delle Comunità, si confermava l’intento di estendere le loro<br />

competenze ad altri settori economici e sociali e perciò di introdurre le modifiche istituzionali necessarie<br />

a conseguire i nuovi obiettivi previsti.<br />

Il testo dell’Atto unico europeo prevedeva: a) delle disposizioni comuni; b) delle disposizioni che<br />

emendavano i trattati comunitari; c) delle disposizioni di trattato sulla cooperazione europea nella<br />

sfera di politica estera.<br />

Per quanto riguarda le disposizioni comuni, l’Atto unico a) sanciva che “le Comunità europee e la<br />

Cooperazione politica europea avranno a loro obiettivo di contribuire insieme a costruire un progresso<br />

concreto verso l’Unione Europea”, distinguendo accuratamente le diverse nature di tali due<br />

“pilastri” dell’integrazione europea, nonché b) riconosceva formalmente la specifica natura del<br />

divise dal Governo, sull’Atto unico europeo, in linea con i veri sentimenti del Parlamento Europeo. Anche al momento<br />

della firma italiana, il 28 febbraio 1986, tali riserve trovarono voce in una severa dichiarazione del Governo, reiterata<br />

poi, in termini analoghi, al momento della consegna dello strumento di ratifica.


Consiglio europeo come nuova istituzione specifica, posta al vertice sia delle istituzioni comunitarie,<br />

sia della cooperazione europea nella sfera di politica estera e composta dai capi di Stato o di governo<br />

e dal presidente della Commissione.<br />

Per quanto riguarda le disposizioni che emendavano i trattati comunitari, particolare risalto veniva<br />

dato a quelle che modificavano il trattato CEE, che riguardavano a) le disposizioni istituzionali e b)<br />

le disposizioni relative ai fondamenti e alla politica della Comunità.<br />

Per quanto riguarda le disposizioni istituzionali, veniva deciso:<br />

a) l’introduzione del principio generale della procedura di cooperazione del Consiglio con il Parlamento<br />

Europeo 87 (dotato quindi di potere decisionale) in ordine al varo degli atti giuridici più importanti<br />

della Comunità, anche se tale procedura veniva peraltro limitata ai casi in cui il Consiglio<br />

era autorizzato a decidere a maggioranza qualificata. L’avvento di tale procedura segnava comunque<br />

un potenziamento del ruolo del Parlamento Europeo nella Comunità.<br />

b) un aumento del numero dei casi in cui il Consiglio può decidere a maggioranza qualificata, con<br />

un sostanziale incremento dell’efficacia e della democraticità del processo decisionale comunitario.<br />

c) l’esplicita affermazione del diritto di ogni Stato europeo a diventare membro della Comunità e la<br />

necessità, per l’adesione a essa, dell’approvazione del Parlamento Europeo e di un voto favorevole<br />

del Consiglio all’unanimità.<br />

d) il conferimento dei poteri esecutivi (di applicazione delle norme comunitarie) ossia di “governo”<br />

della Comunità alla Commissione, che in tal modo si trovava pure essa rafforzata.<br />

e) la previsione di un tribunale di primo grado, accanto alla Corte di giustizia.<br />

Per quanto riguarda le disposizioni relative ai fondamenti e alla politica della Comunità, esse riguardavano:<br />

a) il mercato interno, b) la capacità monetaria 88 , c) la politica sociale, d) la coesione<br />

economica e sociale 89 , e) la ricerca e lo sviluppo tecnologico 90 e f) l’ambiente 91 . Tutti questi nuovi<br />

settori erano funzionali a una realizzazione equilibrata del primo, a proposito del quale si affermava:<br />

“La Comunità adotterà misure con l’intento di stabilire progressivamente il mercato interno lungo<br />

un periodo avente termine il 31 dicembre 1992, […]. Il mercato interno comprenderà un’area<br />

senza frontiere interne, nella quale sia assicurato […] il libero movimento di beni, persone, servizi e<br />

capitali.”<br />

Infine, per quanto riguarda le disposizioni di trattato sulla cooperazione europea nella sfera di politica<br />

estera 92 , veniva istituzionalizzato il meccanismo di una stabile cooperazione politica tra gli Stati<br />

membri in tale materia, con la creazione quindi del “secondo pilastro” del processo d’integrazione<br />

europea. Tale cooperazione restava comunque basata sul metodo intergovernativo. Tuttavia si dichiarava<br />

pure espressamente che “una più stretta cooperazione su questioni di sicurezza europea<br />

contribuirebbe in una via essenziale allo sviluppo di un’identità europea in materie di politica esterna.“<br />

In tal modo, già nell’Atto unico, alla politica estera si associava la politica di sicurezza (intesa<br />

nel senso della difesa e quindi delle forze armate) quale fattore di accelerazione nella formazione di<br />

un’effettiva e stabile volontà politica europea verso l’estero.<br />

Nonostante le novità introdotte dall’Atto unico europeo, l’insoddisfazione del Parlamento Europeo<br />

verso di esso fu quasi immediatamente palesata dalla sua risoluzione del 17 aprile 1986, nella quale<br />

invitava i Parlamenti nazionali a inserire, nello strumento di ratifica del nuovo trattato europeo, una<br />

dichiarazione in cui “essi constatano che l’Atto unico, malgrado qualche miglioramento che contiene,<br />

non costituisce l’Unione Europea e che gli sforzi per colmare il deficit democratico della costru-<br />

87<br />

Con l’Atto unico europeo veniva introdotta ufficialmente nei trattati costitutivi l’espressione “il Parlamento Europeo”<br />

(anziché “l’Assemblea”).<br />

88<br />

In funzione di essa veniva inserito nel trattato CEE (parte III, titolo II) un nuovo Capo 1, dal titolo “Cooperazione in<br />

materia di politica economica e monetaria (unione economica e monetaria)”.<br />

89<br />

In funzione di essa veniva aggiunto al trattato CEE (parte III) un nuovo Titolo V.<br />

90<br />

In funzione di tale settore veniva inserito nel trattato CEE (parte III) un nuovo Titolo VI.<br />

91<br />

In funzione di esso veniva aggiunto al trattato CEE (parte III) un nuovo titolo VII.<br />

92<br />

Tali disposizioni, in quanto collocate al di fuori della Comunità, ponevano l’Atto unico europeo nella posizione non<br />

solo di un trattato emendativo dei trattati costitutivi della CE, bensì anche di un trattato costitutivo di un’altra forma<br />

d’integrazione europea ovvero quella appunto della Cooperazione europea nella sfera della politica estera.


zione comunitaria devono essere proseguiti, associandovi strettamente il detentore della legittimità<br />

democratica a livello europeo, che è il Parlamento Europeo.”<br />

III. La bandiera europea e la Dichiarazione dei <strong>diritti</strong> del 1989<br />

A testimoniare la rinnovata attenzione per l’Europa del popolo, quale base ineludibile del varo<br />

dell’Unione Europea, e in particolare per il rafforzamento dell’immagine e dell’identità della Comunità<br />

presso i suoi cittadini, finalmente venivano varati i nuovi simboli della Comunità Europea,<br />

già propri del Consiglio d’Europa: il 29 maggio 1986 la bandiera europea veniva issata dinanzi alle<br />

sedi delle istituzioni comunitarie e in esse veniva suonato l’inno europeo. Nella sua dimensione appunto<br />

simbolica, si trattava in realtà di un grande evento: quella bandiera e quell’inno, che finora<br />

erano stati i simboli di una semplice organizzazione internazionale europea, che si limitava a conferire<br />

ai suoi Stati membri il grande compito del rispetto dei <strong>diritti</strong> umani, diventavano ora i simboli<br />

anche di un (prossimo) soggetto politico transnazionale e sovrastatale che intendeva far valere direttamente<br />

e in prima persona tali <strong>diritti</strong> umani nelle proprie istituzioni e in tutti i propri atti giuridici,<br />

aventi valore presso tutti i suoi Stati membri. 93<br />

Quasi a immediata riprova del nuovo indirizzo così decisamente imboccato, i presidenti di tre grandi<br />

istituzioni europee (Parlamento Europeo, Consiglio e Commissione) firmavano, l’11 giugno<br />

1986, una Dichiarazione congiunta contro il razzismo e la xenofobia. Il primo documento solenne<br />

della Comunità Europea sotto la nuova bandiera blu con il cerchio delle dodici stelle dorate era così<br />

una Dichiarazione a difesa dei più elementari <strong>diritti</strong> umani non tanto dei cittadini europei, quanto<br />

degli “ultimi” della casa comune europea, ultimi in ordine di tempo e in senso sociale, ossia dei cittadini<br />

di Paesi terzi (per lo più di altri continenti), che stavano ormai arrivando sempre più in massa<br />

nel territorio della Comunità. Di fronte al rigurgito del razzismo e della xenofobia da parte di cittadini<br />

europei nei loro confronti, la Dichiarazione faceva intendere che l’autentica identità europea<br />

consisteva in primo luogo proprio nel rispetto dei <strong>diritti</strong> umani come valori universali, da riconoscere<br />

e da far valere innanzi tutto nei confronti dei residenti extracomunitari. Quanto agli atteggiamenti<br />

condannati, si faceva riferimento non solo alla violenza, all’uso della forza, all’ostilità,<br />

all’intolleranza e alla discriminazione, bensì anche alla stessa segregazione. In un’epoca in cui appariva<br />

ormai chiara la tendenza all’involuzione demografica della Comunità, la conseguente necessità<br />

di nuova forza lavoro di origine esterna per lo sviluppo economico europeo e la prospettiva<br />

dell’insediamento stabile di decine di milioni di immigrati nel territorio della Comunità, la Dichiarazione<br />

ammoniva che anche il più ipocritamente “innocuo” degli atteggiamenti razzistici o xenofobici<br />

ossia la segregazione avrebbe portato a conseguenze esiziali per la coesione sociale della Comunità.<br />

In tal modo la Dichiarazione rigettava implicitamente la scelta del “multiculturalismo” come<br />

soluzione europea della convivenza civile tra cittadini europei e non europei, indicando invece<br />

come vero terreno comune di confronto e di incontro il comune riconoscimento de “la personalità e<br />

la dignità di ogni membro della società”.<br />

La realizzazione del programma dell’Europa del popolo veniva peraltro stimolata pure dal Consiglio<br />

europeo, che, nella sua riunione dell’Aja del 26-27 giugno 1986, denunciava i ritardi accumulati<br />

e invitava il Consiglio a provvedere al più presto nei seguenti settori: la facilitazione delle restrizioni<br />

sul traffico dei passeggeri nell’area di confine, il diritto di residenza e un sistema generale di<br />

mutuo riconoscimento dei diplomi, nonché a raggiungere un accordo nel futuro prossimo sulle seguenti<br />

aree: la cooperazione nell’area della salute pubblica (programma d’azione contro il cancro) e<br />

contatti intracomunitari tra studenti e università (Erasmus).<br />

In seguito a due nuove, ancora più decise, risoluzioni del Parlamento Europeo del 23 ottobre 1986<br />

(“sulle procedure di ratifica dell'Atto unico europeo nei Parlamenti nazionali e sulla realizzazione<br />

93 Sei giorni prima, il 23 maggio 1986, si era spento a Roma Altiero Spinelli. In riconoscimento del suo apporto fondamentale<br />

alla costituzione dell’allora neonata Unione Europea, il PE dedicherà nel 1993 una delle due ali della propria<br />

sede di Bruxelles al suo nome, l’edificio “Altiero Spinelli”, detto anche l’ala ”ASP”.


dell'Unione europea”) 94 e dell’11 dicembre 1986 (“sull’Atto unico europeo”, relatore: Luis Planas<br />

Puchades 95 ), di fatto solo l’Italia continuò a rispondere positivamente agli appelli del PE: dopo la<br />

ratifica parlamentare dell’Atto unico europeo, avvenuta con la legge del 23 dicembre 1986 n. 909, il<br />

governo italiano, all’atto del deposito dello strumento di ratifica il 30 dicembre 1986, ripresentava,<br />

infatti, una dichiarazione nettamente negativa su tale nuovo trattato, sostenendo la necessità di realizzare<br />

al più presto le indicazioni provenienti dal Parlamento Europeo per la realizzazione di istituzioni<br />

più democratiche e per la creazione dell’Unione Europea. 96<br />

Al termine del lungo processo delle ratifiche nazionali l’Atto unico europeo entrava in vigore il 1°<br />

luglio 1987. Ciò dava nuovo slancio alle iniziative miranti alla creazione del mercato interno, nonché<br />

a realizzare le necessarie azioni in tutti gli altri settori previsti dal nuovo trattato, impegnando<br />

notevolmente le istituzioni europee nei mesi e negli anni successivi.<br />

In particolare il Consiglio europeo di Hannover del 27-28 giugno 1988 decideva di estendere<br />

l’obiettivo, previsto dall’Atto unico, del rafforzamento della “capacità monetaria” europea a quello,<br />

rinnovato, di una compiuta unificazione economica e monetaria, quale naturale e necessario sviluppo<br />

del previsto mercato unico, e delegava un apposito Comitato, guidato dallo stesso presidente della<br />

Commissione europea, Jacques Delors, a studiare le tappe della realizzazione di essa.<br />

Ricollegandosi, peraltro, pure al programma sull’Europa del popolo, il Consiglio europeo di Hannover<br />

sottolineava l’importanza della rimozione degli ostacoli al libero movimento delle persone,<br />

nonché il bisogno di intensificare e ampliare la cooperazione tra le amministrazioni nazionali, in<br />

stretta collaborazione con la Commissione, al fine di assicurare misure effettive per combattere il<br />

terrorismo, l’abuso di droga e il crimine organizzato. Per la prima volta questa preoccupazione veniva<br />

fatta comparire come parte integrante del programma sull’Europa del popolo, con la conseguente<br />

prospettiva del varo di un terzo “pilastro” dell’integrazione europea, costituito da una “politica<br />

interna” comune.<br />

Nel frattempo continuava, peraltro, la instancabile denuncia, da parte del Parlamento Europeo, dei<br />

limiti intrinseci dell’Atto unico europeo (di fatto tutto teso alla realizzazione del solo mercato interno),<br />

con il conseguente rilascio, nello stesso giorno (17 luglio 1988), di ben tre risoluzioni parlamentari<br />

fortemente critiche e “rivoluzionarie”, sul “costo della “non-Europa”” (in termini sociali),<br />

sul “deficit democratico” e sulle “procedure per consultare i cittadini europei sull’unificazione politica<br />

europea”. In particolare l’ultima di esse dava l’avvio all’esecuzione del piano Spinelli, che sarà<br />

destinato, peraltro, a realizzarsi in un solo Stato membro ossia in Italia.<br />

Successivamente l’azione del Parlamento Europeo si indirizzò anche verso una costruzione più decisamente<br />

marcata della nuova dimensione della democrazia europea ossia della dimensione “regionale”.<br />

Con la risoluzione del 18 novembre 1988 “sulla politica regionale della Comunità e sul<br />

ruolo delle regioni” e l’acclusa “Carta della Comunità per la regionalizzazione” il Parlamento Europeo<br />

nella risoluzione stabiliva: 1) la politica regionale della Comunità ha sinora mancato di determinare<br />

un avvicinamento graduale delle disparità tra le regioni della Comunità; 2) le prossime tappe<br />

dell’integrazione europea (il mercato unico e la cooperazione monetaria) richiedono un rinnovato<br />

progresso verso la coesione economica e sociale; 3) i cambiamenti proposti alla politica regionale<br />

della Comunità; 4) la regionalizzazione nella Comunità come fattore di sviluppo e di coesione economica,<br />

della democratizzazione dell’integrazione della Comunità e dell’esaltazione di caratteristiche<br />

culturali (regionali); 5) tra le osservazioni finali, un appello agli Stati membri “a regionalizzare<br />

94<br />

Pochi giorni dopo, il 29 ottobre 1986, il Comitato affari istituzionali del PE decideva di portare avanti il piano Spinelli.<br />

95<br />

Luis Planas Puchades è stato membro spagnolo del PE nel gruppo del PSE dal 1986 al 1993.<br />

96<br />

Tale dichiarazione del governo italiano sarà poi resa nota, dopo l’entrata in vigore dell’Atto unico europeo, dal Comunicato<br />

del Ministero degli affari esteri pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 16 luglio 1987 n. 164, dove si affermava<br />

p.e.: “L’atto unico europeo non rappresenta, dunque, l’attuazione di quella riforma organica della Comunità europea<br />

per la quale il Governo italiano si è adoperato e che era stato auspicato dal Parlamento nazionale, in linea con le indicazioni<br />

fornite dall’Assemblea di Strasburgo.”, e in conclusione si affermava: “Infine, il Governo italiano fa presente che<br />

svolgerà ogni possibile azione volta a sensibilizzare i cittadini, i partiti, i movimenti di opinione sui problemi<br />

dell’Unione europea e sulle iniziative idonee a realizzarla.”


la loro struttura interna” e a tale scopo un rinvio all’acclusa “Carta della Comunità per la regionalizzazione”.<br />

Questa considerava le regioni quanto a definizione, ordinamenti istituzionali e confini<br />

(p.e. “si deve tener conto dei desideri della popolazione nella definizione dei confini delle Regioni”)<br />

, le istituzioni regionali (p.e. “uno Statuto regionale costituirà la base legale della struttura istituzionale<br />

di ogni Regione e formerà parte della legislazione nazionale al più alto livello legale possibile”),<br />

l’autorità (p.e. “le Regioni avranno il diritto di amministrare i loro propri affari”) e la finanza<br />

(p.e. “le Regioni godranno di autonomia finanziaria e di sufficienti risorse proprie allo scopo di esser<br />

capaci di esercitare pienamente la loro autorità”).<br />

Muovendo dalla critica all’insufficienza dei risultati della Comunità nel campo della politica regionale<br />

e ponendo una maggiore coesione economica e sociale come condizione di un’equilibrata e sostenibile<br />

realizzazione del mercato unico e della cooperazione monetaria, la risoluzione del PE in<br />

realtà la faceva dipendere a sua volta da una vera e propria “regionalizzazione” della Comunità ovvero<br />

dalla nascita dell’”Europa delle regioni”, come fattore propulsivo non solo dello sviluppo di<br />

ciascuna e della coesione tra tutte, ma anche della “democratizzazione” del processo d’integrazione<br />

comunitaria (sinora riservato fin troppo al Consiglio europeo, al Consiglio, ma anche agli Stati<br />

membri) e di esaltazione delle peculiarità culturali regionali (di contro all’uniforme cultura nazionale,<br />

vera base di consenso dello Stato membro come Stato nazionale). Lo scopo politico ultimo del<br />

PE era evidenziato soprattutto dall’invito diretto agli Stati membri a “regionalizzare la loro struttura<br />

interna” attraverso l’applicazione della “Carta”. Basata sulla semplice estensione del principio di<br />

sussidiarietà (sinora valido soprattutto nei confronti della Comunità) anche allo stesso Stato membro,<br />

essa poneva con ciò le basi del ridimensionamento dello Stato unitario come modello storico<br />

dello Stato nazionale e apriva la via a un’evoluzione di quest’ultimo verso la dimensione delle autonomie<br />

regionali, ma anche verso la soluzione del federalismo. 97 L’emersione delle Regioni<br />

all’interno di un nuovo Stato nazionale “federalistico” avrebbe dovuto comportare, come effetto<br />

immediato, quello di un ridimensionamento, per motivi interni, dello Stato membro nei confronti<br />

della Comunità, a tutto beneficio del processo democratico d’integrazione comunitaria. In effetti risalgono<br />

a quegli anni le affermazioni del tramonto o del declino o del ridimensionamento dello Stato<br />

nazionale sia per motivi esterni, sia per motivi interni a esso. E tuttavia gli eventi che nei successivi<br />

due decenni scuoteranno sempre più tutta l’Europa, prima al di fuori e poi al di dentro della<br />

Comunità, si incaricheranno di provare che tale ridimensionamento dello Stato non comporterà affatto,<br />

di per sé, l’emersione né di un’identità, né di un’appartenenza politica europea.<br />

In ogni caso tale risoluzione del Parlamento Europeo e soprattutto la “Carta” avvieranno il deciso<br />

coinvolgimento delle Regioni quali attori di primo piano nel sempre più sviluppato scenario della<br />

“democrazia partecipativa” europea dei decenni a venire.<br />

Infine, a coronamento della propria proposta di Unione Europea e all’avvicinarsi della scadenza del<br />

proprio mandato, il Parlamento Europeo votava prima la risoluzione del 16 febbraio 1989 “sulla<br />

strategia del Parlamento Europeo in vista della creazione dell’Unione Europea” e infine la<br />

Dichiarazione dei <strong>diritti</strong> e delle libertà fondamentali del 12 aprile 1989. Si trattava in effetti del primo<br />

solenne documento, con il quale l’Europa del popolo fondava idealmente l’Unione Europea, e<br />

dunque della prima pietra d’angolo di quest’ultima. 98<br />

97 Non a caso risale proprio a quegli anni la ventata di rinnovamento costituzionale per quanto riguarda le strutture amministrative<br />

locali in diversi Stati membri sino ad allora caratterizzati da un centralismo statale. Nel caso dell’Italia esso<br />

sarà preceduto e accompagnato anzi da un vero e proprio movimento della società civile, in particolare nelle regioni del<br />

Nord, dove si tradurrà anche nello sviluppo di partiti politici, inneggianti all’”Europa delle regioni”, che confluiranno,<br />

dopo la loro partecipazione alle elezioni europee del 1989, nella “Lega Nord”, nata a Bergamo il 22 novembre 1989 e<br />

mirante, a seconda del momento, all’autonomia, al federalismo o persino alla secessione. E soprattutto nel caso<br />

dell’Italia le modifiche costituzionali realizzatesi da allora in poi (riuscite o fallite) riprenderanno puntualmente i contenuti<br />

presenti nella “Carta della Comunità per la regionalizzazione”.<br />

98 Per tali suoi caratteri, la Dichiarazione intendeva ricongiungersi idealmente ad altri analoghi documenti come, in progressione<br />

crescente di richiamo, gli Statuti dei Comuni italiani, lo svizzero Patto di Rütli, la dichiarazione<br />

d’indipendenza della Repubblica delle Province Unite, l’inglese Bill of Rights del 1689, la Dichiarazione


Nella Risoluzione con cui il Parlamento Europeo adottava tale Dichiarazione si diceva infatti:<br />

“A. premesso che, come sottolineato nel preambolo dell’Atto unico, è essenziale promuovere la democrazia sulla base<br />

dei <strong>diritti</strong> fondamentali,<br />

B. premesso che il rispetto dei <strong>diritti</strong> fondamentali è indispensabile per la legittimazione della Comunità,<br />

C. premesso che spetta al Parlamento Europeo contribuire allo sviluppo di un modello di società che sia basato sul rispetto<br />

dei <strong>diritti</strong> e delle libertà fondamentali e della tolleranza,<br />

D. premesso che l’identità della Comunità rende essenziale dare espressione ai valori condivisi dei cittadini d’Europa,<br />

E. premesso che non ci può essere una <strong>cittadinanza</strong> europea, a meno che ogni cittadino non riceva un’uguale protezione<br />

dei suoi <strong>diritti</strong> e libertà nel campo d’applicazione della legge della Comunità,<br />

F. premesso che esso [il PE] è determinato a sostenere i suoi sforzi di promuovere il conseguimento di un’Unione Europea,<br />

G. premesso che esso [il PE] è determinato a conseguire uno strumento basilare della Comunità, con un carattere legalmente<br />

vincolante, che garantisca i <strong>diritti</strong> fondamentali,<br />

H. premesso che, nel frattempo, durante la ratifica di un tale strumento, il Parlamento riconferma i principi legali già<br />

accettati dalla Comunità,<br />

I. premesso che il completamento del mercato unico, programmato per il 1993, conferisce maggiore urgenza al bisogno<br />

di adottare una Dichiarazione dei <strong>diritti</strong> e delle libertà nella e per mezzo della legge della Comunità,<br />

J. premesso che è responsabilità del Parlamento Europeo, direttamente eletto dai cittadini d’Europa, redigere tale Dichiarazione,<br />

[…]<br />

Con tutte queste “premesse” il Parlamento Europeo esprimeva con grande lucidità la seguente prospettiva:<br />

lo stesso mercato unico europeo avrebbe fondato un’unica società civile europea, nella<br />

quale sarebbe stato impensabile non garantire, a livello comunitario, una serie (condivisa, perché<br />

culturalmente comune) di <strong>diritti</strong> e di libertà fondamentali, solo in virtù dei quali avrebbe avuto senso<br />

un’autentica <strong>cittadinanza</strong> europea. Tali <strong>diritti</strong> e libertà fondamentali avrebbero dovuto essere<br />

formulati e garantiti da parte di una Comunità, che, se da un lato avrebbe con ciò acquisito la sua<br />

definitiva identità e legittimazione presso i cittadini, dall’altro lato, con tale suo atto, si sarebbe con<br />

ciò trasformata in un vero e proprio soggetto politico ossia in un’Unione Europea, nell’ambito della<br />

quale sarebbe stato possibile promuovere un’effettiva democrazia europea. Condizione essenziale di<br />

tutto ciò avrebbe dovuto essere, peraltro, il fatto che tale Dichiarazione diventasse un vero e proprio<br />

“strumento basilare della Comunità” e come tale dotato di un “carattere legalmente vincolante” (attraverso<br />

un inserimento di essa nei trattati costitutivi, a seguito di un trattato emendativo, ratificato<br />

dagli Stati membri). In definitiva il Parlamento Europeo, già con queste motivazioni, poneva le<br />

premesse del lungo processo che avrebbe portato alla creazione della “Carta dei <strong>diritti</strong> fondamentali<br />

dell’Unione” e all’inserimento di essa nel Trattato costituzionale europeo e, ancora oggi, alla conferma<br />

del valore “legalmente vincolante” di essa.<br />

Per quanto riguarda la Dichiarazione come tale, già il suo preambolo era quanto mai illuminante:<br />

“IN NOME DEI POPOLI D’EUROPA,<br />

Premesso che, nella prospettiva di continuare e ravvivare l’unificazione democratica d’Europa, nella considerazione<br />

della creazione di un mercato interno senza frontiere e nella consapevolezza della particolare responsabilità del Parlamento<br />

Europeo riguardo al benessere degli uomini e delle donne, è essenziale che l’Europa riaffermi l’esistenza di una<br />

comune tradizione legale, basata sul rispetto della dignità umana e dei <strong>diritti</strong> fondamentali,<br />

Premesso che delle misure incompatibili con i <strong>diritti</strong> fondamentali sono inammissibili e nel richiamo al fatto che questi<br />

<strong>diritti</strong> derivano dai Trattati che stabiliscono le Comunità europee, dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri,<br />

dalla Convenzione europea per la protezione dei <strong>diritti</strong> umani e delle libertà fondamentali e dagli strumenti istituzionali<br />

vigenti, e sono stati sviluppati nelle sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee,<br />

Il Parlamento Europeo, conferendo espressione a questi <strong>diritti</strong>, qui adotta la seguente Dichiarazione, invita tutti i cittadini<br />

a sostenerla e la presenta al Parlamento che deve essere eletto nel giugno 1989. […]”<br />

Il preambolo conteneva infatti, in primo luogo, il decisivo motivo di legittimazione democratica “in<br />

nome dei popoli d’Europa”, che, se da un lato riconosceva la pluralità delle nazioni europee,<br />

dall’altro lato affermava l’esistenza di una insopprimibile fonte, direttamente popolare, di legittima-<br />

d’indipendenza degli Stati Uniti d’America e soprattutto la francese Dichiarazione dei <strong>diritti</strong> dell’uomo e del cittadino<br />

del 1789, di cui ricorreva in quell’anno il secondo centenario.


zione democratica dei fondamenti ultimi della convivenza civile europea. Tale volontà comune dei<br />

pur diversi popoli d’Europa veniva, in secondo luogo, giustificata in base all’esistenza di una loro<br />

comune cultura anche giuridica o anzi legale (“una comune tradizione legale”) e la faceva consistere<br />

precisamente nel “rispetto della dignità umana e dei <strong>diritti</strong> fondamentali”. E in terzo luogo faceva<br />

appello direttamente agli stessi “cittadini” europei, perché sostenessero tale Dichiarazione (con un<br />

evidente riferimento a un’accentuata partecipazione alle imminenti elezioni del PE).<br />

Per quanto riguarda il contenuto della Dichiarazione, esso consisteva in una serie di articoli, che dichiaravano<br />

altrettanti <strong>diritti</strong> e libertà fondamentali: la dignità dell’essere umano, il diritto alla vita,<br />

l’uguaglianza di fronte alla legge, la libertà di pensiero, la libertà di opinione e d’informazione, la<br />

tutela della vita privata (privacy), la protezione della famiglia, la libertà di movimento, il diritto di<br />

proprietà, la libertà di riunione, la libertà di associazione, la libertà di scegliere un’occupazione, il<br />

diritto a giuste condizioni di lavoro, i <strong>diritti</strong> sociali collettivi, il diritto all’assistenza sociale, il diritto<br />

all’educazione, il principio della democrazia, il diritto all’accesso all’informazione, il diritto<br />

all’accesso alla giustizia, l’irripetibilità del procedimento giudiziario per il medesimo reato (non bis<br />

in idem), la non retroattività della legge, l’abolizione della pena di morte, il diritto di petizione, il<br />

diritto a vivere in un ambiente sano e alla protezione del consumatore.<br />

L’ampio spettro di tali <strong>diritti</strong> e libertà fondamentali del cittadino europeo davano l’idea di quanto<br />

consistente e insieme peculiare fosse la “comune tradizione legale” europea, a cui la Dichiarazione<br />

si appellava. Ma ancor più importante era il fatto che la maggior parte di essi era riconosciuta a<br />

qualsiasi persona, anzi a qualsiasi essere umano risiedesse nel territorio della Comunità europea. I<br />

peculiari <strong>diritti</strong> dei cittadini europei veri e propri, identificati nei cittadini degli Stati membri, erano<br />

invece i seguenti:<br />

a) per quanto riguarda l’uguaglianza davanti alla legge,<br />

“3. Sarà proibita ogni discriminazione tra cittadini europei per motivi di nazionalità.”;<br />

b) per quanto riguarda la libertà di movimento,<br />

“1. I cittadini della Comunità avranno il diritto di muoversi liberamente e di scegliere la loro residenza entro il territorio<br />

della Comunità. Essi possono svolgere l’occupazione di loro scelta entro tale territorio.<br />

2. I cittadini della Comunità saranno liberi di lasciare il e ritornare nel territorio della Comunità.”;<br />

c) per quanto riguarda il principio della democrazia:<br />

“3. I cittadini europei avranno il diritto di prendere parte alle elezioni dei membri del Parlamento Europeo, per mezzo di<br />

un suffragio universale, libero, diretto e segreto.<br />

4. I cittadini europei avranno un uguale diritto a votare e a candidarsi per l’elezione.”.<br />

Si trattava di <strong>diritti</strong> di natura sia civile, sia politica, attribuiti a cittadini, che venivano ormai denominati<br />

“europei” o “della Comunità”, e non più “degli Stati membri”, in quanto proprio tale Dichiarazione<br />

voleva costituire la base giuridica di una nuova “<strong>cittadinanza</strong> europea”, prima ancora che<br />

quest’ultima fosse prevista dai trattati europei.<br />

Per quanto riguarda il “campo d’applicazione” di tale Dichiarazione, in essa si dichiarava:<br />

“1. La Dichiarazione offrirà protezione per ogni cittadino nel campo d’applicazione della legge della Comunità.<br />

2. Laddove siano posti certi <strong>diritti</strong> a parte per i cittadini della Comunità, può essere deciso di estendere tutti o parte di<br />

questi <strong>diritti</strong> ad altre persone.”<br />

Il primo punto chiariva: che tale Dichiarazione (una volta incardinata nei trattati costitutivi e quindi<br />

avente un vincolante valore legale) avrebbe comportato che la “legge della Comunità” ossia gli atti<br />

giuridici di essa aventi valore obbligante o vincolante avrebbero dovuto essere coerenti con i <strong>diritti</strong><br />

e le libertà fondamentali (sanciti dalla Dichiarazione stessa); che la Dichiarazione avrebbe perciò<br />

offerto una “protezione per ogni cittadino” europeo di fronte a qualsiasi eventuale violazione di tali<br />

<strong>diritti</strong> da parte non solo delle istituzioni comunitarie (nell’atto di proporre, predisporre, approvare e<br />

far eseguire la “legge”), bensì anche degli Stati membri (nell’atto di applicarla, attraverso la legislazione<br />

nazionale, nel rispettivo territorio); che “ogni cittadino” europeo avrebbe quindi potuto appellarsi<br />

sia ai tribunali nazionali, sia alla Corte di giustizia europea contro chiunque, per veder rispetta-


ti effettivamente tali <strong>diritti</strong>. In realtà tale primo punto conteneva pure delle conseguenze, peraltro<br />

ancora implicite, di ben più ampia portata. 99<br />

Il secondo punto, per certi versi, ancora più “rivoluzionario”, chiariva esplicitamente che, fatto salvo<br />

il principio che la <strong>cittadinanza</strong> europea era riservata solo ai cittadini degli Stati membri, esisteva<br />

la possibilità di estendere i <strong>diritti</strong> specifici di quest’ultima, in tutto o in parte, “ad altre persone”<br />

(non precisate, ma ravvisabili comunque negli o tra gli stranieri residenti nel territorio della Comunità)<br />

e soprattutto faceva intendere che il soggetto (non precisato) della decisione al riguardo non<br />

avrebbe potuto essere se non la stessa Comunità.<br />

Con l’adozione di tale impegnativo documento il Parlamento Europeo chiudeva la sua seconda legislatura<br />

e si procedeva quindi allo svolgimento delle nuove elezioni europee, svoltesi tra il 15 e il 18<br />

giugno 1989. Esse vedevano un’ulteriore leggera diminuzione dell’affluenza complessiva alle urne,<br />

pari al 58,5%, e soprattutto registrava un aumento del numero dei casi nazionali insoddisfacenti:<br />

Francia (48,7%), Paesi Bassi (47,2%), Danimarca (46,2%), nonché il caso preoccupante del Regno<br />

Unito (36,2%). E tuttavia, in occasione di tali elezioni, i “cittadini europei” d’Italia il 18 giugno<br />

1989 raccolsero l’appello citato del Parlamento Europeo in modo assolutamente speciale, in quanto<br />

parteciparono anche al referendum, che Spinelli aveva sognato si potesse svolgere in tutta la Comunità<br />

Europea, “sul conferimento di un mandato costituente al Parlamento europeo che sarà eletto nel<br />

1989”. 100 L’esito referendario fu il seguente: votanti 80,7%, voti validi 80,3%, risposte affermative<br />

88,0%. Con un simile risultato l’Italia diventava, fin da quel momento, lo Stato membro all’assoluta<br />

avanguardia nel movimento verso l’Unione Europea e anzi verso la “Costituzione Europea” e soprattutto<br />

assurgeva fin da subito per il Parlamento Europeo a modello esemplare da additare a tutti i<br />

“cittadini europei”. 101<br />

LA TERZA LEGISLATURA EUROPEA (1989-1994)<br />

Ciononostante il Consiglio europeo preferiva proseguire il proprio, diverso e più tortuoso, cammino<br />

verso l’Unione Europea. Il Consiglio europeo di Madrid del 26-27 giugno 1989 recepiva il rapporto,<br />

nel frattempo pervenuto, del Comitato Delors sull’unificazione economica e monetaria, stabilendo<br />

l’inizio della prima fase dell’attuazione di essa per il 1° luglio 1990, nonché prevedendo la creazione<br />

di un’apposita conferenza intergovernativa per studiare le fasi successive. 102 Quanto all’”Europa<br />

dei cittadini” (un’espressione dal significato equivalente a quella dell’Europa del popolo), il Consi-<br />

99 Tale Dichiarazione fondava infatti: a) la possibilità di una Comunità, che trovasse la propria ragion d’essere proprio<br />

nella tutela dei <strong>diritti</strong> e delle libertà fondamentali (presenti nella Dichiarazione) e perciò fosse legittimata a produrre atti<br />

legislativi, anzi vere e proprie “leggi” per trasformare quei <strong>diritti</strong> e quelle libertà in compiuti <strong>diritti</strong> civili e politici; b)<br />

un’inevitabile estensione perciò del campo d’applicazione della legge della Comunità a tutti i settori investiti dai contenuti<br />

di tali <strong>diritti</strong> ossia alla creazione soprattutto, ma non solo, del futuro “spazio di libertà, sicurezza e giustizia”.<br />

100 La determinazione del Governo (vedi nota 98), del Parlamento e della stessa società civile (soprattutto il Movimento<br />

federalista europeo) d’Italia nell’assicurare il massimo sostegno al Parlamento Europeo in ordine all’effettiva costruzione<br />

dell’Unione Europea condusse persino a una modifica straordinaria della Costituzione italiana, in quanto questa consente<br />

lo svolgimento solo di referendum abrogativi. Con l’apposita Legge costituzionale del 3 aprile 1989 n. 2, infatti,<br />

veniva introdotto il cosiddetto “referendum d’indirizzo”, ossia il principio del referendum consultivo. In questo (e tuttora<br />

unico) caso il quesito proposto era: “Ritenete voi che si debba procedere alla trasformazione delle Comunità europee<br />

in una effettiva Unione, dotata di un Governo responsabile di fronte al Parlamento, affidando allo stesso Parlamento europeo<br />

il mandato di redigere un progetto di Costituzione europea da sottoporre direttamente alla ratifica degli organi<br />

competenti degli Stati membri della Comunità?». Era proprio il piano Spinelli, espresso nei termini più semplici, ma<br />

anche più incisivi.<br />

101 Del resto, l’Italia degli anni Ottanta si segnalava nell’ambito della Comunità Europea anche dal punto di vista economico,<br />

avendo conosciuto, nei decenni di appartenenza a esse, uno sviluppo produttivo e commerciale tanto significativo,<br />

da averle consentito, nel 1986, di superare, nel PIL, lo stesso Regno Unito, diventando così la terza potenza economica<br />

d’Europa.<br />

102 A questa decisione, assunta a prescindere dall’obiettivo politico della costruzione dell’Unione Europea, il Parlamento<br />

Europeo avrebbe più tardi reagito con la vigorosa risoluzione del 23 novembre 1989 “sulla proposta conferenza intergovernativa”,<br />

dove anzi richiedeva, in nome di tale obiettivo, che in sede di CIG fossero riconosciuti al PE precisi<br />

poteri politici, nonché un diritto ”di veto sulle conclusioni della stessa CIG (vedi oltre).


glio europeo di Madrid sottolineava l’insufficienza delle misure sino ad allora realizzate. Infine rilevava<br />

che, nell’ambito dell’istituzione del mercato unico europeo, doveva essere data agli aspetti<br />

sociali la stessa importanza conferita agli aspetti economici.<br />

Effettivamente la realizzazione allora in corso del mercato interno stava portando sempre più alla<br />

luce la necessità che il compimento di quest’ultimo fosse accompagnato dall’emersione di una “dimensione<br />

sociale” della Comunità e soprattutto che questa trovasse un suo preciso riferimento<br />

nell’indicazione chiara di una serie di <strong>diritti</strong> sociali validi per tutti i lavoratori residenti nella Comunità,<br />

a prescindere dalla diversità degli Stati membri di residenza. Sotto la spinta di diverse risoluzioni,<br />

in merito, del Parlamento Europeo, il Consiglio europeo, nelle sue varie riunioni, aveva sempre<br />

più concordato con tale necessità, inducendo alla fine lo stesso Consiglio (dei ministri) a varare<br />

il 30 ottobre 1989 la “Carta dei <strong>diritti</strong> sociali fondamentali dei lavoratori” 103 (vedi qui i punti principali<br />

di essa).<br />

I. La caduta del muro di Berlino e la “corsa” verso l’Unione Europea<br />

Tale strategia complessa e tortuosa del Consiglio europeo verso la costruzione dell’Unione Europea<br />

era destinata ad andare incontro a un totale sconvolgimento di fronte a eventi ancora impensabili fino<br />

ad allora. Qualche giorno dopo, infatti, il mondo intero voltava pagina, chiudendo virtualmente il<br />

Novecento come “secolo breve” e in particolare la pluridecennale divisione dell’Europa in due<br />

blocchi contrapposti tra loro. Il 9 novembre 1989 crollava infatti il muro di Berlino e la Germania<br />

Est od Orientale ossia la comunista Repubblica Democratica Tedesca apriva le proprie frontiere con<br />

la Germania Ovest, preludio di un crollo generale dell’assetto geopolitico dell’intera Europa orientale.<br />

Il successivo Consiglio europeo di Strasburgo dell’8-9 dicembre 1989 fu quanto mai lucido e pronto<br />

nel valutare la situazione e agire di conseguenza. Infatti, nel quadro del secondo “pilastro” ossia<br />

della Cooperazione politica europea, esso emanava una Dichiarazione sull’Europa centrale e orientale,<br />

in cui sottolineava:<br />

“Ogni giorno nell’Europa centrale e orientale il cambiamento si sta affermando con sempre più forza. Dovunque è stata<br />

espressa una potente aspirazione verso la libertà, la democrazia, il rispetto dei <strong>diritti</strong> umani, la prosperità, la giustizia<br />

sociale e la pace. La gente sta mostrando chiaramente la propria volontà di prendere in mano il proprio destino e di scegliere<br />

il sentiero del proprio sviluppo. Un simile sviluppo profondo e rapido non sarebbe stato possibile senza la politica<br />

di apertura e di riforma condotta dal Sign. Gorbaciov.<br />

Esprimendo i sentimenti del popolo dell’intera Comunità, siamo profondamente rallegrati dai mutamenti in atto. Questi<br />

sono eventi storici e senza dubbio i più importanti dalla seconda guerra mondiale. Il successo di una Comunità Europea<br />

forte e dinamica, la vitalità del processo della CSCE e la stabilità nell’area della sicurezza, a cui partecipano gli Stati<br />

Uniti e il Canada, hanno grandemente contribuito ad essi.<br />

Questi mutamenti danno ragione alla speranza che la divisione in Europa possa essere superata, in accordo con gli intenti<br />

dell’Atto finale di Helsinki, […].<br />

Cerchiamo il rafforzamento dello stato di pace in Europa, nel quale il popolo tedesco riguadagnerà la sua unità attraverso<br />

una libera autodeterminazione. Questo processo avrà luogo in modo pacifico e democratico, nel pieno rispetto dei<br />

rilevanti accordi e trattati e di tutti i principi definiti dall’Atto finale di Helsinki, in un contesto di dialogo e di cooperazione<br />

fra l’Est e l’Ovest. Esso deve aver luogo anche nella prospettiva dell’integrazione europea. […]<br />

103 La “Carta sociale” varata dal Consiglio peraltro riceverà ben presto una drastica censura da parte del Parlamento Europeo,<br />

con la sua risoluzione del 22 novembre 1989 “sulla Carta comunitaria dei <strong>diritti</strong> sociali fondamentali”. In essa il<br />

PE pronunciava, tra l’altro, la seguente denuncia generale: “2. Considera che il progetto di Carta Sociale adottato dalla<br />

Commissione il 27 settembre 1989 costituisca un primo passo verso l’istituzione di <strong>diritti</strong> sociali fondamentali nella<br />

Comunità Europea, ma che esso rappresenti una soglia minima, sotto la quale il Consiglio Europeo non può andare; deplora<br />

l’annacquamento di molti punti nel testo emendato della Carta, accolto dal Consiglio dei ministri degli affari sociali<br />

il 30 ottobre 1989 per la trasmissione al Consiglio Europeo di Strasburgo; chiede al Consiglio di Strasburgo di rivedere<br />

e di migliorare il testo per preservare la sua credibilità a fronte delle aspettative dei cittadini della Comunità; deplora<br />

il fatto che la Carta non sia stata incorporata nella legge della Comunità per mezzo di strumenti vincolanti, come<br />

richiesto dal Parlamento Europeo.”


In questo periodo di profondo e rapido mutamento, la Comunità è e rimane un punto di riferimento e d’influenza. Essa<br />

rimane la pietra d’angolo di una nuova architettura europea e, nella sua volontà di apertura, un ormeggio per un futuro<br />

equilibrio europeo. […]<br />

La costruzione della Comunità deve perciò andare avanti: l’edificazione dell’Unione Europea permetterà l’ulteriore sviluppo<br />

di una serie di relazioni effettive e armoniose con gli altri Paesi d’Europa.”<br />

Era dunque chiara fin da subito la prospettiva di una Germania unificata e integrata nella Comunità<br />

europea, nonché della centralità di quest’ultima per tutto il continente nella storia a venire. E la conseguenza<br />

tratta era una sola: pervenire, il più presto possibile, alla meta finale ossia all’Unione Europea.<br />

Di conseguenza il Consiglio europeo di Strasburgo, stavolta nel quadro del primo “pilastro” ossia<br />

della Comunità Europea, dopo un intervento preliminare del presidente del Parlamento Europeo 104 e<br />

il successivo svolgimento dei lavori, prospettava la “nuova architettura europea” nei seguenti termini:<br />

“Il Consiglio europeo è conscio delle responsabilità che incombono sulla Comunità in questo periodo cruciale per<br />

l’Europa. I correnti mutamenti e le prospettive di sviluppo in Europa dimostrano l’attrazione che il modello politico ed<br />

economico dell’Europa della Comunità esercita per tanti Paesi.<br />

La Comunità deve ravvivare questa aspettativa e queste domande: il suo sentiero si trova non nel ritiro, bensì<br />

nell’apertura e nella cooperazione con gli altri Stati europei.<br />

E’ nell’interesse di tutti gli Stati europei che la Comunità diventi più forte e acceleri il suo progresso verso l’Unione Europea.”<br />

In queste poche frasi era già contenuta la chiara consapevolezza della prospettiva di una richiesta di<br />

adesione di parecchi Paesi dell’Europa centrale e orientale alla Comunità, dell’impossibilità di un<br />

rifiuto di essa a tali richieste e quindi della imperiosa necessità di un suo rafforzamento, ottenibile<br />

solo attraverso una più rapida realizzazione dell’Unione Europea. Emergevano perciò, già fin<br />

d’allora, le due dimensioni concomitanti dell’integrazione europea, che costituiranno il duplice motivo<br />

conduttore dell’intera storia europea successiva sino a oggi: quella estensiva dell’allargamento<br />

e quella intensiva dell’approfondimento dell’Europa unita.<br />

Rispetto al fine ultimo di una più rapida costruzione dell’Unione Europea, il Consiglio europeo di<br />

Strasburgo indicava i seguenti mezzi:<br />

1) la realizzazione dell’Atto unico. Questo significava completare, entro la scadenza prevista (31<br />

dicembre 1992), il mercato interno e insieme realizzare i seguenti progetti di larga scala:<br />

a) un’area senza frontiere interne<br />

b) politiche collaterali (in particolare per la coesione economica e sociale)<br />

c) l’ambiente<br />

d) la ricerca<br />

e) il settore “audiovisivo” 105<br />

f) il libero movimento delle persone e l’Europa del popolo 106<br />

104 Il Consiglio europeo di Strasburgo del dicembre 1989 ebbe un carattere storico anche perché in occasione di esso<br />

venne inaugurata la prassi, in base alla quale l’apertura dei lavori consiste nell’audizione da parte dei suoi membri di un<br />

discorso del presidente del Parlamento Europeo (espressione della volontà politica dei cittadini europei), con cui viene<br />

comunicata la posizione del PE sui temi all’ordine del giorno del Consiglio europeo. Tale prassi si colloca all’interno<br />

del quadro generale della cooperazione interistituzionale europea.<br />

105 Tale settore era considerato di grande importanza, dal momento che “l’impegno dei cittadini nei confronti dell’idea<br />

europea dipende da positive misure prese per esaltare e promuovere la cultura europea nella sua ricchezza e diversità.”<br />

106 A tal proposito il Consiglio europeo affermava: “Tutte le politiche della Comunità nelle sfere economica e sociale<br />

contribuiscono direttamente e indirettamente a consolidare un senso comune di appartenenza. Questo movimento deve<br />

essere allargato e accelerato attraverso l’adozione di concrete misure che metteranno in grado i cittadini europei di riconoscere<br />

nelle loro vite quotidiane che essi appartengono a un’unica entità.<br />

Il Consiglio europeo sottolinea l’importanza, a questo riguardo, della progressiva abolizione delle formalità alle frontiere<br />

interne della Comunità, che impediscono il libero movimento delle persone e simbolizzano la divisione, […]<br />

Il Consiglio europeo saluta i significativi risultati ottenuti dalla realizzazione dei programmi sugli scambi di giovani e di<br />

studenti (Erasmus, Comett, Lingua), che contribuiscono a sviluppare la consapevolezza europea, come lo farà


g) la dimensione sociale (vedi oltre)<br />

2) l’avvio del compimento dell’unione economica e monetaria (UEM) (con la conferma dell’avvio<br />

della prima fase per il 1° luglio 1990, la convocazione entro il 1990 di una conferenza intergovernativa,<br />

incaricata di studiare le fasi finali e di preparare emendamenti ai trattati vigenti in vista di un<br />

nuovo trattato sull’UEM, e il varo dell’UEM entro le elezioni del Parlamento Europeo del 1994)<br />

3) l’azione esterna della Comunità, all’insegna della responsabilità e della solidarietà verso i Paesi<br />

terzi nel mondo e in particolare in Europa (con l’apertura alla progressiva loro integrazione nella<br />

Comunità).<br />

Nell’ambito di tale corposo programma spiccava in particolare la “dimensione sociale”, con la conseguente<br />

adozione, da parte del Consiglio europeo (con l’eccezione significativa della Gran Bretagna),<br />

della citata “Carta dei <strong>diritti</strong> sociali fondamentali dei lavoratori”.<br />

Nonostante i suoi limiti intrinseci (diversità di trattamento nei confronti dei lavoratori di Paesi terzi<br />

e di quelli con contratti temporanei 107 e applicazione lasciata alla discrezionalità degli Stati membri)<br />

e il carattere legalmente non vincolante di essa (già denunciati dal Parlamento Europeo) e l’assenza<br />

dell’adesione britannica, la “Carta sociale” ebbe il merito di far rientrare la “dimensione sociale”<br />

europea nel campo dei <strong>diritti</strong> umani della Comunità, con veri e propri <strong>diritti</strong> sociali (oltre a quelli<br />

economici, civili e politici), che saranno perciò recepiti dalla futura “Carta dei <strong>diritti</strong> fondamentali<br />

dell’Unione”, e perciò di porre le premesse giuridiche di una legislazione sociale europea. Anzi,<br />

proprio la perdurante assenza di un’adeguata legislazione sociale europea sarà uno dei motivi<br />

d’insoddisfazione dei cittadini europei della Francia, che li condurrà a respingere il futuro TCE nel<br />

2005.<br />

In ogni caso il complessivo programma d’azione della Comunità Europea, qual era previsto dal<br />

Consiglio europeo di Strasburgo, ricevette anch’esso un’accoglienza con decisive riserve da parte<br />

del Parlamento Europeo, che, nella sua risoluzione del 14 dicembre 1989 “sul Consiglio europeo di<br />

Strasburgo e sui sei mesi in carica della presidenza francese”, faceva notare la persistente assenza di<br />

un impegno concreto per la costruzione immediata dell’Unione Europea.<br />

La successiva presidenza irlandese del Consiglio europeo (iniziata il 1° gennaio 1990) proponeva<br />

allora di organizzare una “pre-conferenza interistituzionale”, da svolgersi nei primi mesi del 1990,<br />

al fine di venire in chiaro sugli obiettivi della programmata conferenza intergovernativa, e successivamente<br />

delle “assise” con membri dei Parlamenti nazionali, da svolgersi in connessione con la<br />

CIG.<br />

Questa iniziativa della presidenza irlandese del Consiglio europeo dava allora occasione al Parlamento<br />

Europeo di precisare tutti i propri obiettivi generali, attraverso l’approvazione della<br />

risoluzione del 14 marzo 1990 “sulla conferenza intergovernativa nel contesto della strategia del<br />

Parlamento Europeo per l’Unione Europea” (relatore: David Martin 108 ). In questa risoluzionechiave<br />

ai fini della comprensione degli sviluppi successivi del processo d’integrazione europea sino<br />

a oggi, il PE sosteneva:<br />

“B. premesso che è sempre più necessario trasformare rapidamente la Comunità Europea in un’Unione Europea di tipo<br />

federale e che vada al di là del mercato unico e dell’unione economica e monetaria; […]<br />

3. (a) Conferma la sua decisione di convocare una pre-conferenza, che coinvolga il Parlamento Europeo, la Commissione<br />

e il Consiglio, per la proposta di:<br />

l’introduzione imminente di una Carta sanitaria di emergenza europea e di una “Carta della gioventù europea”. In modo<br />

simile, il Consiglio europeo saluta in particolare il decisivo progresso fatto di recente verso l’accordo sulla garanzia a<br />

tutti i cittadini della Comunità del diritto di residenza nello Stato membro di loro scelta. Questa importante misura, la<br />

cui adozione è prevista prima della fine dell’anno, rappresenta un importante passo verso l’integrazione dei popoli della<br />

Comunità. […] ”<br />

107 A questo proposito la citata risoluzione del PE del 22 novembre 1989 aveva argomentato profeticamente il proprio<br />

disaccordo su: “la restrizione di numerosi <strong>diritti</strong> a quelli in impiego “non temporaneo”, che pone un pericoloso punto<br />

interrogativo nei confronti del destino dei lavoratori impiegati temporaneamente in uno Stato membro diverso dal loro<br />

proprio e che può condurre al dumping sociale.” Quindici anni dopo quest’ultimo spettro sarebbe divenuto un vero e<br />

proprio incubo per il popolo francese.<br />

108 David Martin è dal 1984 membro britannico del PE nel gruppo del PSE.


- preparare il mandato della conferenza intergovernativa;<br />

- stabilire la natura della partecipazione del Parlamento nella conferenza intergovernativa; […]<br />

(d) Richiede che questa pre-conferenza cominci nella primavera 1990 e continui i suoi lavori finché le parti […] non<br />

abbiano raggiunto un accordo comune;<br />

4. Dà istruzione ai suoi rappresentanti alla pre-conferenza d’insistere perché siano inclusi nell’agenda della conferenza<br />

intergovernativa i seguenti punti:<br />

(a) la creazione di un’unione economica e monetaria secondo una tabella di marcia specifica, automatica e mandataria,<br />

tra i dodici Stati membri della Comunità Europea o, se del caso, tra quelli che la vogliano;<br />

(b) una razionalizzazione degli strumenti della Comunità per le relazioni esterne, in particolare la piena integrazione<br />

della CPE nel quadro della Comunità, includendo il conferimento alla Commissione di poteri del tipo di quelli che possiede<br />

in altre aree della politica della Comunità, al fine di realizzare definitivamente le politiche estera e di sicurezza<br />

comuni al servizio della pace;<br />

(d) l’inserimento nei trattati della Dichiarazione sui <strong>diritti</strong> e sulle libertà fondamentali adottata dal Parlamento il 12 aprile<br />

1989 e delle disposizioni promuoventi un’Europa dei cittadini e la preservazione della diversità culturale dell’Europa;<br />

(e) ulteriori miglioramenti nella capacità decisionale del Consiglio, in particolare disponendo [l’uso] sistematico del voto<br />

a maggioranza;<br />

(f) un rafforzamento dei poteri della Commissione per applicare la legislazione della Comunità ed eseguire i suoi programmi<br />

e le sue politiche;<br />

(g) la riforma del sistema delle risorse proprie della Comunità;<br />

(h) il riconoscimento, a livello della Comunità, della duplice legittimazione conferita al Consiglio da una parte e al Parlamento<br />

Europeo dall’altra parte, attraverso il conferimento al Parlamento dei poteri elencati nella sua risoluzione del 23<br />

novembre 1989:<br />

- co-decisione con il Consiglio sulla legislazione della Comunità,<br />

- diritto d’iniziativa legislativa,<br />

- diritto di eleggere il presidente della Commissione e di dare il suo assenso alla nomina della Commissione, della Corte<br />

di giustizia e della Corte dei conti;<br />

- diritto d’inchiesta (o d’indagine) entro il quadro dei poteri della Comunità;<br />

- ratifica di tutte le decisioni costituzionali che richiedono ratifica anche da parte degli Stati membri;<br />

- co-decisione negli accordi esterni e nelle convenzioni internazionali, attraverso un’estensione della procedura di consenso<br />

parlamentare a tutti gli accordi di maggiore importanza, inclusi gli accordi di commercio.<br />

Infine [la pre-conferenza] considererà pure il futuro istituzionale dell’Europa, in vista di dare istruzione al Parlamento<br />

Europeo di completare il progetto di Costituzione dell’Unione Europea e di come meglio assicurare la cooperazione<br />

dei Parlamenti nazionali nelle “assise” in connessione con l’imminente conferenza intergovernativa; nella futura costruzione<br />

dell’Unione Europea; e in particolare nel lavoro del Parlamento Europeo;<br />

5. Rinnova la richiesta, contenuta nella sua risoluzione del 23 novembre 1989, che le proposte della conferenza intergovernativa<br />

siano sottoposte al Parlamento Europeo e che i governi riconoscano il suo diritto a emendarle e ad adottarle;<br />

[…]<br />

8. Riafferma il suo impegno a redigere un progetto di Costituzione Europea e a discutere le sue proposte con i Parlamenti<br />

nazionali;<br />

9. Rinnova il suo impegno a fare in modo che le sue proposte siano adottate attraverso tutti i mezzi democratici, in particolare<br />

mobilitando l’opinione pubblica europea e i suoi rappresentanti democraticamente eletti;<br />

10. Richiama la sua posizione, in base alla quale, benché la partecipazione all’Unione Europea non possa essere imposta<br />

a nessuno Stato contro il suo volere, d’altra parte nessun singolo Stato può bloccare la volontà della maggioranza di<br />

ottenere l’Unione Europea e, se necessario, una tale Unione sarà posta in essere senza la partecipazione fin dall’inizio di<br />

tutti gli Stati membri della Comunità.”<br />

Questa risoluzione del PE ha un’importanza fondamentale, perché dimostrava:<br />

a) l’assoluta determinazione a perseguire una rapida realizzazione dell’Unione Europea, in presenza<br />

sia di un forte supporto popolare (testimoniato dal referendum italiano del 1989 e dai sondaggi<br />

dell’opinione pubblica europea del tempo), sia dell’impossibilità di realizzare da un lato la stessa<br />

unione economica e monetaria (e quindi le connesse politiche interne comuni) e dall’altro lato una<br />

vera politica estera e di sicurezza comune (quanto mai necessaria e urgente di fronte agli epocali<br />

mutamenti in atto allora in Europa), senza l’adeguato quadro politico-istituzionale offerto<br />

dall’Unione Europea;<br />

b) la chiarezza esplicita nel definire tale Unione Europea come “di tipo federale”; in tal modo il federalismo<br />

cessava di essere un’utopia propria dei membri del movimento omonimo e diventava invece<br />

la posizione ufficiale dell’unica istituzione europea eletta direttamente dai cittadini;


c) la determinazione a inserirsi immediatamente in prima persona nella dinamica del processo<br />

d’integrazione europea, contribuendo a redigere un mandato della programmata conferenza intergovernativa<br />

secondo un approccio globale;<br />

d) la volontà di irrobustire la prospettiva della realizzazione dell’unione economica e monetaria, esigendo<br />

al proposito una tabella di marcia “automatica” (il che avverrà effettivamente) e<br />

l’introduzione della possibilità per qualche Stato membro di non aderirvi (il che avverrà effettivamente);<br />

e) la volontà di superare la struttura a “due pilastri” (la Comunità e la Cooperazione politica) al fine<br />

del raggiungimento di un’effettiva politica estera e di sicurezza comune, proprio in quanto riportata<br />

nel quadro della Comunità;<br />

f) la determinazione a legittimare tale Unione Europea attraverso l’inserimento nei trattati (e quindi<br />

con il conferimento del relativo vincolo legale) del vero vertice di essa ossia della “Dichiarazione<br />

dei <strong>diritti</strong> e delle libertà fondamentali” già varata dal PE, nonché dei “<strong>diritti</strong> speciali” dei cittadini<br />

europei già previsti;<br />

g) la volontà di migliorare l’efficacia e l’efficienza delle istituzioni europee, attraverso<br />

l’introduzione dell’uso sistematico del voto a maggioranza per il Consiglio, il rafforzamento dei poteri<br />

esecutivi della Commissione, una maggiore autonomia e autosufficienza finanziaria della Comunità<br />

e soprattutto il riconoscimento del principio della “doppia sovranità” dell’Unione (degli Stati<br />

e dei cittadini) e quindi della condivisione della legislazione e della stessa ratifica degli accordi<br />

internazionali da parte del Consiglio (per gli Stati) e del Parlamento Europeo (per i cittadini);<br />

h) la volontà politica chiara di avocare al PE non solo un diritto d’iniziativa legislativa e quello di<br />

controllo su tutte le attività dell’Unione, ma anche l’elezione del presidente della Commissione e la<br />

fiducia a quest’ultima (secondo il quesito del referendum italiano del 1989), trasformando così la<br />

Commissione in un vero e proprio Governo dell’Unione e conferendo a quest’ultima un regime politico<br />

di tipo compiutamente parlamentare e perciò democratico;<br />

i) la volontà fondamentale di dare dignità giuridica e democratica adeguata a tutte queste trasformazioni,<br />

necessarie a creare l’Unione Europea, attraverso il varo di una Costituzione dell’UE, nonché<br />

di attribuire al PE il potere costituente dell’UE ossia di trasformarsi in assemblea costituente e di<br />

redigere un progetto di Costituzione Europea (secondo il quesito del referendum italiano del 1989),<br />

che avrebbe dovuto essere sottoposto all’esame non già di un’ennesima CIG, bensì degli stessi Parlamenti<br />

nazionali, riuniti nelle “assise”, in vista del testo finale, che avrebbe dovuto essere ratificato<br />

non solo dagli Stati membri, ma anche dallo stesso Parlamento Europeo;<br />

l) la “rivoluzionaria” volontà di ricorrere, per l’approvazione della Costituzione Europea, agli strumenti<br />

non solo della “democrazia rappresentativa” (PE e Parlamenti nazionali), bensì anche della<br />

“democrazia partecipativa”, attraverso la mobilitazione dell’”opinione pubblica europea” (invece<br />

che delle opinioni pubbliche nazionali), un termine ancora sconosciuto sino ad allora, ma di spessore<br />

estremamente significativo, in quanto andava a prefigurare una società civile europea politicamente<br />

orientata; e quindi l’implicito suggerimento della convocazione di un apposito “referendum<br />

popolare paneuropeo” (anziché una serie di referendum nazionali) sulla Costituzione Europea, che<br />

avrebbe avallato nel modo più diretto ed esplicito la nascita della “democrazia europea”;<br />

m) la determinazione a far entrare in vigore una simile Costituzione, approvata in tal modo, anche<br />

se fosse mancata la ratifica, parlamentare o referendaria, nazionale in qualche Stato membro e quindi<br />

la sua partecipazione all’UE, con il conseguente abbandono della regola dell’unanimità anche nel<br />

caso delle ratifiche della Costituzione.<br />

Per tutti questi suoi caratteri, la risoluzione del PE del 14 marzo 1990 ha un’importanza storica,<br />

perché prefigurava in tal modo tutti i termini del problema e delle soluzioni o delle mancate soluzioni<br />

di esso che l’UE avrebbe conosciuto sino a oggi, attraverso le loro successive tappe, dalla fondazione<br />

dell’Unione Europea alla convocazione di una prima Convenzione, che avrebbe varato la<br />

“Carta dei <strong>diritti</strong> fondamentali dell’Unione”, a una seconda Convenzione, che avrebbe varato il<br />

Trattato istitutivo della Costituzione Europea, sino alle mancate ratifiche da parte di taluni Stati


membri e persino al progetto, tuttora proprio del movimento federalista europeo, dell’indizione di<br />

un referendum popolare paneuropeo.<br />

A maggior ragione tale risoluzione del PE ebbe effetti fulminei a breve e anzi a brevissimo termine.<br />

109 Tuttavia il vero fattore di successo della risoluzione del PE e quindi della rimessa in discussione<br />

delle conclusioni del Consiglio europeo di Strasburgo fu dato dal carattere esplosivo della<br />

stessa situazione internazionale ovvero dalla impressionante rapidità con cui si stavano svolgendo<br />

gli eventi nell’Europa centro-orientale. Di fronte alla crisi del Comecon, del Patto di Varsavia e dei<br />

regimi comunisti nei vari Paesi europei e soprattutto nella Germania Est e quindi nella prospettiva<br />

di un’ormai imminente unificazione della Germania, la stessa comunità internazionale facente capo<br />

all’ONU e in particolare alla CSCE fu orientata a permettere tale evento (inconcepibile e comunque<br />

inammissibile per tanti decenni) solo alla condizione che la nuova Germania unificata fosse integrata<br />

a sua volta in una Comunità Europea, che fosse peraltro rafforzata a tal punto da divenire subito<br />

un vero e proprio soggetto politico transnazionale e sovrastatale, in grado di rendere impossibile<br />

un’indipendenza tedesca (anche e soprattutto per quanto riguarda la politica estera e di sicurezza),<br />

ossia appunto l’Unione Europea. 110 Di conseguenza la costruzione di quest’ultima ricevette la sua<br />

più drammatica accelerazione (anche rispetto ai tempi pur rapidi previsti dalla stessa risoluzione del<br />

PE). Infatti il successivo (e straordinario) Consiglio europeo di Dublino del 28 aprile 1990 stabilì:<br />

“è stato raggiunto un punto in cui l’ulteriore sviluppo dinamico della Comunità è diventato un imperativo, non solo perché<br />

corrisponde all’interesse diretto dei dodici Stati membri, ma anche perché è diventato un elemento cruciale nel progresso<br />

che è stato fatto nello stabilire un quadro affidabile per la pace e la sicurezza in Europa. Il Consiglio europeo<br />

conferma in questo contesto il suo impegno nei confronti dell’unione politica e decide che i ministri degli esteri condurranno<br />

un esame dettagliato del bisogno di possibili cambiamenti di trattato e prepareranno proposte per il Consiglio europeo.”<br />

Era l’inizio del conto alla rovescia del lancio dell’Unione Europea. 111<br />

A questo lancio contribuiva poi il pronunciamento della Corte europea di giustizia del 22 maggio<br />

1990, che statuiva che il Parlamento Europeo può essere rinviato alla Corte di giustizia da altre istituzioni<br />

e che altre istituzioni possono essere rinviate alla Corte di giustizia dal Parlamento Europeo,<br />

se viene messo in causa l’equilibrio istituzionale. Era la più nitida affermazione del principio, tipico<br />

dello Stato di diritto, della separazione dei poteri e quindi dell’esame reciproco e dell’equilibrio<br />

complessivo delle istituzioni, nonché del ruolo di tale Corte anche come “Corte Costituzionale”, e<br />

con ciò si trattava dunque della seconda pietra d’angolo della futura Unione Europea.<br />

Nella prospettiva della futura integrazione dei Paesi dell’Europa centrale e orientale all’Europa unita,<br />

veniva poi firmato a Parigi il 29 maggio 1990 l’accordo istitutivo della Banca europea per la ricostruzione<br />

e lo sviluppo (BERS), avente ad obbligatorio azionista di riferimento la stessa Comunità<br />

Europea in quanto tale e destinata a fornire a tali Paesi un sostegno finanziario, necessario a far<br />

109 Già pochi giorni dopo, il 20 marzo 1990 appariva il memorandum del governo belga che l’appoggiava e soprattutto il<br />

giorno successivo, il 21 marzo 1990 il Parlamento italiano adottava ben tre risoluzioni con le quali non solo la sosteneva,<br />

ma anche si mostrava disponibile ad accogliere le “assise” tra il Parlamento Europeo e i Parlamenti nazionali, previste<br />

per l’ottobre 1990.<br />

110 Decisiva fu la presa di posizione francese del 25 marzo 1990, che manifestava la volontà di vedere realizzata<br />

l’Unione politica dell’Europa prima del 31 dicembre 1992, e il conseguente messaggio congiunto franco-tedesco alla<br />

presidenza irlandese del Consiglio europeo con cui si richiedeva la convocazione di una seconda CIG sull’Unione politica<br />

con finalità analoghe a quelle presenti nella risoluzione del PE.<br />

111 In particolare, riprendendo i termini della proposta franco-tedesca, si prevedeva:<br />

“1) sarà condotto un esame dettagliato sulla necessità di possibili modifiche dei trattati con l’intento di rafforzare la legittimità<br />

democratica dell’Unione, di rendere capaci la Comunità e le sue istituzioni di rispondere efficientemente ed<br />

efficacemente alle richieste della nuova situazione e di assicurare unità e coerenza nell’azione internazionale<br />

dell’Unione;<br />

2) i ministri degli esteri intraprenderanno questo esame e quest’analisi e prepareranno delle proposte che dovranno essere<br />

discusse nel Consiglio europeo di giugno, in vista di una decisione sullo svolgimento di una seconda conferenza<br />

intergovernativa che lavori in parallelo con la conferenza sull’unione economica e monetaria in vista della ratifica da<br />

parte degli Stati membri nello stesso periodo di tempo.”


fronte ai risultati del totale fallimento economico dei regimi comunisti, vero motivo determinante<br />

della loro crisi. In tal modo la BERS, proiezione finanziaria della Comunità Europea, sarebbe stata<br />

destinata a svolgere per tali Paesi un ruolo analogo a quello giocato a suo tempo dall’americano<br />

Piano Marshall per i Paesi dell’Europa occidentale.<br />

A maggior ragione, nella prospettiva della immediata costruzione di un’Unione Europea, basata innanzi<br />

tutto sulla preliminare realizzazione dell’Atto unico e in particolare sulla creazione di<br />

“un’area senza frontiere interne”, che richiedeva in primo luogo una cooperazione in materia di<br />

“politica d’asilo”, 112 veniva firmata in successione da tutti gli Stati membri la Convenzione di Dublino<br />

del 15 giugno 1990 (con firma rinnovata a Roma il 7 dicembre 1990 e a Lussemburgo il 13<br />

giugno 1991) “sulla determinazione dello Stato competente per l'esame di una domanda di asilo<br />

presentata in uno degli Stati membri delle Comunità Europee”, primo atto di quella “cooperazione<br />

nei settori della giustizia e degli affari interni”, che costituirà il “terzo pilastro” della futura Unione<br />

Europea.<br />

Come effetto immediato della prima firma della Convenzione di Dublino e della perdurante assenza<br />

di un accordo globale comunitario in materia di “libera circolazione delle persone”, i cinque Stati<br />

membri firmatari dell’accordo originario di Schengen del 1985 decidevano di darne piena esecuzione<br />

con la firma della Convenzione d’applicazione del 19 giugno 1990, con la quale Belgio, Paesi<br />

Bassi, Lussemburgo, Francia e Germania davano inizio alla soppressione graduale dei controlli alle<br />

frontiere comuni. Ormai veniva perciò delineandosi il precedente di una “cooperazione rafforzata”<br />

tra un adeguato numero di Stati membri (che si sarebbe presto esteso ad altri ancora), la possibilità<br />

giuridica della quale sarà recepita successivamente all’interno dei futuri trattati come un modo strutturale<br />

di far avanzare il processo d’integrazione europea. In particolare l’accordo di Schengen verrà<br />

successivamente integrato, attraverso i futuri trattati, all’interno dell’acquis comunitario ossia delle<br />

acquisizioni giuridiche del diritto europeo, diventando uno degli obiettivi più ambiti dei futuri nuovi<br />

Stati membri. E oggi è anzi l’elemento più sensibilmente evidente dell’integrazione europea per<br />

chiunque viaggi all’interno dell’Europa unita.<br />

In tale dinamismo generale si svolgeva poi il Consiglio europeo di Dublino del 25-26 giugno 1990,<br />

che era già in grado di disporre di uno schema di progetto di Unione Politica, 113 che prevedeva una<br />

serie di quesiti per ognuno di questi punti di per sé irrinunciabili: a) l’obiettivo generale dell’Unione<br />

Politica, quanto a scopi, aspetti istituzionali e principi generali; b) la legittimazione democratica; c)<br />

l’efficienza e l’efficacia della Comunità e delle sue istituzioni; d) l’unità e la coerenza dell’azione<br />

internazionale della Comunità, quanto a scopi, processo decisionale e realizzazione. Nell’arco di<br />

quattro pagine era contenuta già l’intera costellazione problematica che interesserà la futura Unione<br />

Europea sino a tuttora.<br />

In particolare, per il punto a), si affermava fra l’altro:<br />

“L’unità e la coerenza delle sue politiche e azioni sarà assicurata attraverso istituzioni forti e democratiche. […]<br />

La trasformazione della Comunità da un’entità basata principalmente sull’integrazione economica e sulla cooperazione<br />

politica in un’unione di natura politica, comprendente una politica estera e di sicurezza comune, fa sorgere una serie di<br />

quesiti:<br />

a) scopo:<br />

[…] – come l’Unione includerà ed estenderà la nozione di una <strong>cittadinanza</strong> della Comunità, comportante <strong>diritti</strong> specifici<br />

(umani, politici, sociali, il diritto di libero movimento e residenza…) per i cittadini degli Stati membri in virtù di<br />

quegli Stati che appartengono all’Unione.”<br />

112 Una delle prime conseguenze del crollo del muro di Berlino e in genere della “cortina di ferro” fu l’afflusso immediato<br />

e massiccio nel territorio CEE di decine di migliaia di cittadini dei Paesi ancora a regime comunista (p.e. l’esodo<br />

degli Albanesi in Italia), che, in qualità di “profughi”, presentavano domanda d’asilo contemporaneamente presso più<br />

Stati membri, generando una enorme confusione amministrativa con un notevole rischio per la sicurezza pubblica soprattutto<br />

in vista della programmata “area senza frontiere interne”. La Convenzione di Dublino stabiliva i criteri<br />

d’individuazione dell’unico Stato membro competente ad accogliere la domanda d’asilo di una determinata persona.<br />

113 Tale schema era stato preparato in seguito alla prima riunione della conferenza interistituzionale preparatoria (prevista<br />

dalla risoluzione del PE) del 17 maggio 1990 e alle due riunioni, informale dei ministri degli esteri del 18 e 19 maggio<br />

1990 e ordinaria del Consiglio degli affari generali del 18 e 19 giugno 1990.


Ma soprattutto, nel punto b), si sosteneva:<br />

“E’ necessario assicurare che il principio dell’attendibilità democratica, al quale aderiscono tutti gli Stati membri, sia<br />

pienamente rispettato a livello della Comunità. L’attuale trasferimento di compiti alla Comunità e il corrispondente incremento<br />

nel potere e nelle responsabilità delle sue istituzioni richiede un rafforzamento del controllo democratico.<br />

Questo obiettivo sarà perseguito attraverso una serie di misure, che possono essere le seguenti:<br />

- un crescente coinvolgimento per il Parlamento Europeo<br />

= nel processo legislativo, includendo, se possibile, forme di codecisione,<br />

= nel campo delle relazioni esterne,<br />

- un’accresciuta attendibilità attraverso un rafforzato controllo da parte del Parlamento Europeo sulla realizzazione delle<br />

politiche concordate della Comunità;<br />

- un rafforzamento del carattere democratico di altre istituzioni (p.e. un ruolo specifico del Parlamento Europeo nella<br />

nomina del presidente e dei membri della Commissione, una maggiore trasparenza e apertura nel lavoro della Comunità…):<br />

- un maggiore coinvolgimento dei Parlamenti nazionali nel processo democratico entro l’Unione, in particolare in aree<br />

dove una nuova competenza sarà trasferita all’Unione.<br />

In altri termini venivano largamente ripresi i contenuti della stessa risoluzione del PE del 14 marzo<br />

1990 e soprattutto venivano chiaramente posti i termini del problema principale che da allora in poi<br />

caratterizzerà la storia dell’integrazione europea sino a oggi: la necessità di nuovi poteri deve comportare<br />

il corrispondente aumento della legittimazione democratica e, in un’Unione Politica, ciò significa<br />

che questa deve essere caratterizzata da una chiara e piena democrazia europea, almeno nella<br />

dimensione rappresentativa.<br />

In ogni caso tale schema metteva in grado il Consiglio europeo di Dublino del giugno 1990 di dibattere<br />

sulla convocazione di una Conferenza intergovernativa sull’Unione Politica, che definisse il<br />

necessario quadro per la trasformazione dell’intero complesso delle relazioni tra gli Stati membri in<br />

un’Unione Europea, alla quale fossero attribuiti i necessari mezzi d’azione.<br />

E infatti, nelle sue conclusioni, il Consiglio europeo 1) accoglieva pienamente tale obiettivo, 2) registrava<br />

i progressi verso l’Unione Europea, attuati nei settori: della realizzazione dell’Atto unico<br />

europeo (il mercato interno, la ricerca, la dimensione sociale, lo SME), dell’Unione Economica e<br />

Monetaria, dell’Unione Politica e dell’unificazione tedesca, 3) prendeva atto dei progressi nei campi<br />

relativi a un’Europa del popolo (l’ambiente, il libero movimento delle persone, la lotta contro le<br />

droghe e il crimine organizzato, la lotta contro l’antisemitismo, il razzismo e la xenofobia) 114 e 4)<br />

indicava le linee guida della cooperazione politica europea nelle relazioni esterne 115 .<br />

In particolare il Consiglio europeo decideva il contemporaneo avvio di due Conferenze intergovernative,<br />

una, per il 13 dicembre 1990, sull’Unione Economica e Monetaria (per la programmazione<br />

delle ultime sue fasi), e l’altra, per il 14 dicembre 1990, sull’Unione Politica (avente come base di<br />

lavoro il relativo documento citato), con l’obiettivo della ratifica dei risultati di entrambe (sotto<br />

forma di altrettanti trattati emendativi) da parte degli Stati membri entro il 1992. In tal modo si poneva<br />

fine all’assunto storico, risalente alla Dichiarazione di R. Schuman e mantenuto sino ad allora,<br />

della realizzazione dell’Unione economica e monetaria come necessaria premessa dell’Unione (politica)<br />

europea e anzi si faceva chiaramente intendere che proprio la ormai prossima Unione Europea,<br />

secondo lo schema caro ad A. Briand, avrebbe realizzato compiutamente la più remota Unione<br />

economica e monetaria. Il fatto nuovo era che sia tale simultaneità delle due Conferenze intergovernative,<br />

sia tale loro strettissima tabella di marcia erano entrambe dettate dalla prospettiva<br />

114 A questo proposito si diceva: “Il Consiglio europeo sottolinea che un obiettivo fondamentale dell’integrazione europea<br />

è la promozione dei <strong>diritti</strong>, delle libertà e del benessere del singolo cittadino. Esso sottolinea l’importanza di<br />

un’Europa del popolo che cerchi di assicurare e di portare a casa in una via diretta e pratica il beneficio della Comunità<br />

per tutti i suoi cittadini.”<br />

115 A proposito dell’Europa centrale e orientale, si diceva tra l’altro: “Il Consiglio europeo esprime la sua profonda soddisfazione<br />

di fronte al progresso già fatto e alla prospettiva del superamento delle divisioni dell’Europa e della restaurazione<br />

dell’unità del continente, i cui popoli condividono un’eredità e una cultura comuni.”


dell’imminente unificazione tedesca, che il Consiglio europeo proprio allora avallava, considerandola<br />

esplicitamente come un progresso decisivo verso l’Unione Europea.<br />

Pochi giorni dopo la fine del Consiglio europeo di Dublino, entrava in vigore, il 1° luglio 1990, la<br />

prima fase dell’Unione Economica e Monetaria, finalizzata alla convergenza nei risultati economici<br />

degli Stati membri, all’avanzamento della coesione e all’uso sistematico dell’ECU.<br />

Lusingato dal successo della propria risoluzione del 14 marzo 1990 e in genere dagli sviluppi della<br />

situazione, il Parlamento Europeo provvedeva allora a precisare ulteriormente il proprio orientamento<br />

generale sul “futuro dell’Europa”, con due distinte risoluzioni, varate una dopo l’altra nello<br />

stesso giorno, l’11 luglio 1990, rispettivamente “sugli orientamenti del Parlamento Europeo relativi<br />

a un progetto di Costituzione per l’Unione Europea” (doc. A3-165/90) e “sulla conferenza intergovernativa<br />

nel quadro della strategia del Parlamento Europeo per l’Unione Europea” (doc. A3-<br />

166/90).<br />

La prima risoluzione ovvero la risoluzione del PE dell’11 luglio 1990 “sugli orientamenti del Parlamento<br />

Europeo relativi a un progetto di Costituzione per l’Unione Europea” (relatore: Emilio Colombo<br />

116 ) definiva nei termini più chiari e in modo quasi “lapidario” l’obiettivo ultimo da raggiungere<br />

ossia con essa il PE “decide di redigere un progetto di Costituzione sulla base delle linee guida<br />

seguenti e dei punti principali del Progetto di trattato del 1984” (di Spinelli).<br />

Essa stabiliva che “l’Unione” avrebbe dovuto fondarsi su “un sistema costituzionale”, costruito attorno<br />

ai seguenti “elementi essenziali”:<br />

“- la definizione e il pieno rispetto dei <strong>diritti</strong> e delle libertà fondamentali;<br />

- la definizione dei <strong>diritti</strong> e degli obblighi degli Stati membri verso l’Unione, in un quadro federale;<br />

- la natura democratica dell’Unione, che procede dai suoi cittadini e si fonda su una struttura istituzionale democratica,<br />

caratterizzata da processi di decisione appropriati ed efficaci;<br />

- il rispetto del principio del primato della legge;<br />

- una ripartizione delle competenze fondata, soprattutto, al tempo in cui esse sono attribuite, o, in particolare, nel caso<br />

delle competenze concorrenti, al tempo in cui esse sono esercitate, sul principio di sussidiarietà;<br />

- la precedenza della legge dell’Unione sulla legge nazionale”<br />

Stabiliva inoltre quattro obiettivi dell’Unione: 1) “portare a un armonioso sviluppo sociale…”, 2)<br />

“garantire il progresso economico dei suoi popoli…”, 3) “promuovere la pace internazionale…”, 4)<br />

“contribuire allo sviluppo armonioso e giusto di tutti i popoli nel mondo…”. Tali obiettivi sarebbero<br />

stati raggiunti in base a quattro elementi fondamentali: la “legittimazione democratica”,<br />

l’”efficienza delle istituzioni”, le “competenze dell’Unione” ed “entrata in vigore ed emendamento<br />

della Costituzione”.<br />

Per quanto riguarda la “legittimazione democratica”, si prevedeva:<br />

- “la Costituzione deve garantire il rispetto dei <strong>diritti</strong> e delle libertà fondamentali che vi sono contenuti…”<br />

- “gli Stati membri hanno, di fronte all’Unione, i <strong>diritti</strong> e gli obblighi stipulati nella Costituzione, nei trattati istitutivi<br />

delle Comunità e nel sistema legale dell’Unione stessa” 117<br />

- “la legittimazione dell’Unione deve essere basata su istituzioni elette direttamente o indirettamente dal popolo e in<br />

particolare su un potere legislativo e di bilancio costituito dal Parlamento Europeo e dal Consiglio”<br />

- “il Parlamento deve rappresentare tutti i cittadini dell’Unione, secondo una procedura elettorale uniforme, in elezioni<br />

generali, uguali, segrete e libere”<br />

- “il Consiglio deve rappresentare gli Stati membri, senza pregiudizio verso la ponderazione dei voti”<br />

- “il potere legislativo e di bilancio e il potere di autorizzare la ratifica di trattati devono essere conferiti al Parlamento<br />

Europeo e al Consiglio; essi devono esercitare questi poteri secondo procedure codecisionali…”<br />

116<br />

Emilio Colombo era stato nel frattempo ministro del bilancio e della programmazione economica (1987-’88) e poi<br />

delle finanze (1988-’89). Infine con le elezioni europee del giugno 1989 e la fine del governo De Mita nel luglio 1989,<br />

Colombo era diventato di nuovo membro del PE. In tale sua nuova veste egli assumeva allora il compito di sviluppare il<br />

disegno “costituzionale” già proprio di Spinelli e dello stesso PE e anzi ormai dello stesso popolo italiano (per via<br />

dell’avvenuto referendum del 18 giugno 1989).<br />

117<br />

In tal modo la Costituzione era intesa come un testo da affiancare ai trattati costitutivi, che avrebbero così continuato<br />

a mantenere il loro valore.


- “il presidente della Commissione deve essere eletto dal Parlamento su proposta del Consiglio europeo; i membri della<br />

Commissione devono essere nominati dal suo presidente; la Commissione così costituita deve presentarsi in Parlamento<br />

per un voto di fiducia”<br />

- “il Consiglio deve tenere le sue riunioni legislative in pubblico”<br />

- “il Parlamento deve essere coinvolto, attraverso la procedura per consenso, nella nomina degli organi giudiziari e di<br />

controllo e di quelli responsabili dell’amministrazione dei poteri monetari dell’Unione”<br />

- “La Corte di giustizia, consolidando il suo ruolo di Corte suprema dell’Unione, deve avere più ampie competenze rispetto<br />

alla verifica di legittimità, dei <strong>diritti</strong> fondamentali, delle relazioni tra le istituzioni e delle relazioni con e tra gli<br />

Stati membri; essa deve avere giurisdizione, come stipulato nei trattati esistenti, rispetto alla demarcazione di poteri tra<br />

gli Stati membri e l’Unione delineata nella Costituzione, tenendo conto del principio di sussidiarietà; deve essere fatta<br />

una disposizione per sanzioni appropriate contro gli Stati membri che mancano di applicare la legislazione della Comunità<br />

o di adempiere prontamente alle sue decisioni”<br />

- “devono essere rafforzati le relazioni e il dialogo tra il Parlamento Europeo e i Parlamenti degli Stati membri, al fine<br />

di garantire più effettivo controllo ai vari livelli”<br />

- “deve assolutamente essere assegnata un’appropriata importanza al ruolo delle Regioni, sia quando le leggi sono progettate,<br />

sia quando sono eseguite, assegnando poteri consultivi al Comitato delle autorità locali e regionali, con debito<br />

riguardo alle strutture costituzionali di ogni Stato”<br />

Per quanto riguarda “l’efficienza delle istituzioni”, si prevedeva:<br />

- “il Consiglio Europeo deve avere il compito di guidare e dare impulso all’azione dell’Unione Europea”<br />

- “le decisioni del Parlamento Europeo devono essere adottate a maggioranza semplice, salvo laddove disposto altrimenti<br />

dalla Costituzione, e in particolare nel caso di emendamenti alla Costituzione, incluso l’accesso di nuovi Stati<br />

membri; il primo esercizio di competenze concorrenti; l’elezione del presidente della Commissione e il voto di fiducia;<br />

il consenso alle nomine agli organi legali e della Corte dei conti e agli organi della Banca Centrale, nei quali casi deve<br />

essere richiesta una maggioranza assoluta dei suoi membri”<br />

- le decisioni del Consiglio devono essere adottate per mezzo di una maggioranza dei suoi membri; esse devono comunque<br />

essere prese a maggioranza qualificata, secondo le disposizioni della Costituzione, quando il Consiglio esercita<br />

le sue responsabilità rispetto alla politica estera e di sicurezza, l’adozione di leggi, il bilancio e l’autorizzazione alla ratifica<br />

di trattati internazionali”<br />

- “la Commissione deve essere l’organo di governo dell’Unione; deve avere anche il potere d’iniziativa rispetto alla legislazione<br />

e al bilancio, come già stabilito nei trattati della Comunità: il Parlamento e il Consiglio possono chiedere alla<br />

Commissione di introdurre un progetto di legge, e nel caso la Commissione dovesse rifiutarsi, essi possono introdurre<br />

un progetto di legge in linea con la richiesta originaria”<br />

- “la Commissione deve eseguire le leggi e anche le decisioni di politica internazionale ricadenti nell’ambito della sua<br />

giurisdizione, e deve realizzare il bilancio e i trattati internazionali dell’Unione, sotto il controllo politico del Parlamento<br />

e del Consiglio; la Commissione deve emanare regolamenti nell’ambito del quadro di una legge generale<br />

dell’Unione”<br />

- “la Commissione deve, per quanto è possibile, delegare i suoi compiti alle autorità nazionali, regionali e locali, ma deve<br />

rimanere responsabile di questi compiti e può, laddove necessario, assumerli in prima persona”<br />

- “la Commissione deve avere un potere generale di controllo rispetto all’adempimento della Costituzione, secondo procedure<br />

simili a quelle delineate nei trattati della Comunità”<br />

- “la Banca Centrale dell’Unione deve godere della necessaria autonomia costituzionale, con il dovuto rispetto del ruolo<br />

delle istituzioni politiche in materia di politica economica”<br />

Per quanto riguarda le “competenze dell’Unione”, si prevedeva:<br />

- “l’Unione deve avere tutte le competenze disposte nella Costituzione o esercitate in conseguenza della Costituzione,<br />

secondo i principi delineati nel Progetto di trattato istitutivo dell’Unione Europea del 14 febbraio 1984” [l’originario<br />

progetto Spinelli]<br />

- “l’Unione deve condurre le politiche estera, di sicurezza e di difesa comuni in tutte le aree dove gli Stati membri condividono<br />

interessi essenziali; deve definire gli intenti di queste politiche e realizzarle al livello dell’Unione, laddove necessario,<br />

al fine di rispondere effettivamente alle richieste della situazione internazionale e assicurare l’unità e coerenza<br />

dell’azione internazionale dell’Unione”<br />

- “il Consiglio, con la partecipazione della Commissione, deve delineare le linee guida per la sicurezza dell’Unione e le<br />

politiche estere e il Parlamento deve approvarle; le istituzioni dell’Unione e gli Stati membri devono realizzarle<br />

nell’ambito delle loro rispettive aree di competenza”<br />

- “la linee guida della politica estera e di sicurezza devono essere vincolanti per l’Unione e gli Stati membri”<br />

- “l’Unione deve avere competenze in materia di sicurezza interna, che deve esercitare secondo il principio di sussidiarietà”


- “per il conferimento di nuove competenze all’Unione, diverse dalle competenze concorrenti o potenziali, deve essere<br />

richiesta una procedura di revisione costituzionale”<br />

- “nel corso della procedura di bilancio l’Unione deve determinare le sue entrate; queste entrate devono essere acquisite<br />

per mezzo di tasse esistenti a livello nazionale e di tasse appropriate determinate dall’Unione, entro i limiti fissati nel<br />

programma finanziario pluriennale e secondo il principio di non aumentare il carico fiscale complessivo sui cittadini<br />

dell’Unione”<br />

- “nei settori per i quali è competente l’Unione deve assicurare coerenza tra le sue proprie politiche e quelle degli Stati<br />

membri, in particolare nei settori economico, sociale e monetario e rispetto alla cooperazione con i Paesi in via di sviluppo<br />

e alla politica ambientale”<br />

Per quanto riguarda, infine, “entrata in vigore ed emendamento della Costituzione”, si prevedeva:<br />

- “Gli emendamenti alla Costituzione, inclusi i nuovi accessi all’Unione, devono essere soggetti a una procedura coinvolgente<br />

il consenso del Parlamento Europeo e del Consiglio e la ratifica da parte dei Parlamenti degli Stati membri; la<br />

Costituzione deve stipulare i casi di emendamento costituzionale che possono essere decisi sulla base di una procedura<br />

semplificata”<br />

- “il Parlamento Europeo deve proporre le procedure in base alle quali il progetto di Costituzione, redatto sulla base del<br />

mandato assegnato a esso, deve essere convertito in una Costituzione Europea, per mezzo di decisioni delle istituzioni<br />

europee e degli organi responsabili degli Stati membri”<br />

- “se certi Stati membri non dovessero essere preparati ad accettare questa Costituzione, deve essere fatta una disposizione<br />

per procedure per assicurare che essa possa cionondimeno entrare in vigore negli Stati membri che l’hanno accettata,<br />

pur salvaguardando in ogni caso gli stretti legami fra tutti gli Stati membri” 118<br />

Infine il PE dava istruzioni alla “sua Commissione sugli affari istituzionali di preparare un progetto<br />

di Costituzione secondo queste linee guida e tenendo conto dei risultati delle Conferenze intergovernative”.<br />

In stretta connessione con quest’ultima affermazione della prima risoluzione, la seconda risoluzione<br />

ovvero la risoluzione del PE dell’11 luglio 1990 “sulla conferenza intergovernativa nel quadro della<br />

strategia del Parlamento Europeo per l’Unione Europea” (relatore: David Martin) definiva i termini<br />

del possibile mandato della prevista CIG sull’Unione politica.<br />

In primo luogo essa riassumeva le richieste del PE nel modo seguente:<br />

1) la preferenza del PE per un’unica GIG;<br />

2) che il termine “Unione politica” dovesse essere inteso nel senso datogli dal progetto di trattato<br />

del PE istitutivo dell’Unione Europea del febbraio 1984;<br />

3) che entro tale Unione politica dovessero essere compresi:<br />

a) un’unione economica e monetaria (comprensiva di una moneta unica e di una Banca centrale autonoma),<br />

b) una politica estera comune (avente competenza sulla pace, sulla sicurezza e sul controllo degli<br />

armamenti),<br />

c) un mercato unico compiuto e dotato di politiche integrative comuni (soprattutto nei settori della<br />

coesione economica e sociale e di un ambiente equilibrato),<br />

d) una <strong>cittadinanza</strong> comune e un quadro comune di protezione dei <strong>diritti</strong> fondamentali,<br />

e) un sistema istituzionale efficace e democratico (con i seguenti nuovi poteri attribuiti al PE: un diritto<br />

d’iniziativa, un diritto di codecisione con il Consiglio in materia di legislazione comunitaria, il<br />

diritto di coratifica, assieme agli Stati membri, di tutte le decisioni costituzionali, il diritto di eleggere<br />

il presidente della Commissione) e<br />

f) che le responsabilità dell’Unione fossero esercitate conformemente a un’applicazione del principio<br />

della sussidiarietà, “che permetterà lo sviluppo dinamico dell’Unione”<br />

4) la conferma dell’obiettivo di un’Unione politica su base federale e quindi della necessità che al<br />

futuro trattato emendativo avrebbe dovuto seguire una Costituzione , che lo stesso PE avrebbe preparato,<br />

partendo dal suo progetto di trattato istitutivo dell’UE del 1984.<br />

118 In tal modo il PE manteneva la proposta originaria di Spinelli di prevedere l’entrata in vigore della Costituzione anche<br />

nel caso della sua mancata ratifica da parte di alcuni Stati membri, con la “novità” che questi ultimi, pur non adottandola,<br />

avrebbero comunque continuato a far parte dell’Unione.


Ai fini di un possibile mandato della CIG, nella risoluzione seguivano poi proposte precise e dettagliate<br />

sui seguenti temi: a) unione economica e monetaria; b) politica estera della Comunità; c) miglioramento<br />

delle disposizioni dei trattati nei settori sociale, ambientale, della ricerca e della cultura;<br />

d) <strong>diritti</strong> e libertà fondamentali dei cittadini; e) miglioramento della capacità decisionale del<br />

Consiglio; f) rafforzamento delle competenze d’esecuzione della Commissione; g) rafforzamento<br />

del potere della Comunità di assicurare l’applicazione della sua legislazione; h) riforma delle disposizioni<br />

finanziarie e in particolare del sistema delle risorse proprie; h) riconoscimento della doppia<br />

legittimità della Comunità: Consiglio e Parlamento.<br />

In generale la nuova risoluzione chiariva che l’obiettivo immediato della stesura di un nuovo trattato<br />

emendativo, che avrebbe istituito l’Unione Europea, era ben distinto temporalmente<br />

dall’obiettivo finale della Costituzione Europea, che avrebbe trasformato l’UE in senso federale. E<br />

così in effetti sarebbe stato.<br />

Di lì a qualche mese, il 3 ottobre 1990, avveniva l’effettiva unificazione della Germania. In base a<br />

essa scompariva la Repubblica Democratica Tedesca e il suo territorio veniva annesso alla Repubblica<br />

Federale di Germania, compresa l’intera e riunificata città di Berlino, destinata a ridiventare la<br />

capitale tedesca, con lo spostamento della frontiera orientale tedesca alla linea dei fiumi Oder e<br />

Neisse, al confine con la Polonia. Inoltre l’unificazione tedesca poneva fine pure al regime di occupazione<br />

militare del Paese da parte di Stati Uniti, Unione Sovietica, Gran Bretagna e Francia, con il<br />

conseguente ritiro delle truppe di questi Paesi dal suolo tedesco, con l’eccezione di cospicue basi<br />

militari straniere (soprattutto americane), mantenute peraltro in virtù della semplice appartenenza<br />

della Germania alla NATO, ossia allo stesso titolo per cui esse si trovano tuttora anche in altri Paesi<br />

appartenenti al Patto Atlantico. Per controbilanciare tale nuova situazione, anche i nuovi territori tedeschi<br />

entravano automaticamente a far parte della Comunità Europea, che vedeva quindi le proprie<br />

frontiere esterne confinare pure con la Polonia, e soprattutto emergeva sempre più pressante la necessità<br />

di addivenire al più presto alla creazione dell’Unione Europea.<br />

Pochi giorni dopo si svolgeva il Consiglio europeo di Roma del 27-28 ottobre 1990, di estrema importanza<br />

in ordine a tale obiettivo. Infatti questa riunione evidenziò una dettagliata tabella di marcia,<br />

con indicazioni chiarissime sui contenuti.<br />

Le due previste Conferenze intergovernative dovevano iniziare simultaneamente il 14 dicembre<br />

1990. Considerati i tempi ristrettissimi per esse previsti, il Consiglio europeo di Roma approvò precisi<br />

e chiari mandati rispettivi, che avrebbero con ciò sortito l’effetto di evitare troppe discussioni e<br />

quindi di concludere i lavori in tempo utile.<br />

Per quanto riguarda la Conferenza sull’Unione Politica, si precisava:<br />

“Il Consiglio europeo conferma la volontà di trasformare progressivamente la Comunità in un’Unione Europea, sviluppando<br />

la sua dimensione politica, rafforzando la sua capacità d’azione ed estendendo i suoi poteri 119 ad altri settori<br />

supplementari dell’integrazione economica, che sono essenziali per la convergenza e la coesione sociale. L’Unione Europea<br />

sarà il culmine di un processo progressivo, concordato tra gli Stati membri: esso evolverà con il debito riguardo<br />

dovuto alle identità nazionali e al principio di sussidiarietà, che permetterà di fare una distinzione tra le materie che ricadono<br />

entro la giurisdizione dell’Unione e quelle che devono rimanere entro la giurisdizione nazionale.<br />

In accordo con la tradizione democratica di tutti gli Stati membri, e per incrementare la legittimazione democratica<br />

dell’Unione, il progresso della Comunità verso l’Unione Europea deve essere accompagnato dallo sviluppo del ruolo<br />

del Parlamento Europeo nella sfera legislativa e rispetto al monitoraggio delle attività dell’Unione, che, insieme con il<br />

ruolo dei Parlamenti nazionali, sosterrà la legittimità democratica dell’Unione. Il medesimo requisito sarà soddisfatto<br />

definendo la <strong>cittadinanza</strong> europea, che deve essere addizionale alla <strong>cittadinanza</strong> di uno Stato membro, così come tenendo<br />

conto, in accordo con procedure appropriate, degli interessi particolari delle regioni.<br />

Allo stesso tempo saranno fatti sforzi per rafforzare le altre istituzioni entro un quadro bilanciato, sviluppando gli strumenti<br />

e le procedure che hanno sin qui garantito il successo della Comunità. Anche i compiti del Consiglio europeo e<br />

del Consiglio Affari Generali saranno corretti in linea con queste nuove responsabilità.<br />

Nella sfera della politica estera, il Consiglio europeo registra consenso sull’obiettivo di una politica estera e di sicurezza<br />

comune, per rafforzare l’identità della Comunità e la coerenza della sua azione sulla scena internazionale; en-<br />

119 Tutte le espressioni in grassetto, da questa alle seguenti, rappresentarono altrettanti punti di dissenso da parte del Regno<br />

Unito, che fece emergere in quell’occasione tutte le proprie riserve rispetto alla strategia generale del Consiglio europeo<br />

sul futuro dell’Europa unita.


trambe le politiche devono essere capaci di affrontare le nuove sfide e commisurate con le sue responsabilità. L’azione<br />

internazionale della Comunità sarà aperta al mondo e darà un ruolo significativo alla politica per lo sviluppo. La Comunità<br />

rafforzerà pure i suoi legami con gli altri Paesi europei, per i quali devono essere cercate strutture di cooperazione<br />

sempre più stretta, a seconda delle loro circostanze individuali.<br />

Il Consiglio europeo nota il bisogno di rivedere le procedure e i meccanismi per preparare, adottare e applicare le decisioni<br />

riguardanti la politica estera, così come di incrementare la coerenza, la velocità e l’efficacia dell’azione internazionale<br />

della Comunità.<br />

Il Consiglio europeo considera che dalla politica estera comune non sarà escluso in linea di principio alcun aspetto delle<br />

relazioni esterne dell’Unione. Il Consiglio europeo nota che c’è stato un consenso per andare al di là dei limiti presenti<br />

riguardo alla sicurezza. Il contenuto e le norme dettagliate per il ruolo dell’Unione nella sfera della sicurezza dovranno<br />

essere definite gradualmente alla luce dei vari aspetti coperti da questo concetto e senza pregiudizio per gli obblighi<br />

emergenti dagli accordi per la sicurezza, ai quali alcuni Stati membri sono legati.”<br />

Le indicazioni erano dunque chiare: un’Unione Europea come Unione Politica, rafforzata nella sua<br />

capacità d’azione giuridica e anzi legislativa, dotata di poteri anche in quei settori necessari a realizzare<br />

compiutamente la stessa Unione economica e monetaria, ma insieme fondata sul principio di<br />

sussidiarietà (le competenze dell’Unione sono soltanto quelle relative ai settori che gli Stati membri<br />

non riescono più a gestire da soli) e sul principio della legittimità democratica (più poteri delle istituzioni,<br />

più controllo democratico sul loro operato), con il conseguente rafforzamento dei poteri politici<br />

del Parlamento Europeo (codecisivo nel processo legislativo e, in condivisione con i Parlamenti<br />

nazionali, di controllo sulle attività dell’Unione) e perciò con la nascita ufficiale della “<strong>cittadinanza</strong><br />

europea”, intesa anche nel senso specificamente politico del termine. Un’Unione così democraticamente<br />

legittimata avrebbe avuto il diritto e quindi l’autorità, infine, di gestire una nuova “politica<br />

estera e di sicurezza comune”, ben diversa dalla separata e semplice cooperazione politica europea<br />

sino ad allora avuta negli affari esteri, coprente tutte le dimensioni delle relazioni esterne (economiche<br />

e politiche) e comprensiva persino dei temi della “sicurezza” ossia della difesa e quindi delle<br />

forze armate. Si trattava di un mandato tanto chiaro quanto ambizioso e difatti esso costrinse il Regno<br />

Unito a venire allo scoperto, facendo capire la propria intenzione di ridiscutere l’intero dispositivo<br />

nel corso della programmata Conferenza intergovernativa.<br />

Tali forti riserve della Gran Bretagna, del resto, si evidenziarono anche nei confronti del mandato<br />

previsto per l’altra Conferenza intergovernativa, sull’Unione economica e monetaria. Anche qui il<br />

mandato era quanto mai chiaro e anzi dotato di una precisa tabella di marcia.<br />

Entro il 31 dicembre 1993 dovevano essere raggiunte le seguenti tappe: a) realizzazione compiuta<br />

del mercato unico, b) ratifica del trattato redatto dalla Conferenza, c) realizzazione di alcune disposizioni<br />

di tale trattato (1) “il finanziamento monetario dei deficit di bilancio sia stato proibito e ogni<br />

responsabilità da parte della Comunità o dei suoi Stati membri per il debito di uno Stato membro sia<br />

stata preclusa”, 120 2) l’adesione del maggior numero di Stati membri a un meccanismo di tasso di<br />

cambio), d) il compimento di una convergenza reale e monetaria (specialmente per quanto riguarda<br />

la stabilità dei prezzi e la restaurazione di sane finanze pubbliche) 121 . In tal modo si sarebbe con ciò<br />

virtualmente già conseguito l’obiettivo specifico dell’Unione Economica:<br />

“un sistema di mercato aperto, che combini la stabilità dei prezzi con la crescita, l’occupazione e la protezione ambientale<br />

e sia dedicato a condizioni finanziarie e di bilancio sane e sostenibili e a una coesione economica e sociale.”<br />

Con il 1° gennaio 1994 si sarebbe entrati nella seconda fase dell’UEM, che prevedeva la realizzazione<br />

dell’obiettivo specifico dell’Unione Monetaria ovvero<br />

“la creazione di una nuova istituzione monetaria, che comprenda le banche centrali degli Stati membri e un organo centrale<br />

e che eserciti la piena responsabilità per la politica monetaria. Il primo compito dell’istituzione monetaria sarà<br />

quello di mantenere la stabilità dei prezzi: senza pregiudizio per questo obiettivo, sosterrà la politica economica genera-<br />

120 Ciò significava che entro tale data sarebbe finita l’epoca del facile indebitamento pubblico, a cui alcuni Stati membri,<br />

tra cui l’Italia, si erano lasciati andare, con esiti, tuttora presenti, di grandezza “astronomica”.<br />

121 Ciò significava che entro tale data sarebbe finita pure l’epoca dell’inflazione “a briglie sciolte”, a cui diversi Stati<br />

membri, tra cui l’Italia, si erano lasciati andare, toccando tassi “a due cifre”.


le della Comunità. L’istituzione come tale, così come i membri del suo Consiglio, saranno indipendenti da istruzioni.<br />

Riferirà alle istituzioni che sono politicamente responsabili.”<br />

Era con ciò prefigurata già allora la situazione attuale, che vede un’istituzione europea indipendente<br />

dalle altre istituzioni europee e dotata di pieni poteri per una politica monetaria tutta tesa all’unico<br />

obiettivo della stabilità dei prezzi, oggi con conseguenze tendenzialmente preoccupanti in ordine al<br />

rialzo automatico del costo del denaro (in presenza di rischi d’inflazione) e quindi alla capacità degli<br />

Stati, delle aziende e delle famiglie di far fronte ai rispettivi debiti. D’altra parte questa era la<br />

condizione posta da chi, come la Germania ossia lo Stato membro con la più forte economia, esigeva<br />

garanzie in tal senso ai fini della propria adesione all’Unione Monetaria.<br />

In ogni caso la creazione della nuova istituzione, si sosteneva, “renderà possibile, in particolare: di<br />

rafforzare il coordinamento delle politiche monetarie; di sviluppare gli strumenti e le procedure necessari<br />

per la condotta futura di un’unica politica monetaria; di sorvegliare lo sviluppo dell’ECU.”<br />

Entro il 31 dicembre 1996 si sarebbe poi pervenuti alla decisione sul passaggio alla terza e ultima<br />

fase, che, a prescindere dai tempi di avvio, di esecuzione e di compimento, avrebbe dovuto condurre<br />

ai seguenti risultati finali: “Con il compimento della fase finale dell’Unione Economica e Monetaria,<br />

i tassi di cambio saranno fissati irrevocabilmente. La Comunità avrà una valuta unica - un<br />

ECU forte e stabile – che sarà un’espressione della sua identità e unità.”<br />

Al di là del diverso nome dato a tale valuta unica, il mandato del Consiglio europeo di Roma<br />

dell’ottobre 1990 alla prevista CIG sull’UEM era non solo quanto mai preciso e dettagliato, bensì<br />

prefigurava esattamente quanto poi sarebbe effettivamente avvenuto nel corso degli undici anni<br />

successivi.<br />

Un potente contributo all’accelerazione del processo di realizzazione dell’Unione Europea veniva<br />

poi dalla firma euro-americana della “Dichiarazione transatlantica” del 22 novembre 1990, nella<br />

quale il presidente degli Stati Uniti d’America e il presidente del Consiglio europeo stabilivano<br />

l’inizio di una regolare collaborazione, basata su incontri biennali al vertice, tra gli USA e la CE nei<br />

più svariati campi, con il conseguente implicito riconoscimento americano di quest’ultima come vero<br />

e proprio soggetto politico-istituzionale di prima grandezza e insieme il più vicino, da un punto<br />

di vista culturale e civile, agli Stati Uniti. Tale regolare collaborazione e tali incontri al vertice sarebbero<br />

continuati, a maggior ragione, con la nascita dell’UE.<br />

A Roma si svolgeva poi la prevista Conferenza dei Parlamenti della Comunità Europea, che si concludeva<br />

il 30 novembre 1990 con una Dichiarazione finale, nella quale si dava sostanziale appoggio<br />

alla strategia del Parlamento Europeo per l’Unione Europea. Tale Conferenza ebbe un’importanza<br />

storica, perché inaugurò una struttura stabile di collaborazione tra Parlamento Europeo e Parlamenti<br />

nazionali, che comporterà insieme un rafforzamento sia del prestigio del PE, sia del peso dei Parlamenti<br />

nazionali nelle politiche europee. Tale collaborazione sarà alla base della nascita delle future<br />

Convenzioni degli anni 2000 e quindi della stesura sia della Carta dei Diritti Fondamentali<br />

dell’Unione, sia del TCE, nonché del futuro potere dei Parlamenti nazionali di impugnare, in nome<br />

del principio di sussidiarietà, un atto legislativo europeo.<br />

Frattanto, nelle sue due risoluzioni del 22 novembre 1990, quella “sulla Conferenza intergovernativa<br />

nel contesto della strategia del Parlamento Europeo in vista dell’Unione Europea” (relatore: David<br />

Martin) (doc. A3-270/90) e quella “recante il parere del Parlamento Europeo sulla convocazione<br />

delle Conferenze intergovernative sull’Unione economica e monetaria e sull’Unione politica” (relatore:<br />

David Martin) (doc. A3-281/90), il PE continuava la sua opera di convincimento sul tipo di<br />

mandato che avrebbero dovuto avere le due CIG. In fine con la sua risoluzione del 12 dicembre<br />

1990 “sulle basi costituzionali dell’Unione Europea” (relatore: Emilio Colombo 122 ), il PE prendeva<br />

ancora una volta posizione sulla meta ultima del processo di revisione istituzionale ossia sulla “co-<br />

122 Questa risoluzione costituiva il “canto del cigno” dell’attività parlamentare europea di Emilio Colombo, che<br />

nell’agosto 1992 lascerà definitivamente il PE, per riassumere la carica di ministro degli esteri italiano. Nel settembre<br />

1992 si dimetterà pure dalla Camera dei deputati. Nell’aprile 1993 lascerà anche la guida del ministero degli esteri. E’<br />

senatore a vita dal 2003.


stituzionalizzazione” della futura Unione Europea. Sia nella prima, sia nell’ultima di queste tre risoluzioni<br />

il Parlamento Europeo aveva proposto, rispettivamente alla Conferenza dei Parlamenti nazionali<br />

e al Consiglio europeo di Roma di fine anno, la creazione, fra l’altro, di un Comitato delle<br />

Regioni e delle autorità locali come nuovo organo consultivo della Comunità, quale riconoscimento<br />

ufficiale della nuova dimensione della “democrazia partecipativa”, costituita appunto dalla voce<br />

delle autonomie locali nella vita politica europea.<br />

La prevista apertura contemporanea delle due CIG coincise con lo svolgimento del Consiglio europeo<br />

di Roma del 14-15 dicembre 1990. Le sue conclusioni erano quindi una sorta di ultimo mandato<br />

immediato alle due CIG. I punti presi in considerazione furono: a) l’Unione Politica; b) l’Unione<br />

Economica e Monetaria; c) il mercato interno; d) il libero movimento delle persone; e) la politica<br />

dei trasporti; f) la dimensione sociale; g) la lotta contro le droghe e il crimine organizzato. Ma il<br />

punto più importante era ovviamente il primo. Per quanto riguarda l’Unione Politica, il Consiglio<br />

europeo dava un’ultima definizione globale di essa:<br />

“L’Unione sarà basata sulla solidarietà dei suoi Stati membri, sulla più piena realizzazione delle aspirazioni dei suoi cittadini,<br />

sulla coesione economica e sociale, su un più adeguato equilibrio tra le responsabilità dei singoli Stati e quelle<br />

della Comunità e tra i ruoli delle istituzioni, sulla coerenza dell’azione esterna globale della Comunità nel quadro delle<br />

sue politiche estera, di sicurezza, economica e dello sviluppo e dei suoi sforzi per eliminare la discriminazione razziale<br />

e la xenofobia al fine di assicurare il rispetto della dignità umana.”<br />

In quest’unica frase era concentrato effettivamente tutto il senso della novità storica dell’Unione<br />

Europea. Ma il Consiglio europeo dava anche specifici suggerimenti molto concreti alla relativa<br />

CIG, in ordine ai seguenti punti: 1) la legittimazione democratica; 2) la politica estera e di sicurezza<br />

comune; 3) la <strong>cittadinanza</strong> europea; 4) l’estensione e il rafforzamento dell’azione della Comunità;<br />

5) l’efficacia e l’efficienza dell’Unione.<br />

Quanto alla “legittimazione democratica”, il Consiglio europeo avanzava una serie di proposte di<br />

vasto respiro, soprattutto in ordine al rafforzamento del ruolo del Parlamento Europeo: 1)<br />

l’estensione e il miglioramento della procedura di cooperazione; 2) l’estensione della procedura per<br />

consenso agli accordi internazionali che richiedano approvazione unanime da parte del Consiglio;<br />

3) il coinvolgimento del Parlamento Europeo nella nomina della Commissione e del suo presidente;<br />

4) accresciuti poteri sul controllo del bilancio e sull’affidabilità finanziaria; 5) un più stretto monitoraggio<br />

della realizzazione delle politiche della Comunità; 6) il consolidamento dei <strong>diritti</strong> di petizione<br />

e d’inchiesta riguardo a materie della Comunità; 7) l’eventuale sviluppo di procedure di codecisione<br />

per atti di natura legislativa, entro il quadro della gerarchia degli atti della Comunità; un accenno<br />

alla possibilità per i Parlamenti nazionali di “giocare un loro ruolo pieno nello sviluppo della<br />

Comunità” e per le istituzioni regionali o locali di venire consultate.<br />

Quanto alla “politica estera e di sicurezza comune”, il Consiglio europeo avanzava: 1) la proposta di<br />

un apposito “quadro istituzionale” (con un solo centro decisionale cioè il Consiglio, ma con la previsione<br />

di un “Segretariato” unificato e di un diritto non esclusivo di iniziativa da parte della Commissione)<br />

e di uno specifico “processo decisionale” (con la norma del consenso nella definizione<br />

delle linee guida, al posto dell’unanimità, e la possibilità del ricorso al voto a maggioranza qualificata<br />

per l’attuazione delle politiche concordate); 2) precise indicazioni sui contenuti della “sicurezza<br />

comune”, prossimi (controllo delle armi, disarmo, materie della CSCE, operazioni di mantenimento<br />

della pace (peace-keeping), cooperazione economica e tecnologica nel campo degli armamenti, coordinamento<br />

della politica di esportazione di armamenti) e remoti (per la prima volta si fece menzione<br />

esplicita della vera e propria “difesa”, prospettando una “mutua assistenza” e facendo leva<br />

sull’esistente UEO).<br />

Quanto alla “<strong>cittadinanza</strong> europea”, il Consiglio europeo, per “dare sostanza a questo concetto”,<br />

prevedeva i seguenti <strong>diritti</strong>: 1) <strong>diritti</strong> civili (la partecipazione alle elezioni del Parlamento Europeo e<br />

a quelle comunali nel Paese di residenza); 2) <strong>diritti</strong> sociali ed economici (la libertà di movimento e<br />

di residenza a prescindere dall’impiego in attività economiche, l’uguaglianza di opportunità e di


trattamento per tutti i cittadini della Comunità); 3) la protezione congiunta dei cittadini della Comunità<br />

al di fuori delle frontiere della Comunità.<br />

Quanto all’”estensione e rafforzamento dell’azione della Comunità”, il Consiglio europeo li proponeva<br />

nelle seguenti aree: 1) la dimensione sociale (compreso il “dialogo sociale”); 2) la coesione<br />

economica e sociale; 3) la protezione dell’ambiente; 4) la sanità (specie la lotta contro le maggiori<br />

malattie); 5) la ricerca; 6) la politica dell’energia; 7) le infrastrutture (compresa una rete transeuropea);<br />

8) la salvaguardia della diversità dell’eredità europea e la promozione degli scambi culturali<br />

e dell’educazione; ma soprattutto 9) alcune aree di affari interni e giustizia (immigrazione, visti,<br />

asilo e lotta contro le droghe e il crimine organizzato).<br />

Quanto all’”efficacia ed efficienza dell’Unione”, il Consiglio europeo proponeva: a) per il Consiglio<br />

europeo un’accentuazione del ruolo di creatore di slancio politico fondamentale; b) per il Consiglio<br />

l’estensione del voto a maggioranza qualificata, destinato a divenire la norma generale; c) per<br />

la Commissione il rafforzamento soprattutto dei suoi poteri esecutivi.<br />

In conclusione il mandato conclusivo del Consiglio europeo alla CIG sull’Unione Politica era quanto<br />

mai concreto e insieme ricco di spunti innovatori.<br />

In generale il Consiglio europeo si limitava ad annunciare l’apertura di entrambe le CIG a Roma il<br />

15 dicembre 1990, il loro parallelo svolgimento e una loro conclusione rapida e contemporanea,<br />

nonché la messa a ratifica simultanea dei risultati di entrambe le CIG, con l’obiettivo della conclusione<br />

dei processi di ratifica nazionali entro il 1992. In tal modo emergeva la prospettiva, per allora<br />

sottaciuta, della fusione dei risultati delle due CIG all’interno di un unico nuovo trattato emendativo<br />

europeo.<br />

Nel frattempo veniva inaugurata a Londra il 14 aprile 1991 la Banca europea di ricostruzione e di<br />

sviluppo (BERS), con la conseguente opera di erogazione di fondi a favore dei Paesi dell’Europa<br />

centrale e orientale e quindi il progressivo avvicinamento di questi ultimi alla Comunità Europea.<br />

Nel frattempo lo svolgimento della CIG sull’Unione politica faceva emergere i fraintendimenti, già<br />

paventati dal PE, sul senso di quest’ultima, intesa di fatto come un semplice rafforzamento della<br />

cooperazione a livello intergovernativo; perciò quel che avrebbe dovuto scaturire come il principale<br />

risultato della creazione dell’Unione politica ossia l’istituzione della <strong>cittadinanza</strong> dell’Unione era<br />

semplicemente ignorata. Di conseguenza il PE intervenne duramente sull’argomento, approvando la<br />

risoluzione del 14 giugno 1991 “sulla <strong>cittadinanza</strong> dell’Unione”, vero manifesto sul tema per tutto il<br />

tempo a venire sino a tuttora. In essa il PE rilevava anzitutto il problema:<br />

“K. premesso che gli articoli relativi alla <strong>cittadinanza</strong> contenuti nel progetto generale sottoposto dalla presidenza della<br />

conferenza sull’Unione politica di fatto non istituiscono la <strong>cittadinanza</strong> dell’Unione, bensì espongono semplicemente un<br />

numero di <strong>diritti</strong> speciali di natura parziale, l’effettivo esercizio dei quali è soggetto all’accordo unanime intergovernativo<br />

o, nel caso del diritto di petizione, a un accordo interistituzionale,<br />

L. premesso che, a dispetto di decenni di consolidata giurisprudenza della Comunità e del particolare interesse del Parlamento<br />

Europeo in quest’area, culminato nella Dichiarazione dell’aprile 1989, il progetto generale portato avanti dalla<br />

presidenza della conferenza sull’Unione politica ignora completamente questi sviluppi riguardanti i <strong>diritti</strong> umani e le<br />

libertà fondamentali e si riferisce semplicemente alla Convenzione Europea e alle legislazioni nazionali,<br />

M. considerando che il rifiuto di istituire la <strong>cittadinanza</strong> dell’Unione dimostra un rifiuto politico di fare dei suoi cittadini<br />

e del rispetto per i loro <strong>diritti</strong> le preoccupazioni centrali dell’Unione e, al contrario, una determinazione a mantenere e<br />

sviluppare ulteriormente un sistema intergovernativo con una tendenza pesantemente burocratica,”<br />

Tale problema dava modo al PE di chiarire in modo esplicito, a se stesso prima ancora che ad altri,<br />

il vero significato della “<strong>cittadinanza</strong> dell’Unione”. La risoluzione infatti stabiliva un intimo nesso<br />

tra l’Unione Europea, che si stava creando, e la <strong>cittadinanza</strong> europea, che non si stava creando, nei<br />

seguenti termini:<br />

“B. considerato lo stretto legame che esiste tra una nuova forma di <strong>cittadinanza</strong> e l’Unione Europea in sviluppo e il fatto<br />

che le due devono avanzare ed espandersi in parallelo,<br />

C. premesso che un ulteriore progresso nell’integrazione europea può essere arrecato solo su basi democratiche e premesso<br />

che è perciò essenziale alterare l’equilibrio dei poteri tra le istituzioni e la loro forma di relazione con i cittadini<br />

dell’Unione per facilitare la partecipazione effettiva di questi ultimi al processo decisionale su temi che li riguardino,


In altri termini: la maggiore integrazione europea, comportata dal varo di un’Unione Europea, di tipo<br />

politico e quindi dotata di maggiori poteri e di più ampie competenze, doveva essere accompagnata<br />

da una legittimazione democratica di essa, conferente <strong>diritti</strong> e anzi poteri politici effettivi ai<br />

cittadini europei, in vista della creazione di una compiuta democrazia europea, comprensiva sia della<br />

dimensione rappresentativa, sia della dimensione partecipativa di essa.<br />

Ciò avrebbe dovuto peraltro far compiere un deciso salto qualitativo al concetto di “cittadino europeo”,<br />

da intendere non più solo come il cittadino del singolo Stato membro, a cui si attribuiscano, in<br />

modo estemporaneo, questo o quello di una serie di “<strong>diritti</strong> speciali” a seconda e in virtù<br />

dell’appartenenza del proprio Stato membro alla Comunità, bensì come il detentore di una vera e<br />

propria “<strong>cittadinanza</strong> europea”, espressa nei seguenti termini:<br />

F. premesso che, comunque, la <strong>cittadinanza</strong> della Comunità deve essere definita come un concetto in se stesso e in modo<br />

tale da costituire una forma genuina di stato, derivante dal pieno riconoscimento e dalla piena protezione dei <strong>diritti</strong><br />

umani e delle libertà fondamentali di tutte le persone, come definite nella Convenzione europea dei <strong>diritti</strong> umani, sia<br />

come individui, sia in unità sociali, in particolare la famiglia,<br />

In altri termini: la “<strong>cittadinanza</strong> europea” avrebbe dovuto intendersi come un concetto originario e<br />

unitario e costituire uno stato giuridico effettivo e indivisibile, proprio in quanto fondata sull’intero<br />

universo dei <strong>diritti</strong> umani e delle libertà fondamentali di ogni persona, secondo la definizione di<br />

quest’ultima data dalla Convenzione europea dei <strong>diritti</strong> umani ossia intesa sia come individuo, sia<br />

come membro di una comunità, a partire da quella naturale della famiglia; tale intero universo avrebbe<br />

dovuto essere peraltro formulato, riconosciuto e fatto valere appunto da un soggetto politico<br />

transnazionale e sovrastatale, qual avrebbe dovuto essere appunto la futura Unione Europea. Rispetto<br />

a quest’ultima perciò avrebbe dovuto essere declinata la “<strong>cittadinanza</strong> dell’Unione” e anzi proprio<br />

l’Unione (fatto salvo il principio della <strong>cittadinanza</strong> europea come aggiuntiva a quella dello Stato<br />

membro) avrebbe dovuto decidere persino le condizioni dell’acquisizione e della perdita della<br />

<strong>cittadinanza</strong> stessa:<br />

“D. premesso che la <strong>cittadinanza</strong>, e le obbligazioni a essa inerenti, devono necessariamente essere soggette a dei criteri<br />

per l’acquisizione e la perdita di essa e premesso che questi criteri possono, per il momento, essere posti in modo tale da<br />

corrispondere alle condizioni alle quali la nazionalità dei differenti Stati membri può essere acquisita o è perduta,”<br />

In altri termini: era stabilito il principio che solo l’Unione avrebbe potuto stabilire tali criteri e che,<br />

solo fin tanto che non li si fossero elaborati, ci si poteva rimettere alle diverse legislazioni nazionali<br />

sulle rispettive cittadinanze nazionali; ma, rispetto a tali criteri, non si mancava, peraltro, di offrire<br />

fin da allora una suggestione al riguardo:<br />

“I. premesso che la <strong>cittadinanza</strong> dell’Unione può essere basata sul senso di solidarietà con e di appartenenza a una<br />

Comunità nella quale sono messe insieme, promosse e salvaguardate le differenti culture dei popoli in essa presenti e<br />

sono riconosciuti i comuni valori e interessi condivisi dai cittadini europei,”<br />

In altri termini: il criterio fondamentale per l’acquisizione o viceversa la perdita della <strong>cittadinanza</strong><br />

europea avrebbe dovuto essere rispettivamente l’acquisizione o la perdita del personale sentimento<br />

nei confronti della Comunità in quanto tale. Con delle implicazioni notevoli, anche se sottaciute:<br />

1) la “<strong>cittadinanza</strong> europea” avrebbe potuto essere concessa a chi, pur non essendo cittadino di uno<br />

Stato membro, avesse dimostrato, nel periodo della sua residenza legale e permanente nel territorio<br />

della Comunità, di essersi pienamente riconosciuto nei “comuni valori e interessi condivisi dai cittadini<br />

europei”, come pure essere viceversa perduta se tale concessione fosse stata viziata da errori<br />

amministrativi, frode o corruzione;<br />

2) la “<strong>cittadinanza</strong> europea” avrebbe potuto rivelarsi compatibile o viceversa incompatibile con una<br />

volontà politica manifesta dei cittadini di uno Stato membro di appartenere o viceversa non appartenere<br />

a un’Unione Europea di tipo politico, con la conseguente prospettiva strutturale, in


quest’ultimo caso, di una mancata adesione iniziale di tale Stato membro all’Unione o di un successivo<br />

suo ritiro volontario da essa.<br />

In ogni caso gli elementi costitutivi del concetto unitario e dello stato giuridico indivisibile della<br />

“<strong>cittadinanza</strong> europea” avrebbero dovuto essere i seguenti:<br />

“G. premesso che il concetto o lo stato di cittadino implica le seguenti condizioni essenziali:<br />

- il governo deve derivare la sua legittimità da un mandato dato dai cittadini, e, in particolare, le leggi devono originarsi<br />

da istituzioni democraticamente elette dai cittadini,<br />

- i <strong>diritti</strong> umani e le libertà fondamentali di tutte le persone devono essere rispettati e garantiti, tra l’altro nei tribunali; i<br />

<strong>diritti</strong> sociali, economici, politici e culturali devono essere riconosciuti e propriamente protetti,<br />

- il bando di ogni discriminazione per motivi di razza, credo, vedute politiche e sindacali, sesso, nazionalità o qualsiasi<br />

altra situazione personale,<br />

- i cittadini devono, nel loro proprio diritto, godere di <strong>diritti</strong> specifici – inclusi <strong>diritti</strong> politici – di fronte alle istituzioni<br />

della Comunità e a ognuno degli Stati membri; questi <strong>diritti</strong> devono godere la piena protezione dei tribunali negli Stati<br />

membri e, per estensione, a livello di Comunità,<br />

- di fronte a Paesi terzi, ai cittadini deve essere accordata la piena protezione da parte della Comunità in quanto tale e da<br />

ognuno degli Stati membri, come pure da parte dello Stato di cui essi sono connazionali,<br />

- al fine di proteggere questi <strong>diritti</strong> di fronte alle istituzioni della Comunità e a ognuno degli Stati membri e nelle relazioni<br />

con Paesi terzi, tutti i cittadini devono avere l’opzione di presentare un reclamo a un’istituzione europea,”<br />

Emergeva, in altri termini, il quadro di un’Unione, che offriva ai propri cittadini: a) il pieno controllo<br />

democratico di istituzioni produttrici ed esecutrici di leggi, finalizzate alla traduzione normativa<br />

di <strong>diritti</strong> umani e libertà fondamentali, preventivamente dichiarati dall’Unione; b) la facoltà di ricorrere<br />

in giudizio, in nome di tali <strong>diritti</strong>, presso i tribunali sia nazionali, sia comunitari, rispetto a leggi<br />

e atti sia comunitari, sia nazionali; c) la piena protezione, garantita dall’Unione direttamente e indirettamente<br />

(attraverso gli Stati membri), nei confronti di Paesi terzi; d) la facoltà di presentare reclamo<br />

a un’apposita istituzione europea indipendente per eventuali casi di c<strong>attiva</strong> amministrazione<br />

da parte di istituzioni sia comunitarie, sia nazionali, nei loro atti rivolti sia all’interno, sia all’esterno<br />

della Comunità.<br />

E tuttavia, proprio perché l’Unione e la <strong>cittadinanza</strong> europea avrebbero dovuto essere entrambe basate<br />

su una serie di <strong>diritti</strong> umani e di libertà fondamentali, proprie, per definizione, di qualunque<br />

persona residente nel territorio dell’Unione, la risoluzione affrontava finalmente il problema di tali<br />

“altre persone” (diverse dai cittadini dell’Unione), dando loro un nome e quindi parlando specificamente<br />

di loro:<br />

“H. premesso che in una società multirazziale, come sta diventando, in un’estensione crescente, la Comunità, agli stranieri<br />

residenti devono essere accordati non solo i <strong>diritti</strong> e le libertà fondamentali, ma anche i <strong>diritti</strong> richiesti al fine di<br />

condurre un’attività economica, occupazionale o sociale nei termini delle disposizioni applicabili e i <strong>diritti</strong> civili e politici<br />

e le garanzie essenziali per permettere alla personalità umana di trovare la più piena espressione,”<br />

In altri termini: veniva finalmente riconosciuta l’esistenza di una situazione nuova per tutta la Comunità<br />

ovvero l’insediamento permanente in tutto il suo territorio di decine di milioni di “stranieri<br />

residenti” ovvero di persone provenienti per lo più da altri continenti, che avrebbe condizionato stabilmente<br />

l’evoluzione demografica complessiva della CE, in direzione della creazione di una “società<br />

multirazziale” europea, nella quale, a maggior ragione, l’unico tessuto connettivo della Comunità<br />

sarebbe stato quello della condivisione universale dei <strong>diritti</strong> umani e delle libertà fondamentali<br />

da essa stabiliti e dunque della tutela da parte di essa di questi ultimi anche o anzi soprattutto nei<br />

confronti di tali nuovi venuti. Infatti, nel loro caso, si sarebbero dovuti garantire in particolare i <strong>diritti</strong><br />

relativi allo scopo che li aveva condotti a stabilirsi nella CE ossia “al fine di condurre<br />

un’attività economica, occupazionale o sociale”. E tuttavia, non dimentica della natura universale<br />

per definizione di tali <strong>diritti</strong>, la risoluzione del PE sosteneva pure la necessità di assicurare anche<br />

agli “stranieri residenti” “i <strong>diritti</strong> civili e politici e le garanzie essenziali per permettere alla personalità<br />

umana di trovare la più piena espressione”. Veniva con ciò indicato il criterio-guida essenziale<br />

nel campo del riconoscimento di <strong>diritti</strong> agli “stranieri residenti” ossia non già quello, basato sulla<br />

loro condizione giuridica, di una insormontabile distinzione tra <strong>diritti</strong> civili e <strong>diritti</strong> politici, bensì


quello, basato sulla loro condizione umana, di esser messi in grado di realizzare pienamente la propria<br />

personalità; e, se, fra tali <strong>diritti</strong>, avesse dovuto rientrare anche qualche diritto politico, anche<br />

quest’ultimo avrebbe dovuto essere concesso pure agli “stranieri residenti”.<br />

Di conseguenza la risoluzione del PE decideva di richiedere alla CIG sull’Unione politica di adottare<br />

le seguenti disposizioni:<br />

“1. Considera essenziale che una lista dei <strong>diritti</strong> umani e delle libertà fondamentali, basata su quella adottata dal Parlamento<br />

il 12 aprile 1989, sia inserita nei trattati, applicata a tutte le persone e opportunamente protetta dalla legge; a questo<br />

scopo, si impegna a redigere questa lista, in debita cooperazione con i Parlamenti degli Stati membri, che deve essere<br />

sottoposta all’approvazione finale da parte dei Parlamenti. 123<br />

2. Richiede che la <strong>cittadinanza</strong> dell’Unione sia stabilita e inserita nei trattati in un titolo separato;” 124<br />

3. Richiede che i connazionali degli Stati membri siano considerati cittadini dell’Unione sotto ogni riguardo e che i trattati<br />

rendano i cittadini direttamente responsabili per l’esercizio dei loro fondamentali <strong>diritti</strong> di <strong>cittadinanza</strong>; 125<br />

4. Considera che l’Unione, nel perseguire i suoi propri obiettivi, porrà a se stessa il fondamentale intento di facilitare<br />

l’esercizio e lo sviluppo dei <strong>diritti</strong> dei cittadini e l’adempimento dei loro doveri, in parallelo con il progresso verso il<br />

compimento dell’Unione Europea; 126<br />

5. Sottolinea ancora una volta il bisogno che i <strong>diritti</strong> sociali siano pienamente riconosciuti e rispettati sulla base di un<br />

sostanziale ampliamento delle proposte contenute nella Carta sociale, e siano protetti in sintonia con gli accordi internazionali<br />

rilevanti, specialmente con la dichiarazione fatta dal Consiglio d’Europa; sottolinea in particolare il diritto dei<br />

cittadini a eque opportunità e al pieno sviluppo del loro potenziale entro i loro abituali dintorni; sottolinea l’importanza<br />

dell’uguaglianza tra uomini e donne; 127<br />

6. Sottolinea che il raggiungimento di questo obiettivo richiede iniziative della Comunità nella forma di attive politiche<br />

definite e applicate in collaborazione con gli Stati membri; 128<br />

7. Richiede sia data ai cittadini completa libertà di prendere parte alla vita politica degli Stati membri e dell’Unione, attraverso<br />

l’adesione ad associazioni, partiti politici, o sindacati, o in qualsiasi altro modo compatibile con il rispetto dei<br />

<strong>diritti</strong> e delle libertà fondamentali; 129<br />

8. Richiede che sia garantito a ogni cittadino il diritto di votare e di candidarsi alle elezioni europee negli Stati membri<br />

dove vive o, se così preferisce, nel suo Paese d’origine, soggetto a condizioni che devono essere formulate in una legge<br />

elettorale uniforme; 130<br />

9. Rinnova la sua richiesta che, alle condizioni appropriate, ai cittadini viventi in uno Stato diverso dal loro Paese<br />

d’origine sarà garantito il diritto di votare alle elezioni locali, come lo sarà a tutti gli stranieri residenti; 131<br />

10. Richiede che nessuna legge possa essere imposta ai cittadini da parte delle istituzioni della Comunità senza il consenso<br />

degli appropriati rappresentanti eletti; 132<br />

123 Questo impegno troverà effettivamente soddisfazione solo con la convocazione della prima Convenzione e con la<br />

redazione e l’approvazione, da parte di essa, della “Carta dei <strong>diritti</strong> fondamentali dell’Unione”, nonché con<br />

l’inserimento di quest’ultima nel Trattato costituzionale europeo, e ora con l’impegno a farla ratificare dai Parlamenti<br />

degli Stati membri e inserire la menzione di essa e del suo valore legale vincolante nel nuovo trattato emendativo e perciò<br />

nei trattati costitutivi.<br />

124 Ciò sarà effettivamente realizzato nel successivo trattato sull’Unione Europea, firmato a Maastricht.<br />

125 Ciò significava rendere i cittadini protagonisti in prima persona della “<strong>cittadinanza</strong> europea”, disancorandoli dalla<br />

tutela del rispettivo Stato membro di appartenenza in rapporto all’esercizio dei <strong>diritti</strong> in essa previsti.<br />

126 In tal modo la difesa dei <strong>diritti</strong> umani diventava il principale obiettivo della futura Unione.<br />

127 In tal modo si richiedeva ufficialmente l’inserimento dei <strong>diritti</strong> sociali entro il campo dei <strong>diritti</strong> umani e delle libertà<br />

fondamentali, sui quali si sarebbe basata l’Unione, confermando la necessità di un ampliamento rispetto ai <strong>diritti</strong> contenuti<br />

nella Carta sociale.<br />

128 In tal modo si faceva direttamente discendere dalla posizione dei <strong>diritti</strong> la necessità di stabilire politiche attuative di<br />

essi come oggetto di competenza concorrente dell’Unione ossia condivisa tra l’Unione e gli Stati membri.<br />

129 In tal modo si dischiudeva la possibilità di una democrazia europea nel senso compiuto del termine, sia nella sua dimensione<br />

rappresentativa, sia nella sua dimensione partecipativa.<br />

130 In tal modo si confermava il carattere transnazionale del Parlamento Europeo, proprio in quanto rappresentativo dei<br />

cittadini europei in quanto tali, dato che con tale misura si sottolineava che erano loro propriamente il vero suo corpo<br />

elettorale (attivo e passivo) anche all’interno del territorio del singolo Stato membro. Al medesimo principio si ispirava<br />

pure la necessità di stabilire una legge elettorale uniforme del PE, valida per tutti gli Stati membri.<br />

131 In tal modo si configurava la piena partecipazione di ogni cittadino europeo alla vita non solo civile, ma anche politica<br />

della città in cui egli risiede, in qualunque luogo del territorio dell’Unione essa si trovi, dando con ciò una prima<br />

grande conferma istituzionale del concetto di “democrazia glocale”. Ma soprattutto si poneva questo diritto come altrettanto<br />

valido per tutti gli stranieri residenti.<br />

132 In tal modo la risoluzione poneva il Parlamento Europeo come necessario soggetto legislatore europeo.


11. Richiede il pieno e illimitato diritto di movimento e di residenza nel territorio dell’Unione per tutti i cittadini, e per<br />

tutte le persone residenti legalmente nella Comunità, e di mettere fuori legge le ultime vestigia di discriminazione, in<br />

particolare per motivi di nazionalità; 133<br />

12. Richiede che tutte le attività aventi un rapporto con la libertà dei cittadini e delle persone in generale, in particolare<br />

quelle relative alla sicurezza interna, e all’entrata nel e all’uscita dal territorio della Comunità, siano rese soggette<br />

all’opportuno grado di controllo parlamentare; richiede in particolare che gli accordi di cooperazione di polizia e giudiziaria,<br />

conclusi per creare un complemento al libero movimento , incluso il diritto di residenza, siano resi parte della<br />

legge della Comunità e che le disposizioni relative, così come la loro applicazione, siano governate da atti del Parlamento,<br />

soggette al controllo parlamentare e opportunamente protette dalla legge; 134<br />

13. Richiede che ai cittadini sia garantita un’amministrazione equa, trasparente ed efficiente; 135<br />

14. Richiede che ai cittadini sia garantita una protezione diplomatica, dove del caso, non solo da parte del Paese<br />

d’origine, ma anche da parte degli altri Stati membri dell’Unione; 136<br />

15. Richiede che agli stranieri residenti siano garantiti i <strong>diritti</strong> richiesti al fine di condurre un’attività economica, occupazionale<br />

o sociale pienamente legale, e che qualsiasi forma di discriminazione sia proibita e soggetta a sanzioni dal<br />

momento che a loro sia stato dato permesso di esercitare tali attività; 137<br />

16. Richiede che sia più chiaramente definito il concetto di “persone residenti legalmente nella Comunità”; 138<br />

17. Richiede che, in aggiunta, agli stranieri residenti e ai cittadini sia dato riconoscimento dei <strong>diritti</strong>, libertà e garanzie<br />

essenziali a permettere alla personalità umana di trovare la più piena espressione, come un individuo o entro un’unità<br />

sociale, in particolare un’unità familiare; 139<br />

18. Sottolinea il bisogno che le norme enunciate dalla Comunità e dai suoi Stati membri sulla libertà di movimento per<br />

le persone tengano conto specialmente dell’estrema povertà che interessa diversi milioni di cittadini della Comunità (il<br />

“quarto mondo”) e che impedisce loro di esercitare i loro <strong>diritti</strong> sociali e politici, inclusa la libertà di movimento e<br />

d’insediamento; 140<br />

19. Richiede che il suo comitato appropriato indaghi più a fondo sulle questioni specifiche dell’acquisizione e della perdita<br />

della <strong>cittadinanza</strong>, dei <strong>diritti</strong> elettorali, e dei <strong>diritti</strong> e delle obbligazioni dei residenti diversi dai cittadini;”<br />

Il complesso e quanto mai ricco e generoso dispositivo della risoluzione del PE “sulla <strong>cittadinanza</strong><br />

dell’Unione” sarà destinato in generale ad alimentare il successivo dibattito politico europeo (nelle<br />

istituzioni europee, ma anche nei singoli Stati membri) e le successive acquisizioni per tutti gli anni<br />

a venire sino a tuttora. Tuttavia, per il momento, lo spazio d’intervento sulla CIG sull’Unione politica<br />

sembrava ormai chiudersi, con risultati largamente inferiori alle aspettative.<br />

Infatti il successivo Consiglio europeo di Lussemburgo del 28-29 giugno 1991, nelle sue conclusioni,<br />

prevedeva esplicitamente la fusione dei risultati delle due CIG all’interno di un unico Trattato<br />

sull’Unione Politica e sull’Unione Economica e Monetaria, 141 proponendo la sua entrata in vigore<br />

per il 1° gennaio 1993.<br />

I punti considerati nelle conclusioni del Consiglio europeo erano i seguenti: 1) l’Unione Politica; 2)<br />

l’Unione Economica e Monetaria; 3) il mercato interno; 4) la dimensione sociale; 5) il libero movimento<br />

delle persone; 6) la lotta alle droghe.<br />

133 In tal modo la fondamentale libertà di movimento e di residenza all’interno dell’Unione veniva fatta diventare un universale<br />

diritto civile, valido anche per gli stranieri residenti.<br />

134 In quanto riferita alla realizzazione effettiva dei <strong>diritti</strong> e delle libertà fondamentali, la tanto più necessaria predisposizione<br />

di un’adeguata sicurezza interna e di un severo controllo delle frontiere esterne della Comunità e soprattutto di<br />

una cooperazione di polizia e giudiziaria in materia di libertà di movimento e di residenza nella CE avrebbe dovuto ricadere<br />

nell’ambito della legge europea e dunque dei poteri del Parlamento Europeo.<br />

135 Questo diritto entrerà effettivamente nelle acquisizioni comunitarie.<br />

136 Questo diritto entrerà effettivamente nelle acquisizioni comunitarie.<br />

137 In tal modo veniva prefigurato l’istituto di una sanzionabilità, stabilita dalle istituzioni della Comunità, delle discriminazioni<br />

nei confronti degli stranieri residenti svolgenti un’attività legale.<br />

138 Tutti i <strong>diritti</strong> attribuiti agli stranieri residenti sottintendevano il loro possesso di una “residenza legale”, che avrebbe<br />

dovuto essere perciò anch’essa definita in modo univoco e regolata in modo uniforme a livello comunitario.<br />

139 Tale richiesta, come già notato, racchiudeva in sé tutte le altre, in quanto definiva lo stesso scopo ultimo dei <strong>diritti</strong><br />

umani e delle libertà fondamentali, e proprio perciò lasciava aperta la strada a ulteriori sviluppi nell’elaborazione e nella<br />

codificazione di essi.<br />

140 Questa richiesta metteva in conto l’obbligo, da parte della Comunità, di prevedere particolari agevolazioni finanziarie<br />

per i cittadini europei più poveri, soprattutto in ordine all’effettivo esercizio della libertà di movimento e<br />

d’insediamento nel territorio comunitario.<br />

141 Tale trattato doveva basarsi sul Progetto di trattato sull’Unione presentato il 18 giugno 1991 dalla presidenza lussemburghese<br />

del Consiglio europeo quale fusione dei risultati dei lavori sino ad allora svolti delle due CIG.


Naturalmente il punto più importante era ancora una volta il primo. Per quanto riguarda l’”Unione<br />

Politica”, il Consiglio europeo prendeva in considerazione: a) i principi; b) la politica estera e di sicurezza<br />

comune; c) la legittimazione democratica; d) la politica sociale; e) la coesione economica e<br />

sociale; f) l’adempimento della legge della Comunità; g) la cooperazione negli affari interni e giudiziaria.<br />

Quanto ai “principi”, il Consiglio europeo enunciava i seguenti: a) pieno mantenimento e sviluppo<br />

dell’acquis communautaire, b) un unico quadro istituzionale con procedure appropriate ai requisiti<br />

delle varie sfere d’azione, c) la natura evolutiva del processo d’integrazione o d’unione, d) il principio<br />

di sussidiarietà, e) il principio della coesione economica e sociale e soprattutto f) la creazione<br />

della <strong>cittadinanza</strong> dell’Unione.<br />

Quanto alla “politica estera e di sicurezza comune” (PESC), il Consiglio europeo auspicava un approccio<br />

autenticamente globale della PESC, esprimendo:<br />

“il desiderio unanime di rafforzare l’identità e il ruolo dell’Unione come un’entità politica sulla scena internazionale,<br />

così come la preoccupazione di assicurare la coerenza di tutte le sue attività esterne. […] La politica estera e di sicurezza<br />

comune si estenderà a tutte le questioni relative alla sicurezza dell’Unione.”<br />

Quanto alla “legittimazione democratica”, il Consiglio europeo confermava la necessità di rafforzare<br />

“il ruolo politico, legislativo e di monitoraggio del Parlamento Europeo, che deve andare di pari<br />

passo con lo sviluppo dell’Unione”, proponendo il riconoscimento del principio della procedura decisionale.<br />

Quanto alla “cooperazione negli affari interni e giudiziaria”, la stessa CIG aveva presentato delle<br />

proposte relative a 1) la politica sull’asilo, sull’immigrazione e sugli stranieri e 2) la lotta contro il<br />

traffico internazionale di droga e il crimine organizzato (con la previsione della piena creazione di<br />

un Ufficio investigativo centrale europeo, “Eurogol”). In tal modo questi temi, altrimenti tipici delle<br />

competenze dei ministri dell’interno o della giustizia dello Stato nazionale, ma, con l’avvento prossimo<br />

di un’Europa senza frontiere interne, affrontabili ormai soltanto a livello comunitario, venivano<br />

proposti come nuovi settori d’azione per l’Unione Europea in quanto tale, prefigurando per<br />

quest’ultima un nuovo ampio campo d’azione comune, la ”politica degli affari interni e giudiziaria”.<br />

Infine il successivo Consiglio europeo di Maastricht del 9-10 dicembre 1991 annunciò la conclusione<br />

delle due CIG e la fusione dei rispettivi risultati in un unico testo ovvero nel progetto di un trattato<br />

sull’Unione Europea, che avrebbe dovuto essere firmato all’inizio del febbraio 1992.<br />

II. Il Trattato di Maastricht<br />

E difatti i ministri degli esteri e delle finanze degli Stati membri firmavano poi a Maastricht il 7<br />

febbraio 1992 il Trattato sull’Unione Europea.<br />

Il trattato confermava le proprie finalità generali già nel suo Preambolo, dove gli Stati membri affermavano<br />

la loro volontà di “segnare una nuova tappa nel processo d’integrazione europea”, dal<br />

momento che con la “fine della divisione del continente europeo” si imponeva “la necessità di creare<br />

solide basi per l’edificazione dell’Europa futura”. Tali solide basi erano da ricercare in primo<br />

luogo nel “proprio attaccamento ai principi della libertà, della democrazia e del rispetto dei <strong>diritti</strong><br />

dell’uomo e delle libertà fondamentali, nonché dello Stato di diritto” e insieme nel desiderio di “intensificare<br />

la solidarietà tra i loro popoli”. La garanzia di tale impegno democratico era la istituzione<br />

di “una <strong>cittadinanza</strong> comune ai cittadini dei loro Paesi”. Coniugando la rinnovata democrazia<br />

delle istituzioni con una loro rafforzata efficienza, sarebbe stato possibile ottenere la loro efficacia<br />

complessiva in ordine al conseguimento dei compiti loro affidati. L’efficienza delle istituzioni era<br />

da individuare a sua volta nella creazione di “un contesto istituzionale unico”, valido per tutti i pur<br />

diversi settori di azione emersi dallo sviluppo dell’integrazione europea. E tale contesto istituzionale<br />

unico doveva essere appunto quello dato dalla creazione dell’”Unione europea”.<br />

Il testo vero e proprio del trattato concentrava la propria attenzione sull’Unione Europea in quanto<br />

tale nella prima parte di esso, dedicata alle cosiddette “Disposizioni comuni”.


Qui l’Unione Europea veniva subito definita solo come “una nuova tappa nel processo di creazione”<br />

(come diceva già il Preambolo: da “portare avanti”) “di un’unione sempre più stretta tra i popoli<br />

dell’Europa, in cui le decisioni siano prese il più vicino possibile ai cittadini” (come aggiungeva già<br />

il Preambolo: “secondo il principio di sussidiarietà”). 142 In altri termini veniva formalmente riconosciuto<br />

che l’Unione avrebbe dovuto avere un diretto rapporto con la <strong>cittadinanza</strong> “comune” (che infatti<br />

era denominata “<strong>cittadinanza</strong> dell’Unione”), ma che per il momento non poteva averlo. La<br />

spiegazione era data dal fatto che<br />

“l’Unione è fondata sulle Comunità europee, integrate dalle politiche e forme di cooperazione instaurate dal presente<br />

trattato. Essa ha il compito di organizzare in modo coerente e solidale le relazioni tra gli Stati membri e tra i loro popoli.”<br />

In altri termini: l’Unione si imponeva soprattutto come quel “contesto istituzionale unico” atto a tenere<br />

insieme settori d’azione estremamente diversi tra loro quanto a modalità di gestione ossia i<br />

nuovi tre “pilastri” dell’Unione:<br />

1) i settori rientranti, direttamente o indirettamente, nell’orbita dei trattati costitutivi delle Comunità<br />

(in particolare della CEE), che infatti restavano in vigore, ossia tutto ciò che atteneva al campo economico<br />

e sociale; nonché due settori considerati estranei all’orizzonte delle Comunità ossia:<br />

2) il settore già della Cooperazione europea in politica estera, destinato a divenire ora la vera e propria<br />

“politica estera e di sicurezza comune” (PESC) e<br />

3) il nuovo settore emerso proprio dalla libera circolazione delle persone ossia quello della sicurezza<br />

interna, destinato a dar luogo ora alla semplice “cooperazione nel settore della giustizia e degli<br />

affari interni”.<br />

Malgrado una “<strong>cittadinanza</strong> dell’Unione”, proprio in quanto finalizzata alla “tutela dei <strong>diritti</strong> e degli<br />

interessi dei cittadini degli Stati membri”, avrebbe dovuto prospettare una voce in capitolo di questi<br />

ultimi a proposito di tutti e tre gli ambiti, e in particolare proprio del terzo (in quanto avente a che<br />

fare direttamente con i <strong>diritti</strong> e le libertà del cittadino), ciò non era tuttavia possibile. Infatti:<br />

a) il trattato non prevedeva affatto una Dichiarazione dei <strong>diritti</strong> dell’Unione a cui far riferimento<br />

preciso e vincolante in tribunale, bensì si limitava a dire che: “L’Unione rispetta i <strong>diritti</strong> fondamentali<br />

quali sono garantiti dalla Convenzione europea” (senza peraltro prospettare la sua adesione effettiva<br />

a quest’ultima) “e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in<br />

quanto principi generali del diritto comunitario”;<br />

b) l’istituzione dell’Unione rappresentativa dei “cittadini dell’Unione” ossia il Parlamento Europeo<br />

era ritenuto di fatto avere la propria autorità esclusivamente nel quadro dei trattati comunitari e<br />

dunque restava sostanzialmente esclusa una sua competenza effettiva nell’ambito degli altri due “pilastri”,<br />

sostanzialmente riservati al potere decisionale degli Stati membri.<br />

In ultima analisi il “contesto istituzionale unico” che l’Unione Europea avrebbe dovuto comportare,<br />

si riduceva sostanzialmente allo stesso Consiglio Europeo (comprensivo dei capi di Stato o di governo<br />

e del presidente della Commissione), che “dà all’Unione l’impulso necessario e ne definisce<br />

gli orientamenti politici generali”. 143<br />

La conseguenza paradossale di questa situazione era che l’intero dispositivo riguardante la “<strong>cittadinanza</strong><br />

dell’Unione”, la quale avrebbe dovuto essere la legittimazione democratica ultima della nuo-<br />

142 Ben più chiaro e incisivo era il testo del citato Progetto di trattato sull’Unione (proposto dalla Presidenza alla CIG):<br />

“Il presente trattato segna una nuova tappa nel processo graduale verso un’Unione a vocazione federale.”<br />

143 Il Consiglio europeo diventava così ufficialmente l’unica istituzione propria della neonata Unione Europea in quanto<br />

tale (comprensiva dei tre pilastri), con un’autorità esclusiva e quindi un potere pressoché illimitato e perciò con<br />

un’enorme responsabilità, pari soltanto alla sostanziale irresponsabilità (nel senso politico-istituzionale del termine) di<br />

fronte alle stesse istituzioni comunitarie, di cui infatti non faceva parte (vedi oltre). Che i suoi componenti fossero gli<br />

stessi capi di Stato o di governo degli Stati membri, nonché lo stesso presidente della Commissione europea, non toglieva<br />

che, nell’esercizio delle funzioni di membri del Consiglio europeo, essi non dovessero rispondere a chicchessia<br />

delle decisioni di quest’ultimo. In tal senso la sua natura presentava perciò tratti analoghi a quelli del tradizionale capo<br />

di Stato o meglio del monarca.


va Unione Europea in quanto tale, finiva proprio nei trattati costitutivi delle Comunità e precisamente<br />

nel trattato CEE, dove non si fa cenno alcuno all’Unione in quanto tale.<br />

A questo proposito il trattato di Maastricht, nella sua seconda parte, indicava appunto le “Disposizioni<br />

che modificano il trattato che istituisce la Comunità economica europea per creare la Comunità<br />

Europea”. Tale titolo significava che d’ora in poi la CEE sarebbe divenuta la Comunità Europea<br />

(CE), a motivo dei nuovi settori d’azione propri di essa, largamente eccedenti la sfera puramente<br />

economica. Alla nuova CE veniva data perciò la seguente, nuova e complessiva, missione:<br />

“La Comunità ha il compito di promuovere, mediante l’instaurazione di un mercato unico e di un’unione economica e<br />

monetaria e mediante l’attuazione delle politiche e delle azioni comuni” [descritte oltre] “uno sviluppo armonioso ed<br />

equilibrato delle attività economiche nell’insieme della Comunità, una crescita sostenibile, non inflazionistica e che rispetti<br />

l’ambiente, un elevato grado di convergenza dei risultati economici, un elevato livello di occupazione e di protezione<br />

sociale, il miglioramento del tenore e della qualità della vita, la coesione economica e sociale e la solidarietà tra<br />

gli Stati membri”.<br />

I nuovi principi regolativi della rafforzata autorità della Comunità Europea dovevano essere quello<br />

di “attribuzione” e soprattutto quello di “sussidiarietà” (tipici di un ordinamento “a vocazione federale”):<br />

“La Comunità agisce nei limiti delle competenze che le sono conferite e degli obiettivi che le sono assegnati dal presente<br />

trattato.<br />

Nei settori che non sono di sua esclusiva competenza la Comunità interviene, secondo il principio della sussidiarietà,<br />

soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli<br />

Stati membri e possono dunque, a motivo delle dimensioni o degli effetti dell’azione in questione, essere realizzati meglio<br />

a livello comunitario.”<br />

Senza connessione né con tale missione complessiva, né con le politiche e azioni comuni previste,<br />

né con i due principi citati, una nuova Parte II del trattato CE veniva interamente dedicata (per i motivi<br />

sopra addotti) alla “<strong>cittadinanza</strong> dell’Unione”. Di essa si diceva semplicemente che spetta esclusivamente<br />

ai cittadini degli Stati membri e consiste unicamente nella seguente serie di <strong>diritti</strong> “speciali”<br />

o specifici:<br />

a) “di circolare e di soggiornare liberamente” nel territorio dell’Unione;<br />

b) “di voto e di eleggibilità alle elezioni comunali nello Stato membro in cui risiede”, anche se diverso<br />

dal proprio;<br />

c) “di voto e di eleggibilità alle elezioni del Parlamento Europeo nello Stato membro in cui risiede”,<br />

anche se diverso dal proprio;<br />

d) alla “tutela da parte delle autorità diplomatiche e consolari di qualsiasi Stato membro” in Paesi<br />

terzi;<br />

e) “di petizione dinanzi al Parlamento Europeo” (vedi oltre);<br />

f) di “rivolgersi al Mediatore” (vedi oltre).<br />

In tal modo si configurava una “<strong>cittadinanza</strong> europea” (e dunque anche un’Unione Europea) alquanto<br />

diversa da quella prospettata dal Parlamento Europeo nelle sue risoluzioni ovvero una serie di<br />

opportunità molto appetibili (nel senso dell’”Europa del popolo, della gente, dei cittadini”), ma sostanzialmente<br />

vuota di un nucleo fondati vo unitario e perciò scevra di impatto sia sullo sviluppo<br />

democratico dell’Unione, sia, prima ancora, sulla stessa consapevolezza politica dei “cittadini europei”<br />

in quanto tali, che, al di fuori del godimento di quei <strong>diritti</strong> specifici, erano e restavano, come<br />

prima, nient’altro che i cittadini degli Stati membri. Con tutti questi limiti, il trattato di Maastricht,<br />

peraltro, oltre a dare realtà al vecchio sogno di un’”Unione Europea” (tale almeno di nome), offriva,<br />

già con l’istituzione di una “<strong>cittadinanza</strong> dell’Unione” e con gli stessi <strong>diritti</strong> da esso previsti, la possibilità<br />

di andare oltre, nella direzione ammessa e prevista nel trattato stesso.<br />

Una ben più sostanziosa modifica al trattato CE era data dalla previsione di una nutrita serie di “politiche<br />

della Comunità”.<br />

Già per quanto riguarda la libera circolazione dei capitali, vi si aggiungeva infatti il divieto di “tutte<br />

le restrizioni sui pagamenti tra Stati membri, nonché tra Stati membri e paesi terzi”.


Ma, sempre in vista della creazione dell’Unione economica e monetaria (comprensiva di una moneta<br />

unica), si prevedeva la creazione di una vera e propria “politica economica e monetaria” (trattato<br />

CE, parte III, titolo VI), comprensiva di una nuova “politica monetaria” (capo 2), con relative “disposizioni<br />

istituzionali” (capo 3), che prevedevano la creazione in particolare della Banca centrale<br />

europea (BCE) e del Sistema europeo delle banche centrali (SEBC) (comprensivo della BCE e delle<br />

banche centrali degli Stati membri), e “disposizioni transitorie” (capo 4), in cui si esponevano nel<br />

dettaglio le varie fasi della creazione dell’UME, durante le quali avrebbe rivestito particolare importanza<br />

la creazione e l’attività dell’Istituto monetario europeo (IME). 144<br />

Al di là della stessa UME, grande rilievo assumeva peraltro il potenziamento delle politiche già<br />

proprie della CE e soprattutto l’inserimento di nuovi campi d’azione, quali:<br />

- (titolo VIII) la politica sociale, a cui venivano unite disposizioni su educazione, formazione professionale<br />

e gioventù (capo 3), quale “contributo ad un’istruzione e ad una formazione di qualità”,<br />

- (titolo IX) la cultura, quale contributo “al pieno sviluppo delle culture degli Stati membri”,<br />

- (titolo X) la sanità pubblica, quale “contributo al conseguimento di un elevato livello di protezione<br />

della salute”,<br />

- (titolo XI) la protezione dei consumatori , quale “contributo” al suo rafforzamento,<br />

- (titolo XII) le reti transeuropee, come “incentivazione” della loro creazione e sviluppo,<br />

- (titolo XIII) l’industria, per “il rafforzamento della competitività dell’industria comunitaria”,<br />

- (titolo XVII) la cooperazione allo sviluppo, con una vera politica relativa a essa.<br />

Quanto alle “disposizioni istituzionali”, veniva operato un generale rafforzamento di tutte le “istituzioni”<br />

della CE, individuate in: Parlamento Europeo, Consiglio, Commissione, Corte di giustizia e<br />

Corte dei conti. 145<br />

Per quanto riguarda il Parlamento Europeo, anche nel suo caso si scontava l’ambiguità già riscontrata<br />

a proposito della <strong>cittadinanza</strong> dell’Unione. La mancanza di una definizione di quest’ultima e la<br />

sua semplice attribuzione ai cittadini degli Stati membri faceva sì che anche il Parlamento Europeo<br />

venisse definito come “composto di rappresentanti dei popoli degli Stati riuniti nella Comunità”,<br />

come se nelle elezioni del PE i cittadini dell’Unione, proprio in quanto, in realtà, cittadini degli Stati<br />

membri, andassero a eleggere semplicemente i rappresentanti del proprio rispettivo popolo, ovvero<br />

come se il PE, per usare un’analogia con la situazione americana, fosse una sorta di Senato degli<br />

Stati Uniti, piuttosto che di Camera dei Rappresentanti.<br />

E tuttavia, anche nel caso del Parlamento Europeo, vi erano delle evidenti novità:<br />

a) in primo luogo si prospettava la possibilità di “permettere l’elezione a suffragio universale diretto,<br />

secondo una procedura uniforme in tutti gli Stati membri”. Ciò avrebbe indubbiamente permesso<br />

una maggiore omogeneità tra i diversi risultati nazionali nella rappresentanza complessiva e soprattutto<br />

l’acquisizione di un maggiore senso di appartenenza del cittadino dell’Unione a un unico corpo<br />

elettorale europeo.<br />

b) in secondo luogo veniva riconosciuto il valore dei “partiti politici a livello europeo”, che, secondo<br />

il trattato, “sono un importante fattore per l’integrazione in seno all’Unione. Essi contribuiscono<br />

a formare una coscienza europea e ad esprimere la volontà politica dei cittadini dell’Unione” 146 . Qui<br />

144 Al fine di assicurare il perfetto adeguamento della Banca d’Italia al futuro IME, Carlo Azeglio Ciampi aveva ottenuto<br />

l’approvazione da parte del Parlamento italiano, avvenuta lo stesso giorno della firma del trattato di Maastricht, di<br />

un’apposita legge nazionale, la legge n. 82 del 7 febbraio 1992, che stabiliva che la decisione sul tasso di sconto fosse di<br />

competenza esclusiva del governatore della Banca d’Italia e non dovesse essere più concordata di concerto con il Ministro<br />

del Tesoro. In tal modo la Banca d’Italia si allineava alla Bundesbank tedesca quanto alla perfetta indipendenza dal<br />

potere politico, prefigurando in tal modo l’analoga indipendenza che avrebbe assunto la futura Banca Centrale Europea<br />

(BCE). A questo proposito Ciampi aveva pure collaborato alla redazione del Protocollo, annesso al trattato di Maastricht,<br />

“sullo statuto del Sistema europeo di banche centrali e della Banca centrale europea”.<br />

145 Risultava quindi confermata l’assenza, fra le istituzioni della CE, del Consiglio europeo.<br />

146 Quale immediata conseguenza di questo dettato del trattato di Maastricht, altri due nuovi partiti politici europei sorgeranno<br />

dopo la sua firma: il Partito del Socialismo Europeo (PSE) nel 1992 e il Partito Europeo dei Liberali, Democratici<br />

e Riformatori (ELDR) nel 1993, che sono tuttora rispettivamente il secondo e il terzo partito politico più importante<br />

nell’ambito dell’UE e quindi nel PE. Il PSE avrebbe compreso, a livello nazionale, tra l’altro, la tedesca SPD, il<br />

francese PSF, gli italiani PSI (destinato a scomparire nel 1994) e PDS e il britannico LP. Il PDS (Partito Democratico


finalmente veniva richiamato a chiare lettere il punto fondamentale ossia la necessità di attuare una<br />

effettiva integrazione dentro l’Unione in quanto tale, altrimenti destinata a restare un “cappello” coprente<br />

realtà molto diverse tra loro ossia i “tre pilastri”. Tale integrazione sarebbe stata permessa<br />

proprio dalla formazione di una reale “coscienza europea” nei cittadini degli Stati membri, solo la<br />

quale li avrebbe effettivamente trasformati in autentici “cittadini dell’Unione”, consentendo loro di<br />

maturare, di conseguenza, una genuina “volontà politica” europea nei confronti dell’Unione. E appunto<br />

la formazione di “partiti politici a livello europeo” avrebbe potentemente contribuito in tal<br />

senso, in quanto ciascuno di essi avrebbe offerto un’immagine d’Europa definita e alternativa a<br />

quella offerta da altri, consentendo quindi all’elettore, chiamato a scegliere proprio in quanto cittadino<br />

europeo, la possibilità di precisare meglio a se stesso in quale immagine d’Europa potesse riconoscersi<br />

e di conseguenza quale volontà politica far valere, attraverso il suo voto a un determinato<br />

partito politico, nell’ambito di un Parlamento Europeo, rappresentativo dei cittadini dell’Unione in<br />

quanto tali e ripartito solo in base ai diversi orientamenti politici espressi dall’unico corpo elettorale<br />

europeo. Naturalmente la capacità dei “partiti politici a livello europeo” di realizzare tale trasformazione<br />

degli elettori in veri “cittadini dell’Unione” sarebbe dipesa dagli effettivi poteri di cui il Parlamento<br />

Europeo poteva disporre. Ma questi ultimi venivano riferiti non già all’Unione in quanto<br />

tale, bensì solo al suo “primo pilastro” ossia all’ambito delle Comunità, così come, di conseguenza,<br />

i <strong>diritti</strong> effettivi dei “cittadini dell’Unione”. Tuttavia, entro tale limite,<br />

c) in terzo luogo veniva riconosciuto che “il Parlamento Europeo partecipa al processo per<br />

l’adozione degli atti comunitari”. In tal modo gli veniva attribuito il potere di codecisione, insieme<br />

al Consiglio, per tutti i tipi di atti giuridici delle Comunità, compresi gli atti vincolanti. A questo<br />

proposito, nelle “Disposizioni comuni a più istituzioni”, un emendamento al trattato CE precisava:<br />

“Per l’assolvimento dei loro compiti e alle condizioni contemplate dal presente trattato il Parlamento europeo, congiuntamente<br />

al Consiglio, il Consiglio e la Commissione adottano regolamenti e direttive, prendono decisioni e formulano<br />

raccomandazioni e pareri.<br />

Il regolamento ha portata generale. Esso è obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli<br />

Stati membri.<br />

La direttiva vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza<br />

degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi.<br />

La decisione è obbligatoria in tutti i suoi elementi per i destinatari da essa designati.<br />

Le raccomandazioni e i pareri non sono vincolanti.”<br />

Tuttavia non sempre tali atti dovevano essere adottati in base alla procedura di codecisione, bensì<br />

solo laddove precisato dallo stesso trattato CE emendato. In ogni caso la procedura di codecisione<br />

aveva i seguenti punti comuni: a) verteva su una proposta della Commissione (detentrice del diritto<br />

d’iniziativa “legislativa”) e b) contemplava una deliberazione del Consiglio a maggioranza qualificata<br />

(introducendo un principio insieme di democrazia e di efficienza, con la previsione quindi di<br />

una maggiore efficacia complessiva delle attività di questa istituzione).<br />

Il coinvolgimento più importante del PE era peraltro quello relativo alla formazione della Commissione.<br />

La nuova procedura prevedeva infatti: 1) la durata del mandato di essa non più di quattro,<br />

bensì di cinque anni (come quella del mandato del PE); 2) la designazione del suo presidente e dei<br />

suoi membri da parte dei governi degli Stati membri (in pratica dal Consiglio europeo),<br />

l’approvazione della nuova Commissione da parte del PE e infine la vera e propria nomina di essa<br />

da parte degli stessi governi degli Stati membri (in pratica dal Consiglio europeo); 3) l’inizio del<br />

mandato della futura Commissione eletta secondo tale procedura fissato per il 7 gennaio 1995 (allo<br />

scopo di “sincronizzare” la formazione della Commissione con l’elezione del futuro PE prevista per<br />

il giugno 1994). In tal modo veniva riconosciuto che la Commissione doveva godere della fiducia<br />

del Parlamento Europeo, consentendo a quest’ultimo un maggiore potere nei confronti di essa e vi-<br />

della Sinistra) era l’esito della trasformazione post-comunista, avvenuta nel 1991 (in seguito alla fine dei regimi comunisti<br />

in Europa), del Partito Comunista Italiano (PCI) e si sarebbe trasformato ancora, nel 1998, nei Democratici di Sinistra<br />

(DS). Attualmente è prevista la sua fusione, assieme ad altri partiti politici italiani, nel futuro Partito Democratico<br />

(PD), che con tutta probabilità non farà peraltro parte del PSE.


ceversa alla Commissione una legittimazione democratica dei propri accresciuti poteri esecutivi e<br />

quindi di “governo” delle Comunità.<br />

d) in quarto luogo veniva riconosciuto al PE il diritto di “costituire una commissione temporanea<br />

d’inchiesta incaricata di esaminare […] le denunce di infrazione o di c<strong>attiva</strong> amministrazione<br />

nell’applicazione del diritto comunitario […]”. In tal modo veniva riconosciuto al PE il potere di<br />

controllo sull’operato della Commissione e degli stessi Stati membri in sede di esecuzione e di applicazione<br />

degli atti delle Comunità.<br />

e) in quinto luogo veniva riconosciuto al PE il potere di ricevere “petizioni” di cittadini dell’Unione,<br />

nei seguenti termini: “Qualsiasi cittadino dell’Unione, nonché ogni persona fisica o giuridica che<br />

risieda o abbia la sede sociale in uno Stato membro, ha il diritto di presentare, individualmente o in<br />

associazione con altri cittadini o persone, una petizione al Parlamento Europeo su una materia che<br />

rientra nel campo di attività della Comunità e che lo (la) concerne direttamente”. Tale diritto quindi<br />

riguardava in realtà qualsiasi persona residente nel territorio comunitario e comportava un notevole<br />

avvicinamento del PE alla gente vivente in tale territorio. Per converso a quest’ultima nella sua globalità<br />

veniva data con ciò la possibilità di adire a un primo strumento di “democrazia europea”,<br />

proprio nel senso della stessa “democrazia partecipativa”.<br />

f) in sesto luogo al Parlamento Europeo veniva riconosciuto il potere di nominare “un Mediatore,<br />

abilitato a ricevere le denunce di qualsiasi cittadino dell’Unione o di qualsiasi persona fisica o giuridica<br />

che risieda o abbia la sede sociale in uno Stato membro, e riguardante casi di c<strong>attiva</strong> amministrazione<br />

nell’azione delle istituzioni o degli organi comunitari […]”. Anche questa misura, fortemente<br />

innovativa, poneva il PE (in quanto autore della nomina del Mediatore) in diretto rapporto<br />

con la gente tutta residente nel territorio comunitario e precisamente con la vita della singola persona,<br />

in quanto danneggiata da eventuali casi di c<strong>attiva</strong> amministrazione da parte della Comunità. E<br />

viceversa tale nuova figura, chiamata a esercitare “le sue funzioni in piena indipendenza”, offriva a<br />

ogni persona una prima possibilità di difesa di fronte agli eventuali abusi della Comunità nei suoi<br />

confronti, contribuendo con ciò a rendere (come voleva la citata risoluzione del PE sulla <strong>cittadinanza</strong><br />

dell’Unione) “i cittadini direttamente responsabili per l’esercizio dei loro fondamentali <strong>diritti</strong> di<br />

<strong>cittadinanza</strong>”.<br />

Tale difesa delle persone nei confronti di atti della Comunità veniva configurata nel seguente modo:<br />

“Conformemente alla sua missione, il Mediatore, di propria iniziativa o in base alle denunce che gli<br />

sono state presentate direttamente o attraverso un membro del Parlamento Europeo, procede alle indagini<br />

che ritiene giustificate […]”. In tal modo era offerta la possibilità: 1) allo stesso PE, nella<br />

persona di un suo membro, di presentare denuncia per conto di chiunque si sentisse danneggiato; 2)<br />

al Mediatore di godere di ampi poteri discrezionali d’inchiesta. Tale indagine avrebbe potuto comportare<br />

il seguente esito: “Qualora il Mediatore constati un caso di c<strong>attiva</strong> amministrazione, egli ne<br />

investe l’istituzione interessata, che dispone di tre mesi per comunicargli il suo parere. Il Mediatore<br />

trasmette poi una relazione al Parlamento Europeo e all’istituzione interessata. La persona che ha<br />

sporto denuncia viene informata dei risultati dell’indagine.” In tal modo la nuova figura del Mediatore<br />

si poneva (insieme all’appoggio del PE nei suoi confronti) come fondamentale elemento di<br />

ravvicinamento tra gli estremi della singola persona e delle istituzioni comunitarie, spingendo queste<br />

ultime a tener conto delle istanze individuali e viceversa rendendo le singole persone consapevoli<br />

dei propri <strong>diritti</strong>, della possibilità di farli valere in prima persona e del decisivo ruolo del Mediatore<br />

e quindi dello stesso PE nel campo della difesa dei <strong>diritti</strong>.<br />

Infine il dovere del Mediatore di presentare ogni anno “una relazione al Parlamento Europeo sui risultati<br />

delle sue indagini” ovvero sul lavoro complessivo annuale da lui svolto offriva al PE la possibilità<br />

di individuare i casi più frequenti di c<strong>attiva</strong> amministrazione e quindi di istruire una commissione<br />

d’inchiesta al proposito, secondo quanto citato sopra (alla lettera d)).<br />

Per quanto riguarda la Corte di giustizia, si introduceva il nuovo Tribunale di prima istanza e soprattutto<br />

si riconosceva alla Corte di giustizia vera e propria il diritto di: interpretare il trattato CE e<br />

quindi di:


1) eventualmente invalidare gli atti delle istituzioni comunitarie ritenuti violazioni di esso. In tale<br />

controllo di legittimità la Corte di giustizia poteva decidere in base a ricorsi, che potevano provenire<br />

sia da ognuna delle istituzioni comunitarie, sia da parte di qualsiasi Stato membro, sia da parte di<br />

qualsiasi persona (se coinvolta da un certo atto). In tal modo si configurava sempre più per la Corte<br />

di giustizia il ruolo di una sorta di “Corte costituzionale”, in grado di dirimere anche i conflitti di<br />

competenza tra le istituzioni europee, come pure tra esse e gli Stati membri, garantendo così il principio<br />

della separazione dei poteri, tipico dello Stato di diritto;<br />

2) riconoscere colpevole ed eventualmente condannare al pagamento di una somma forfetaria o di<br />

una penalità lo Stato membro inadempiente a qualche obbligo derivante dal trattato CE;<br />

3) porsi come tribunale di suprema istanza rispetto a cause dibattute in sede giurisdizionale nazionale,<br />

qualora una delle parti ricorresse alla Corte di giustizia europea per l’interpretazione e il giudizio<br />

di legittimità di un atto giuridico comunitario.<br />

Infine il trattato CE emendato prevedeva la creazione di una nuova istituzione a parte ossia della<br />

Corte dei conti, incaricata di controllare i conti di tutte le entrate e le spese della Comunità ossia<br />

l’attendibilità di essi e la legittimità e regolarità delle relative operazioni.<br />

Per quanto riguardava invece gli organi od organismi non istituzionali delle Comunità il trattato CE<br />

emendato prevedeva la creazione del nuovo Comitato delle Regioni, organismo consultivo ufficiale<br />

e permanente avente lo scopo di esprimere una voce continua delle Regioni di fronte alle istituzioni<br />

comunitarie in ordine alla produzione di atti comportanti effetti sulla coesione economica e sociale.<br />

In tal modo trovava espressione istituzionale una nuova dimensione della democrazia partecipativa<br />

europea ossia quella appunto delle Regioni o in genere degli enti locali.<br />

Il trattato di Maastricht enunciava pure delle analoghe disposizioni di modifica dei trattati delle altre<br />

due Comunità ossia della CECA e dell’EURATOM.<br />

E finalmente esso stabiliva delle disposizioni originarie sugli altri due “pilastri” dell’Unione Europea,<br />

situati entrambi al di fuori delle competenze sia del Parlamento Europeo, sia della Commissione.<br />

Per il secondo “pilastro” ossia la nuova “politica estera e di sicurezza comune” (PESC) dell’Unione,<br />

il trattato di Maastricht stabiliva con essa il completo superamento della vecchia “cooperazione politica<br />

europea nella sfera della politica estera”, sancita dall’Atto Unico europeo (che perciò era dichiarato<br />

a tal proposito, e quindi come trattato costitutivo, abrogato). La differenza del nuovo ordinamento<br />

consisteva nel fatto che si trattava appunto di una “politica comune” della nuova Unione<br />

Europea in quanto tale, comportante perciò delle “posizioni comuni” e soprattutto delle “azioni comuni”,<br />

vincolanti ogni Stato membro per quanto riguardava la loro esecuzione e applicazione. In tal<br />

modo ne sarebbe derivata una ben maggiore credibilità all’azione della nuova Unione Europea sulla<br />

scena internazionale. Inoltre si trattava di una politica “estera e di sicurezza” comune, comprensiva<br />

dunque del nuovo tema, estremamente delicato e decisivo, della sicurezza comune, visto come suscettibile<br />

di fornire già di per sé un’intima unità alla stessa politica estera comune. E infine si trattava<br />

di una politica comune “estesa a tutti i settori della politica estera e di sicurezza”. Per quanto riguardava<br />

la “politica estera”, ciò significava che la PESC avrebbe dovuto essere in piena sintonia<br />

con le politiche commerciale e di cooperazione allo sviluppo condotte dalla Comunità Europea. Per<br />

quanto riguardava invece la “politica di sicurezza” ciò avrebbe comportato il perseguimento di una<br />

“politica di difesa comune”, comprensiva a sua volta di una “difesa comune”. 147<br />

Tali ambiziosi traguardi erano finalizzati al raggiungimento dei seguenti obiettivi generali della<br />

PESC:<br />

147 Per quest’ultimo traguardo, il trattato di Maastricht disponeva: “L’Unione chiede all’Unione dell’Europa occidentale<br />

(UEO), che fa parte integrante dello sviluppo dell’Unione europea, di elaborare e di porre in essere le decisioni e le azioni<br />

dell’Unione aventi implicazioni nel settore della difesa.” In tal modo era di fatto prospettata una sorta di assorbimento<br />

dell’UEO nell’UE, come avanguardia di quest’ultima nell’allestimento di “una difesa comune” dell’Unione Europea.<br />

Il trattato di Maastricht anzi si spingeva ancora oltre, consentendo l’immediato “sviluppo di una più stretta cooperazione<br />

fra due o più Stati membri a livello bilaterale, nell’ambito dell’UEO e dell’Alleanza atlantica”, primo accenno<br />

della futura “cooperazione strutturata permanente nella politica di sicurezza e di difesa comune”, attualmente prevista.


“- difesa dei valori comuni, degli interessi fondamentali e dell’indipendenza dell’Unione; 148<br />

- rafforzamento della sicurezza dell’Unione e dei suoi Stati membri in tutte le sue forme;<br />

- mantenimento della pace e rafforzamento della sicurezza internazionale, conformemente ai principi della Carta delle<br />

Nazioni Unite, nonché ai principi dell’Atto finale di Helsinki e agli obiettivi della Carta di Parigi; [ovvero della CSCE]<br />

- promozione della cooperazione internazionale;<br />

- sviluppo e consolidamento della democrazia e dello Stato di diritto, nonché rispetto dei <strong>diritti</strong> dell’uomo e delle libertà<br />

fondamentali.”<br />

La realizzazione di tali obiettivi era affidata da un lato al Consiglio europeo, che “definisce i principi<br />

e gli orientamenti generali” della PESC, e dall’altro lato al Consiglio, che “prende le decisioni<br />

necessarie per la definizione e l’attuazione” della PESC. Entrambe le istituzioni avrebbero dovuto<br />

deliberare all’unanimità. La presidenza di turno delle due istituzioni avrebbe rappresentato la “voce<br />

unica” dell’Unione Europea sulla scena internazionale.<br />

Per il nuovo “terzo pilastro” dell’Unione Europea ossia la “cooperazione nei settori della giustizia e<br />

degli affari interni”, il trattato di Maastricht stabiliva che si trattava appunto di una semplice “cooperazione”,<br />

peraltro aperta alla possibilità di adottare “azioni comuni” e persino di elaborare “convenzioni”<br />

in settori della cooperazione, le quali li avrebbero fatti ricadere entro le competenze e<br />

l’autorità della stessa Corte di giustizia della Comunità Europea, con le conseguenze del caso quanto<br />

a grado di cogenza normativa 149 . Inoltre, anche per il “terzo pilastro”, il trattato di Maastricht<br />

prevedeva la possibilità dell’instaurazione o dello sviluppo (vedi l’”area Schengen”) “di una cooperazione<br />

più stretta tra due o più Stati membri”, come possibilità strutturale di avanzamento più rapido<br />

del processo d’integrazione europea in questo ambito.<br />

Tale nuova cooperazione, così aperta a futuri sviluppi, era dettata dalla necessità di realizzare effettivamente<br />

la stessa “libera circolazione delle persone”, di competenza della Comunità Europea, grazie<br />

all’adozione di “posizioni comuni” nei settori della “giustizia” e degli “affari interni”, situati al<br />

di fuori delle competenze della Comunità Europea, in quanto competenze tradizionali degli Stati<br />

membri.<br />

Tale cooperazione era finalizzata al raggiungimento dell’obiettivo dell’adozione di “posizioni comuni”<br />

nei seguenti settori specifici “di interesse comune”:<br />

“1) la politica di asilo;<br />

2) le norme che disciplinano l’attraversamento delle frontiere esterne degli Stati membri da parte delle persone e<br />

l’espletamento dei relativi controlli;<br />

3) la politica d’immigrazione e la politica da seguire nei confronti dei cittadini dei Paesi terzi;<br />

a) le condizioni di entrata e circolazione dei cittadini dei Paesi terzi nel territorio degli Stati membri;<br />

b) le condizioni di soggiorno dei cittadini dei Paesi terzi nel territorio degli Stati membri, compresi il ricongiungimento<br />

delle famiglie e l’accesso all’occupazione;<br />

c) la lotta contro l’immigrazione, il soggiorno e il lavoro irregolari di cittadini dei Paesi terzi nel territorio degli Stati<br />

membri;<br />

4) la lotta contro la tossicodipendenza […]<br />

5) la lotta contro la frode su scala internazionale […]<br />

6) la cooperazione giudiziaria in materia civile;<br />

7) la cooperazione giudiziaria in materia penale;<br />

148 Naturalmente la PESC era stata evocata sia nel Preambolo al trattato(dove si evocava l’endiadi “l’identità<br />

dell’Europa la sua indipendenza”, sia tra gli obiettivi generali dell’Unione in quanto tale (dove si evocava solo “la sua<br />

identità sulla scena internazionale”). In tal modo, pur in presenza della struttura a pilastri dell’UE, veniva fissata nel<br />

modo più ufficiale la necessità per la PESC di darsi come principale obiettivo quello di rafforzare “l’identità<br />

dell’Europa e la sua indipendenza” ossia il riconoscimento internazionale dell’UE come di un’unica potenza politica<br />

(coincidente con l’”Europa” ossia con l’intero continente europeo) e la conseguente attribuzione all’Unione di alcune<br />

prerogative esterne dell’indipendenza già proprie degli Stati nazionali suoi membri (politica estera, politica di difesa e<br />

difesa ossia forze armate, esercito ecc.), al servizio degli stessi fini della Carta delle Nazioni Unite.<br />

149 La previsione di tale possibilità tradiva la consapevolezza dell’insufficienza del pur esplicito “rispetto della Convenzione<br />

europea” nel caso di un soggetto, come la semplice “cooperazione”, non basato a sua volta su una o più “convenzioni”<br />

proprie (modellate sulla stessa Convenzione europea), a cui attenersi in maniera effettivamente vincolante nella<br />

definizione delle “posizioni comuni” e soprattutto nell’esecuzione di eventuali “azioni comuni”.


8) la cooperazione doganale;<br />

9) la cooperazione di polizia ai fini della prevenzione e della lotta contro il terrorismo, il traffico illecito di droga e altre<br />

forme di criminalità internazionale, compresi, se necessario, taluni aspetti di cooperazione doganale, in connessione con<br />

l’organizzazione, a livello dell’Unione, di un sistema di scambio di informazioni in seno ad un Ufficio europeo di polizia<br />

(EUROPOL).”<br />

Il raggiungimento di tale obiettivo era affidato interamente al Consiglio, le cui deliberazioni avrebbero<br />

dovuto essere prese all’unanimità. Tra le possibili decisioni previste, vi era peraltro anche<br />

quella di “dirottare” i primi sei settori specifici nell’area “ravvicinamento delle legislazioni” e quindi<br />

nell’ambito delle competenze della stessa Comunità Europea. In tal modo si sarebbe ristretta la<br />

“cooperazione” ai tre settori specifici: “giudiziaria in materia penale”, “doganale” e “di polizia”.<br />

Per quanto riguarda le “disposizioni finali”, il trattato di Maastricht ovvero il trattato istitutivo<br />

dell’Unione Europea (TUE) era dichiarato (a motivo delle sue “disposizioni comuni” sull’UE e di<br />

quelle relative agli ultimi due “pilastri” di essa) “concluso per una durata illimitata”. Pertanto il<br />

TUE entrava a far parte (accanto ai due trattati di Roma istitutivi della CE e dell’EURATOM) dei<br />

“trattati costitutivi” del processo d’integrazione europea; come tale, anche il TUE sarebbe andato<br />

incontro a una serie di emendamenti 150 , tanto più in quanto lo steso trattato definiva se stesso semplicemente<br />

come “una nuova tappa” in tale processo. Più in particolare il trattato prevedeva anzi tra<br />

gli stessi obiettivi della nuova Unione Europea quello di “rivedere le politiche e le forme di cooperazione<br />

instaurate dal presente trattato, allo scopo di garantire l’efficacia dei meccanismi e delle istituzioni<br />

comunitarie”; in altri termini: lo stesso TUE prevedeva che proprio gli ultimi due “pilastri”<br />

avrebbero dovuto essere riveduti al fine di renderli sempre più in sintonia con il primo “pilastro” ossia<br />

quello delle Comunità, prospettando così il futuro superamento della struttura “a pilastri”<br />

dell’UE verso la costruzione di un’omogenea Unione Europea. A questo proposito il TUE stesso<br />

programmava anzi la convocazione di un’apposita nuova CIG per il 1996. Tale “fretta” del TUE era<br />

dettata dalla disposizione immediatamente successiva: “Ogni Stato europeo può domandare di diventare<br />

membro dell’Unione”, senza fornire l’indicazione di precisi prerequisiti al riguardo. Ciò significava<br />

che la nuova UE dichiarava nel modo più ufficiale e aperto di essere pronta a ciò per cui<br />

era nata: costituire l’alveo di raccolta di tutti gli Stati europei, moltissimi dei quali già aspiravano<br />

all’adesione. Era con ciò partito il conto alla rovescia di una corsa contro il tempo, che avrebbe dovuto<br />

vedere un’accurata sincronizzazione tra il processo d’integrazione e quello d’allargamento, pena<br />

la disintegrazione del “progetto europeo”.<br />

Complessivamente il trattato di Maastricht fondava l’Unione Europea e anzi prevedeva per essa ulteriori<br />

approfondimenti successivi; in tal modo esso prefigurava una trasformazione<br />

dell’integrazione europea da un assetto confederale a un assetto federale, dove gli Stati membri, pur<br />

conservando intatta la loro piena sovranità rispettiva, avrebbero volontariamente rinunciato alla rispettiva<br />

indipendenza. Anzi, già fin d’allora, almeno in un punto già stabilito dal trattato di Maastricht,<br />

tale prospettiva era precisamente programmata ovvero a proposito dell’unione economica e<br />

monetaria, che prevedeva, come sua meta finale, l’adozione “irreversibile” di una moneta unica<br />

come moneta dell’Unione, mentre uno dei tradizionali simboli dell’indipendenza di uno Stato era da<br />

sempre il diritto di avvalersi di una propria moneta. Alcuni Stati membri, pienamente consapevoli di<br />

tale prospettiva e per nulla disposti ad aderirvi, fecero capire, già durante i lavori della CIG, che non<br />

avrebbero apposto la propria firma al trattato di Maastricht (che esigeva le firme di tutti gli Stati<br />

membri), minacciando con ciò di farlo abortire e con esso l’Unione Europea, a meno che non fosse<br />

stata riconosciuta loro una “deroga” ossia il diritto di non aderire a una parte delle disposizioni da<br />

esso previste ossia a quelle relative al passaggio alla terza e ultima fase dell’UME, che sarebbe<br />

culminata nell’adozione della moneta unica dell’Unione. Pur di salvare il trattato di Maastricht e<br />

150 (Per) ora hanno valore le versioni consolidate (GU UE 29.12.2006) del Trattato sull’Unione Europea, nonché del<br />

Trattato che istituisce la Comunità Europea, destinate a essere emendate dalla CIG attualmente in corso e dal conseguente<br />

“trattato di riforma”, che verrà firmato entro il 2007, in direzione di una rifusione, in tali due trattati costitutivi (il<br />

secondo dei quali da ridenominare come “trattato sul funzionamento dell’Unione Europea), della quasi totalità dei contenuti<br />

del “decaduto” Trattato costituzionale europeo.


quindi l’Unione Europea, il Consiglio europeo decideva allora la concessione effettiva di tali “deroghe”<br />

al Regno Unito e alla Danimarca, con l’approvazione di due rispettivi protocolli, acclusi al<br />

trattato. Se con ciò il trattato e con esso l’Unione Europea erano salvi, si era introdotto, d’altra parte,<br />

un pericoloso precedente nel processo d’integrazione europea. Di fronte all’emersione manifesta<br />

di una risoluta determinazione di alcuni Stati membri a non partecipare al cammino verso<br />

un’Unione “a vocazione federale”, il Consiglio europeo, non intendendo mettere in discussione il<br />

principio dell’adesione unanime al trattato istitutivo dell’Unione Europea, aveva preferito concedere<br />

a tali Stati membri un nuovo, inusitato, diritto di “deroga” a disposizioni-chiave di esso, pregiudicando<br />

con ciò i futuri sviluppi del processo d’integrazione europea, quanto alla possibilità<br />

dell’allargamento della “falla” così determinata ossia che tali due Stati membri, e persino altri ancora,<br />

si avvalessero di tale diritto di “deroga” a proposito di altre eventuali disposizioni previste da futuri<br />

trattati, con la prospettiva di un ulteriore allargamento del “fossato” tra essi e il resto degli Stati<br />

membri dell’Unione e perciò con grave pregiudizio di un veloce sviluppo, dell’omogeneità e del<br />

buon funzionamento di quest’ultima e quindi con risultati esiziali per l’UE una volta si fosse allargata<br />

a tutti gli Stati europei.<br />

Tale situazione confermava la propria gravità nel fatto che uno dei due Stati membri citati ossia il<br />

Regno Unito, che non aveva a suo tempo aderito alla Carta sociale (sempre a motivo della tutela<br />

della propria indipendenza), non intendeva, coerentemente, condividere la volontà degli altri Stati<br />

membri, firmatari di essa, di adottare, in occasione del varo dell’UE, una rafforzata politica sociale<br />

comune, basata su detta Carta; di conseguenza tale progetto finiva all’interno di un apposito protocollo,<br />

accluso al trattato di Maastricht, in cui il Regno Unito sostanzialmente “permetteva” agli altri<br />

Stati membri di attuare una sorta di “cooperazione rafforzata” in ordine a tale politica comune.<br />

La gravità dei limiti del trattato di Maastricht veniva fortemente sottolineata dalla risoluzione del<br />

PE del 7 aprile 1992 “sui risultati delle Conferenze intergovernative” (relatori: David Martin e Fernand<br />

Herman 151 ). In essa il PE indicava, con molta franchezza e precisione, “le seguenti importanti<br />

lacune del nuovo trattato”:<br />

“a) è fondato su una struttura “a pilastri” che:<br />

- non include nel trattato della Comunità Europea la politica estera e di sicurezza comune […] e provocherà nel resto<br />

del mondo una confusione tra “l’Unione” […] e la “Comunità” […]<br />

- non include nel trattato della Comunità Europea la cooperazione nei settori della giustizia e degli affari interni, che<br />

sfugge così a un controllo parlamentare e giurisdizionale reale in un ambito dove riguarda direttamente i <strong>diritti</strong> dei cittadini<br />

e non prevede procedure democratiche nelle prese di decisione nella materia;<br />

- affida all’UEO i problemi di difesa, senza prevedere un controllo parlamentare adeguato delle attività di questa organizzazione;<br />

b) non crea, parallelamente al potere monetario autonomo della Banca centrale europea, un potere economico che si appoggi<br />

su una legittimità democratica sufficiente e impone per le decisioni di politica economica delle procedure particolari<br />

che si discostano, in favore del Consiglio, dalle procedure comunitarie tradizionali di decisione;<br />

c) non prevede una vera procedura di codecisione […]<br />

d) non introduce la procedura di parere conforme del Parlamento Europeo per i futuri emendamenti al trattato, per la<br />

modifica delle risorse proprie e per gli emendamenti alle disposizioni complementari relative alla <strong>cittadinanza</strong>;<br />

e) conserva delle procedure di voto all’unanimità al Consiglio per un grandissimo numero di decisioni e di procedure<br />

legislative […]<br />

f) ha per effetto, per quel che riguarda la Convenzione ACD-CEE [della CEE con il “Dialogo di cooperazione in Asia”],<br />

di mantenere le decisioni, in una larga misura, nel quadro intergovernativo […];<br />

g) comporta nell’insieme una varietà tale di procedure legislative, per la maggior parte dotate di varianti, che è impossibile<br />

pervenire a una trasparenza e a una chiarezza totali e che sono inevitabili dei conflitti relativi alla base giuridica;<br />

h) non prevede che un’estensione limitata della portata dell’azione comunitaria nel settore della politica sociale […];<br />

i) non specifica che i membri del Comitato delle Regioni devono essere dei rappresentanti delle collettività regionali o<br />

locali democraticamente elette;<br />

j) introduce una disposizione che autorizza il Consiglio a rompere unilateralmente gli accordi internazionali per i quali il<br />

Consiglio e il Parlamento Europeo avevano precedentemente tutti e due siglato il loro accordo e ad adottare delle misure<br />

di sanzione senza l’accordo del Parlamento;<br />

151 Fernand Herman è stato membro belga del PE nel gruppo del PPE dal 1979 al 1999.


l) sviluppa in modo insufficiente la protezione dei <strong>diritti</strong> e delle libertà fondamentali, così come la <strong>cittadinanza</strong> e, in particolare,<br />

si astiene dall’introdurre una Carta di questi <strong>diritti</strong> e libertà sulla base della sua [del PE] risoluzione del 12 aprile<br />

1989 che adotta la Dichiarazione dei <strong>diritti</strong> e delle libertà fondamentali;<br />

m) non affronta il problema della classificazione e della gerarchia degli atti comunitari, mantenendo così la mancata distinzione<br />

tra atti legislativi e atti esecutivi, né il problema delle procedure di delega delle misure d’applicazione alla<br />

Commissione […];<br />

n) incorpora formalmente, in materia di bilancio, il principio secondo cui le spese non devono tutte essere iscritte in bilancio<br />

[…];<br />

o) mantiene sempre il FSE fuori del bilancio comunitario […];<br />

p) non fonde i trattati CEEA e CECA nel trattato CEE, e non adatta le loro procedure legislative per allinearle al trattato<br />

CEE; 152<br />

q) non adatta il numero dei membri del Parlamento Europeo in funzione della riunificazione della Germania;<br />

r) non definisce delle disposizioni particolari in materia d’energia, di protezione civile e di turismo […];<br />

s) non modifica le procedure di nomina dei membri della Corte di giustizia e della Corte dei conti al fine di rafforzare la<br />

loro indipendenza e di permettere al Parlamento Europeo di confermare la loro nomina;<br />

t) non riconosce al Parlamento Europeo gli stessi <strong>diritti</strong> delle altre istituzioni politiche e degli Stati membri per quel che<br />

riguarda il diritto di ricorrere alla Corte di giustizia e di partecipare alle azioni prese assunte davanti a questa;<br />

u) avrebbe dovuto prevedere che le riunioni del Consiglio deliberante in qualità di legislatore fossero pubbliche;<br />

[v] lamenta che solo il Consiglio abbia il potere di rigettare o di approvare gli accordi intercorsi tra le parti sociali […];<br />

[z] deplora l’utilizzazione di un protocollo a un trattato che riforma le istituzioni della Comunità europea ai fini di privare<br />

i cittadini europei del diritto di consultare la Corte di giustizia […].<br />

Oltre a questa vera e propria requisitoria sul trattato in quanto tale, la risoluzione del PE prendeva<br />

duramente posizione contro il principio delle “deroghe”, in particolare contro quelle concesse al<br />

Regno Unito:<br />

“deplora l’attitudine dell’attuale governo britannico che ha condotto al fatto che siano previste per il Regno Unito delle<br />

disposizioni speciali relative all’Unione monetaria e alla politica sociale; constata tuttavia con soddisfazione che gli altri<br />

Stati membri si sono rifiutati di lasciarsi bloccare dall’attitudine negativa di un solo governo; auspica che la clausola di<br />

opzione di non-partecipazione relativa all’UEM non sia mai utilizzata nella pratica e considera che le deroghe in materia<br />

di politica sociale sono inaccettabili e dovrebbero essere rettificate appena possibile” 153<br />

Per quanto riguarda “l’Unione economica e monetaria”, la risoluzione sottolineava che il PE:<br />

“7. deplora che l’UEM sembri orientata esclusivamente verso la stabilità […]<br />

8. deplora che la struttura di gestione ritenuta per l’Istituto monetario europeo sia talmente simile a quella del Comitato<br />

di governatori e del FECOM [Fondo europeo di cooperazione monetaria]<br />

9. deplora che l’entrata in vigore del processo decisionale relativo alla politica economica si farà a detrimento delle possibilità<br />

d’intervento parlamentare ai livelli nazionale ed europeo […] 154<br />

10. lamenta che l’attuazione della politica economica, così come concepita nel trattato, renda caduco il controllo democratico<br />

esercitato in precedenza dai Parlamenti nazionali […]<br />

13. deplora che il Consiglio europeo di Maastricht non abbia previsto che le decisioni riguardanti l’armonizzazione fiscale<br />

possano essere prese a maggioranza dal Consiglio, seguendo una procedura di codecisione con il Parlamento […]<br />

Per quanto riguarda, infine, le “conclusioni”, il PE:<br />

1) invitava i Parlamenti nazionali a collaborare con la strategia globale del PE,<br />

152<br />

Il PE prendeva dunque nettamente posizione a favore di un’indispensabile fusione almeno dei tre trattati comunitari<br />

nell’unico trattato CE.<br />

153<br />

Era forse la prima volta che una risoluzione del PE prendeva così duramente posizione direttamente contro il governo<br />

di uno Stato membro. Eppure gli auspici pur così chiari del PE sarebbero, a questo proposito, caduti letteralmente nel<br />

vuoto sino a tuttora.<br />

154<br />

In questa “nota dolente” il PE giustificava la sua affermazione, dicendo che “i Parlamenti nazionali” avrebbero perduto<br />

“la possibilità di sanzionare i governi dal momento che il Consiglio deciderà a maggioranza qualificata e il Parlamento<br />

Europeo” non sarebbe stato “informato che a posteriori”. Infatti il governo interessato avrebbe avuto in tal modo<br />

la possibilità di declinare ogni responsabilità in merito di fronte al proprio Parlamento e l’assenza di un preventivo<br />

coinvolgimento del PE avrebbe completato l’opera di esautoramento di ogni istituzione direttamente rappresentativa dal<br />

controllo della politica economica comunitaria. Di qui, sembrava concludere il PE, la necessità di un coinvolgimento, a<br />

diverso titolo, del PE e dei Parlamenti nazionali in tale politica.


2) invitava i governi degli Stati membri ad associare il PE alla designazione del presidente e dei membri della nuova<br />

Commissione europea prevista per il 1° gennaio 1993 e li avvertiva che avrebbe emesso un voto di fiducia (o di sfiducia)<br />

su di essa,<br />

3) domandava alla Commissione di presentare iniziative legislative che fossero basate solo sulla procedura codecisionale<br />

e di ritirare quei progetti che non avessero trovato l’accordo tra il Consiglio e il PE,<br />

4) invitava il Consiglio ad avvalersi della clausola della “passerella” per trasferire in ambito comunitario i settori della<br />

giustizia e degli affari interni<br />

5) incaricava la sua Commissione sugli affari istituzionali di completare la preparazione di un progetto di Costituzione,<br />

coinvolgendo i Parlamenti nazionali<br />

In definitiva, con tale risoluzione, il PE rilanciava con grande determinazione la sua strategia globale<br />

per l’UE, sia nella dimensione immediata della revisione del trattato di Maastricht appena firmato,<br />

sia nell’obiettivo finale della Costituzione.<br />

III. Dal principio di sussidiarietà al progetto di Costituzione Europea<br />

Nonostante i grossi limiti del TUE, la firma del trattato di Maastricht dava nuovo impulso al processo<br />

d’integrazione europea, che vedeva, di lì a poco, la firma a Porto il 2 maggio 1992 dell’Accordo<br />

istitutivo dello Spazio economico europeo (SEE), che prevedeva l’estensione ai sette Paesi EFTA<br />

(non “comunitari”) dell’allora imminente mercato unico europeo. 155<br />

La spinta propulsiva data già dalla semplice firma del trattato di Maastricht conduceva pure alla<br />

immediata messa in opera di alcune sue disposizioni senza ancora sapere se esso sarebbe entrato in<br />

vigore. Tali disposizioni riguardavano anzi proprio il secondo “pilastro” ossia la PESC e segnatamente<br />

la “politica di sicurezza” comune e precisamente già la “politica di difesa comune”; anzi ci si<br />

spingeva sino alla stessa meta finale della realizzazione di una “difesa comune” e quindi<br />

dell’allestimento di forze armate comuni e perciò di un esercito comune. Ciò fu possibile proprio in<br />

quanto si decise di avvalersi fin da allora della citata disposizione dello stesso trattato di Maastricht<br />

sulla possibilità di uno ”sviluppo di una più stretta cooperazione fra due o più Stati membri a livello<br />

bilaterale, nell’ambito dell’UEO e dell’Alleanza atlantica”. E infatti il 22 maggio 1992 il Consiglio<br />

franco-tedesco di difesa e di sicurezza emanava la “Dichiarazione sulla creazione di un corpo<br />

d’armata franco-tedesco a vocazione europea”, con la quale si annunciava la costituzione di una<br />

grande unità militare terrestre, composta di unità tedesche e di unità francesi, detto “a vocazione<br />

europea”, in quanto:<br />

“L’approntamento di questo Corpo contribuirà a dotare l’Unione Europea di una capacità militare propria, e manifesta<br />

la volontà degli Stati partecipanti al Corpo d’assumere, nel quadro di un’Unione Europea comprensiva a termine di una<br />

politica di difesa comune, le loro responsabilità in materia di sicurezza e di mantenimento della pace. Tenuto conto di<br />

questa prospettiva europea, la Francia e la Germania invitano il maggior numero di Stati membri dell’UEO a partecipare<br />

al Corpo europeo.”<br />

155 Uno dei Paesi EFTA interessati, la Svizzera, presenterà di lì a poco, il 20 maggio 1992, persino domanda ufficiale di<br />

adesione alle Comunità europee. Proprio per questo il successivo referendum popolare elvetico del 6 dicembre 1992 respingerà<br />

la prevista partecipazione della Svizzera allo stesso Spazio economico europeo, che entrerà in vigore il 1° gennaio<br />

1994 solo per altri cinque Paesi EFTA (e anzi solo il 1° maggio 1995 per il Liechtenstein), conferendo a questi ultimi<br />

il regime più vicino a quello tipico degli Stati membri della CEE. E infatti quattro di essi aderiranno pochi mesi<br />

dopo all’Unione Europea, anche se, di fatto, solo tre di essi ne entreranno effettivamente a far parte (vedi oltre). I tre<br />

Paesi non “comunitari”, partecipanti al SEE, (Liechtenstein, Norvegia e Islanda) diventeranno con ciò i Paesi più “vicini”<br />

all’UE, quanto al grado d’integrazione europea. Tuttavia la Svizzera concluderà in seguito due serie di accordi bilaterali<br />

(la prima il 21 giugno 1999 con le Comunità e la seconda il 26 ottobre 2004 con l’Unione), entrambe approvate da<br />

appositi referendum popolari (nonostante l’esito negativo di un referendum, svoltosi nell’intervallo fra le due serie di<br />

accordi, il 4 marzo 2001, su un’iniziativa legislativa popolare per l’adesione della Svizzera all’UE). La prima serie di<br />

accordi, entrata in vigore il 1° giugno 2002, porrà di fatto la Svizzera all’interno del “mercato unico” europeo. Sino ad<br />

ora sono entrati in vigore pure la maggior parte degli accordi della seconda serie, tranne quelli relativi agli accordi di<br />

Schengen e di Dublino e alla lotta contro la frode. Una volta applicati, la Svizzera di fatto parteciperebbe pure<br />

all’attuale “spazio di libertà, sicurezza e giustizia” europeo. In tal modo anche la Svizzera si avvierebbe a diventare uno<br />

degli Stati terzi con il regime più vicino a quello tipico degli Stati membri dell’UE.


La destinazione operativa del Corpo d’armata europeo (EUROCORPS) era la seguente:<br />

“Le missioni del Corpo europeo si inscrivono nel quadro dell’Unione Europea, nel rispetto dei limiti costituzionali nazionali<br />

e delle disposizioni della Carta delle Nazioni Unite.<br />

Il Corpo potrà essere impiegato per la difesa comune degli alleati [NATO] […]. Esso potrà ugualmente vedersi affidare<br />

delle missioni di mantenimento o di ristabilimento della pace [peace-keeping o peace-enforcing], ed essere ingaggiato<br />

nel quadro di azioni umanitarie.”<br />

Ancora una volta, dunque, l’”asse” franco-tedesco dettava, nella sua velocità d’iniziativa, la direzione<br />

di marcia e il ritmo del processo d’integrazione europea. 156 E in effetti, di lì a poco, il 19 giugno<br />

1992, il Consiglio dei ministri della UEO emanava la “Dichiarazione di Petersberg”, nella quale<br />

si legge che:<br />

“i ministri hanno sottolineato l’importanza fondamentale del trattato sull’Unione Europea e attendono con interesse il<br />

perseguimento dell’elaborazione della politica estera e di sicurezza comune durante il Consiglio europeo di Lisbona.<br />

[…]<br />

1. Conformemente alla decisione di sviluppare l’UEO in quanto componente di difesa dell’Unione Europea e come<br />

mezzo di rafforzamento del pilastro europeo dell’Alleanza atlantica […] gli Stati membri dell’UEO hanno perseguito<br />

l’esame e la definizione delle missioni, strutture e mezzi appropriati, compresi in particolare una cellula di pianificazione<br />

dell’UEO e delle unità militari dipendenti dall’UEO, al fine di rafforzare il suo ruolo operativo.<br />

2. Gli Stati membri dichiarano che sono pronti a mettere a disposizione della UEO delle unità militari provenienti da<br />

tutto il ventaglio delle loro forze convenzionali in vista di missioni militari che sarebbero condotte sotto l’autorità della<br />

UEO. […]<br />

4. Oltre a un contributo alla difesa comune nel quadro [NATO] […], le unità militari degli Stati membri della UEO, agendo<br />

sotto l’autorità della UEO, potrebbero essere utilizzate per:<br />

- delle missioni umanitarie o di evacuazione di connazionali;<br />

- delle missioni di mantenimento della pace;<br />

- delle missioni di forze di combattimento per la gestione delle crisi, ivi comprese delle operazioni di ristabilimento della<br />

pace. […]<br />

6. Le unità militari proverranno dalle forze degli Stati membri della UEO […] e saranno organizzate su base multinazionale<br />

e interforze.”<br />

Avendo ripreso dunque, sostanzialmente, gli stessi obiettivi militari fissati dall’intesa franco-tedesca<br />

per il Corpo europeo, i ministri della UEO invitavano a prendere parte a tali missioni militari tutti<br />

gli Stati membri della futura Unione Europea quindi ad aderire alla “nuova” UEO quelli che non ne<br />

erano membri (Grecia, Irlanda e Danimarca) 157 . In tal modo la UEO si presentava effettivamente<br />

come l’organizzazione preposta alla futura “difesa comune” dell’UE, anche per quanto riguarda istanze<br />

“avveniristiche”. 158 Di conseguenza, negli anni successivi, si sarebbero sviluppate nei vari<br />

156 A determinare tale velocità era anche il constatato fallimento della perdurante “cooperazione politica europea nella<br />

sfera della politica estera” di fronte alla crisi e alla fine del regime comunista in Jugoslavia e soprattutto alla successiva<br />

disgregazione graduale di questo Paese, accompagnata dallo scoppio di una serie di vere e proprie guerre tra Stati contrapposti,<br />

fatto che non era mai successo in Europa dalla fine della seconda guerra mondiale. Qui si toccò con mano cosa<br />

significasse non disporre di una vera e propria “politica estera e di sicurezza comune” e anzi emerse, di fronte al perdurare,<br />

all’estendersi e all’approfondirsi di tali conflitti, sfociati in vere e proprie guerre civili, la necessità di dotarsi subito<br />

di una “politica di difesa comune”. La brutalità sempre crescente delle guerre in corso tra Croazia e Serbia, come<br />

pure e soprattutto all’interno della Bosnia-Erzegovina, condusse infine alla determinazione di approntare almeno il nucleo<br />

di una “difesa comune” (basato su una più stretta cooperazione bilaterale franco-tedesca), come era appunto il Corpo<br />

d’armata “europeo”, quale “segnale” rivolto agli altri Stati membri (appartenenti anch’essi all’UEO e alla NATO),<br />

della necessità di approntare immediatamente una grande unità militare europea, da impiegare operativamente anche<br />

nelle missioni di peace keeping o addirittura di peace enforcing, che la situazione politico-militare soprattutto in Bosnia-Erzegovina<br />

richiedeva.<br />

157 Di questi tre Stati membri dell’UE solo uno, la Grecia, entrerà effettivamente a far parte dell’UEO il 6 marzo 1995.<br />

158 La “Dichiarazione di Petersberg” presenta infatti, nella sua conclusione, un accenno alle “attività spaziali” ovvero al<br />

“centro satellitare” allora in allestimento, ovvero del centro di rilevamento e di avvistamento satellitare, uno strumento<br />

che si rivelerà sempre più importante anche per il tipo di operazioni militari proposte. La sua attualità è testimoniata<br />

dall’odierno progetto “Galileo” dell’UE, mirante a dotare l’Unione Europea di un proprio sistema satellitare, per usi ci-


scenari di crisi internazionali diverse missioni operative di mantenimento o di ristabilimento della<br />

pace, di carattere UE, tanto da parte della UEO in quanto tale 159 , quanto in particolare da parte del<br />

Corpo europeo 160 .<br />

In questo rinnovato dinamismo aveva luogo nel frattempo il processo di ratifica del trattato di Maastricht,<br />

che peraltro aveva ricevuto un drammatico rifiuto in occasione del referendum popolare<br />

svoltosi in Danimarca il 2 giugno 1992. 161 Tale evento aveva determinato costernazione e sconcerto<br />

nell’opinione pubblica europea: era la prima volta che un referendum popolare (come tale apparentemente<br />

irrevocabile), svolto in uno Stato effettivamente membro, respingeva un nuovo trattato europeo,<br />

per giunta di tipo “costitutivo”; ciò sembrava quindi preludere all’affossamento del trattato di<br />

Maastricht e con esso della prevista Unione Europea e persino della stessa UEM.<br />

Poche settimane dopo si svolgeva il Consiglio europeo di Lisbona del 26-27 giugno 1992. Nelle sue<br />

conclusioni sul “progresso verso l’Unione Europea” il Consiglio europeo, senza menzionare<br />

l’avvenuto referendum danese e il suo esito negativo, raccomandava comunque il completamento<br />

del processo di ratifica e quindi l’entrata in vigore del trattato di Maastricht per la data, da questo<br />

prevista, del 1° gennaio 1993; confermava la disponibilità all’apertura di negoziati per l’adesione<br />

all’UE dei Paesi firmatari dell’Accordo istitutivo del SEE, non appena il trattato di Maastricht fosse<br />

entrato in vigore; esprimeva la necessità di addivenire ad accordi sul futuro finanziamento della<br />

Comunità; si pronunciava per “un’Europa vicina ai suoi cittadini”; esprimeva il proprio giudizio sul<br />

processo di realizzazione del mercato interno (per quanto riguardava sia il libero movimento dei beni,<br />

dei servizi e dei capitali, sia il libero movimento delle persone, con la raccomandazione di giungere<br />

alla firma di una Convenzione sull’attraversamento delle frontiere esterne), nonché sugli affari<br />

sociali, sulla lotta contro le droghe e su una prossima creazione dell’EUROPOL.<br />

Per quanto riguardava “un’Europa vicina ai suoi cittadini” il Consiglio europeo raccomandava<br />

l’adozione di misure atte a incrementare “la trasparenza” nel processo decisionale della Comunità<br />

europea e a rafforzare “il dialogo con i cittadini d’Europa” sul trattato di Maastricht e sulla sua ap-<br />

vili e militari, alternativo al sistema GPS, fondato e tuttora controllato dal Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti<br />

d’America.<br />

159 Le operazioni condotte dalla UEO saranno: 1) operazioni nel contesto del conflitto jugoslavo (1992-’96): a) operazione<br />

“Sharp Guard” (con la NATO) nell’Adriatico; b) operazione relativa all’”embargo” sul Danubio; c) distaccamento<br />

di polizia a Mostar; 2) operazioni legate alla gestione di crisi (1997-2001): a ) missione in Albania; b) missione<br />

d’assistenza allo sminamento in Croazia; c) missione di sorveglianza generale della sicurezza in Kossovo. Nel 2001<br />

l’UEO cesserà ogni missione, in quanto trasferirà la propria capacità operativa direttamente all’UE.<br />

160 Il Corpo europeo vedrà già il 1° luglio 1992 l’installazione a Strasburgo di uno stato maggiore provvisorio; nel 1993<br />

inizierà il 21 gennaio la cooperazione con la NATO: il 19 maggio entrerà tra le forze dipendenti dalla UEO; il 2 giugno<br />

verrà definito dalle autorità franco-tedesche come il nucleo di un’’”identità europea di difesa e di sicurezza nel quadro<br />

dell’Unione Europea”; il 25 giugno riceverà l’adesione del Belgio per l’inserimento in esso di un’unità militare belga;<br />

il 1° ottobre verrà ufficialmente creato con l’entrata in servizio del suo primo comandante in capo; il 5 novembre verrà<br />

inaugurato ufficialmente (nella sua triplice componente franco-belga-tedesca) nel suo quartier generale a Strasburgo;<br />

nel 1994, dietro invito del 29 giugno da parte del governo francese, sfilerà (compresa la sua nuova unità spagnola, inserita<br />

il 1° luglio) a Parigi nella parata del 14 luglio; nel 1995 verrà indicato, il 31 gennaio, come esempio concreto per la<br />

creazione della “capacità militare che fa ancora difetto all’Europa”; il 1° dicembre diventerà finalmente operativo; il 7<br />

maggio 1996 riceverà l’apporto di un reparto militare lussemburghese; dal 13 maggio 1998 al 7 giugno 2000 parteciperà<br />

alla “Forza di stabilizzazione” (SFOR) in Bosnia-Erzegovina; nel 1999 verrà proposto dalle autorità franco-tedesche,<br />

il 29 maggio, come una forza d’intervento a disposizione dell’Unione Europea in caso di crisi; il 3-4 giugno verrà rafforzato<br />

dall’UE nelle sue capacità d’intervento; in novembre verrà trasformato in un “Corpo di reazione rapida” a disposizione<br />

dell’Unione Europea e della NATO; in dicembre verrà incaricato dall’UE di portare forze di reazione sul posto<br />

in caso di crisi; nel 2000 parteciperà alla “Forza del Kossovo” (KFOR) nel Kossovo (Serbia); nel 2001, verrà proposto,<br />

in aprile, come una “forza dispiegabile ad alta prontezza”; il 5 giugno inizierà la preparazione di questa trasformazione;<br />

nel 2002 otterrà la certificazione NATO di “forza di reazione rapida”; dal 2003 al 2005 parteciperà alla “Forza<br />

internazionale di sicurezza e di assistenza” (ISAF VI) in Afghanistan.<br />

161 E’ significativo che tale esito referendario si registrasse proprio in uno Stato membro che aveva già visto riconosciuto<br />

dal trattato il proprio diritto di “deroga” da uno dei punti più qualificanti di esso ossia dal completamento dell’UEM e<br />

quindi dall’adozione della moneta unica. Evidentemente la “deroga”, lungi dall’ottenere il consenso popolare, aveva<br />

anzi contribuito al “sospetto” popolare nei confronti del trattato.


plicazione. 162 Anzi il Consiglio europeo, richiamandosi alla disposizione del trattato di Maastricht<br />

di “portare il processo dell’unità europea più vicino ai cittadini”, incoraggiava lo sviluppo del dialogo<br />

tra i Parlamenti nazionali e il Parlamento Europeo. E infine esigeva la “stretta applicazione, da<br />

parte di tutte le istituzioni, del principio di sussidiarietà alla legislazione esistente e futura”.<br />

Infine il Consiglio europeo adottava una risoluzione sulla PESC, con le indicazioni dei settori geopolitici<br />

prioritari, come pure dei campi d’intervento della “politica di sicurezza comune”.<br />

Tali decisioni apparentemente “rassicuranti” del Consiglio europeo di Lisbona non bastavano peraltro a tranquillizzare<br />

l’opinione pubblica europea quanto all’esito negativo del referendum danese e quindi alla preoccupazione per un possibile<br />

fallimento del processo di ratifica del trattato di Maastricht e quindi della prevista UE e soprattutto della programmata<br />

UEM. La controprova di tale timore era data dall’inizio di una sfiducia dei mercati nei confronti dello stesso SME<br />

e in particolare della capacità effettiva di convergenza delle economie dei Paesi partecipanti a esso, in presenza di una<br />

crescita economica tedesca in forte controtendenza rispetto alle deboli economie degli altri membri dello SME. La conseguente<br />

fortissima pressione speculativa sulle loro monete e in particolare sulla lira italiana e sulla sterlina britannica,<br />

soprattutto all’approssimarsi estivo di un altro referendum, francese, sul trattato di Maastricht, previsto per il 20 settembre<br />

1992 (con esito pronosticato anch’esso come negativo), conduceva infine il 16 settembre 1992 alla fuoriuscita del<br />

Regno Unito e dell’Italia dallo SME.<br />

Nel caso britannico la fuoriuscita si sarebbe rivelata permanente, contribuendo a maturare la decisione definitiva della<br />

Gran Bretagna di non adottare la futura moneta unica e quindi di marcare nel modo più palese la propria orgogliosa “diversità”<br />

rispetto all’Unione. Nel caso italiano la fuoriuscita si sarebbe rivelata temporanea, ma le cause specifiche della<br />

durissima crisi monetaria italiana (l’elevatissimo debito pubblico contratto e il mancato risanamento finanziario, nonostante<br />

i precisi obblighi derivanti dagli impegni comunitari), le cifre altissime pagate per sostenere la lira prima<br />

dell’uscita dallo SME e la perdita, con tale “resa” monetaria, della posizione di prestigio politico avuta sino ad allora in<br />

seno all’UE, avrebbero avuto per conseguenza quella di segnare il fallimento della politica finanziaria, economica e generale<br />

non solo del governo e dello stesso Parlamento appena eletto, ma persino della stessa (prima) Repubblica, contribuendo<br />

a gettare nel discredito più totale l’intera classe politica dirigente (accusata di aver alimentato il debito pubblico<br />

proprio attraverso una “generosa” politica di tolleranza dell’evasione fiscale e di “copiosa” spesa pubblica, fondata a<br />

sua volta su un vero e proprio regime di sistematica concussione e corruzione) e persino gli stessi partiti politici di governo,<br />

con la rapida messa in crisi e la definitiva scomparsa di questi ultimi. 163<br />

Nella sua successiva riunione straordinaria, il Consiglio europeo di Birmingham del 16 ottobre 1992<br />

confermava, nelle sue conclusioni, l’importanza di concludere il processo di ratifica del trattato di<br />

Maastricht al più presto, “senza riaprire il presente testo”, nei tempi previsti dal trattato; accoglieva<br />

con piacere l’intenzione del governo danese di presentare alla successiva riunione di Edimburgo<br />

delle proposte di soluzione al blocco del proprio processo di ratifica; e soprattutto, riprendendo il<br />

tema della precedente riunione di Lisbona formulava la “Dichiarazione di Birmingham”, dal titolo<br />

“Una Comunità vicina ai suoi cittadini”, una sorta di rassicurazione pubblica rispetto ai timori dei<br />

cittadini, emersi con drammatica evidenza dai risultati del referendum danese.<br />

162 Per la prima volta compariva dunque ufficialmente la consapevolezza della suprema istituzione europea quanto alla<br />

necessità della massima trasparenza e di un’adeguata “strategia della comunicazione” della CE nei confronti dei “cittadini<br />

d’Europa”, al fine di non incappare più in risultati negativi, come quello del recente referendum danese.<br />

163 Nel disorientamento più totale dello Stato, sarà allora chiamato alla guida del governo italiano, il 28 aprile 1993,<br />

Carlo Azeglio Ciampi, a motivo dei successi mietuti e della fama europea raggiunta nella sua qualità di governatore della<br />

Banca d’Italia. Con un deciso e corposo programma di privatizzazioni Ciampi imboccherà il giusto binario per dare<br />

respiro alle finanze dello Stato e slancio all’economia del Paese. Il 10 maggio 1994 il governo Ciampi si dimetterà,<br />

permettendo così (per via dell’intervenuta riforma elettorale) lo scioglimento anticipato delle Camere e le successive<br />

elezioni politiche anticipate. Il nuovo Parlamento presenterà una maggioranza di segno analogo a quelle precedenti, ma<br />

sarà costituita essenzialmente da partiti politici non solo nuovi, ma anche sostanzialmente estranei all’originario alveo<br />

del CLN (Comitato di liberazione nazionale), in quanto o provenienti da esperienze di segno opposto a quest’ultimo (il<br />

Movimento Sociale Italiano – Destra Nazionale (MSI-DN), inserito nel cartello di “Alleanza Nazionale” (AN)) o alimentati<br />

da istanze non propriamente nazionali (la Lega Nord (LN)) o sorti proprio per l’occasione sulla base<br />

dell’iniziativa personale di un imprenditore (“Forza Italia” (FI)). Per il momento la situazione non solo finanziaria, ma<br />

anche economica del Paese, peraltro, non migliorerà, dal momento che, sempre entro il 1994, lo stesso Regno Unito,<br />

con ben altro slancio, supererà, nel PIL, l’Italia, ricollocandosi così al terzo posto nelle economie nazionali d’Europa.<br />

Da quel momento il riscatto della (seconda) Repubblica, in realtà, si sarebbe giocato proprio sul risanamento finanziario,<br />

sul rientro nello SME, sulla partecipazione alla moneta unica e sulla più completa e <strong>attiva</strong> adesione al processo<br />

d’integrazione europea.


In essa i Dodici, confermando la necessità di ratificare il trattato di Maastricht per progredire verso<br />

l’Unione Europea, quale condizione per conservare alla Comunità il ruolo di “un’ancora di stabilità<br />

e di prosperità in un continente in rapido mutamento”, affermavano:<br />

“Quale comunità di democrazie, possiamo andare avanti solo con l’appoggio dei nostri cittadini. Siamo determinati a<br />

rispondere alle preoccupazioni emerse nel recente dibattito pubblico. Dobbiamo:<br />

- dimostrare ai nostri cittadini i benefici della Comunità e del trattato di Maastricht;<br />

- rendere più aperta la Comunità, per assicurare un dibattito meglio informato sulle sue attività;<br />

- rispettare la storia, la cultura e le tradizioni delle singole nazioni, con una comprensione più chiara di ciò che gli Stati<br />

membri devono fare e di ciò che hanno bisogno sia fatto dalla Comunità;<br />

- chiarire che la <strong>cittadinanza</strong> dell’Unione porta ai nostri cittadini <strong>diritti</strong> e protezione aggiuntive, senza sostituire in alcun<br />

modo la loro <strong>cittadinanza</strong> nazionale.”<br />

La “Dichiarazione di Birmingham” proponeva, a questo scopo, di rendere pubbliche le discussioni<br />

in seno al Consiglio per quanto riguarda i programmi futuri; che la Commissione procedesse a più<br />

ampie consultazioni con gli Stati membri, preliminari alle sue proposte legislative; di migliorare<br />

l’accesso pubblico all’informazione; di semplificare e chiarire la legislazione comunitaria. Inoltre<br />

proponeva un maggior coinvolgimento dei Parlamenti nazionali e delle stesse Regioni nelle attività<br />

comunitarie; sottolineava tre principi alla base delle attività comunitarie: l’attribuzione, la proporzionalità<br />

e la sussidiarietà, in ordine allo sviluppo della “più leggera”legislazione comunitaria possibile,<br />

lasciando agli Stati membri il compito di applicarla secondo le rispettive esigenze nazionali e<br />

“senza interferire senza motivo nella vita quotidiana dei nostri cittadini”. Erano le parole che i cittadini<br />

(soprattutto danesi) desideravano fossero dette loro.<br />

Nel successivo Consiglio europeo di Edimburgo dell’11-12 dicembre 1992, si pervenne finalmente<br />

alla soluzione del problema “danese”. Con un’apposita dichiarazione il Consiglio europeo prendeva<br />

atto della decisione della Danimarca, in seguito al referendum nazionale, di avvalersi fin da allora<br />

della “deroga” riconosciutale dal trattato di Maastricht (con la conseguente dichiarazione effettiva<br />

di non partecipare alla terza e ultima fase di realizzazione dell’UEM e quindi di non adottare la moneta<br />

unica), nonché di chiedere un’ulteriore “deroga” rispetto alla propria partecipazione (indesiderata)<br />

alla futura “politica di difesa comune”; di fronte a tale duplice richiesta danese, il Consiglio<br />

europeo riconosceva alla Danimarca entrambe tali “deroghe”. 164<br />

Il Consiglio europeo di Edimburgo provvedeva anche, sviluppando le indicazioni del trattato di Maastricht<br />

e delle ultime riunioni dell’istituzione, ad approvare un documento sull’applicazione del<br />

principio di sussidiarietà nella legislazione comunitaria.<br />

Con un altro documento apposito, il Consiglio europeo, riprendendo la “Dichiarazione di Birmingham”,<br />

adottava misure specifiche atte a dare apertura e trasparenza alle attività comunitarie.<br />

Rendeva nota la propria decisione di aprire i negoziati di adesione alle Comunità con i Paesi EFTA<br />

candidati all’inizio del 1993 e di concluderli solo dopo l’entrata in vigore del trattato di Maastricht.<br />

Annunciava l’imminente entrata in vigore del mercato interno alla data prevista, ma faceva insieme<br />

presente che esso non sarebbe stato accompagnato dall’entrata in vigore del libero movimento delle<br />

persone, in considerazione delle difficoltà emerse nella “cooperazione nei settori della giustizia e<br />

degli affari interni” (per via del voto all’unanimità in essa richiesto) a proposito dei necessari provvedimenti<br />

atti a garantire che tale traguardo fosse raggiunto nella garanzia della sicurezza pubblica.<br />

Il Consiglio europeo prendeva, in particolare, posizione, con un altro documento, sul grave problema<br />

della migrazione e sulla necessità di una sua equa soluzione, soprattutto di fronte<br />

164 Se con ciò il problema della ratifica danese del trattato di Maastricht sembrava avviato a risolversi, la via di soluzione<br />

vedeva l’allargamento del principio della “deroga” al principio delle “deroghe”, nel senso che si era ormai dimostrato<br />

che la concessione anche di una sola deroga a uno Stato membro l’avrebbe portato a sentirsi autorizzato a chiederne,<br />

e a ottenerne, altre ancora ad ogni nuova occasione. In altri termini: il meccanismo delle deroghe, lungi dal portare a un<br />

riavvicinamento di uno Stato membro agli altri, avrebbe condotto a un progressivo allontanamento dal comune processo<br />

d’integrazione europea, determinando, in combinazione con il meccanismo inverso delle “cooperazioni rafforzate”, la<br />

creazione di un’Europa “a due velocità”, con esiti pericolosi per l’unità effettiva della futura UE.


all’intensificazione degli episodi d’intolleranza e anzi degli atti d’aggressione nei confronti degli<br />

immigrati stranieri.<br />

Il Consiglio europeo provvedeva, infine, a rettificare il numero di seggi del Parlamento Europeo, in<br />

considerazione dell’avvenuta unificazione della Germania, e soprattutto, con un apposito documento,<br />

assumeva la decisione finale, con effetto immediato, su un tema, che da oltre quarant’anni era<br />

rimasto formalmente indeciso: le sedi delle istituzioni. Veniva deciso che: il Parlamento Europeo<br />

avrebbe avuto la sua sede principale a Strasburgo e un’altra sede (per sedute plenarie aggiuntive e<br />

per i lavori delle Commissioni) a Bruxelles, mentre il suo segretariato generale a Lussemburgo; il<br />

Consiglio avrebbe avuto la sua sede principale a Bruxelles, mentre, in tre determinati mesi<br />

dell’anno, a Lussemburgo; la Commissione avrebbe avuto la sua sede a Bruxelles, ma alcuni suoi<br />

dipartimenti a Lussemburgo; la Corte di giustizia e il Tribunale di prima istanza avrebbero avuto la<br />

loro sede a Lussemburgo; il Comitato economico e sociale avrebbe avuto la sua sede a Bruxelles; la<br />

Corte dei conti e la Banca europea degli investimenti avrebbero avuto la loro sede a Lussemburgo.<br />

165<br />

Finalmente, il 1° gennaio 1993 (data prevista per l’entrata in vigore, in realtà, sia del MUE, sia del<br />

trattato di Maastricht), entrava effettivamente in vigore il Mercato unico europeo. Sulla base già di<br />

questo nuovo grande successo comunitario, nella previsione della sua estensione ad altri sei Paesi<br />

EFTA e alla vigilia dell’apertura dei negoziati di adesione alle Comunità con quattro di questi, il<br />

Parlamento Europeo ritornava allora sulla scena politica europea con la risoluzione del 20 gennaio<br />

1993 “sulla struttura e strategia per l’Unione Europea riguardo al suo allargamento e alla creazione<br />

di un ordine paneuropeo”. Richiamandosi alle sue ultime risoluzioni “costituzionali” del 1990, il PE<br />

affrontava la nuova situazione generale creatasi in Europa dopo il crollo del muro di Berlino, con un<br />

orizzonte sia spaziale, sia temporale, di grande respiro, quasi prefigurando (e volendo prevenire) lo<br />

scenario attuale.<br />

Prendendo atto del crescente ruolo delle Comunità e delle crescenti aspettative che esse destavano<br />

come centro di stabilità per tutta l’Europa, nonché del progresso compiuto nei Paesi ex-comunisti<br />

verso regimi di tipo occidentale, il PE notava peraltro che la coesistenza pacifica tra questi popoli e<br />

il loro rispettivo progresso interno non erano affatto garantiti a lunga scadenza, mentre<br />

l’integrazione all’interno delle Comunità era stata un sicuro successo; infine osservava che lo sviluppo<br />

economico, tecnologico e sociale (oggi si direbbe la “globalizzazione”) poneva dei problemi<br />

e delle minacce che qualsiasi singolo Stato nazionale sovrano era sempre meno in grado di affrontare<br />

da solo e che richiedevano sia una progressiva integrazione nella futura UE, sia una “cooperazione<br />

paneuropea” sempre più intensa.<br />

La necessità della distinzione tra questi due tipi di coesistenza era data, secondo il PE, dal fatto che<br />

“la qualità dell’essere un Europeo non è chiaramente definibile in termini geografici o storici, etnici o religiosi, o culturali<br />

o politici; […] comunque, presuppone la volontà politica di condividere un futuro comune”<br />

Come dire: nessuno Stato può pretendere di far parte della futura UE per il solo fatto di essere o di<br />

credere di essere europeo, bensì solo in quanto dimostri effettivamente di voler “condividere un futuro<br />

comune”. Cosa ciò significasse il PE lo diceva subito con queste parole:<br />

“l’appartenenza piena all’Unione implica, soprattutto, un impegno alla natura federale di questa Unione e che i Paesi<br />

vorranno e saranno capaci di accettare tutte le sue norme e tutti i suoi principi, se necessario dopo un opportuno periodo<br />

di transizione”<br />

D’altra parte l’allargamento dell’UE per includere ulteriori Stati avrebbe, secondo il PE, distrutto<br />

l’operatività delle sue istituzioni, a meno che queste non fossero state riorganizzate allo stesso tempo.<br />

Di qui la duplice necessità, posta dalla nuova situazione esistente in Europa, di realizzare,<br />

all’interno dell’UE, “riforme più coraggiose nella direzione di un’Unione con un obiettivo federale,<br />

165<br />

A distanza di quindici anni da tale decisione finale, si constata sempre più l’enorme spreco di energie, di tempo e soprattutto<br />

di denaro pubblico da essa causato.


fondata sul rispetto del principio di sussidiarietà”, e di avere, verso l’esterno dell’UE, “un nuovo<br />

approccio alla questione di una sempre più stretta collaborazione tra tutte le nazioni d’Europa”.<br />

Tale dualismo era fondato sull’esigente “carta d’identità”, fissata dal PE, per il possibile candidato<br />

all’adesione all’UE:<br />

“Considera che l’allargamento dell’Unione Europea include quei Paesi europei che abbiano istituzioni democratiche<br />

pienamente sviluppate a norma di legge, così come garanzie per i <strong>diritti</strong> umani e le strutture di un’economia di mercato,<br />

vogliano e siano capaci di assumere il patrimonio della Comunità, inclusa l’unione economica e monetaria, incluso<br />

l’accordo sulla politica sociale raggiunto nel trattato di Maastricht, 166 e riconoscano senza riserve l’obiettivo<br />

dell’Unione politica, desiderabile nell’interesse non solo di coloro che chiedono l’adesione, ma anche dell’Unione Europea”<br />

Rispetto a tale necessario rigore, il PE concludeva impietosamente:<br />

“Non crede sia possibile, né necessario che tutte le nazioni d’Europa o quelle che si sentono europee o sono alleate<br />

dell’Europa 167 si ammassino insieme in qualche tempo futuro dentro un’Unione; […]”<br />

In concreto il PE vedeva invece con favore l’apertura di negoziati con i Paesi EFTA candidati<br />

all’adesione alla futura UE e l’entrata in vigore dello Spazio economico europeo (con l’eventuale<br />

adesione futura all’UE di tutti i membri del SEE). Per quanto riguardava invece gli altri Stati europei<br />

perorava l’applicazione dello strumento dell’associazione alla futura UE, con una possibile, ma<br />

non necessaria, adesione futura all’Unione. Con questi Stati europei l’UE avrebbe dovuto creare in<br />

primo luogo una sorta di “spazio culturale europeo” (con l’esempio, fra altri, di “Erasmus”). Ma soprattutto<br />

la futura UE era chiamata a stabilire (“parallelamente al rafforzamento e alla democratizzazione<br />

del proprio sistema istituzionale di tipo federale”) “un sistema di cooperazione confederale<br />

in Europa, che possa mettere a disposizione un quadro paneuropeo per risolvere problemi specifici<br />

che interessino l’Europa in quanto tale”, p.e. la sicurezza, l’emigrazione e l’immigrazione, la sicurezza<br />

dell’approvvigionamento energetico, la protezione ambientale, la protezione della salute, la<br />

lotta contro il crimine o il rispetto dei <strong>diritti</strong> umani e dei <strong>diritti</strong> delle minoranze. 168<br />

In tale “sistema di cooperazione confederale in Europa” la CSCE e il Consiglio d’Europa avrebbero<br />

svolto un ruolo cruciale di “forum” per la conclusione di accordi paneuropei nelle rispettive aree di<br />

competenza, mentre l’UE avrebbe dovuto esserne proprio il centro e la forza direttiva. Anzi l’UE in<br />

quanto tale avrebbe dovuto diventare membro di entrambe tali organizzazioni internazionali e persino<br />

l’esclusivo portavoce dei suoi Stati membri per i temi rientranti tra le sue competenze.<br />

Prendendo a modello il previsto “terzo pilastro” della futura UE ovvero la prevista “cooperazione<br />

nei settori della giustizia e degli affari interni”, il PE suggeriva la proposta che tale sistema sorgesse<br />

da un certo numero di “confederazioni orientate funzionalmente o regionalmente”, comunque tutte<br />

promosse dalla stessa UE e caratterizzate dalla flessibilità e dalla specificità dell’area d’intervento<br />

d’interesse comune.<br />

Infine il PE sosteneva l’opportunità che al “sistema di cooperazione confederale in Europa” fossero<br />

associati, ognuno in modo specifico, pure degli “Stati non-europei”, tra i quali la Russia e la Turchia.<br />

Infine il PE raccomandava la creazione di un’”Accademia Europea”, in cui personalità europee<br />

straordinarie, esperte e indipendenti avrebbero agito “come rappresentanti dell’identità culturale<br />

d’Europa in tutta la sua diversità.”<br />

Tutt’altro discorso valeva, secondo il PE, per l’Unione Europea. Qui la risoluzione affermava che il<br />

trattato di Maastricht era “necessario, ma non sufficiente” a porre l’Unione sul giusto piede politico<br />

166 Quest’ultima duplice insistenza tradiva la fresca memoria del già avvenuto “ritiro” dall’obiettivo economicomonetario<br />

della Danimarca e dall’obiettivo sociale del Regno Unito.<br />

167 Più volte la risoluzione del PE indicava come “Stati non-europei”, tra gli altri, la Russia e la Turchia.<br />

168 Il PE sosteneva dunque che non occorreva un’Unione Europea (di tipo politico e anzi federale) per arrivare ad accordi<br />

intergovernativi di cooperazione su tali temi. E infatti, una volta entrati nell’UE, alcuni nuovi Stati membri sosterranno<br />

la stessa cosa, ma nella direzione di “svuotare” l’UE in quanto tale.


e istituzionale richiesto “per dare il benvenuto a un certo numero di nuovi Stati membri”. In particolare<br />

il PE poneva le seguenti condizioni:<br />

“E’ convinto che l’Unione Europea non si dimostrerà adeguata all’accesso di nuovi Stati e alle sfide paneuropee, a meno<br />

che non si trasformi in un’Unione fondata su strutture federali, con poteri limitati, ma reali, applicati sulla base del<br />

principio di sussidiarietà, e su istituzioni democratiche pienamente sviluppate, basate su un progetto di Costituzione redatto<br />

dal Parlamento Europeo per la ratifica da parte dei Parlamenti nazionali” 169<br />

Di conseguenza il PE reclamava la convocazione di una nuova CIG prima ancora del 1996 (data indicata<br />

a tal proposito dallo stesso trattato di Maastricht) e anzi prima ancora della decisione di accogliere<br />

nell’UE qualsiasi nuovo Stato membro, nonché l’assegnazione a tale CIG di un mandato a iniziare<br />

il processo costituzionale (con il coinvolgimento del PE), sulla base del progetto di Costituzione<br />

dell’Unione, che il PE si impegnava a redigere rapidamente e ad approvare nel frattempo.<br />

Anzi la risoluzione anticipava le stesse linee guida per le riforme istituzionali e strutturali che avrebbero<br />

dovuto essere contenute nella futura Costituzione:<br />

1) per quanto riguarda il Consiglio:<br />

- ridefinire il ruolo e la natura della presidenza, tenendo conto delle grandi richieste di una continuità<br />

e di una presenza della rappresentanza esterna dell’Unione;<br />

- trasformarlo in una seconda Camera legislativa nel senso di una vera e propria Camera degli Stati<br />

(accanto al PE) e quindi di un corpo dell’UE in seduta permanente, le riunioni del quale su temi legislativi<br />

avrebbero dovuto essere svolte in pubblico, con deliberazioni a maggioranza (secondo una<br />

maggioranza qualificata con una ponderazione dei voti ridefinita in base a nuovi criteri), in una procedura<br />

di co-decisione e su un piede di parità con il PE;<br />

- conservare tuttavia il suo ruolo speciale nella delineazione delle disposizioni di esecuzione delle<br />

leggi, varate dallo stesso Consiglio e dal PE, dal momento che doveva essere mantenuta la responsabilità<br />

degli Stati membri per l’esecuzione e l’applicazione delle leggi dell’Unione;<br />

2) per quanto riguarda la Commissione:<br />

- conferirle potere esecutivo nell’UE, in modo tale da farle gestire gli affari dell’UE sulla base delle<br />

leggi dell’UE e in accordo con le linee guida delineate dal Consiglio europeo;<br />

- rafforzare la sua capacità politica e la sua attendibilità democratica, con responsabilità in relazioni<br />

esterne e nel “sistema di cooperazione confederale in Europa”;<br />

- farle rappresentare l’UE al livello esterno, riguardo alle strutture paneuropee e nelle aree di responsabilità<br />

a essa trasferite e, in altre aree, in accordo con il Consiglio e monitorata dal PE, che “avrà<br />

poteri di monitoraggio equivalenti a quelli normalmente validi in politica estera negli Stati<br />

membri”;<br />

- introdurre il principio dei portafogli politici;<br />

- far decidere al suo presidente, eletto dal PE, la composizione di essa;<br />

- autorizzare l’uso di vice-commissari per certi portafogli;<br />

3) per quanto riguarda il Parlamento Europeo:<br />

- farlo diventare più rappresentativo, in presenza di un crescente numero di Stati membri, attraverso<br />

la determinazione del numero dei suoi membri in base al principio di “proporzionalità decrescente”:<br />

tanto più alta è la popolazione di un dato Stato membro, tanto più bassa è la percentuale di membri<br />

rispetto all’intera popolazione;<br />

- farlo collaborare con il Consiglio sulla base di uguali <strong>diritti</strong> e poteri, in tutte le sfere di competenza<br />

legislativa dell’UE e rispetto a tutte le decisioni concernenti introiti e spese;<br />

- attribuirgli un accentuato controllo sulla politica estera e di sicurezza, per quanto riguarda il ruolo<br />

dell’UE e le sue decisioni nel “sistema di cooperazione confederale in Europa” e l’ulteriore svilup-<br />

169 Nella fedeltà al proprio progetto originario, il PE sembrava dunque aver abbandonato peraltro l’idea del coinvolgimento<br />

dei Parlamenti nazionali nella redazione finale del testo, della “mobilitazione dell’opinione pubblica europea” e<br />

dell’entrata in vigore della Costituzione dietro la ratifica anche solo di una maggioranza degli Stati membri. Viceversa il<br />

PE sembrava ormai orientato al coinvolgimento di una CIG nella redazione finale del testo e a una ratifica esclusivamente<br />

parlamentare di esso (memore dell’esito negativo del referendum danese sul trattato di Maastricht).


po dell’UE, attraverso la concessione al PE del diritto di consenso riguardo a tutte le decisioni fondamentali<br />

della politica estera e di sicurezza comune, alla conclusione di trattati internazionali e a<br />

tutte le decisioni adottate all’unanimità dal Consiglio nel quadro dell’UE; 170<br />

Infine il PE raccomandava un più sistematico uso di tutte le lingue ufficiali degli Stati membri, come<br />

lingue ufficiali dell’UE, nell’ambito dei rapporti tra i cittadini dell’Unione (compresi i membri<br />

del PE) e le sue istituzioni, ma anche, nella prospettiva di un nuovo allargamento dell’UE,<br />

l’adozione dell’uso tecnico di lingue di lavoro (che si ridurranno essenzialmente all’inglese).<br />

Nel frattempo occorreva peraltro che entrasse in vigore il “necessario, ma non sufficiente” trattato<br />

di Maastricht, ma finalmente, il 18 maggio 1993, un nuovo referendum danese su di esso dava, stavolta,<br />

un esito positivo, sgombrando la strada al completamento del processo della sua ratifica.<br />

In questo clima più sereno si svolgeva quindi il Consiglio europeo di Copenhagen del 21-22 giugno<br />

1993. Nelle sue conclusioni, questo forniva una chiara e netta risposta all’ultima risoluzione citata<br />

del PE. Mostrando soddisfazione per l’esito del recente referendum danese e quindi per la prospettiva<br />

di un rapido completamento delle procedure di ratifica del trattato di Maastricht in tutti gli Stati<br />

membri, il Consiglio europeo soggiungeva:<br />

“E’ determinato ad assicurare che questo importante passo segni la fine di un prolungato periodo d’incertezza nella direzione<br />

della Comunità e sia l’occasione per l’Unione di affrontare con rinnovato vigore e determinazione le varie sfide<br />

cui è posta di fronte all’interno e dall’esterno, facendo pieno uso delle possibilità offerte dal nuovo trattato. I principi<br />

scanditi dai Consigli europei di Birmingham e di Edimburgo, riguardanti la democrazia, la sussidiarietà e l’apertura,<br />

guideranno l’esecuzione del nuovo trattato allo scopo di portare la Comunità più vicino ai suoi cittadini.”<br />

In tal modo il Consiglio europeo intendeva porre la parola “fine” alla messa in discussione del trattato<br />

di Maastricht, riservando alla sua stessa “piena” applicazione, attraverso le linee guida tracciate<br />

nelle precedenti riunioni dell’istituzione, la realizzazione del compito, che il trattato stesso viceversa<br />

riservava a ulteriori tappe di riforma istituzionale da esso stesso richieste.<br />

La nuova strategia del Consiglio europeo era definita ancor più chiaramente nel seguente modo:<br />

“Il Consiglio europeo di Copenhagen dà attenzione speciale, da un lato, a un’azione tesa ad affrontare i problemi sociali<br />

cui è posta di fronte la Comunità, e in particolare all’alto livello, inaccettabile, di disoccupazione, e, dall’altro lato,<br />

all’ampio spettro di questioni relative alla pace e alla sicurezza in Europa. Esso riconosce che solo dimostrando che la<br />

Comunità è funzionale a contribuire alla sicurezza e al benessere di tutti i cittadini, la Comunità può contare su un sostegno<br />

pubblico continuato per la costruzione dell’Europa.<br />

Come dire: ciò che contava era di riguadagnare e mantenere il sostegno dei cittadini alla Comunità<br />

e, a questo scopo, di concentrarsi esclusivamente nell’affrontare e risolvere i problemi concreti, relativi<br />

alla loro sicurezza e al loro benessere.<br />

Ancora più chiara era la conclusione del Consiglio europeo rispetto alle richieste del PE:<br />

“I membri del Consiglio europeo hanno avuto uno scambio di vedute con il presidente del Parlamento Europeo. La discussione<br />

ha avuto come sfondo il crescente ruolo politico e legislativo che il Parlamento Europeo avrà nell’ambito del<br />

trattato di Maastricht. Il Consiglio europeo sottolinea l’importanza di fare il miglior uso possibile di quelle disposizioni,<br />

ma rispettando pienamente l’equilibrio istituzionale esposto nel trattato di Maastricht.”<br />

In altri termini: il PE poteva pure sfruttare appieno le possibilità a esso conferite da tale trattato, ma<br />

non esisteva alcuna possibilità di andare al di là di esso. Al massimo il Consiglio europeo esortava<br />

piuttosto a un più stretto coinvolgimento dei Parlamenti nazionali nelle attività della Comunità.<br />

Come stabilito, il Consiglio europeo da un lato si confrontava sui problemi concreti della crescita,<br />

della competitività e della disoccupazione (soffermandosi su misure a breve termine, e a medio e a<br />

lungo termine per promuovere competitività e occupazione, sulla politica monetaria e dei tassi di<br />

cambio e sugli aspetti internazionali) e sul mercato interno e le politiche comuni.<br />

170 In tal modo la risoluzione prefigurava il superamento della struttura “a pilastri” prevista per la futura UE.


Dall’altro lato esso dedicava ampio spazio ai temi dell’allargamento, 171 delle relazioni con Malta e<br />

Cipro, con la Turchia e soprattutto con i Paesi dell’Europa centrale e orientale (in particolare sui<br />

Paesi associati 172 e su altri Paesi), su un proposto Patto di stabilità in Europa, sulla Russia,<br />

sull’Ucraina, sull’ex Jugoslavia, sulle relazioni con i Paesi del Maghreb e infine, nell’ambito della<br />

PESC, sul lavoro preparatorio all’elaborazione di una politica della sicurezza comune.<br />

Come pure stabilito, il Consiglio europeo invitava a sviluppare il programma “una Comunità vicina<br />

ai suoi cittadini” (per quanto riguarda i temi della “sussidiarietà” e dell’”apertura”) e infine si pronunciava<br />

contro la frode coinvolgente la Comunità e contro il razzismo e la xenofobia.<br />

Raccogliendo l’invito del Consiglio europeo di Copenhagen a realizzare “una Comunità vicina ai<br />

suoi cittadini”, tutte e tre le massime istituzioni delle Comunità europee (il Consiglio, il Parlamento<br />

Europeo e la Commissione) partecipavano alla Conferenza interistituzionale di Lussemburgo del 25<br />

ottobre 1993, nella quale, veniva adottata la “Dichiarazione interistituzionale su democrazia, trasparenza<br />

e sussidiarietà”, vero manifesto fondatore della “democrazia europea”, soprattutto nella nuova<br />

dimensione della “democrazia partecipativa”.<br />

In tale Dichiarazione le tre istituzioni comunitarie stabilivano:<br />

1) per quanto riguarda la democrazia: la prossima sostituzione del quadro della “procedura cooperativa”<br />

con il nuovo quadro della “procedura legislativa”, nel quale la Commissione avrebbe formalmente<br />

proposto un programma legislativo annuale, il Parlamento Europeo avrebbe adottato la sua<br />

risoluzione al riguardo e il Consiglio avrebbe statuito la sua posizione sul programma in una dichiarazione<br />

e si sarebbe impegnato a eseguire quanto prima le disposizioni a suo avviso prioritarie. A<br />

questo proposito la Dichiarazione conteneva in allegato delle apposite “Intese per i procedimenti del<br />

Comitato di conciliazione previsto dall’articolo 189b” (del prossimo trattato CE), volti a determinare<br />

i passi da seguire nel caso di un mancato accordo fra le tre istituzioni comunitarie a proposito di<br />

una proposta legislativa.<br />

2) per quanto riguarda la trasparenza:<br />

“a) il Parlamento Europeo conferma […] la natura pubblica degli incontri delle sue commissioni e delle sue sedute plenarie;<br />

b) il Consiglio è d’accordo di prendere misure:<br />

- per aprire al pubblico alcuni dei suoi dibattiti;<br />

- per pubblicare registrazioni e spiegazioni delle sue votazioni;<br />

- per pubblicare le posizioni comuni che esso adotta […] e la dichiarazione delle ragioni che le accompagnano;<br />

- per migliorare l’informazione per la stampa e il pubblico sul suo lavoro e sulle sue decisioni;<br />

- per migliorare l’informazione generale sul suo ruolo e sulle sue attività;<br />

- per semplificare e consolidare la legislazione della Comunità [...];<br />

- per disporre l’accesso ai suoi archivi.<br />

c) la Commissione” assume “le seguenti misure”:<br />

- più ampie consultazioni prima di presentare proposte, in particolare una pubblicazione di Libri Verdi o Bianchi sui<br />

temi elencati nel programma legislativo del 1993;<br />

- segnalare nel programma legislativo proposte sopravvenute che appaiano adatte a consultazioni preliminari di<br />

ampio spettro;<br />

171 In diretto contrasto con il PE, il Consiglio europeo stabiliva per i quattro Paesi EFTA candidati all’adesione alla futura<br />

UE la loro entrata effettiva in essa per il 1° gennaio 1995, senza prima aver deciso la convocazione di una CIG per<br />

l’elaborazione di un nuovo trattato.<br />

172 Sempre in diretto contrasto con il PE, il Consiglio europeo stabiliva che tutti i Paesi dell’Europa centrale e orientale,<br />

che risultassero associati alle Comunità europee, avevano il diritto di entrare nella futura UE, alle seguenti condizioni (i<br />

“criteri di Copenhagen”): “L’appartenenza richiede che il Paese candidato abbia raggiunto una stabilità delle istituzioni,<br />

che garantisca la democrazia, la norma della legge, i <strong>diritti</strong> umani e il rispetto per e la protezione delle minoranze,<br />

l’esistenza di un’economia di mercato funzionante, così come la capacità di far fronte alla pressione competitiva e alle<br />

forze di mercato dentro l’Unione. L’appartenenza presuppone l’abilità del candidato di assumere le obbligazioni<br />

dell’appartenenza, inclusa l’adesione agli intenti dell’Unione politica, economica e monetaria.”, definiti, peraltro, esclusivamente<br />

in base al trattato di Maastricht.


- introduzione di una procedura di notifica, consistente nella pubblicazione nella Gazzetta ufficiale di un breve riassunto<br />

di qualsiasi misura pianificata dalla Commissione, con la fissazione di una scadenza entro la quale le parti interessate<br />

possono sottoporre i loro commenti;<br />

- pubblicazione di programmi di lavoro e di programmi legislativi nella Gazzetta ufficiale per pubblicizzare un’azione<br />

pianificata dalla Commissione;<br />

- realizzazione del programma di lavoro entro ottobre allo scopo di esaltare l’apertura;<br />

- pubblicazione nel programma legislativo di piani per il consolidamento della legislazione della Comunità;<br />

- disposizione per un accesso pubblico più facile ai documenti tenuti dalla Commissione con effetto dal 1° gennaio<br />

1994;<br />

- migliorare la conoscenza delle raccolte di dati e la loro accessibilità, incluso un miglioramento della rete di scambio<br />

esistente;<br />

- una più veloce pubblicazione dei documenti della Commissione in tutte le lingue della Comunità;<br />

- adozione di una nuova politica per l’informazione e la comunicazione, che occupi una larga parte nelle attività<br />

della Commissione; un pronunciato coordinamento delle attività d’informazione sia dentro, sia fuori della Commissione;<br />

- adozione di misure aggiuntive per facilitare la comprensione da parte del pubblico generale degli affari della Commissione,<br />

in particolare rendendo disponibili le risorse e l’equipaggiamento necessari a fornire un’adeguata risposta alle richieste<br />

provenienti dai mezzi di comunicazione;<br />

- miglioramento nel trattamento dei contatti telefonici, postali e personali tra i cittadini e la Commissione;<br />

- promozione dell’istituzione di un’autoregolamentazione da parte dei gruppi d’interesse specifico, richiedendo loro<br />

di redigere un codice di condotta e un elenco nominativo;<br />

- creazione da parte della Commissione di una raccolta di dati sui gruppi d’interesse specifico quale strumento per<br />

l’uso da parte del pubblico generale e da parte dei funzionari della Commissione.”<br />

Come si vede, per quanto riguarda i primi due principi, la “parte del leone” spettava, senza paragoni,<br />

al tema della “trasparenza” e, per quanto riguarda quest’ultima, senza dubbio, allo spazio riservatole<br />

e soprattutto alla particolare concezione datane da parte della Commissione. Quest’ultima,<br />

infatti, prevedeva da un lato una vasta opera di pubblicizzazione delle proprie attività, che aveva<br />

come suo elemento di maggior rilievo la creazione di un’apposita nuova “politica per<br />

l’informazione e la comunicazione” (con presumibile nuovo portafoglio specifico per un apposito<br />

membro della Commissione), volta a coordinare e a sviluppare tutte le attività finalizzate sia<br />

all’”informazione”, ossia alla pubblicazione, senza commenti, dei lavori svolti o progettati, sia alla<br />

“comunicazione”, ossia alla strategia di trasmissione <strong>attiva</strong> di messaggi persuasivi e convincenti ai<br />

prossimi “cittadini dell’Unione”, volta a riguadagnare e mantenere il loro consenso alle Comunità<br />

europee.<br />

Ma la Commissione si spingeva, d’altro lato, ben oltre il tema della vera e propria “trasparenza”,<br />

lanciando un nuovissimo programma di coinvolgimento diretto dei cittadini nelle sue attività. In<br />

particolare la Commissione legava strutturalmente il proprio compito istituzionale d’iniziativa legislativa<br />

a una preliminare consultazione, altrettanto strutturata, con i cittadini, soprattutto nella forma<br />

associata dei cosiddetti “gruppi d’interesse specifico” (GIS). Si trattava di quelle che si sarebbero<br />

denominate le “lobbies” ovvero appunto i gruppi d’interesse specifico legati a questo o a quel settore<br />

d’intervento della Commissione. Quest’ultima, peraltro, non faceva distinzioni rispetto ai mandatari<br />

dei GIS, se cioè questi fossero espressione di gruppi d’aziende o invece di gruppi di organizzazioni<br />

non governative della società civile, consentendo così a entrambi i tipi di realtà di avvalersi<br />

della struttura dei GIS. Questi ultimi avrebbero dovuto registrarsi in un apposito elenco nominativo,<br />

redigendo un rispettivo codice di condotta e permettendo che tutti i dati loro relativi fossero resi<br />

pubblici; a quel punto avrebbero avuto a disposizione i contenuti, i tempi e i modi per un loro coinvolgimento<br />

nelle consultazioni poste in essere dalla Commissione allo scopo di pervenire a un testo<br />

finale “condiviso” della sua proposta legislativa. Era l’inizio di una nuova epoca della “democrazia<br />

europea”, ovvero della nascita della “democrazia partecipativa” europea nel senso attuale del termine.<br />

Infine, sempre in nome del principio della “trasparenza”, il Parlamento Europeo rendeva noto un<br />

suo “Progetto di decisione, che delinea le regole e le condizioni generali, che governano lo svolgimento<br />

dei doveri del Mediatore”, previsto dal trattato di Maastricht.


Quanto al terzo e ultimo principio oggetto della Dichiarazione, ovvero a quello della “sussidiarietà”,<br />

esso era l’oggetto di un particolare “Accordo interistituzionale tra il Parlamento Europeo, il Consiglio<br />

e la Commissione sulle procedure per applicare il principio di sussidiarietà”, accluso alla Dichiarazione<br />

stessa. In tale accordo ogni istituzione si impegnava a calibrare e a motivare ogni suo<br />

atto rispetto a una preliminare valutazione della sua conformità a tale principio.<br />

Nell’imminenza dell’entrata in vigore del trattato di Maastricht e quindi della nascita dell’Unione<br />

Europea, veniva convocata quindi la riunione straordinaria del Consiglio europeo di Bruxelles del<br />

29 ottobre 1993. Il suo primo compito fu quello di approvare la “Dichiarazione sull’entrata in vigore<br />

del trattato sull’Unione Europea”. Essa tracciava il bilancio della difficile stagione del processo<br />

di ratifica di esso e intendeva essere un messaggio di fiducia nella nascente Unione Europea.<br />

Infatti la Dichiarazione affermava che l’entrata in vigore del trattato era importante sia per via del<br />

suo contenuto, sia per via dell’”intenso dibattito, che la sua ratifica ha occasionato”.<br />

Quanto al suo contenuto, la Dichiarazione metteva in luce le quattro acquisizioni principali, a cui<br />

esso avrebbe condotto: 1) “una maggiore prosperità economica”, grazie al varo dell’UEM; 2) “una<br />

maggiore ambizione esterna”, grazie alla PESC; 3) “una maggiore efficacia”, grazie alla “cooperazione<br />

nei settori della giustizia e degli affari interni”; 4) “una maggiore democrazia”, grazie alla <strong>cittadinanza</strong><br />

dell’Unione (e ai <strong>diritti</strong> “speciali” a questa connessi) e al maggiore potere del Parlamento<br />

Europeo (peraltro “pudicamente” non citati).<br />

Ma la Dichiarazione si soffermava pure sul fatto che<br />

“la ratifica è stata l’occasione per un vero dibattito pubblico sulla costruzione dell’Europa, sui suoi scopi e sui suoi metodi.<br />

Questo dibattito è stato salutare. Esso ha rivelato debolezza. Ci sono parecchi per i quali l’Europa sembra distante,<br />

anonima e che interferisca. Per questa ragione, desideriamo introdurre maggiore trasparenza, apertura e decentralizzazione<br />

nelle nostre procedure. Vogliamo un’Europa vicina al cittadino e che intervenga solo dove necessario a perseguire<br />

i nostri interessi comuni. L’unità della nostra azione può e deve essere riconciliata con la diversità delle nostre tradizioni.<br />

L’efficacia può e deve essere riconciliata con la democrazia.” 173<br />

Volgendo quindi lo sguardo all’avvenire, la Dichiarazione continuava dicendo:<br />

“E’ ora importante dar vita al trattato dell’Unione. Esso ci provvede di un nuovo quadro di riferimento e di nuovi mezzi<br />

di conseguimento dei nostri permanenti obiettivi: sicurezza, prosperità e solidarietà. Esso ci permette nuove vie di servire<br />

la nostra ambizione: un’Unione Europea forte, coerente e responsabile, un polo di stabilità e di attrazione per il nostro<br />

continente e per il mondo.<br />

I cittadini d’Europa sanno che la Comunità ha portato loro una fine di guerre sanguinose, un più alto livello di prosperità<br />

e una maggiore influenza. Sanno che oggi, persino più di ieri, l’isolamento e l’arroccamento sono false soluzioni,<br />

comunque illusorie e talvolta pericolose. Essi devono realizzare anche che l’Unione Europea li aiuterà ad affrontare la<br />

trasformazione industriale e sociale, le sfide esterne e un numero dei flagelli della nostra società, a partire dalla disoccupazione.<br />

Ciò presuppone che i popoli d’Europa li affrontino insieme con energia, determinazione e, soprattutto, fiducia.”<br />

174<br />

173 Questo testo, purtroppo, avrebbe potuto essere scritto tuttora. E proprio perciò queste strategie, volte a risolvere i<br />

problemi già allora emersi, si riveleranno insufficienti quanto al grado della loro effettiva realizzazione o persino in se<br />

stesse. Infatti fra i tre presunti caratteri negativi dell’Europa quello centrale e insieme meno considerato era proprio la<br />

sua “anonimia”. Centrale perché un’Europa “anonima” non avrebbe potuto essere percepita se non come distante e interferente;<br />

meno considerato, perché tentare di andare oltre tale “anonimia” avrebbe significato riaprire la questione<br />

dell’”identità” politica dell’Unione Europea e della <strong>cittadinanza</strong> dell’Unione, un tema rivelatosi quanto mai “pericoloso”<br />

in occasione già del processo di ratifica del trattato di Maastricht e in particolare del primo referendum danese. Si<br />

era così posti fin da allora di fronte a un’apparente contraddizione in molti “cittadini dell’Unione”: l’”anonimia” infatti<br />

era e sarà per un verso esecrata, ma per l’altro verso pretesa, l’estraneità dell’UE da un lato condannata, ma dall’altro<br />

lato voluta, l’insignificanza della <strong>cittadinanza</strong> dell’Unione da una parte dileggiata, ma d’altra parte giudicata necessaria<br />

per definizione (“una <strong>cittadinanza</strong> dell’Unione non può essere che insignificante”).<br />

174 Il Consiglio europeo tradiva dunque con queste parole la propria reale convinzione: il trattato di Maastricht non era<br />

altro che un insieme di mezzi nuovi per perseguire da un lato gli stessi obiettivi di sempre (“sicurezza, pace e prosperità”),<br />

ma anche, d’altro lato, l’ambizione di creare “un’Unione Europea forte” ossia l’essenziale finalità esterna dell’UE,<br />

in realtà nata per far da contenitore ai vari Stati europei, portando una pace definitiva nel continente e consentendo<br />

all’Europa di assumere un ruolo di primo piano nel mondo. Rispetto a tali obiettivi, il messaggio di fiducia del Consiglio<br />

europeo ai “cittadini d’Europa” suonava alquanto riduttivo: la “fiducia” doveva essere basata infatti sulla consape-


Per quanto riguarda le conclusioni del Consiglio europeo straordinario di Bruxelles, quest’ultimo<br />

raccomandava già l’esecuzione del trattato di Maastricht quanto ai seguenti temi: l’Unione economica<br />

e monetaria (UEM), la politica estera e di sicurezza comune (con i campi d’azione: la promozione<br />

di stabilità e pace in Europa, il Medio Oriente, il Sud Africa, l’ex-Jugoslavia, la Russia), la<br />

giustizia e gli affari interni (si stabiliva, tra l’altro, che “la Convenzione EUROPOL deve essere<br />

conclusa e l’Unità antidroga deve essere operativa entro l’ottobre 1994” 175 ), la dimensione sociale,<br />

la democrazia e la trasparenza (con la previsione della prima riunione del previsto Comitato delle<br />

Regioni entro il 15 gennaio 1994 e con l’applicazione del previsto diritto del “cittadino<br />

dell’Unione” di partecipare nello Stato membro di residenza alle elezioni del Parlamento Europeo<br />

per la prossima tornata del 9-12 giugno 1994). Il Consiglio europeo straordinario di Bruxelles offriva<br />

poi indicazioni pure sulla crescita e sull’occupazione, sull’allargamento (precisando che i negoziati<br />

per l’adesione dei quattro Paesi EFTA candidati avrebbero dovuto concludersi entro il 1° marzo<br />

1994) e infine sulla sede di vari organi e organismi dell’UE.<br />

Due giorni dopo, il 1° novembre 1993, si celebrava finalmente l’entrata in vigore del trattato di<br />

Maastricht e dunque la nascita dell’Unione Europea. 176 Si trattava di un evento storico: con tutti<br />

i suoi limiti questo trattato aveva permesso la nascita di quell’Unione Europea sognata da almeno<br />

sessant’anni e tenacemente perseguita con continuità da almeno quarant’anni, come meta finale del<br />

processo d’integrazione europea. Il suo fiore all’occhiello era tuttavia la “<strong>cittadinanza</strong> dell’Unione”,<br />

che, proprio in quanto altamente difettiva, avrebbe perciò costituito, da allora in poi, il cominciamento,<br />

il punto di partenza di un altro tipo di processo d’integrazione europea, quello che si può<br />

riassumere, parafrasando un celebre detto italiano, nell’espressione: “Abbiamo fatto l’Europa. Si<br />

tratta adesso di fare gli Europei”.<br />

Nella successiva riunione, ordinaria, del Consiglio europeo di Bruxelles del 10-11 dicembre 1993,<br />

la prima della nuova UE, si pervenne alle seguenti conclusioni. Si decise di adottare: 1) un piano<br />

d’azione per “la crescita, la competitività e l’occupazione”; 2) un primo piano d’azione della neonata<br />

“cooperazione nel campo della giustizia e degli affari interni”; 3) la decisione (la prima della neonata<br />

PESC) di convocare a Parigi per l’aprile 1994 una Conferenza CSCE per il varo del previsto<br />

Patto di stabilità con i Paesi dell’Europa centrale e orientale); 4) la decisione di esecuzione del trattato<br />

di Maastricht (in ordine all’UEM, alla sussidiarietà e al posto dei Paesi candidati nelle istituzioni<br />

dell’Unione).<br />

E finalmente, con il 1° gennaio 1994, si <strong>attiva</strong>vano contemporaneamente due grandi eventi: 1)<br />

l’avvio della seconda fase dell’UEM con la creazione dell’Istituto monetario europeo (IME) e 2)<br />

l’entrata in vigore dello Spazio economico europeo (SEE).<br />

Ma soprattutto aveva effettivamente inizio la nuova fase del processo d’integrazione europea con la<br />

risoluzione del Parlamento Europeo del 10 febbraio 1994 “sulla Costituzione dell’Unione Europea”<br />

(relatore: Fernand Herman). In essa il PE, prendendo atto del varo ufficiale dell’UE, lanciata ormai<br />

nella seconda fase dell’UEM ed estesa, quanto al suo mercato interno, a tutti i Paesi del SEE, richiamava<br />

l’attenzione sulla centralità della <strong>cittadinanza</strong> dell’Unione, sull’insufficienza della sua attuale<br />

configurazione e sulla necessità di ridefinirla totalmente e perciò di rifondare la stessa UE su<br />

basi autenticamente democratiche ossia attraverso una vera e propria Costituzione, un progetto della<br />

quale (elaborato dallo stesso PE) veniva accluso alla risoluzione. In questa il PE affermava in particolare:<br />

volezza delle passate acquisizioni della Comunità e dell’inevitabilità dei tentativi di sottrarsi all’”abbraccio” dell’UE,<br />

nonché sull’evidenza della necessità dell’Unione come unico mezzo per affrontare con successo le sfide della globalizzazione.<br />

Ma la fiducia non nasce dalla semplice consapevolezza della mancanza d’alternative, bensì dal più complesso<br />

sentimento di appartenenza comune a una medesima realtà, il che era proprio ciò che non si dava.<br />

175 In realtà tale embrione della futura EUROPOL, l’”Unità Europol sulle droghe” (UED), che avrebbe dovuto essere<br />

una sorta di analogo europeo della DEA americana, avrebbe iniziato la propria attività già il 3 gennaio 1994.<br />

176 Appena due giorni dopo, peraltro, il 3 novembre 1993, la Danimarca notificava ufficialmente al Consiglio la sua intenzione<br />

(già espressa e accolta) di non partecipare alla terza fase dell’Unione economica e monetaria e quindi di non<br />

adottare la futura moneta dell’Unione.


“A. tenuto presente il bisogno, che è stato riaffermato in diverse occasioni durante il corrente mandato del Parlamento,<br />

di provvedere l’Unione Europea di una Costituzione democratica per permettere al processo d’integrazione europea di<br />

continuare in accordo con i bisogni dei cittadini europei,<br />

B. premesso che il trattato sull’Unione Europea non soddisfa pienamente ai requisiti dell’Unione Europea quanto a democrazia<br />

ed efficacia,<br />

C. premesso che la Costituzione deve essere prontamente accessibile e comprensibile ai cittadini dell’Unione,<br />

D. premesso che […] [il progetto di Costituzione del PE] “offre un importante contributo al dibattito sulla democrazia e<br />

sulla trasparenza nelle istituzioni europee, che sarà aperto sia entro il Parlamento Europeo, sia entro i Parlamenti nazionali<br />

e l’opinione pubblica,<br />

1. Nota con soddisfazione il lavoro della Commissione sugli affari istituzionali, che è risultato in un Progetto di Costituzione<br />

per l’Unione Europea, annesso a questa risoluzione, e invita il Parlamento Europeo che deve essere eletto nel giugno<br />

1994 a continuare quel lavoro allo scopo di approfondire il dibattito sulla Costituzione Europea, tenendo conto dei<br />

contributi provenienti dai Parlamenti nazionali e da membri del pubblico negli Stati membri e nei Paesi candidati;<br />

2. Propone che una Convenzione Europea, 177 che raduni insieme i membri del Parlamento Europeo e dei Parlamenti<br />

degli Stati membri dell’Unione, sia tenuta prima della Conferenza intergovernativa programmata per il 1996, allo scopo<br />

di adottare, sulla base di un progetto di Costituzione che deve essere sottoposto al Parlamento Europeo, le linee guida<br />

per la Costituzione dell’Unione Europea, e di assegnare al Parlamento Europeo il compito di preparare un progetto finale;<br />

3. Invita i capi di Stato e di governo degli Stati membri a nominare un gruppo di eminenti personalità che siano indipendenti,<br />

ma godano della loro fiducia, sul tipo del Comitato Spaak/Dooge […], con il compito di considerare questo<br />

progetto di Costituzione, di discuterlo con il Parlamento e di proporlo alla Conferenza intergovernativa;<br />

4. Propone alla Commissione e al Consiglio che la Conferenza intergovernativa, programmata per il 1996, sia preceduta<br />

da una conferenza interistituzionale sullo stesso tema; […]”<br />

Con tale risoluzione il PE lanciava dunque irrevocabilmente il suo “guanto di sfida”: rimanendo fedele<br />

alla sua intenzione costituzionale originaria, esso denunciava ancora una volta i limiti del trattato<br />

di Maastricht quanto alle garanzie in esso presenti di “democrazia ed efficacia” della nuova UE<br />

ed affermava anzi che la Costituzione, che avrebbe invece soddisfatto a tali garanzie, avrebbe dovuto<br />

perciò essere, prima di tutto, facilmente “accessibile e leggibile” dagli stessi “cittadini<br />

dell’Unione”. Perciò il processo della sua redazione avrebbe dovuto essere accompagnato da un<br />

ampio “dibattito sulla democrazia e sulla trasparenza delle istituzioni europee”, coinvolgente non<br />

solo il PE, ma anche i Parlamenti nazionali e anzi la stessa opinione pubblica. Tale processo avrebbe<br />

dovuto comportare le seguenti tappe:<br />

a) la diffusione del Progetto di Costituzione accluso alla risoluzione, allo scopo di aprire tale ampio<br />

dibattito;<br />

b) un lavoro del prossimo PE (da eleggere nel giugno 1994) teso a recepire i risultati di tale dibattito;<br />

c) una “Convenzione Europea”, formata da rappresentanti del PE e dei Parlamenti nazionali, incaricata<br />

di redigere un nuovo Progetto di Costituzione;<br />

d) sulla base del Progetto varato dalla Convenzione, il PE avrebbe provveduto alla redazione del<br />

Progetto finale;<br />

e) un Comitato di “saggi” incaricato di esaminare il Progetto finale e di presentarlo alla Conferenza<br />

intergovernativa (CIG);<br />

f) una conferenza interistituzionale sul tema della Costituzione Europea, preliminare alla CIG;<br />

g) la CIG, prevista dallo stesso trattato di Maastricht per il 1996, avrebbe dovuto esaminare il Progetto<br />

finale, allo scopo di trasformarlo nel progetto di un nuovo trattato europeo, da sottoporre alla<br />

firma dei capi di Stato e di governo degli Stati membri, in vista delle ratifiche parlamentari nazionali<br />

del nuovo “trattato costituzionale”.<br />

177 Era quanto mai evidente già nel nome di questa sorta di assemblea costituente il richiamo ideale alla celebre Convenzione<br />

di Filadelfia, che creò la Costituzione degli Stati Uniti d’America. Tale Convenzione europea, prevista dalla<br />

risoluzione del PE, troverà la sua realizzazione in duplice forma, nella prima Convenzione, che redigerà la Carta dei <strong>diritti</strong><br />

fondamentali dell’Unione, e nella seconda Convenzione, che redigerà il Trattato costituzionale europeo.


Tale complesso “iter” di formazione (peraltro quanto mai serrato nei tempi previsti d’esecuzione)<br />

partiva dunque dal “Progetto di Costituzione dell’Unione Europea”, accluso alla stessa risoluzione<br />

del PE. Tale Progetto era quanto mai illuminante già nel suo Preambolo:<br />

“In nome dei popoli d’Europa,<br />

- premesso che una sempre più stretta unione tra i popoli d’Europa e l’emersione di un’identità politica europea sono in<br />

linea con la continuità del processo d’integrazione iniziato nei primi trattati della Comunità e con la prospettiva di sviluppo<br />

verso un’Unione di stile federale,<br />

- insistendo sul fatto che l’appartenenza all’Unione Europea è basata su valori condivisi dai suoi popoli, in particolare<br />

libertà, uguaglianza, solidarietà, dignità umana, democrazia, rispetto dei <strong>diritti</strong> umani e la norma della legge,<br />

- desiderando rafforzare la solidarietà tra questi popoli, pur rispettando la loro diversità, storia, cultura, lingue e strutture<br />

istituzionali e politiche,<br />

- consapevole del bisogno di assicurare che le decisioni che li riguardino siano prese al livello più vicino possibile ai<br />

cittadini stessi, con poteri che siano delegati a livelli superiori solo per provate ragioni del bene comune,<br />

- premesso che l’Unione Europea ha a suoi scopi lo sviluppo economico, il progresso sociale, il rafforzamento della coesione,<br />

la partecipazione <strong>attiva</strong> delle autorità regionali e locali, insieme con il rispetto dell’ambiente e dell’eredità culturale,<br />

- desiderando garantire ai cittadini e a tutti coloro che risiedono nell’Unione Europea migliori condizioni di vita e un<br />

ruolo attivo nello sviluppo economico e sociale,<br />

- dichiarando che l’Unione Europea deve portare un contributo effettivo alla sicurezza dei suoi popoli, all’inviolabilità<br />

delle sue frontiere esterne, al mantenimento della pace internazionale, allo sviluppo economico sostenibile ed equo di<br />

tutti i popoli del mondo e a un’appropriata protezione dell’ambiente mondiale,<br />

- confermando che l’Unione Europea è aperta a quegli Stati europei desiderosi di partecipare a essa, che condividano gli<br />

stessi valori, perseguano gli stessi obiettivi e accettino lo stesso acquis communautaire,<br />

- accettando l’idea che alcuni Stati membri possano essere capaci di progredire più velocemente e più oltre verso<br />

l’integrazione rispetto ad altri, purché questo processo rimanga aperto in ogni tempo a ciascuno degli Stati membri che<br />

desiderano parteciparvi e purché gli obiettivi che essi perseguono rimangano compatibili con l’Unione Europea,<br />

gli Stati membri e il Parlamento Europeo hanno adottato questa Costituzione dell’Unione Europea, allo scopo di<br />

- definire i suoi obiettivi,<br />

- aumentare l’efficacia, la trasparenza e la vocazione democratica delle sue istituzioni,<br />

- semplificare e chiarire le sue procedure decisionali,<br />

- garantire in [forma di] legge i <strong>diritti</strong> umani e le libertà fondamentali.”<br />

Il Preambolo riprendeva la stessa premessa solenne (“in nome dei popoli d’Europa”) già presente<br />

nella “Dichiarazione dei <strong>diritti</strong> e delle libertà fondamentali” del 1989. A differenza di quest’ultima<br />

(proclamata dal solo PE), al Progetto di Costituzione venivano peraltro attribuiti due soggetti ovvero<br />

sia gli Stati membri, sia il Parlamento Europeo, a riprova della duplice fonte di sovranità<br />

dell’UE, costituita dagli Stati membri e dai cittadini dell’Unione (rappresentati dallo stesso PE).<br />

La ragion d’essere della Costituzione veniva fatta risiedere nella necessità di assecondare la naturale<br />

prosecuzione del processo d’integrazione verso “l’emersione di un’identità politica europea” e dunque<br />

lo “sviluppo verso un’Unione di stile federale”.<br />

Tale duplice traguardo storico sarebbe stato realizzato soprattutto da quella finalità, fondamentale,<br />

della Costituzione, consistente nel “garantire in (forma di) legge i <strong>diritti</strong> umani e le libertà fondamentali”.<br />

Infatti, proprio attraverso l’inserimento in essa di un “elenco” di tali <strong>diritti</strong>, che avrebbero<br />

con ciò acquisito valore legale cogente, la Costituzione avrebbe, da un lato, conferito unità, corpo e<br />

sostanza alla “<strong>cittadinanza</strong> dell’Unione” e, dall’altro lato, attribuito all’UE l’autorità di emettere atti<br />

giuridici non solo vincolanti, ma anche aventi il carattere di veri e propri atti legislativi, anzi di vere<br />

e proprie leggi, valide, come tali, non solo nell’ambito delle istituzioni e del diritto dell’UE, bensì,<br />

grazie al così rafforzato primato del diritto europeo sul diritto nazionale, anche nell’ambito della legislazione<br />

e della giurisdizione nazionali degli Stati membri, conferendo con ciò all’UE il carattere<br />

di un ente pubblico dotato di una vera e propria “personalità legale” (“l’identità politica europea”)<br />

con caratteristiche schiettamente “federali” (“un’Unione di stile federale”).<br />

Rispetto a tale nuova UE, il Progetto di Costituzione prevedeva l’adesione a essa di tutti quegli Stati<br />

“europei”, che avessero tuttavia accettato effettivamente tale sua configurazione in senso politico e


federale; 178 inoltre incoraggiava il perseguimento di quelle che poi sarebbero state chiamate “cooperazioni<br />

rafforzate” tra alcuni Stati membri per anticipare tra loro e così promuovere globalmente la<br />

realizzazione dell’integrazione europea.<br />

Quanto al testo della vera e propria Costituzione, il Progetto perciò stabiliva, già nei “Principi” di<br />

essa, in primo luogo la duplice sovranità degli Stati membri e dei cittadini, la “personalità legale”<br />

dell’UE e il primato della “legge dell’Unione” “sulla legge degli Stati membri”.<br />

Per quanto riguarda poi la <strong>cittadinanza</strong> dell’Unione (riservata ai soli cittadini degli Stati membri), le<br />

attribuiva i seguenti <strong>diritti</strong> specifici:<br />

- di partecipare alle elezioni comunali ed europee nel proprio luogo di residenza (dovunque fosse<br />

all’interno dell’UE);<br />

- di impegnarsi in attività politiche in tutto il territorio dell’UE;<br />

- di tenere un ufficio pubblico nell’Unione;<br />

- di godere della protezione diplomatica dell’UE in Paesi terzi;<br />

- di godere della libertà di muoversi, risiedere, restare liberamente e svolgere l’occupazione di propria<br />

scelta nel territorio dell’UE;<br />

- di lasciare l’Unione e di ritornarvi;<br />

- di appellarsi (come tutte le persone residenti nell’UE) al Mediatore;<br />

- di presentare (come ogni persona residente nell’UE) una petizione al PE.<br />

Inoltre si affermava: “Nelle aree dove si applica la legge dell’Unione, l’Unione e gli Stati membri<br />

assicurano il rispetto dei <strong>diritti</strong> esposti nel Titolo VIII” dello stesso Progetto di Costituzione.<br />

Per quanto riguarda le “Competenze dell’Unione”, il Progetto precisava:<br />

“1. L’Unione avrà le competenze delineate da questa Costituzione e dai trattati comunitari. Essa rileverà l’acquis communautaire<br />

.[…]<br />

3. Le disposizioni dei Trattati concernenti i loro obiettivi e campi d’applicazione, che non sono modificate da questa<br />

Costituzione, formano parte della legge dell’Unione. […]”<br />

In tal modo il Progetto prefigurava una Costituzione che da un lato dava all’UE in quanto tale tutte<br />

le competenze sinora distribuite fra i “tre pilastri” del processo d’integrazione europea e dall’altro<br />

lato lasciava, peraltro, valere, sia pur modificati dalla Costituzione stessa, i Trattati comunitari<br />

(CECA, CEEA e CE). 179 Quanto al superamento della stessa struttura “a pilastri”, il Progetto era<br />

piuttosto esplicito per quanto riguardava il “terzo pilastro” ovvero la “cooperazione nei settori della<br />

giustizia e degli affari interni”:<br />

“ L’Unione intenderà rafforzare le forme esistenti di cooperazione tra Stati membri allo scopo di applicare loro le procedure<br />

e i meccanismi comunitari.<br />

Avendo in vista questa intenzione, l’Unione agirà adottando posizioni comuni e assumendo un’azione congiunta, coerente<br />

con le linee guida generali delineate dal Consiglio europeo e dal Parlamento Europeo.”<br />

In tal modo era prevista una progressiva trasformazione di tale “cooperazione” in una vera e propria<br />

“politica comune”, da assorbire a sua volta entro le regole del metodo “comunitario”.<br />

In definitiva, dunque, l’UE si sarebbe dovuta trasformare con ciò da un semplice “cappello”, incarnato<br />

dal solo Consiglio europeo e coprente realtà molto diverse tra loro ossia i “tre pilastri”, in un<br />

unico ente dotato di intrinseca unità; la prova di questa era data dal “Quadro istituzionale” unico<br />

178 Con tali affermazioni, peraltro, il PE sembrava aver ormai abbandonato le proprie riserve sulla possibilità di<br />

un’Unione comprensiva di tutti gli Stati europei e quindi l’idea di un “sistema di cooperazione confederale in Europa”,<br />

entro il quale inscrivere la stessa UE.<br />

179 In tal modo il Progetto di Costituzione o meglio il trattato costituzionale, a cui il Progetto avrebbe dovuto mettere<br />

capo, era visto come un trattato insieme costitutivo (sostituendosi anzi al TUE) ed emendativo dei trattati costitutivi<br />

comunitari, lasciati valere quasi come “appendici” di esso. A motivo di questa scelta il Progetto era di gran lunga più<br />

“agile” (una dozzina di pagine in tutto) e di ben più facile lettura rispetto al futuro TCE, che avrà invece l’ambizione di<br />

abrogare anche il trattato CE, assorbendone in sé il contenuto molto voluminoso e complesso, con il conseguente “appesantimento”<br />

e quindi la scarsa “leggibilità” del TCE.


proposto per l’UE. Esso comprendeva infatti non solo il Consiglio europeo, bensì anche tutte le istituzioni<br />

“comunitarie” (Consiglio, Parlamento Europeo, Commissione e Corte di giustizia); per la<br />

prima volta si proponeva dunque di mettere insieme tutte queste istituzioni come “le” istituzioni<br />

dell’UE in quanto tale. E ciò significava tendenzialmente una sola cosa: il superamento graduale<br />

della struttura “a pilastri” verso la riduzione degli ultimi due al primo ossia al metodo comunitario,<br />

a sua volta notevolmente potenziato sia quanto a poteri, sia quanto a legittimazione democratica.<br />

Per quanto riguarda il Parlamento Europeo, si prevedeva:<br />

- una procedura elettorale uniforme;<br />

- la sua partecipazione, assieme al Consiglio europeo, nella definizione delle linee guida politiche<br />

generali dell’Unione (secondo il principio della “duplice sovranità” degli Stati e dei cittadini, applicato<br />

persino ai compiti più alti nella vita politica dell’Unione);<br />

- la partecipazione, assieme al Consiglio, nella legislazione, nell’adozione del bilancio e<br />

nell’approvazione dei trattati internazionali firmati dall’Unione (con una totale parificazione al<br />

Consiglio, sempre in omaggio al principio della “duplice sovranità”, estesa persino al settore della<br />

PESC);<br />

- l’elezione del presidente della Commissione e il voto di fiducia alla Commissione (con il potere di<br />

controllo sulla Commissione);<br />

- l’esercizio della supervisione politica sulle attività dell’Unione e la possibilità di istituire commissioni<br />

d’inchiesta (in funzione anche alle risultanze delle attività del Mediatore, nominato dal PE<br />

stesso).<br />

Per quanto riguarda il Consiglio europeo, si prevedeva una condivisione con il PE del potere sopra<br />

indicato.<br />

Per quanto riguarda il Consiglio, si prevedeva:<br />

- diverse formazioni a seconda dei settori;<br />

- la condivisione con il PE dei poteri sopra indicati;<br />

- il coordinamento delle politiche degli Stati membri;<br />

- l’elezione, a maggioranza (non ponderata) dei cinque sesti degli Stati membri, del presidente del<br />

Consiglio per un periodo di un anno;<br />

- il sistema del voto a doppia maggioranza (degli Stati membri e della popolazione dell’UE), con i<br />

seguenti tipi: semplice e qualificata (due terzi degli Stati membri e della popolazione dell’UE);<br />

quest’ultima, la doppia maggioranza qualificata, sarebbe stata necessaria laddove una decisione avesse<br />

trovato l’opposizione di un quarto degli Stati membri rappresentanti un ottavo della popolazione<br />

dell’UE oppure un ottavo degli Stati membri rappresentanti un quarto della popolazione<br />

dell’UE (la futura “minoranza di blocco”);<br />

Per quanto riguarda la Commissione, si prevedeva:<br />

- l’elezione del suo presidente da parte del PE (su proposta del Consiglio europeo) all’inizio di ogni<br />

legislazione europea (con la conseguenza di determinare la nomina in rapporto ai risultati delle elezioni<br />

parlamentari, che sarebbero divenute così elezioni “politiche”);<br />

- la selezione dei commissari da parte del presidente, l’approvazione della lista da parte del Consiglio<br />

e il voto di fiducia all’intera Commissione da parte del PE (con la piena “politicizzazione” della<br />

Commissione come “governo” dell’UE responsabile anche di fronte al PE);<br />

- la possibilità di una mozione di sfiducia da parte del PE, in seguito alla quale l’intera Commissione<br />

avrebbe dovuto dimettersi;<br />

- il potere del presidente di assegnare gli incarichi, di coordinare il lavoro, di far pesare un proprio<br />

voto determinante in caso di contrasti in seno alla Commissione, di “licenziare” un commissario (su<br />

richiesta di uno dei due corpi legislativi);<br />

- il potere di monitorare il rispetto della Costituzione e degli atti dell’Unione;<br />

- di partecipare al processo legislativo e di esercitare il potere di iniziativa legislativa;<br />

- di eseguire il bilancio e le leggi dell’Unione;<br />

- di negoziare e concludere i trattati internazionali firmati dall’UE (con un conseguente “sconfinamento”<br />

della Commissione nel settore della PESC).


Per quanto riguarda la Corte di giustizia, si prevedeva l’elezione dei suoi membri da parte dei due<br />

corpi legislativi.<br />

Per quanto riguardava le “Funzioni”, il Progetto stabiliva, come “principi” di esse, la tipologia degli<br />

“atti dell’Unione”, distinti in: “leggi costituzionali” (con voto dei due terzi del PE e di un voto a<br />

doppia maggioranza qualificata del Consiglio); “leggi organiche” (con voto a maggioranza semplice<br />

del PE e con voto a maggioranza qualificata del Consiglio); “leggi ordinarie” (con voto a maggioranza<br />

semplice del PE e con voto a maggioranza semplice ossia non qualificata del Consiglio); inoltre<br />

erano vincolanti pure i “regolamenti” di esecuzione e le “decisioni” individuali.<br />

Sulla base di tali “principi”, venivano poi distinte le tre classiche “funzioni”, tipiche della separazione<br />

dei poteri all’interno dello Stato di diritto, ossia della “funzione legislativa” (affidata al PE e<br />

al Consiglio, su iniziativa della Commissione), della “funzione esecutiva” (affidata alla Commissione<br />

e, per l’applicazione delle leggi dell’UE, agli Stati membri) e della “funzione giurisdizionale”.<br />

A proposito di quest’ultima, si precisava:<br />

“La Corte di giustizia e gli altri tribunali comunitari e nazionali, agendo nel quadro dei loro rispettivi termini di riferimento,<br />

assicureranno il rispetto della legge nell’interpretazione e nell’applicazione di questa Costituzione e di tutti gli<br />

atti dell’Unione. La coerenza dell’interpretazione della legge dell’Unione sarà assicurata, in particolare, mediante<br />

l’esercizio della competenza di dare ordinanze preliminari.”<br />

In altri termini: tutti i tribunali (compresi quelli nazionali dei singoli Stati membri) sarebbero stati<br />

coinvolti nel compito giurisdizionale di far rispettare la legge anche interpretando e applicando correttamente<br />

la Costituzione e tutti gli atti dell’Unione, soprattutto con “ordinanze” rilasciate, durante<br />

un procedimento giudiziario, prima dell’emissione della sentenza.<br />

Per quanto riguardava in particolare la Corte di giustizia, essa avrebbe avuto competenza a giudicare<br />

sul ricorso di qualsiasi persona che avesse cercato di stabilire che l’Unione avesse violato un diritto<br />

umano garantito dalla Costituzione, nonché di qualsiasi istituzione UE o Stato membro per<br />

l’annullamento di un atto ritenuto eccedere i limiti della competenza dell’Unione. In conclusione la<br />

Corte di giustizia sembrava con ciò acquisire i contorni di una sorta di “Corte costituzionale” europea.<br />

Per quanto riguardava le “Relazioni esterne”, il Progetto prevedeva:<br />

- l’inserimento nelle norme sulla PESC della clausola della possibilità di una decisione del Consiglio<br />

su proposta della Commissione e, in tal caso, del voto a doppia maggioranza qualificata (anziché<br />

all’unanimità) e, dopo cinque anni, a maggioranza qualificata; in tal modo veniva avviato un<br />

trasferimento della PESC entro le regole proprie del metodo comunitario, con il parziale superamento<br />

anche del “secondo pilastro”;<br />

- una doppia rappresentanza esterna dell’UE (da parte del presidente del Consiglio e del presidente<br />

della Commissione, a seconda dei settori implicati);<br />

- il potere dell’UE di concludere trattati (internazionali) con Paesi terzi;<br />

- la loro negoziazione da parte della Commissione e la loro approvazione da parte sia del PE, sia del<br />

Consiglio (con voto a maggioranza qualificata);<br />

- il potere della Corte di giustizia a decidere sulla costituzionalità di un determinato trattato internazionale.<br />

Per quanto riguardava l’”Accesso all’Unione”, il Progetto prevedeva, oltre al soddisfacimento dei<br />

criteri predetti da parte del Paese candidato, la ratifica del trattato di adesione da parte della<br />

stessa UE per via legislativa, attraverso l’approvazione di una “legge costituzionale” ossia del<br />

tipo più impegnativo e “difficile” di legge dell’UE. In tal modo si sarebbe scoraggiata la tendenza a<br />

una troppo facile entrata nell’UE.<br />

Per quanto riguardava le “Disposizioni finali”, vi si prevedeva:<br />

- la possibilità di adottare, da parte di Stati membri, delle cooperazioni rafforzate, in particolare nei<br />

settori delle “relazioni esterne”, con la conseguente “accelerazione” della trasformazione della<br />

PESC in una “normale” politica dell’Unione;<br />

- ma soprattutto vi si diceva a chiare, previdenti e impietose lettere:


“la Costituzione sarà considerata adottata ed entrerà in vigore quando sia stata ratificata da una maggioranza di Stati<br />

membri rappresentanti quattro quinti della popolazione totale. Gli Stati membri che non sono stati capaci di depositare<br />

gli strumenti di ratifica entro il limite di tempo stabilito saranno obbligati a scegliere tra il lasciare<br />

l’Unione e il rimanere entro l’Unione sulla nuova base.”<br />

In tal modo il Progetto intendeva garantire, in modo peraltro largamente democratico, l’effettiva entrata<br />

in vigore della Costituzione, impedendo il fallimento di essa per via del suo affossamento da<br />

parte di alcuni Stati membri. La conseguenza del “ritiro volontario” di questi Stati membri dall’UE<br />

sarebbe stata ampiamente giustificata dalla preventiva informazione di tale clausola, che avrebbe<br />

automaticamente comportato che un eventuale voto negativo sarebbe stato equivalente<br />

all’espressione, parlamentare o popolare, della volontà che lo Stato in questione non facesse più<br />

parte dell’UE. 180<br />

Per quanto riguardava, infine, i “Diritti umani garantiti dall’Unione”, il Progetto prevedeva:<br />

- il diritto alla vita<br />

- la dignità (umana)<br />

- l’uguaglianza davanti alla legge<br />

- la libertà di pensiero<br />

- la libertà di opinione e d’informazione<br />

- la vita privata (privacy)<br />

- la protezione della famiglia<br />

- la libertà di riunione<br />

- la libertà d’associazione<br />

- il diritto alla proprietà privata<br />

- la libertà di scegliere un’occupazione e condizioni di lavoro<br />

- i <strong>diritti</strong> sociali collettivi<br />

- la protezione sociale<br />

- il diritto all’educazione<br />

- il diritto d’accesso all’informazione<br />

- i partiti politici<br />

- l’accesso ai tribunali<br />

- il non bis in idem<br />

- la non-retroattività<br />

- il diritto alla petizione<br />

- il diritto al rispetto per l’ambiente<br />

- i limiti (“Non sarà concessa nessuna deroga dal requisito di rispettare i <strong>diritti</strong> e le libertà garantiti<br />

da questa Costituzione, salvo nei termini di una legge coerente con la loro sostanza, entro ragionevoli<br />

limiti vitali alla salvaguardia di una società democratica.”) 181<br />

- il grado di protezione (“Nessuna disposizione in questa Costituzione può essere interpretata come<br />

restrittiva della protezione offerta dalla legge dell’Unione, dalla legge degli Stati membri e dalla<br />

legge internazionale.”)<br />

180 La stessa Costituzione degli Stati Uniti entrò a suo tempo in vigore, anche senza la preventiva ratifica all’unanimità<br />

da parte dei vari Stati firmatari. E invece: sembra incredibile quanto poco abbiano insegnato le esperienze fatte, sia prima<br />

di questa risoluzione del PE, sia ancor più dopo di essa, a proposito delle ratifiche nazionali, soprattutto referendarie,<br />

dei vari trattati, in particolare di quelli costitutivi, ma soprattutto di quello costituzionale. Ancora oggi vale infatti la<br />

regola della ratifica all’unanimità, con tutti i rischi che costantemente ne derivano e con la prospettiva della perdita di<br />

anni e anni per nulla e del pericolo crescente della deriva e dell’involuzione dell’UE in quanto tale.<br />

181 La mancanza dell’indicazione degli autori della legge in questione lascia pensare che tale divieto fosse riferito a qualunque<br />

legge, compresa quella degli Stati membri, confutando così i “<strong>diritti</strong> umani garantiti dall’Unione” come validi<br />

non solo per quest’ultima, ma anche per qualsiasi suo Stato membro.


- l’abuso dei <strong>diritti</strong> (“Nessuna disposizione in questa Costituzione può essere interpretata come implicante<br />

qualsiasi diritto a impegnarsi in qualsiasi attività e a eseguire qualsiasi atto inteso a restringere<br />

o distruggere i <strong>diritti</strong> e le libertà qui esposti.”).<br />

In generale il “Progetto di Costituzione dell’Unione Europea” conteneva perciò tutti i punti principali<br />

che sarebbero poi stati sviluppati nel futuro Trattato Costituzionale Europeo (TCE).<br />

Nel frattempo, il 9-10 marzo 1994, si insediava pure il Comitato delle Regioni, che avrebbe potentemente<br />

contribuito a sviluppare la dimensione della “democrazia partecipativa” dell’UE.<br />

Alla vigilia delle imminenti elezioni europee, il PE provvedeva, peraltro, a definire pure le immediate<br />

mosse per una “costituzionalizzazione” preventiva o ante litteram dell’UE o meglio della CE,<br />

proponendo le necessarie misure immediate in vista dell’applicazione del dispositivo, fissato dallo<br />

stesso trattato di Maastricht, riguardante la formazione della Commissione, e lo faceva con la risoluzione<br />

del 21 aprile 1994 “sull’investitura della Commissione”. In essa ricordava che la realizzazione<br />

di tale nuova formazione avrebbe dovuto essere applicata dal luglio 1994, con effetto su una<br />

nuova Commissione, che sarebbe subentrata a quella, allora in carica, destinata a porre termine al<br />

suo mandato il 6 gennaio 1995.<br />

Durante il periodo compreso fra tali date il nuovo PE, sorto dalle imminenti elezioni europee, avrebbe<br />

avuto il compito di esercitare una vera e propria “investitura” della Commissione. A questo<br />

proposito il PE raccomandava agli Stati membri, che avrebbero avuto il preliminare compito di designare<br />

i membri della Commissione, di operare tale scelta in base alla competenza generale e quindi<br />

alle abilità considerevoli, che i futuri commissari avrebbero dovuto avere, oltre che naturalmente<br />

alla loro indipendenza rispetto al proprio Stato d’appartenenza.<br />

Per quanto riguarda il presidente della Commissione, poi, il PE richiedeva anzi che fosse “scelto fra<br />

le figure pubbliche che sono già state membri delle istituzioni della Comunità o hanno già tenuto<br />

posizioni di responsabilità per gli affari europei nei loro Paesi”. 182<br />

In generale il PE si aspettava che le designazioni di tutti membri della Commissione avvenissero tenendo<br />

conto “dei risultati delle elezioni europee”. Addirittura la risoluzione prospettava, in contraddizione<br />

con lo stesso Atto relativo all’elezione del PE del 1976, che “alcuni commissari dovrebbero<br />

essere scelti tra i membri del Parlamento Europeo per allora in carica”. Ma soprattutto faceva capire<br />

che la stessa disposizione del trattato, che fissava la procedura d’investitura e l’allineamento dei rispettivi<br />

termini d’ufficio della Commissione e del PE rendeva necessario stabilire un contratto<br />

quinquennale tra le due istituzioni e quindi che l’approvazione della scelta dei commissari sarebbe<br />

coincisa con quella delle principali linee d’azione della Commissione. Raccomandava pure che la<br />

nomina vera e propria da parte del Consiglio dovesse essere effettuata solo dopo tale approvazione<br />

parlamentare.<br />

Per quanto riguarda il presidente designato della futura commissione, egli avrebbe dovuto comparire<br />

davanti al PE, in occasione della prima riunione di quest’ultimo, dopo le elezioni, nel luglio<br />

1994, per compiere una dichiarazione e partecipare al relativo dibattito del PE. La risoluzione precisava<br />

che, se il PE avesse dato un voto negativo al presidente designato, esso sarebbe coinciso con<br />

un voto negativo dato a qualunque commissione da lui presieduta.<br />

Inoltre chiedeva che le designazioni di tutti membri della Commissione fossero effettuate entro il 1°<br />

novembre 1994, in modo tale da permettere le “audizioni” dei commissari designati sul rispettivo<br />

programma davanti al PE e il voto parlamentare all’investitura della Commissione entro il dicembre<br />

1994. Da ultimo la risoluzione faceva presente che qualsiasi cambiamento nella composizione della<br />

Commissione avrebbe reso necessaria una nuova “investitura” di essa da parte del PE.<br />

Infine il Parlamento Europeo si scioglieva, presentando nella successiva campagna elettorale come<br />

sua principale credenziale il “Progetto di Costituzione dell’Unione Europea” sopra esaminato. E fi-<br />

182 Tale richiesta del PE sarà all’origine del fatto che gli ultimi tre presidenti della Commissione europea, Santer, Prodi<br />

e Barroso, saranno tutti ex-capi di governo di uno degli Stati membri (rispettivamente del Lussemburgo, dell’Italia e del<br />

Portogallo).


nalmente, fra il 7 e il 12 giugno 1994, si svolgevano le nuove elezioni del Parlamento Europeo. 183<br />

Esse vedevano peraltro un ulteriore leggero calo nella partecipazione complessiva al voto (56,8%),<br />

con i casi nazionali insoddisfacente dell’Irlanda (44%) e preoccupanti del Regno Unito (36,4%), dei<br />

Paesi Bassi (35,6%), e del Portogallo (35,5%).<br />

LA QUARTA LEGISLATURA EUROPEA (1994-1999)<br />

Poche settimane dopo le elezioni del PE, si svolgeva il Consiglio Europeo di Corfù del 24-25 giugno<br />

1994. L’importanza essenziale di tale riunione fu data dal fatto che, a margine dei suoi lavori,<br />

vennero firmati gli atti di adesione all’Unione Europea di ben quattro Paesi appartenenti allo Spazio<br />

Economico Europeo (SEE) ossia di Austria, Svezia, Finlandia e Norvegia. 184 Nell’introduzione alle<br />

sue conclusioni, il Consiglio Europeo affermava a tal proposito fra l’altro:<br />

“In proposito il Consiglio europeo accoglie con soddisfazione l'ulteriore slancio impresso da questi Paesi che sono all'avanguardia<br />

nelle attività volte a promuovere la protezione ambientale e sociale, la trasparenza e l'apertura a livello di<br />

governo, settori considerati fondamentali da gran parte dei cittadini dell'Unione nella recente campagna elettorale per il<br />

Parlamento europeo e riecheggiati dal Presidente dello stesso nel suo intervento al Consiglio europeo. Il Consiglio europeo,<br />

dal canto suo, sottolinea che lo spirito di apertura e la sussidiarietà costituiscono concetti essenziali che richiedono<br />

un'ulteriore elaborazione. L'Unione deve costruirsi con l'appoggio dei cittadini. Le elezioni europee hanno anche<br />

messo in risalto che l'Unione europea verrà giudicata dai suoi cittadini sulla base del contributo che essa darà alla lotta<br />

contro la disoccupazione e alla promozione della sicurezza interna ed esterna dell'Unione europea.”<br />

In questo convinto benvenuto ai futuri nuovi Stati membri, il Consiglio Europeo sottolineava come<br />

il previsto allargamento dell’UE in particolare in direzione della sua massima espansione verso nord<br />

avrebbe dovuto coincidere con una sorta di “scandinavizzazione” della stessa UE in termini di appropriazione<br />

delle tradizioni politiche nazionali scandinave “all’avanguardia” in settori come “la<br />

protezione ambientale e sociale, la trasparenza e l’apertura a livello di governo”. Ma insieme indicava<br />

il motivo fondamentale di tale scelta ossia il fatto che questi settori erano considerati fondamentali<br />

dai “cittadini dell’Unione” in quanto tali e che “l’Unione deve costruirsi con l’appoggio dei<br />

cittadini”. A maggior ragione ossia per l’interesse supremo, mostrato al proposito dai cittadini, l’UE<br />

avrebbe dovuto contribuire soprattutto “alla lotta contro la disoccupazione e alla promozione della<br />

sicurezza interna ed esterna dell’Unione Europea”, pena il giudizio (ancora più negativo) dei suoi<br />

cittadini nelle successive elezioni del PE del 1999.<br />

Era un linguaggio completamente nuovo per il Consiglio Europeo. Infatti, in seguito al preoccupante<br />

calo costante nell’affluenza alle urne per le elezioni del PE dal 63% del 1979 al 56,8% del 1994,<br />

per la prima volta il Consiglio Europeo poneva come fattore determinante dell’agenda politica<br />

dell’UE in quanto tale per un’intera legislatura ciò che si riteneva fossero le esigenze dei cittadini<br />

dell’Unione come tali e poneva come condizione di un’ulteriore costruzione dell’UE il gradimento<br />

dei suoi cittadini alle politiche dell’Unione nei termini di un’inversione di tale tendenza ossia di una<br />

maggiore affluenza alle urne per il 1999. E tuttavia il Consiglio Europeo non prendeva posizione<br />

sulla “ricetta” proposta, a tal proposito, dallo stesso PE ovvero sul varo di una Costituzione dell’UE.<br />

Di conseguenza il Consiglio Europeo poneva l’accento principalmente sull’appropriazione del Libro<br />

bianco della Commissione “su una strategia a medio termine per la crescita, la competitività e<br />

l'occupazione” (con un particolare rilievo alle misure per migliorare la situazione occupazionale,<br />

183 Queste furono le prime elezioni in cui venne applicato il diritto del cittadino europeo a votare nello Stato membro di<br />

residenza, anche se diverso da quello di appartenenza.<br />

184 Tali nuovi trattati d’adesione erano il primo concreto risultato della fine della divisione dell’Europa in due blocchi<br />

politico-militari contrapposti tra loro. Infatti quattro di tali Paesi erano sempre stati neutrali tra i due blocchi della NA-<br />

TO e del Patto di Varsavia e anzi avevano sempre dovuto fare i conti (soprattutto l’Austria e la Finlandia) con il veto<br />

dell’Unione Sovietica alla loro entrata nella stessa Comunità Europea. La fine dell’URSS e il nuovo quadro europeo garantito<br />

dalla CSCE avevano invece permesso loro di entrare a far parte del SEE e quindi di concludere il trattato<br />

d’adesione alla stessa UE.


per sviluppare il mercato interno, la competitività e le piccole e medie imprese, per la creazione di<br />

“reti transeuropee” per i trasporti, 185 l’energia e l’ambiente, per la fondazione della “società<br />

dell’informazione” e per un quadro macroeconomico stabile), nonché su una rinnovata azione della<br />

PESC e della “cooperazione nel settore della giustizia e degli affari interni”. Solo come ultimo punto<br />

il Consiglio Europeo prendeva posizione sulla “preparazione della Conferenza intergovernativa<br />

del 1996”.<br />

A questo proposito il Consiglio Europeo stabiliva la convocazione di un apposito “gruppo di riflessione”<br />

(sul tipo di quello proposto dal PE), volto a individuare, per il periodo compreso tra il giugno<br />

e il dicembre 1995, “idee concernenti le disposizioni del trattato dell'Unione europea per il quale<br />

sono previsti una revisione ed altri eventuali miglioramenti in uno spirito di democrazia e di apertura”,<br />

nonché “opinioni nella prospettiva del futuro ampliamento dell'Unione in merito alle questioni<br />

istituzionali […] (ponderazione dei voti, soglia per le decisioni a maggioranza qualificata, numero<br />

dei membri della Commissione e qualsiasi altra misura ritenuta necessaria per facilitare il lavoro<br />

delle Istituzioni e garantirne l'efficacia ed operatività nella prospettiva dell'ampliamento).” In altri<br />

termini la prevista revisione del trattato di Maastricht era rivolta tutta alla prospettiva di assicurare<br />

una maggiore efficienza del processo decisionale dell’UE nella prospettiva del suo allargamento ai<br />

Paesi dell’Europa centro-orientale, ma non diceva nulla di preciso quanto all’altro requisito della<br />

reale efficacia dell’azione dell’UE ovvero alla sua “democratizzazione”.<br />

In tale situazione di mancata definizione del nodo cruciale dello sviluppo dell’UE interveniva allora<br />

il PE con la risoluzione del 28 settembre 1994 “su un’Europa a più velocità”. Preoccupato della<br />

prospettiva che nella prevista GIG del 1996 emergessero ancora una volta nuove “deroghe” a certi<br />

Stati membri rispetto alla partecipazione a nuove politiche comunitarie nel quadro consolidato di<br />

un’Europa a più velocità, il PE si pronunciava sulla liceità di questa prospettiva nei seguenti termini:<br />

“6. boccia l’idea di un’Europa à la carte nella quale ogni governo nazionale avrebbe il diritto di dissociarsi da qualunque<br />

politica comunitaria;<br />

7. ritiene che, qualora una piccola minoranza di Stati cercasse di impedire qualsiasi progresso in occasione della Conferenza<br />

intergovernativa del 1996, sarebbe necessario trovare modalità che consentano agli Stati che lo desiderino di portare<br />

avanti ugualmente i loro sforzi di integrazione europea;<br />

8. ritiene che, di fronte alle grandi sfide della stabilizzazione dell’Europa centrale e orientale e del bacino mediterraneo,<br />

l’Unione debba poter disporre dei mezzi necessari per svolgere il ruolo di polo stabile e di catalizzatore che le compete,<br />

in un’ottica di efficacia e di sviluppo della democrazia;<br />

9. riconosce che le deroghe ottenute nel trattato di Maastricht da taluni Stati membri hanno provocato pericolose elucubrazioni<br />

su un’Europa à la carte”<br />

In tal modo il PE, condannando risolutamente il meccanismo delle “deroghe”, stabiliva la necessità<br />

di contrastare queste ultime attraverso l’istituzione di apposite contromisure di compensazione ovvero<br />

le future “cooperazioni rafforzate”, limitate esclusivamente al compito di far andare avanti<br />

l’UE rispetto agli obiettivi stabiliti nei trattati, a dispetto delle “deroghe” di volta in volta richieste e<br />

ottenute da certi Stati membri.<br />

In tale quadro di incertezza sulla reale volontà di tutti gli Stati membri di partecipare a nuovi obiettivi<br />

comunitari interveniva poi, come un rinnovato fulmine a ciel sereno, l’esito negativo del referendum<br />

nazionale norvegese del 28 novembre 1994 sul trattato di adesione della Norvegia<br />

all’Unione Europea, con il quale il popolo norvegese, per la seconda volta, respingeva l’ingresso del<br />

185 E’ interessante notare come già il Consiglio Europeo di Corfù del giugno 1994 stabilisse a tal proposito un “elenco<br />

dei progetti di trasporto altamente prioritari”, tra cui figurava il “treno ad alta velocità/trasporto combinato Francia-<br />

Italia Lione-Torino” ossia la famosa linea ferroviaria TAV, che nell’arco dei successivi tredici anni, lungi dall’essere<br />

compiuta, susciterà sempre più forti resistenze da parte delle popolazioni locali, soprattutto nel versante italiano (piemontese)<br />

in Val di Susa. Come dire: l’efficienza del processo decisionale UE nell’azione intesa a soddisfare alle esigenze<br />

dei “cittadini dell’Unione” non avrebbe dovuto essere disgiunta dalla ricerca assidua e sistematica di un consenso<br />

democratico (soprattutto attraverso la dimensione della “democrazia partecipativa”) a tale azione, al fine di ottenere una<br />

reale efficacia di quest’ultima.


proprio Paese nell’UE, vanificando con ciò il trattato stesso e ponendo la Norvegia, insieme alla<br />

Svizzera, come gli unici Paesi europei tuttora apertamente contrari al proprio ingresso nell’UE.<br />

In presenza di questa parziale battuta d’arresto del processo d’allargamento dell’Unione, si svolgeva<br />

quindi la riunione del Consiglio Europeo di Essen del 9-10 dicembre 1994. Nell’”introduzione” alle<br />

sue “conclusioni”, il Consiglio Europeo ribadiva il principio: “Con lo sguardo rivolto al cammino<br />

d'importanza storica compiuto dalla Comunità sin dai suoi esordi, l'Unione deve oggi dimostrare di<br />

saper anche forgiare l'avvenire tenendo presenti gli interessi politici ed economici dei cittadini.” Di<br />

conseguenza, stavolta, si poneva, tra quattro settori ritenuti prioritari (i primi tre: economicosociale,<br />

sicurezza esterna e sicurezza interna), anche il seguente:<br />

“consolidamento della legittimità democratica dell'Unione e coerente rispetto del principio di sussidiarietà, nonché sviluppo<br />

dei diversi aspetti della <strong>cittadinanza</strong> dell'Unione, affinché il modo di operare delle istituzioni sia più trasparente e<br />

i vantaggi di appartenere all'Unione siano più facilmente individuabili per l'opinione pubblica, e così l'Unione sia maggiormente<br />

accettata dai cittadini.”<br />

Fra gli “interessi” dei cittadini si poneva perciò anche quello della “legittimità democratica<br />

dell’Unione” e del “principio di sussidiarietà”, nonché dello sviluppo “della <strong>cittadinanza</strong><br />

dell’Unione”: una maggiore attenzione per i primi due centri d’interesse avrebbe reso “più trasparente”<br />

l’attività dell’UE e lo sviluppo dell’ultimo avrebbe consentito all’”opinione pubblica” una<br />

più facile individuazione dei “vantaggi di appartenere all’Unione”; in conclusione si sarebbe così<br />

raggiunto l’obiettivo fondamentale di un’Unione “maggiormente accettata dai cittadini”.<br />

Di conseguenza, nell’ambito della “cooperazione nel settore della giustizia e degli affari interni”, il<br />

Consiglio europeo poneva l’accento su temi di immediato rilievo come la “lotta contro le frodi” (“I<br />

cittadini europei, in quanto contribuenti, hanno il diritto di esigere che le frodi, lo spreco e la c<strong>attiva</strong><br />

gestione siano combattuti con la massima energia”), “l’Europa e i suoi cittadini” (con il varo effettivo<br />

della partecipazione del cittadino UE alle elezioni comunali nella città di residenza), della “libera<br />

circolazione in Europa” (con la denuncia dei ritardi nella creazione dello spazio senza frontiere interne<br />

e con il compiacimento per la decisione degli Stati membri firmatari dell’accordo di Schengen<br />

di eliminare i controlli delle persone alle proprie frontiere interne a partire dal marzo 1995) e infine<br />

della “promozione della tolleranza e della comprensione” (con il progetto di un’educazione orientata<br />

a combattere il razzismo e la xenofobia).<br />

E finalmente, il 1° gennaio 1995, l’Austria, la Svezia e la Finlandia entravano effettivamente<br />

nell’Unione Europea, che così diventava l’Europa dei Quindici. Con questo evento l’UE raggiungeva<br />

la sua massima espansione verso nord (almeno sino ad ora) e si apriva così, fin da allora, la nuova<br />

prospettiva del suo allargamento verso l’ultima direzione rimasta ossia verso est, in riferimento<br />

ai numerosi Paesi dell’Europa centro-orientale ex-comunisti.<br />

Nella nuova Europa dei Quindici, comunque, veniva subito applicata la disposizione prevista già<br />

dal trattato di Maastricht a proposito della nomina della nuova Commissione europea. E così, per la<br />

prima volta nella sua storia, il Parlamento Europeo procedeva il 18 gennaio 1995 al voto di fiducia<br />

nei confronti della nuova Commissione Europea presieduta dal lussemburghese Jacques Santer, rafforzando<br />

così le proprie prerogative politiche e conferendo perciò alla stessa Commissione europea<br />

una veste più chiaramente politica e quindi di vero e proprio organo del potere esecutivo e quindi di<br />

governo dell’UE. 186 Solo dopo tale approvazione parlamentare la Commissione Santer entrava in<br />

funzione il 1° febbraio 1995. 187<br />

186 Tra i membri della Commissione Santer figuravano gli italiani Emma Bonino e Mario Monti. Esponente del Partito<br />

radicale (PR), deputato tra il 1976 e il 1978, nel 1979 deputato (sino al 1983) e membro del PE (sino al 1984), nel 1986<br />

deputato (sino al 1987) e membro del PE (sino al 1988) e deputato dal 1990 al 1995, Emma Bonino assumeva, nella<br />

Commissione Santer, la responsabilità per la politica dei consumatori, la pesca e l’Ufficio Umanitario della Comunità<br />

Europea (ECHO), nonché nel 1997 per la protezione della salute dei consumatori e la sicurezza del cibo. Assistente nel<br />

1965, professore associato nel 1969, professore ordinario nel 1970, nel 1971 professore di teoria e politica monetaria<br />

all’Università commerciale “Luigi Bocconi” di Milano, nel 1985 professore di economia e direttore dell’Istituto di economia<br />

della stessa università, nel 1989 rettore di essa e dal 1994 suo presidente, Mario Monti assumeva, nella Commis-


Quanto allo sviluppo della “<strong>cittadinanza</strong> dell’Unione” venivano realizzate in questo periodo importanti<br />

acquisizioni. Infatti il 25-26 febbraio 1995 veniva lanciato, nell’ambito della programmata<br />

“società dell’informazione”, “Europa” ossia il sito web dell’Unione Europea, che costituirà il principale<br />

portale di accesso all’informazione via internet su qualsiasi tema inerente l’UE; e il 14 marzo<br />

1995 il Consiglio e il PE adottavano il programma “Socrates” nel settore dell’istruzione, allargando<br />

così non solo all’università (che aveva già “Erasmus”), ma anche alla stessa scuola la possibilità di<br />

avere il finanziamento dell’UE per viaggi e soggiorni di studio per docenti e studenti presso istituti<br />

analoghi di altri Stati membri dell’UE.<br />

Ma soprattutto entrava finalmente in vigore, il 26 marzo 1995, l’accordo di Schengen per<br />

l’eliminazione di ogni controllo delle persone alle frontiere interne di sette Stati membri firmatari di<br />

esso. 188 Si apriva così quel paesaggio unico al mondo, che vedrà da allora in poi il transito delle persone<br />

tra diversi Stati sovrani e indipendenti attuarsi allo stesso modo di quello tra diverse regioni<br />

dello stesso Stato, a tangibile riprova dell’esistenza di e perciò dell’appartenenza a una realtà politica<br />

transnazionale e sovrastatale.<br />

A rafforzare l’”identità europea di sicurezza e difesa”, quanto mai importante soprattutto nel settore<br />

della PESC, interveniva, invece, in occasione della riunione del consiglio dei ministri della UEO, la<br />

Dichiarazione di Lisbona del 15 maggio 1995, con la quale tre Stati membri dell’UE ossia Francia,<br />

Italia e Spagna davano luogo a una sorta di cooperazione rafforzata nel settore della PESD, istituendo<br />

due “forze” multinazionali, ossia una forza terrestre, a livello di grande unità, denominata Euroforza<br />

operativa rapida (EUROFOR) e una forza marittima (prestrutturata e non permanente), dotata<br />

di capacità aeronavali e anfibie, denominata Forza marittima europea (EUROMARFOR). 189<br />

I. Una <strong>cittadinanza</strong> “consistente”, in quanto fondata sui <strong>diritti</strong> umani<br />

Tali eventi evidenziavano nel modo più visibile le carenze sia della PESC, sia della “cooperazione<br />

nel settore della giustizia e degli affari interni” (CSGAI), sino ad allora condotte dall’UE in quanto<br />

tale, e in genere della struttura a tre “pilastri” di quest’ultima, come delineata dal trattato di Maastricht,<br />

avvalorando ancor di più la necessità della revisione di quest’ultimo da parte della prevista<br />

CIG del 1996 e prima ancora del Gruppo di riflessione, che doveva iniziare i suoi lavori nel giugno<br />

sione Santer, la responsabilità per il mercato interno, i servizi finanziari e l’integrazione finanziaria, le dogane e la tassazione.<br />

187 Nemmeno nell’ordinamento costituzionale italiano è presente una simile disposizione, dal momento che il governo<br />

entra in carica già all’atto del suo giuramento di fedeltà alla Costituzione nelle mani del capo dello Stato e quindi prima<br />

del voto di fiducia del Parlamento.<br />

188 Essi erano, allora, i Paesi Bassi, il Belgio, il Lussemburgo, la Germania, la Francia, la Spagna e il Portogallo. Tuttavia,<br />

anche grazie all’inserimento successivo degli accordi di Schengen nella normativa comunitaria attraverso il trattato<br />

di Amsterdam (vedi oltre), tali accordi entreranno in vigore pure per l’Italia (il 26 ottobre 1997), l’Austria (il 1° dicembre<br />

1997), la Grecia (il 26 marzo 2000), nonché la Danimarca, la Svezia, la Finlandia, la Norvegia e l’Islanda (pur essendo,<br />

questi ultimi due, Stati membri non già dell’UE, bensì solo del SEE) (il 25 marzo 2001). Infine è prevista<br />

l’entrata in vigore degli accordi di Schengen pure per la Svizzera (il 1° novembre 2008) e naturalmente per tutti gli Stati<br />

membri dell’UE presenti e futuri. Gli unici Stati membri a cui è concessa una “deroga” illimitata sono il Regno Unito e<br />

l’Irlanda (vedi oltre).<br />

189 EUROFOR, in particolare, era destinata ad assumere un ben maggiore rilievo di EUROCORPS nello sviluppo di una<br />

difesa comune europea e in genere della PESD. Fin dall’atto della sua creazione, il 9 novembre 1996, parteciperà a essa<br />

pure il Portogallo. Il 18 dicembre 1996 saranno stabilite le condizioni del suo impiego entro il quadro NATO. Il 28 novembre<br />

1997 sarà approntato il suo quartier generale. Il 2 giugno 1998 avrà luogo la sua prima esercitazione simulante<br />

l’evacuazione di cittadini europei in un’operazione di peace keeping diretta dalla UEO su mandato ONU. Il 9 giugno<br />

1998 le sarà riconosciuta la capacità operativa. Tra il 1° novembre 2000 e il 2 aprile 2001 avrà il suo primo dispiegamento<br />

operativo in Albania, con l’operazione “Joint Guardian” nell’ambito della missione NATO nel Kossovo<br />

(KFOR). Tra il 5 e l’11 novembre 2001 avrà un esercitazione congiunta con EUROCORPS. Il 12 dicembre 2002 otterrà<br />

il riconoscimento NATO di piena capacità operativa. Dal 31 marzo al 15 dicembre 2003 sarà la protagonista della prima<br />

operazione militare dell’UE, l’operazione “Concordia”, che, in vista dell’entrata in vigore dell’accordo di stabilizzazione<br />

e associazione (SAA) UE-Macedonia, assumeva la completa responsabilità politico-militare in Macedonia, rilevando<br />

la NATO.


1995. In previsione di tale scadenza e in ottemperanza all’invito del Consiglio europeo di redigere<br />

un rapporto sul funzionamento del trattato di Maastricht, il Parlamento Europeo approvava il 17<br />

maggio 1995 la sua risoluzione “sul funzionamento del trattato sull’Unione Europea in vista della<br />

Conferenza intergovernativa del 1996 – completamento e sviluppo dell’Unione” (relatori: Raymonde<br />

Dury e Hanja Maij-Weggen) 190 . In questa sua risoluzione il PE non faceva minimamente menzione<br />

della sua proposta di “costituzionalizzazione” dell’UE, ma, nella denuncia dei limiti del TUE,<br />

proponeva delle modifiche che recuperavano diversi punti del suo precedente “Progetto di Costituzione<br />

dell’UE” e insieme faceva emergere delle autentiche novità nel panorama del dibattito politico<br />

in seno all’UE.<br />

Nella sua premessa la risoluzione del PE affermava infatti:<br />

“A. premesso che l’integrazione europea, che, sin dai suoi primordi, è stata sinonimo di pace, stabilità politica e armonioso<br />

sviluppo economico e sociale a beneficio di tutti i cittadini, adesso è posta di fronte a nuove sfide, che sono emerse<br />

alla fine della Guerra fredda, come un risultato della globalizzazione dell’economia, danno all’ambiente, la rivoluzione<br />

della “tecnologia dell’informazione” (IT) e le sue ripercussioni sull’occupazione e la crescente rilevanza<br />

dell’uguaglianza tra donne e uomini; premesso che queste sfide richiedono iniziative da parte dell’Unione Europea, che<br />

la abilitino a […]<br />

(d) assicurare che i suoi cittadini possano esercitare i loro <strong>diritti</strong> e libertà, e contribuire a mantenere la sicurezza<br />

dell’individuo, pur salvaguardando le identità culturali nazionali e regionali, […]<br />

B. premesso che alla Conferenza intergovernativa del 1996 l’Unione Europea avrà da far fronte a una triplice sfida istituzionale:<br />

- il bisogno di affrontare un deficit democratico che un crescente numero di cittadini dell’Unione Europea trova inaccettabile,<br />

- il bisogno di ridefinire il corrente processo decisionale, che è diventato eccessivamente complesso e ingombrante e<br />

spesso inefficiente,<br />

- il bisogno di preparare l’Unione Europea al futuro allargamento senza rallentare il processo d’integrazione o diluire il<br />

progresso già compiuto,<br />

C. premesso che i difetti maggiori nel trattato sull’Unione Europea sono:<br />

- la mancanza dell’apertura e della piena attendibilità democratica del Consiglio, soprattutto quando decide in materie<br />

legislative,<br />

- la mancanza di e il fallimento nel completamento di coesive ed effettive politiche comuni estera e di sicurezza e di<br />

giustizia e affari interni, […]<br />

- meccanismi istituzionali disegnati per un’Europa di 6 membri, che da allora non sono stati propriamente adattati e che<br />

non possono essere semplicemente trasposti a un’Unione Europea con più di 20 membri senza un rischio di paralisi e di<br />

diluizione dell’Unione Europea,<br />

D. premesso che l’Unione Europea cercherà allora di conseguire un generale miglioramento nelle sue funzioni esecutive,<br />

legislative, di bilancio e di controllo entro un unico quadro istituzionale, allo scopo di divenire più efficiente, più<br />

responsabile di fronte ai suoi cittadini e più capace di sviluppare le politiche necessarie per il futuro,<br />

E. premesso che non sarebbe saggio allargare l’Unione senza fare un certo numero di modifiche fondamentali<br />

all’Unione e ai trattati europei,<br />

F. premesso che la riforma dei trattati richiede l’istituzionalizzazione del principio dei “mezzi necessari”,<br />

adotta le seguenti linee guida:”<br />

Il PE partiva dunque dalla constatazione delle nuove sfide poste già all’Europa dei Quindici dai mutamenti<br />

economici e sociali indotti dalla “globalizzazione” e faceva presente che a tali sfide l’UE<br />

avrebbe dovuto rispondere anche con una politica mirante ad assicurare quel che poi si sarebbe<br />

chiamato uno “spazio di libertà, sicurezza e giustizia”, di gran lunga eccedente gli angusti limiti della<br />

fallimentare “cooperazione nel settore della giustizia e degli affari interni” (CSGAI). Per consentire<br />

all’UE di essere in grado di adottare simili politiche, secondo il PE occorreva insieme un superamento<br />

del “deficit democratico” (ritenuto intollerabile per gli stessi cittadini europei) e una maggiore<br />

efficienza del processo decisionale, entrambi tanto più necessari di fronte alla prospettiva di<br />

un nuovo e massiccio allargamento dell’UE, che avrebbe condotto altrimenti a un progressivo blocco<br />

o persino a un’involuzione del processo d’integrazione. I provvedimenti più urgenti da prendere<br />

dovevano essere tesi a colmare le maggiori lacune presenti nel trattato di Maastricht ossia: la man-<br />

190 Raymonde Dury è stata membro belga del PE nel gruppo del PSE dal 1982 al 1998. Hanja Maij-Weggen è stata<br />

membro olandese del PE nel gruppo del PPE dal 1979 al 2003.


canza di “attendibilità democratica” del Consiglio, il fallimento della PESC e soprattutto della<br />

CSGAI, nonché i “meccanismi istituzionali” (del primo “pilastro”, comunitario) ancora in vigore<br />

sin dai tempi dell’Europa dei Sei (implicanti una probabile paralisi o comunque una sicura “degenerazione”<br />

dell’UE, se applicati alla futura Europa dei Venticinque).<br />

Da questa chiara diagnosi iniziale, il PE articolava la sua risoluzione nei seguenti punti: 1) obiettivi<br />

e politiche dell’Unione, 2) le istituzioni dell’Unione, 3) i meccanismi decisionali dell’Unione, 4) le<br />

prospettive dell’allargamento e 5) misure conseguenti.<br />

Per quanto riguarda il primo punto, il PE collocava il futuro dell’UE essenzialmente “nella prospettiva<br />

di una fusione dei tre pilastri ed entro un unico quadro istituzionale”.<br />

Ciò si doveva tradurre in primo luogo, sul piano formale, in un’”unificazione del trattato” sull’UE,<br />

che avrebbe reso “la sua struttura più chiara e più logica” e quindi lo avrebbe davvero trasformato<br />

in “un trattato per i cittadini dell’Unione”; anzi, a tal fine, si suggeriva una riscrittura del suo preambolo<br />

in un linguaggio più “ispirato” e la disposizione della serie dei <strong>diritti</strong> del cittadino all’inizio<br />

del trattato, nonché la separazione tra le disposizioni relative alle istituzioni e quelle relative al contenuto<br />

delle politiche. 191<br />

Nella sostanza, tuttavia, ciò si doveva tradurre nel pieno adempimento delle proprie responsabilità<br />

da parte dell’UE. Infatti il superamento della struttura a pilastri avrebbe dovuto andare nella direzione<br />

di un riassorbimento degli ultimi due (la PESC e la CSGAI) nel primo (la CE), che, proprio in<br />

quanto più efficiente e democratico e perciò più efficace, avrebbe con ciò fornito già da sé l’unico<br />

quadro istituzionale dell’UE. D’altra parte, sottolineava la risoluzione del PE, diventavano sempre<br />

più aleatorie le distinzioni tra i settori delle relazioni esterne di competenza della CE e quelli di<br />

competenza della PESC, come pure quelle tra i settori delle politiche interne di competenza della<br />

CE e quelli di competenza della CSGAI. E viceversa l’unificazione dei tre diversi ambiti nell’unico<br />

quadro istituzionale comunitario avrebbe costituito l’unico modo per adempiere pienamente a tutte<br />

le “responsabilità” dell’UE e insieme garantire un controllo democratico dello sviluppo di una politica<br />

estera e di una politica interna europee.<br />

Per quanto riguarda la PESC, si prevedeva “una strategia comune permanente entro le organizzazioni<br />

internazionali che hanno responsabilità” nel campo della sicurezza e della difesa, come<br />

l’ONU, l’odierna OSCE e la NATO e si esigeva lo sviluppo di una “politica di difesa comune”, che<br />

garantisse “che i confini dell’Unione e dei suoi Stati membri siano salvaguardati” e rendesse<br />

l’Unione capace “di sostenere le sue responsabilità per il mantenimento e la restaurazione del dominio<br />

della legge in campo internazionale, assicurando che l’Unione assorba il potere della UEO” ossia<br />

gestisse in prima persona l’organizzazione di una vera e propria “difesa comune” europea. Tutto<br />

ciò avrebbe dovuto implicare una “democratizzazione” della PESC, sotto forma: dell’introduzione<br />

del voto a maggioranza qualificata in sede di Consiglio per l’avvio di “azioni congiunte”; del costante<br />

coinvolgimento della Commissione, con diritto d’iniziativa; con una consultazione obbligatoria<br />

del PE e un controllo democratico esercitato da questo e dai Parlamenti nazionali. Infine si proponeva<br />

la creazione di una politica degli armamenti comune, con il divieto di politiche nazionali di<br />

vendita di armi a Paesi terzi. E, come prima misura da realizzare, si proponeva la creazione di un<br />

“Corpo Civile di <strong>Pace</strong> Europeo”, con l’inserimento in esso di obiettori di coscienza).<br />

Per quanto riguarda la CSGAI, il PE esigeva a maggior ragione la sua perfetta integrazione “entro il<br />

dominio comunitario”, con l’introduzione del voto a maggioranza qualificata in sede di Consiglio e<br />

del diritto d’iniziativa e di esecuzione per la Commissione, con l’attribuzione di “potere operativo”<br />

alla futura EUROPOL e con il rafforzamento in tale campo del ruolo della Corte di giustizia, della<br />

Corte dei conti e del PE. Infine il PE raccomandava anzi l’integrazione degli accordi di Schengen<br />

nella politica dell’Unione.<br />

Anche nell’ambito delle stesse politiche comunitarie, peraltro, la risoluzione del PE esigeva una<br />

maggiore integrazione, in particolare per quanto riguarda l’Unione economica e monetaria. A questo<br />

proposito la risoluzione affermava:<br />

191 E’ quasi inutile ricordare come queste “attenzioni” alla “leggibilità” del testo da parte dei cittadini erano le caratteristiche<br />

proprie di un testo “costituzionale”, come il PE avrebbe voluto fosse il nuovo trattato.


“le disposizioni di politica monetaria avranno il loro contrappeso in un rafforzato coordinamento della politica economica<br />

[…] e un chiaro aggancio all’articolo 2 del trattato, che implica che tutte le istituzioni dell’Unione devono lavorare<br />

per promuovere “… un alto livello d’occupazione e di protezione sociale, l’elevazione del tenore di vita e la qualità della<br />

vita, e la coesione economica e sociale e la solidarietà tra gli Stati membri”. Sarà grandemente rafforzata<br />

l’attendibilità democratica in materia di UEM, con un ruolo più esteso per il Parlamento Europeo […]” 192<br />

Tale universale integrazione delle politiche, all’insegna di un maggior controllo democratico, trovava<br />

il proprio vertice nei cittadini europei, a proposito dei quali la risoluzione del PE affermava:<br />

“7. Sarà data maggiore sostanza al concetto di <strong>cittadinanza</strong> dell’UE attraverso lo sviluppo dei <strong>diritti</strong> speciali legati alla<br />

<strong>cittadinanza</strong> dell’UE, segnatamente per mezzo di:<br />

- accesso dell’Unione alla Convenzione sui <strong>diritti</strong> umani e sulle libertà fondamentali del Consiglio d’Europa;<br />

- un nuovo diritto di tutti i cittadini dell’UE all’informazione su temi dell’UE;<br />

- inclusione di un esplicito riferimento nel trattato al principio di uguale trattamento, a prescindere da razza, sesso, età,<br />

svantaggio o religione (includendo la menzione dei <strong>diritti</strong> sociali fondamentali dei lavoratori esposti nella Carta, allargandoli<br />

ed estendendoli a tutti i cittadini dell’Unione); anche l’inserimento di un articolo specificamente riferito a un<br />

divieto della pena di morte;<br />

- lo sviluppo della <strong>cittadinanza</strong> politica, tra l’altro attraverso misure che facilitino la partecipazione alla vita politica in<br />

uno Stato membro di cittadini dell’Unione che risiedano in quello Stato;<br />

- il rafforzamento delle disposizioni necessarie a conseguire pienamente il libero movimento delle persone;<br />

- la preservazione della diversità dell’Europa attraverso speciali salvaguardie per le tradizionali minoranze nazionali in<br />

termini di <strong>diritti</strong> umani, democrazia e del dominio della legge;<br />

- l’applicazione delle disposizioni del trattato sui pari <strong>diritti</strong> non solo ai <strong>diritti</strong> economici, ma a tutti gli aspetti della parità<br />

per le donne.<br />

Inoltre il trattato conterrà un chiaro rifiuto del razzismo, della xenofobia, del sessismo, della discriminazione sulla base<br />

dell’orientamento sessuale di una persona, dell’antisemitismo, del revisionismo e di tutte le forme di discriminazione e<br />

garantirà un’adeguata protezione legale contro la discriminazione per tutti gli individui residenti entro l’UE.<br />

8. Al fine di sviluppare i mezzi d’espressione dei cittadini a livello europeo, deve essere applicato e sviluppato l’articolo<br />

138a del trattato sui partiti politici europei.<br />

9. Oltre a essere un fattore chiave nello sviluppo economico, sociale e culturale, la cooperazione transfrontaliera e interregionale<br />

aiuta a forgiare legami e permette una cooperazione pacifica tra i differenti Paesi europei. L’Unione perciò<br />

stabilirà un quadro legale pan-comunitario per promuovere la cooperazione transfrontaliera e interregionale, basato su<br />

una disciplina comunitaria di progettazione regionale, dal momento che questa stimolerà l’integrazione europea e assicurerà<br />

che le politiche della Comunità siano realizzate più effettivamente. […]”<br />

La strategia del PE era quanto mai chiara: l’integrazione delle politiche dell’UE era possibile solo<br />

attraverso un loro pieno controllo democratico, ma questo non poteva essere esercitato in definitiva<br />

se non dai cittadini dell’Unione, che sarebbero peraltro effettivamente esistiti solo in quanto soggetti<br />

di <strong>diritti</strong> fatti valere dall’Unione stessa, in primo luogo attraverso l’adesione dell’UE in quanto tale<br />

alla Convenzione del Consiglio d’Europa. In realtà si trattava della medesima strategia posta alla<br />

base del precedente “Progetto di Costituzione dell’UE” del PE. La novità della risoluzione stava<br />

nella “creazione” di nuovi e fecondi <strong>diritti</strong> che davano “maggiore sostanza” alla <strong>cittadinanza</strong><br />

dell’Unione. Fra essi spiccavano in primo luogo il bando della pena di morte (il tratto distintivo della<br />

futura Carta dei <strong>diritti</strong> fondamentali dell’Unione, rispetto alla stessa Costituzione degli Stati Uniti),<br />

ma anche il libero movimento delle persone, il divieto di ogni discriminazione, la salvaguardia<br />

delle minoranze nazionali, la parità tra donne e uomini, i <strong>diritti</strong> sociali, i <strong>diritti</strong> politici del cittadino<br />

dell’Unione in qualunque Stato membro ove ponesse la propria residenza, il diritto all’informazione<br />

sui temi dell’UE, il diritto di far valere la propria volontà politica sull’UE attraverso partiti politici<br />

europei. E infine l’altra grande novità, quanto mai feconda ai fini dello sviluppo di un’effettiva in-<br />

192 A distanza di dodici anni queste raccomandazioni rivelano tutta la loro attualità, in presenza di una politica monetaria,<br />

condotta dalla BCE in direzione dell’obiettivo unico della stabilità dei prezzi, e tuttora in assenza, viceversa, di<br />

un’autentica politica economica comune volta al perseguimento degli obiettivi sociali sopra detti. Il risultato è una difesa<br />

dell’euro condotta senza alcuna preoccupazione per le negative ricadute economico-sociali (sempre più alto costo del<br />

denaro) per gli Stati membri, nonché per le imprese e le famiglie e quindi per i cittadini dell’Unione, con una tendenza<br />

che sembra andare proprio in senso opposto rispetto a quegli obiettivi economico-sociali ossia verso disoccupazione,<br />

abbandono sociale, abbassamento del tenore di vita, disgregazione economica e sociale e protezionismi statali nazionali.


tegrazione fra gli stessi cittadini dell’Unione e quindi dell’autoconsapevolezza della <strong>cittadinanza</strong><br />

europea, era costituita dalla decisa promozione di cooperazioni transfrontaliere e interregionali, sul<br />

tipo, per esempio, della Comunità di lavoro “Alpe-Adria”, sorta dalla comunanza storico-geografica<br />

delle regioni o degli Stati estesi alle Alpi Orientali.<br />

Nel quadro generale così delineato, il PE sosteneva inoltre che, a maggior ragione, “l’Unione deve<br />

rafforzare le sue politiche esistenti”, sottolineando a tal proposito i seguenti campi d’intervento: la<br />

coesione economica e sociale; la politica sociale (con l’inserimento della Carta Sociale e una fine<br />

della deroga del Regno Unito 193 ); la politica delle pari opportunità; un quadro comune di politica<br />

energetica (comprensivo degli aspetti presenti nella CECA e nell’EURATOM); la politica agricola;<br />

una distinta politica della pesca; la politica ambientale; la politica per il consumatore; la politica dei<br />

trasporti; la politica del turismo; il diritto per ogni cittadino dell’UE al pari accesso ai servizi<br />

d’interesse generale (servizio pubblico); i <strong>diritti</strong> e gli interessi dei bambini e dei giovani; una politica<br />

economica esterna di competenza esclusiva dell’Unione. Inoltre veniva raccomandato l’uso di un<br />

numero illimitato di lingue ufficiali o di lavoro dell’UE. E infine si introduceva un’ulteriore novità<br />

con la seguente affermazione:<br />

“In vista della natura multiculturale della società europea, sarà fatto esplicito riferimento alla necessità di promuovere<br />

un dialogo interculturale teso a migliorare la reciproca comprensione e tolleranza.”<br />

Nella consapevolezza delle conseguenze dell’immigrazione di massa nell’UE, il PE apriva con ciò<br />

un nuovo “fronte” nella strategia dell’integrazione, destinato ad assumere ben altro rilievo dodici<br />

anni dopo.<br />

Infine, per quanto riguarda la “chiarificazione delle competenze”, il PE, nel confermare i principi di<br />

sussidiarietà e di proporzionalità, sosteneva: “La creazione di una lista fissa di competenze dell’UE<br />

e degli Stati membri sarebbe troppo rigida e troppo gravosa da stabilire”, alludendo al carattere dinamico<br />

della sussidiarietà ovvero al fatto che essa avrebbe dovuto entrare, di volta in volta, in azione<br />

per quei settori in cui i singoli Stati membri non fossero riusciti a realizzare adeguate politiche a<br />

livello nazionale.<br />

Per quanto riguarda il secondo punto ovvero “le istituzioni dell’Unione”, il PE poneva coerentemente<br />

al primo posto la necessità di “assicurare l’unità del sistema istituzionale”, proponendo in<br />

merito due punti fondamentali: 1) l’unificazione dei trattati esistenti (con la duplice riduzione degli<br />

elementi essenziali dei trattati CECA ed EURATOM entro il trattato unificato e della PESC e della<br />

CSGAI “entro il sistema comunitario”) e 2) l’attribuzione all’UE della “personalità legale” (giuridica).<br />

In tal modo il PE conservava un altro caposaldo del suo precedente “Progetto di Costituzione<br />

dell’UE” ossia il carattere omogeneo e unitario dell’Unione e la sua trasformazione in un vero e<br />

proprio soggetto politico-istituzionale, pur non parlando minimamente di Costituzione e lasciando<br />

formalmente esistere i diversi trattati costitutivi europei (CECA, CEEA, CE e TUE).<br />

L’autentica preoccupazione crescente del PE era rappresentata piuttosto dalla prospettiva<br />

dell’allargamento dell’UE ovvero dal timore che l’entrata simultanea di un considerevole numero di<br />

Stati membri, provenienti da realtà storiche profondamente diverse da quella comunitaria, avrebbe<br />

indotto alla tentazione di lasciarsi andare a “ulteriori accordi flessibili” e quindi in definitiva a<br />

un’inammissibile ”Europa à la carte” ossia a un’estensione indiscriminata ai futuri Stati membri del<br />

regime delle “deroghe” già concesse o che sarebbero state concesse ai tre Paesi entrati nella Comunità<br />

nel 1973 ossia Regno Unito, Irlanda e Danimarca. 194 Anzi, sempre al fine di garantire una so-<br />

193 In tal modo il PE intendeva porre fine alla situazione anomala, se non paradossale, di un’Unione costretta a condurre<br />

la propria politica sociale (fondata sulla Carta sociale) nei termini di una semplice “cooperazione rafforzata”, in quanto<br />

un unico Stato membro ossia il Regno Unito rifiutava la Carta sociale. L’inserimento di quest’ultima nel trattato avrebbe<br />

invece comportato la natura vincolante di essa, e quindi della politica sociale comune che ne discendeva, per tutti gli<br />

Stati membri, presenti e futuri, dell’UE e perciò l’inammissibilità della concessione di “deroghe” illimitate, su questo<br />

punto cruciale, a qualunque Stato membro, compreso il Regno Unito.<br />

194 A dodici anni di distanza, tale preoccupazione evidenzia la sua sostanziale attualità, in presenza di atteggiamenti che<br />

vanno in tale direzione da parte di nuovi Stati membri, come la Polonia e la Repubblica Ceca.


stanziale omogeneità del processo d’integrazione europea, il PE avocava per se stesso il potere di<br />

controllo “su quelle politiche dell’Unione che sono perseguite da parte di un numero limitato di Stati<br />

membri su una base temporanea” ovvero su eventuali cooperazioni rafforzate.<br />

Anzi, nel timore che qualcuno degli stessi Quindici Stati membri dell’UE si opponesse, già in sede<br />

di CIG, a un accordo sul futuro trattato, il PE non esitava a proporre di “procedere senza la minoranza<br />

e, possibilmente, disporre strumenti per consentire a uno Stato membro di lasciare l’UE […]”.<br />

In tal modo si rafforzava ulteriormente la tendenza del PE a prefigurare l’avanzamento del processo<br />

d’integrazione sulla base anche solo di una larga maggioranza di Stati membri (fin dall’atto della<br />

firma di un nuovo trattato) e persino della fuoriuscita volontaria dall’Unione dello Stato membro interessato.<br />

Tale “precauzione” del PE era tanto più avvalorata dal fatto che il nuovo trattato avrebbe dovuto<br />

rafforzare gli stessi meccanismi comunitari in vista dell’unificazione dei tre “pilastri” e soprattutto<br />

del futuro ingresso massiccio di nuovi Stati membri. Tale rafforzamento doveva procedere peraltro<br />

secondo la necessaria endiadi “più forti e più democratiche istituzioni dell’Unione”. A questo proposito<br />

il PE faceva notare che non si trattava di trasferire nuovi poteri all’UE, bensì di chiarire i ruoli<br />

rispettivi delle sue diverse istituzioni e di garantire un adeguato equilibrio fra loro, nonché di ridefinire<br />

la loro composizione interna a fronte del previsto ingresso massiccio di nuovi Stati membri, in<br />

modo da assicurare insieme l’efficienza complessiva del sistema e gli interessi degli Stati membri<br />

“grandi e piccoli”. Inoltre veniva richiesto un graduale incremento della “rappresentanza e partecipazione<br />

delle donne a tutti i livelli dell’Unione”.<br />

Per quanto riguarda la Commissione, il PE suggeriva un incremento dei poteri del suo presidente,<br />

che in compenso avrebbe dovuto essere eletto direttamente dal Parlamento Europeo tra una lista di<br />

nomi avanzata dal Consiglio europeo, mentre il resto della Commissione, nominato dal suo presidente<br />

(d’accordo con i governi nazionali), avrebbe dovuto essere soggetta a un voto di fiducia del<br />

PE, che avrebbe dovuto avere pure il diritto (come il Consiglio) di richiedere le dimissioni di un<br />

singolo commissario.<br />

Per quanto riguarda il Consiglio, si raccomandava la pubblicità delle sue sedute, se rivolte<br />

all’approvazione di atti legislativi, che avrebbero dovuto essere pubblicizzati al massimo. Inoltre si<br />

esigeva l’ulteriore estensione del voto a maggioranza qualificata. Tuttavia il PE prendeva stranamente<br />

le distanze dal sistema di voto a “doppia maggioranza” (degli Stati e della popolazione), “in<br />

quanto è nel Parlamento che la popolazione è rappresentata. Il Consiglio rappresenta gli Stati. Un<br />

voto ponderato che rifletta la grandezza generale degli Stati non sarà strettamente proporzionato alla<br />

popolazione.” In ogni caso si raccomandava l’abbassamento della soglia della maggioranza qualificata<br />

rispetto all’eccessivo 71% sino ad allora in vigore.<br />

Per quanto riguarda il Parlamento Europeo, la risoluzione esigeva: che il numero massimo dei suoi<br />

membri non superasse mai (a prescindere dal numero degli Stati membri) i 700 seggi; che vi dovesse<br />

essere l’assenso del PE per tutte le nomine per la Corte di giustizia, la Corte di prima istanza, la<br />

Corte dei conti e per i membri del Comitato esecutivo del Sistema europeo delle banche centrali;<br />

che il PE avesse pari dignità rispetto al Consiglio in tutti i campi di competenza legislativa e di bilancio<br />

dell’UE; che il ruolo del PE fosse rafforzato riguardo alla PESC e alla CSGAI, come pure nel<br />

campo dell’UEM; che il PE avesse il diritto di richiedere l’opinione della Corte di giustizia sulla<br />

compatibilità con il trattato (sulla “costituzionalità”) di accordi internazionali, di aprire delle cause<br />

di fronte a essa (a prescindere dalla difesa delle prerogative del PE) e di venire coinvolto nel procedimento<br />

di emissione di ordinanze preliminari; che il PE avesse il diritto di partecipare alla decisione<br />

riguardante la propria sede; che la Commissione avesse l’obbligo di rispondere alle iniziative legislative<br />

del PE. Infine veniva proposto un rafforzamento della collaborazione tra il PE e i Parlamenti<br />

nazionali, per migliorare il controllo democratico in tema di UE.<br />

Per quanto riguarda la Corte di giustizia, il PE proponeva che essa avesse i pieni mezzi per assicurare<br />

il rispetto delle leggi dell’UE e dell’equilibrio istituzionale dell’Unione, ma anche che la sua<br />

competenza si estendesse pure alla PESC e alla CSGAI.


Altre misure infine erano proposte per la Corte dei conti, il Comitato delle Regioni e il Comitato<br />

economico e sociale.<br />

Per quanto riguarda il terzo punto ossia i “meccanismi decisionali dell’Unione”, il PE distingueva al<br />

proposito tre funzioni; quella legislativa, quella di bilancio e quella di controllo.<br />

Riguardo alla “funzione legislativa” (comprensiva sia degli “atti legislativi”, sia degli “accordi internazionali”)<br />

il PE proponeva di restringere le procedure decisionali a sole tre forme (la codecisione,<br />

l’assenso e la consultazione), abolendo di conseguenza la procedura di cooperazione. Proponeva<br />

inoltre di restringere la procedura per assenso ai soli casi di revisione del trattato, di accordi internazionali,<br />

di allargamento e di accordi sulle risorse proprie, nonché la procedura per consultazione al<br />

solo caso di decisioni nel campo della PESC; di conseguenza in tutte le altre aree doveva valere solo<br />

la procedura per codecisione. Quest’ultima avrebbe dovuto a sua volta essere drasticamente<br />

semplificata, stabilendo in particolare scadenze equivalenti per il Parlamento e il Consiglio nelle loro<br />

prime letture dei disegni di legge, in modo da evitare il costante ritardo del secondo rispetto al<br />

primo in tale fase della procedura. Inoltre si prospettava l’opportunità d’introdurre “una nuova categoria<br />

di atti esecutivi” di responsabilità della Commissione ove a ciò delegata dall’autorità legislativa.<br />

La Commissione, a sua volta, avrebbe peraltro dovuto procedere in prima persona, senza delegare<br />

queste funzioni a “comitati” di funzionari non eletti dal PE, né da alcuna istituzione dell’UE. La<br />

novità più interessante era peraltro la proposta di sottoporre tutti gli accordi internazionali conclusi<br />

dall’Unione all’assenso del Parlamento Europeo.<br />

Per quanto riguarda la “funzione di bilancio”, il PE proponeva delle misure tese a unificare il bilancio<br />

di tutte le istituzioni e gli organi dell’UE, nonché di tutti e tre i suoi “pilastri”.<br />

Per quanto riguarda la “funzione di controllo”, il PE suggeriva in particolare misure per combattere<br />

la frode e altre violazioni della legge dell’UE, per permettere indagini ad ampio raggio dentro gli<br />

Stati membri e per imporre a livello dell’UE dissuasive sanzioni penali e amministrative, con il<br />

permesso di direttive di armonizzazione nell’area della legge penale rilevante e l’obbligo per gli<br />

Stati membri di applicare punizioni effettive, proporzionate e deterrenti per la violazione della legge<br />

comunitaria.<br />

Per quanto riguarda il quarto punto ossia “le prospettive dell’allargamento”, il PE raccomandava<br />

che esso non compromettesse “i principi di competizione, cooperazione e solidarietà”, da sempre<br />

fondamentali per l’integrazione europea.<br />

Per quanto riguarda infine il quinto punto ossia le “misure conseguenti”, il PE esigeva: che il lavoro<br />

del Gruppo di riflessione fosse caratterizzato dalla maggior apertura possibile, con regolari rapporti<br />

pubblici; che la CIG del 1996 prevedesse un dibattito più aperto che nelle precedenti occasioni; che<br />

il risultato dei lavori della CIG fosse sottoposto all’assenso del Parlamento Europeo; e soprattutto<br />

che si dovesse<br />

“tenere un referendum pan-europeo [a Union-wide referendum] per ratificare ogni disposizione del trattato, in base al<br />

fatto che è in gioco una decisione collettiva che riguarda l’insieme dell’Europa. In alternativa, gli Stati membri possono<br />

accordarsi per svolgere qualche referendum nazionale (o le loro rispettive votazioni parlamentari) allo stesso tempo<br />

o entro pochi giorni uno dall’altro.”<br />

Per la prima volta, dunque, il PE si pronunciava esplicitamente per l’opportunità di svolgere un “referendum<br />

paneuropeo” per la ratifica di un nuovo trattato europeo, in quanto quest’ultimo, malgrado<br />

non fosse una Costituzione, ne avrebbe mantenuto alcuni tratti salienti, tra cui la centralità della<br />

<strong>cittadinanza</strong> europea anche in senso politico e quindi della democrazia europea anche nella sua dimensione<br />

partecipativa. Perciò la stessa ratifica di tale trattato avrebbe dovuto sottostare a tale principio,<br />

consentendo l’esercizio, oltre che della sovranità degli Stati membri (espressa tuttavia secondo<br />

la regola, democratica, di una larga maggioranza di essi e non più dell’unanimità), anche della<br />

sovranità diretta dei cittadini dell’Unione. Ma proprio perciò il referendum in questione avrebbe<br />

dovuto essere “paneuropeo”, in quanto si trattava appunto di “una decisione collettiva che riguarda<br />

l’insieme dell’Europa”. E tale decisione era riassumibile in questi termini: accettare o rifiutare<br />

un’Unione fondata sulla duplice sovranità degli Stati membri e dei cittadini dell’UE. Nel caso di un


esito negativo, tale referendum avrebbe rappresentato la definitiva ratifica di un’Unione a carattere<br />

confederale e intergovernativo, ma, nel caso positivo, esso avrebbe costituito la definitiva investitura<br />

democratica di un’Unione politica di tipo federale (a prescindere dal numero degli Stati membri, i<br />

cui popoli avessero espresso effettivamente il loro consenso e che perciò avessero aderito effettivamente<br />

a tale nuova Unione).<br />

Solo in alternativa a tale referendum paneuropeo, il PE proponeva che le ratifiche, referendarie o<br />

parlamentari, nazionali si tenessero comunque nello stesso tempo, proprio per garantire una “campagna<br />

referendaria”, che, in quanto simultanea, avrebbe dovuto conoscere una sostanziale omogeneità<br />

in tutto il territorio dell’UE, impedendo improprie derive “nazionali” del dibattito pubblico e<br />

soprattutto eventuali influenze di un esito negativo di una consultazione referendaria nazionale nel<br />

dibattito pubblico ancora in corso in altri Stati membri. 195<br />

Inoltre il PE proponeva che, all’atto della presentazione del futuro trattato ai Parlamenti nazionali e<br />

allo stesso PE per la ratifica finale, il Consiglio trasmettesse loro “un testo unico consolidato dei<br />

trattati fondativi” (CECA, CEEA, CE e TUE, così come sarebbero risultati emendati dal futuro trattato).<br />

In tal modo i Parlamenti avrebbero avuto a disposizione, già prima del voto di ratifica finale<br />

del futuro trattato, un quadro unitario complessivo dei “trattati costitutivi” in tal modo emendati ossia<br />

una sorta di unico “trattato... costituzionale”! 196<br />

L’eccezionalità ovvero il carattere straordinario, unico e definitivo della procedura di ratifica proposta<br />

era confermato infine dal fatto che il PE suggeriva di inserire nel futuro trattato una norma, in<br />

base alla quale le “future revisioni” di esso dovessero essere “approvate congiuntamente dal Parlamento<br />

e dal Consiglio prima di essere sottoposte ai Parlamenti nazionali per la ratifica”. In tal modo<br />

il PE prefigurava per le successive revisioni del trattato il normale iter di una sorta di “legge di revisione<br />

costituzionale” a carico delle due istituzioni legislative dell’UE, sopprimendo con ciò il ricorso<br />

a un’ennesima CIG e anzi a un ennesimo trattato fra i governi degli Stati membri e mantenendo<br />

solo il principio della ratifica finale di tale sorta di “legge costituzionale” da parte dei Parlamenti<br />

nazionali. Una tale misura avrebbe con ciò significato l’avvio di un sistema procedurale di “revisione<br />

costituzionale”, tipico di un’Unione politica a carattere federale.<br />

Recependo anche questa risoluzione del PE, il Gruppo di riflessione iniziava quindi i suoi lavori il 2<br />

giugno 1995 a Messina, esattamente quarant’anni dopo la conferenza, svoltasi nella stessa città italiana,<br />

che aveva condotto alla stesura dei trattati di Roma.<br />

Mentre erano in corso i lavori del Gruppo di riflessione, ebbe nel frattempo luogo la riunione del<br />

Consiglio europeo di Cannes del 26-27 giugno 1995, che affrontava, fra l’altro, il tema della “preparazione<br />

alla Conferenza intergovernativa del 1996”. A questo proposito il Consiglio di Cannes affermava:<br />

“Alla luce degli insegnamenti che si possono trarre dopo più d'un anno e mezzo dall'entrata in vigore del trattato sull'Unione<br />

europea e tenuto conto delle sfide e delle opportunità connesse in particolare con la prospettiva di un nuovo allargamento,<br />

il Consiglio europeo giudica inoltre che la riflessione debba concentrarsi su alcune priorità, affinché l'Unione<br />

possa rispondere alle aspettative dei suoi cittadini:<br />

195 Dieci anni dopo questi timori e queste precauzioni del PE si riveleranno quanto mai fondati di fronte agli esiti negativi<br />

dei due referendum nazionali, francese e olandese, del 2005 sul TCE e alla sostanziale paralisi del processo di ratifica<br />

di esso che ne sarebbe seguita per i due anni successivi (con l’incredibile blocco della procedura di ratifica in 7 Stati<br />

membri su 25), in presenza del perdurante principio della ratifica del trattato da parte di tutti gli Stati membri (regola<br />

dell’unanimità) e del perdurante rifiuto di un “referendum paneuropeo” su di esso. In tal modo si è innescata la crisi forse<br />

più grave della storia del processo d’integrazione europea, che persino l’eventuale varo di un nuovo trattato (la cui<br />

ratifica poggi sulle medesime regole) non è affatto certo possa risolvere.<br />

196 Risale a questo pronunciamento del PE l’idea di associare al varo di un trattato volto a unificare tutte le politiche<br />

dell’Unione un testo unico dei trattati fondativi. Tale idea avrebbe condotto otto anni dopo alla stesura di un “trattato<br />

costituzionale”, riassorbente in se stesso tutti i trattati fondativi allora esistenti (eccetto quello CEEA). La differenza di<br />

questo esito rispetto all’idea originaria sta nel fatto che quest’ultima si limitava a proporre un semplice strumento di lavoro<br />

(il “testo unico”) per il legislatore ossia per i Parlamenti nazionali ed europeo e non già un “trattato costituzionale”,<br />

che, per l’enorme mole in tal modo acquisita, sarebbe riuscito assolutamente “indigeribile” per i suoi naturali destinatari<br />

ossia per i cittadini dell’Unione.


- analizzare i principi, gli obiettivi e gli strumenti dell'Unione a fronte delle nuove sfide lanciate all'Europa;<br />

- rafforzare la politica estera e di sicurezza comune onde portarla all'altezza delle nuove sfide internazionali;<br />

- rispondere meglio alle esigenze del nostro tempo nel settore della sicurezza interna e più in generale nei settori della<br />

giustizia e degli affari interni;<br />

- accrescere l'efficacia, il carattere democratico e la trasparenza delle istituzioni in modo da permettere loro di adeguarsi<br />

alle esigenze di un'Unione allargata;<br />

- consolidare l'appoggio dell'opinione pubblica nei confronti della costruzione europea, rispondendo all'esigenza di una<br />

democrazia più vicina al cittadino europeo, preoccupato dai problemi dell'occupazione e dell'ambiente;<br />

- migliorare l'attuazione del principio della sussidiarietà.<br />

Il gruppo terrà inoltre conto dell'interesse di individuare i miglioramenti nel funzionamento delle istituzioni che non richiedono<br />

una modifica dei trattati e che possono quindi entrare rapidamente in vigore.”<br />

In tal modo il Consiglio europeo stesso recepiva la strategia di vasta portata del PE, incentrata sui<br />

cittadini europei e sulla democrazia nell’UE, presentandola tuttavia in una forma alquanto sfumata e<br />

generica e auspicando che eventuali innovazioni avvenissero senza “una modifica dei trattati”.<br />

Un ben più concreto apporto allo sviluppo del processo d’integrazione europea, soprattutto nel<br />

campo della (sino ad allora) poco produttiva CSGAI, diede la firma della Convenzione EUROPOL<br />

del 26 luglio 1995. Questa Convenzione segnava il primo grande successo della CSGAI e, con la<br />

creazione dell’“Ufficio europeo di polizia” (EUROPOL), offriva una prima grande prova tangibile<br />

della volontà degli Stati membri di sviluppare la loro cooperazione in direzione di una vera e propria<br />

politica comune nei settori della giustizia e degli affari interni, che avrebbe permesso a sua volta<br />

il varo del futuro “spazio di libertà, sicurezza e giustizia senza frontiere interne”, concreto presupposto<br />

dell’applicazione dei <strong>diritti</strong> dei cittadini dell’Unione. 197<br />

Nel momento in cui l’UE provvedeva a porre le prime basi di tale “spazio” europeo, in realtà guardava<br />

già oltre di esso, in direzione dei rapporti da stabilire con i Paesi terzi (che sarebbero comunque<br />

rimasti tali, in quanto non europei) vicini e segnatamente con quelli dell’area mediterranea,<br />

nell’epoca antica baricentro della civiltà greco-romano-cristiana, da cui è sorta la civiltà europea,<br />

ma da più di tredici secoli aleatoria frontiera meridionale di quest’ultima. Fu perciò un evento in un<br />

certo senso epocale che, nel giorno del nono centenario del bando della prima crociata (27 novembre<br />

1095), si aprissero i lavori della prima Conferenza euromediterranea di Barcellona del 27-28<br />

novembre 1995, quasi a voler segnare l’inizio di un diverso tipo di “riconquista” europea dell’altra<br />

sponda del Mediterraneo, all’insegna dello scambio tra l’offerta (europea) di opportunità di rapido<br />

sviluppo economico e l’allargamento della sfera di affermazione e applicazione dei <strong>diritti</strong> umani<br />

(vero retaggio della civiltà europea), come proposto dalla “Dichiarazione di Barcellona” conclusa<br />

tra l’UE (rappresentata dal Consiglio, dalla Commissione europea e dai suoi Stati membri) e tutti i<br />

Paesi terzi mediterranei (tranne la Libia) (Algeria, Cipro, Egitto, Israele, Giordania, Libano, Malta,<br />

Marocco, Siria, Tunisia, Turchia e Autorità Palestinese) e costitutiva del cosiddetto “processo di<br />

Barcellona” ossia della graduale integrazione di tutta l’area mediterranea nel campo d’applicazione<br />

effettiva dei <strong>diritti</strong> umani. 198<br />

Nell’ambito di tale processo l’obiettivo economico ultimo è costituito dalla creazione (tuttora in<br />

corso) di un’unica “zona di libero scambio” dal Mar glaciale artico al Sahara e dall’Oceano Atlantico<br />

al Kurdistan; al fine di pervenire a tale obiettivo, il “processo di Barcellona” prevedeva la creazione<br />

di specifici “accordi d’associazione” bilaterali tra l’UE o meglio la CE e il singolo Paese terzo<br />

mediterraneo coinvolto. In tal modo l’istituto dell’associazione veniva per la prima volta previsto<br />

197 La controprova che la Convenzione EUROPOL, pur con tutti i suoi limiti, costituiva l’inizio di un’integrazione europea<br />

anche nel settore della polizia, sarà data dall’immancabile richiesta del Regno Unito di una nuova “deroga” (naturalmente<br />

concessa) rispetto al riconoscimento della Corte di giustizia dell’UE come unico organo giurisdizionale dirimente<br />

eventuali controversie tra gli Stati membri a proposito dell’interpretazione della Convenzione EUROPOL.<br />

Quest’ultima entrerà in vigore il 1° ottobre 1998 e l’EUROPOL inizierà la sua piena attività, con sede all’Aja, il 1° luglio<br />

1999.<br />

198 Due anni dopo la pubblicazione dell’omonimo saggio (1993) di S. Huntington, l’UE iniziava dunque la sua originale<br />

lotta per scongiurare “lo scontro delle civiltà” e anche grazie a essa il futuro terrorismo islamico, impostosi in maniera<br />

sconvolgente con l’attentato a New York dell’11 settembre 2001, non sarebbe riuscito a travolgere i Paesi mediterranei<br />

coinvolti nel “processo di Barcellona”.


non più soltanto per i Paesi candidati all’accesso all’UE, bensì anche per Paesi terzi che, in quanto<br />

non-europei, non avrebbero potuto far parte dell’UE. 199<br />

In tale situazione di rinnovato dinamismo dell’UE, si svolgeva poi la riunione del Consiglio europeo<br />

di Madrid del 15-16 dicembre 1995. Nell’introduzione alle proprie conclusioni, il Consiglio europeo<br />

comunicava di aver adottato decisioni su: l’occupazione, la moneta unica, la Conferenza intergovernativa<br />

e l’allargamento verso l’Europa centrale e orientale e verso il Mediterraneo.<br />

Per quanto riguarda l’occupazione, si sottolineava come “la creazione di posti di lavoro costituisca<br />

il principale obiettivo sociale, economico e politico dell’Unione Europea”. Per quanto riguarda la<br />

moneta unica, veniva adottato il quadro di riferimento per l’introduzione di essa, a partire dal 1°<br />

gennaio 1999, e la si denominava “euro”. Per quanto riguarda la Conferenza intergovernativa, accoglieva<br />

con soddisfazione la relazione del Gruppo di riflessione e decideva l’apertura della CIG per il<br />

29 marzo 1996 a Torino, precisando che “è indispensabile che detta conferenza possa ottenere risultati<br />

sufficienti per permettere all’Unione di apportare un valore aggiunto a tutti i suoi cittadini e di<br />

assumere le proprie responsabilità sul piano interno ed esterno.” Per quanto riguarda, infine,<br />

l’allargamento, si sottolineavano: la firma a Parigi dell’accordo raggiunto a Dayton, con la fine della<br />

guerra nell’ex Iugoslavia; la Nuova agenda transatlantica e il Piano di azione congiunto UE-Stati<br />

Uniti, firmati nel vertice di Madrid del 3 dicembre 1995; la firma a Madrid dell’accordo quadro interregionale<br />

UE-Mercosur (il nuovo Mercato comune sudamericano), che qualche anno dopo avrà<br />

inediti e notevoli sviluppi; naturalmente la Dichiarazione di Barcellona; la firma a Maurizio della<br />

quarta Convenzione di Lomé con gli Stati ACP; il via libera dello stesso PE all’imminente unione<br />

doganale con la Turchia.<br />

Nelle sue conclusioni il Consiglio Europeo riservava peraltro attenzione pure a “un’Europa aperta al<br />

cittadino”. In primo luogo si evidenziava il valore permanente della sistematica applicazione del<br />

principio della “sussidiarietà”. In secondo luogo si esaminavano le “politiche vicine al cittadino”,<br />

evidenziando i risultati conseguiti o sollecitando nuove misure nel campo: della lotta contro<br />

l’esclusione sociale; della parità di <strong>diritti</strong> e di opportunità tra uomini e donne; della difesa del patrimonio<br />

culturale di rilevanza europea (programma RAFFAELLO); della dimensione europea dei<br />

mezzi di comunicazione di massa e in particolare della televisione; della tutela della salute dei cittadini<br />

(lotta contro il cancro e l’AIDS); della sorveglianza e del controllo sanitario nell’UE. Ma soprattutto<br />

ci si compiaceva che: 1) il Consiglio si fosse dato “un codice di condotta” per “facilitare<br />

l’accesso del pubblico ai processi verbali e alle dichiarazioni” di questa istituzione, relativi alle sue<br />

funzioni “di organo legislatore”; 2) fossero state adottate “due decisioni relative alla protezione<br />

consolare che permetteranno ai cittadini dell’Unione di rivolgersi a tutti i consolati degli Stati membri<br />

in Paesi terzi”. In terzo luogo si esaminavano i risultati della cooperazione nel settore “giustizia<br />

e affari interni”, sottolineando come l’ambizione a tal proposito dello stesso Consiglio europeo fosse<br />

quella che “l’Unione possa creare uno spazio di libertà e di sicurezza per i suoi cittadini”; in base<br />

199 I Paesi terzi iniziatori di questa tendenza erano stati la Tunisia e lo Stato d’Israele, che già prima della Conferenza di<br />

Barcellona avevano concluso con la CE, rispettivamente il 17 maggio 1995 e il 20 novembre 1995, i primi “accordi euromediterranei<br />

istitutivi di un’associazione” alla CE (che sarebbero entrati in vigore rispettivamente il 1° marzo 1998 e<br />

il 1° giugno 2000). Di fronte alla nuova prospettiva apertasi nel Mediterraneo con la Dichiarazione di Barcellona, la<br />

Turchia, che era già associata alla CE sin dal lontano 1964 con l’intento di accedervi pienamente, concludeva allora con<br />

quest’ultima il 22 dicembre 1995 un accordo istitutivo di una vera e propria “unione doganale” tra CE e Turchia (entrata<br />

in vigore il 1° gennaio 1996), molto più “intensa” rispetto alla futuribile “zona di libero scambio” prevista dal processo<br />

di Barcellona. Quanto agli altri Paesi terzi mediterranei non-europei, gli esempi di Tunisia e Israele verranno seguiti con<br />

gli accordi d’associazione alla CE del Marocco (firmato il 26 febbraio 1996 ed entrato in vigore il 1° marzo 2000), quello<br />

interinale (provvisorio e limitato) dell’OLP (a beneficio dell’Autorità Palestinese della Cisgiordania e della striscia di<br />

Gaza) (firmato il 24 febbraio 1997 e in vigore dal 1° luglio 1997), della Giordania (firmato il 24 novembre 1997 e in<br />

vigore dal 1° maggio 2002), dell’Egitto (firmato il 25 giugno 2001 e in vigore dal 1° giugno 2004), dell’Algeria (firmato<br />

il 22 aprile 2002 e in vigore dal 1° settembre 2005) e del Libano (firmato il 17 giugno 2002 e in vigore dal 1° aprile<br />

2006). L’unico Paese terzo non-europeo del processo di Barcellona mancante tuttora all’appello è la Siria, in quanto il<br />

Consiglio dell’UE attende ancora convincenti sviluppi della cooperazione della Siria con la Commissione d’inchiesta<br />

dell’ONU sulle responsabilità siriane nell’assassinio di un uomo politico libanese.


a tale obiettivo venivano individuati i seguenti campi d’intervento: 1) lotta contro il terrorismo; 2)<br />

lotta contro la droga e la criminalità organizzata; 3) cooperazione giudiziaria; 4) immigrazione e<br />

asilo; 5) frontiere esterne (in merito si esortava il Consiglio ad adottare quanto prima la “Convenzione<br />

relativa all’attraversamento da parte delle persone delle frontiere esterne degli Stati membri<br />

dell’Unione”); 6) lotta contro il razzismo e la xenofobia. In quarto luogo si esaminavano le azioni<br />

intraprese e da intraprendere a proposito di “frode e tutela degli interessi finanziari”. E in quinto e<br />

ultimo luogo si esortava ad adottare misure intese ad attuare una “semplificazione legislativa e amministrativa”.<br />

La parte più importante delle conclusioni del Consiglio europeo era peraltro quella riguardante “le<br />

basi dell’Europa del futuro”, a proposito della quale si predisponeva un”agenda politica<br />

dell’Europa” per i cinque anni successivi, basata sui seguenti punti: a) adattamento del trattato<br />

sull’Unione Europea; b) passaggio alla moneta unica; c) negoziati di allargamento; d) prospettive<br />

finanziarie oltre il secondo millennio; e) elaborazione di una nuova architettura europea di sicurezza<br />

(dalla CSCE all’OSCE); f) politica di dialogo, cooperazione e associazione con i Paesi vicini<br />

dell’Unione. Il primo passo era tuttavia costituito, naturalmente, dalla programmata “Conferenza<br />

intergovernativa” del 1996, a proposito della quale il Consiglio europeo affermava di aver “accolto<br />

con grande interesse la relazione del Gruppo di riflessione”, che doveva prepararla, e giudicava gli<br />

orientamenti emersi come “una buona base per i lavori della Conferenza”, che avrebbe dovuto “esaminare<br />

i miglioramenti che occorrerà apportare ai trattati per adattare l’Unione alle realtà attuali e<br />

alle esigenze future, alla luce dei risultati dei lavori del Gruppo di riflessione”.<br />

Di qui l’importanza della relazione del Gruppo di riflessione, presentata già il 5 dicembre 1995 e<br />

acclusa in allegato (“Conferenza intergovernativa”) alle conclusioni del Consiglio europeo di Madrid,<br />

sotto il titolo “Una strategia per l’Europa”. La relazione, volutamente piana e dal tono colloquiale<br />

per consentire lo sviluppo di “un processo di pubblica discussione e spiegazione” sulle sue<br />

proposte, individuava in primo luogo “la sfida”, di fronte alla quale era ormai posta l’UE, nel fatto<br />

che “per un crescente numero di Europei la ragion d’essere dell’integrazione comunitaria non è evidente”,<br />

a causa della grande “complessità” di quest’ultima. A questo proposito la relazione affermava:<br />

“Accettiamo che la complessità sia il prezzo che l’Europa paga per tutelare la nostra molteplice identità. Ma noi crediamo<br />

fermamente che questa creazione del genio politico europeo – che non può prendere il posto, ma è ora<br />

l’inseparabile controparte degli Stati membri dell’Unione, da cui riceve la sua principale legittimità politica – ha apportato<br />

un suo proprio inestimabile contributo: pace e prosperità, basate su una definizione di interessi e azioni comuni, che<br />

è il risultato non già di politiche di potere, ma di un comune corpo di leggi accettato da tutti.”<br />

Ciononostante, soggiungeva la relazione, nell’Europa dei Quindici “serpeggia un crescente senso di<br />

pubblico malcontento”, che motivava l’esigenza “di spiegare chiaramente ai nostri cittadini perché<br />

l’Unione, che è così attraente per gli altri Europei, resta tuttora necessaria per noi” ovvero per la necessità<br />

di disporre di un quadro di riferimento sovrastatale rispetto a sfide che nessun singolo Stato<br />

poteva affrontare da solo, come la globalizzazione, l’instabilità politica post-“guerra fredda”, problemi<br />

sociali nuovi (elevata disoccupazione, grande immigrazione, aumento della criminalità internazionale).<br />

La “risposta” alla sfida menzionata consisteva perciò nell’evidenziare in primo luogo le realizzazioni<br />

recenti dell’UE e in secondo luogo le misure prossime, in particolare “l’allargamento<br />

dell’Unione”. Esso veniva definito come “una straordinaria opportunità per la riunificazione politica<br />

dell’Europa” e “la miglior opzione per la stabilità del continente e per il progresso economico […]<br />

di questa nostra Europa nel suo insieme”, ma anche come “una sfida. Noi dobbiamo attuare<br />

l’allargamento, ma anche attuarlo bene” e in tal senso l’UE “non ha tempo da perdere”, affermando


in conclusione che tale programma “diverrà realtà solo se riceverà l’appoggio democratico dei cittadini<br />

d’Europa”. 200<br />

Passando poi al suo tema peculiare ossia “la Conferenza del 1996”, la relazione poneva subito in<br />

chiaro che la CIG avrebbe dovuto “concentrarsi sui cambiamenti necessari, senza impegnarsi in una<br />

revisione completa del trattato” e individuava in merito tre obiettivi: 1) “fare meglio percepire<br />

l’importanza dell’Europa per i suoi cittadini”; 2) “fare in modo che l’Unione funzioni meglio e prepararla<br />

all’allargamento”; 3) “conferire all’Unione maggior capacità per un’azione esterna”.<br />

In merito al primo obiettivo, la relazione, nel presentare la connessione tra “il cittadino e l’Unione”,<br />

precisava:<br />

“L’Unione non è e non vuole essere un superstato. Eppure è molto più di un mercato. Essa è un progetto unico basato su<br />

valori comuni. Dovremmo rafforzare questi valori, che anche tutti i candidati all’adesione desiderano condividere.<br />

La Conferenza deve far meglio percepire l’importanza dell’Unione ai suoi cittadini. Per riottenere l’impegno dei suoi<br />

cittadini, l’Unione deve concentrarsi su ciò che deve esser fatto a livello europeo per affrontare i problemi che essi<br />

maggiormente sentono, quali una maggior sicurezza, solidarietà, occupazione, nonché l’ambiente.<br />

La Conferenza deve anche rendere l’Unione più trasparente e vicina ai cittadini.”<br />

Di conseguenza la relazione si poneva il compito in primo luogo di come “promuovere i valori europei”.<br />

E già qui emergeva il sistematico disaccordo interno al Gruppo di riflessione, di cui la maggioranza<br />

veniva denominata con l’espressione “molti di noi” e la minoranza con quella di “alcuni di<br />

noi”, se non persino di “uno di noi” (da riferirsi con altissima probabilità al Regno Unito). Proprio<br />

perciò è tanto più interessante rilevare le proposte di tale maggioranza, che andavano ben al di là<br />

della non esaltante cornice d’insieme (formulata all’unanimità) e precisamente in direzione delle linee<br />

della risoluzione del PE. La modalità principale della promozione dei “valori europei” proposta<br />

era effettivamente quella cruciale:<br />

“La sicurezza interna dell’Europa poggia sui suoi valori democratici. In quanto Europei, noi siamo tutti cittadini di Stati<br />

democratici, che garantiscono il rispetto dei <strong>diritti</strong> umani. Molti di noi pensano che il trattato dovrebbe proclamare<br />

chiaramente tali valori comuni.<br />

I <strong>diritti</strong> umani formano già parte dei principi generali dell’Unione. Tuttavia per molti di noi essi dovrebbero essere più<br />

chiaramente garantiti dall’Unione con una sua adesione alla Convenzione europea di salvaguardia dei <strong>diritti</strong> dell’uomo e<br />

delle libertà fondamentali. E’ stata parimenti suggerita l’idea di un elenco di <strong>diritti</strong> e di una disposizione che preveda la<br />

possibilità di comminare sanzioni o anche di sospendere l’appartenenza all’Unione nei confronti di uno Stato che violi<br />

gravemente i <strong>diritti</strong> umani e la democrazia. […]<br />

Molti di noi ritengono importante che il trattato proclami chiaramente i valori europei – quali la parità del trattamento<br />

per uomini e donne e la non discriminazione per motivi di razza, religione, preferenza sessuale, età o handicap -, includa<br />

un’espressa condanna del razzismo e della xenofobia e preveda una procedura per la relativa applicazione. […]<br />

Noi crediamo che l’Europa condivida anche taluni valori sociali, che sono il fondamento della nostra coesistenza in un<br />

contesto di pace e di progresso. Molti di noi ritengono che l’”Accordo sulla politica sociale” debba essere incorporato<br />

nel diritto comunitario.<br />

In tal modo il Gruppo di riflessione, nella sua maggioranza, aveva effettivamente individuato la<br />

strada maestra, indicata da molti anni dal PE, verso la creazione di un’Unione politica.<br />

Per quanto riguarda, poi, il primo dei problemi più sentiti dai cittadini dell’Unione ossia “libertà e<br />

sicurezza interna”, la relazione affermava tra l’altro:<br />

“Noi tutti riteniamo che la Conferenza dovrebbe rafforzare la capacità dell’Unione a proteggere i suoi cittadini contro il<br />

terrorismo, il traffico di droga, il riciclaggio di proventi illeciti, lo sfruttamento dell’immigrazione clandestina e altre<br />

200 Tutta questa premessa della relazione rivelava in realtà la persistenza di un certo approccio generale senza vie<br />

d’uscita. Infatti, da un lato ci si appellava alla comprensione e al consenso dei “cittadini”, ma dall’altro lato si affermava<br />

che l’UE, “questa creazione del genio politico europeo”, era “l’inseparabile controparte degli Stati membri, da cui riceve<br />

la sua principale legittimità politica”. E la risposta alla sfida consisteva sempre nello spiegare la “necessità” dell’UE<br />

per via dell’insufficienza del singolo Stato. Ancora una volta non ci si rendeva conto che la pur comprovata necessità<br />

dell’esistenza di un’entità non solo complessa, ma anche espressamente non legittimata direttamente dai “cittadini”, non<br />

poteva motivare di per sé né la loro comprensione, né il loro consenso nei confronti dell’Unione e dei suoi stessi programmi,<br />

compreso quello dell’allargamento.


forme di criminalità organizzata internazionale. Tale protezione della sicurezza dei cittadini a livello europeo non deve<br />

ridurre le salvaguardie individuali. Per molti di noi ciò presuppone un ulteriore ricorso a istituzioni e procedure comuni,<br />

nonché criteri comuni. Richiede pure che i Parlamenti nazionali esercitino un controllo politico su coloro che gestiscono<br />

tale azione comune.<br />

Molti di noi ritengono che, per agire con maggiore efficacia, dobbiamo far pienamente rientrare nella competenza comunitaria<br />

le questioni concernenti i cittadini dei Paesi terzi – quali la politica in materia di immigrazione, asilo e visti e<br />

regole comuni per i controlli alle frontiere esterne. […]”<br />

Anche a questo proposito il Gruppo di riflessione, nella sua maggioranza, condivideva dunque la<br />

proposta del PE per una sostanziale riduzione del terzo “pilastro” dell’UE ossia della CSGAI al<br />

primo “pilastro” di essa ossia alla CE.<br />

Per quanto riguarda il secondo dei problemi più sentiti dai cittadini dell’Unione ossia<br />

l’”occupazione”, la relazione affermava tra l’altro:<br />

“Noi siamo tutti concordi nel ritenere che le disposizioni per la moneta unica decise a Maastricht e ratificate dai nostri<br />

Parlamenti debbano restare immutate.<br />

Pur sapendo che i posti di lavoro non saranno creati unicamente con emendamenti del trattato, molti di noi desiderano<br />

che il trattato contenga sia un più chiaro impegno dell’Unione di pervenire a una maggior integrazione e coesione economica<br />

e sociale, atta a promuovere l’occupazione, sia disposizioni che permettano all’Unione di intraprendere<br />

un’azione coordinata per la creazione di posti di lavoro. […] In ogni caso la maggior parte di noi sottolinea la necessità<br />

di un maggior coordinamento delle politiche economiche all’interno dell’Unione.”<br />

Anche in questo caso il Gruppo di riflessione, nella sua maggioranza, condivideva la forte preoccupazione<br />

espressa dal PE che a un perfetto meccanismo di realizzazione dell’unione monetaria e della<br />

moneta unica, nonché della politica monetaria gestita dalla futura BCE, non corrispondesse alcuna<br />

seria ed effettiva realizzazione di un’unione economica e di un’economia unica, nonché di una<br />

politica economica gestita dalle istituzioni “politiche” dell’UE.<br />

Per quanto riguarda il terzo dei problemi più sentiti dai cittadini dell’Unione ossia l’”ambiente”, il<br />

Gruppo di riflessione si limitava ad assegnare alla stessa CIG il compito di formulare proposte concrete.<br />

Per quanto riguarda la necessità di “un’Unione più trasparente”, la relazione affermava tra l’altro:<br />

“I cittadini hanno il diritto di essere meglio informati sull’Unione e sul suo funzionamento.<br />

Molti di noi propongono che il diritto di accesso all’informazione sia riconosciuto nel trattato come un diritto dei cittadini<br />

dell’Unione. […]<br />

Prima di ogni importante proposta legislativa, si dovrebbero raccogliere le debite informazioni presso i settori interessati,<br />

gli esperti e la società in genere. Gli studi che conducono a proposte dovrebbero essere resi pubblici.<br />

Quando viene fatta una proposta, se ne dovrebbero debitamente informare i Parlamenti nazionali, fornendo loro documenti<br />

– redatti nelle rispettive lingue ufficiali – in tempo utile per permettere loro di discuterne adeguatamente fin<br />

dall’inizio del processo legislativo.<br />

Siamo tutti concordi nel ritenere che il diritto dell’Unione debba essere più accessibile. La Conferenza del 1996 dovrebbe<br />

sfociare in un trattato più semplice.”<br />

Anche in questo caso il Gruppo di riflessione, nella sua maggioranza, indicava, con la proposta<br />

dell’inserimento dell’informazione come di un vero e proprio diritto nel trattato, la via d’uscita<br />

dall’adamantino legame UE-governi nazionali in direzione di un rapporto diretto UE-cittadini, potentemente<br />

avvalorato dal dovere delle istituzioni UE, nell’atto di ideare una proposta legislativa, di<br />

una preventiva raccolta delle “debite informazioni” presso la “società in genere”, strana espressione<br />

che tuttavia confermava la necessità d’instaurare una nuova “democrazia partecipativa europea”<br />

nell’ambito della legislazione UE. Infine veniva confermata la necessità di mettere in grado pure i<br />

Parlamenti nazionali di partecipare in qualche modo all’iter legislativo europeo.<br />

Per quanto riguarda, infine, la “sussidiarietà”, il Gruppo di riflessione, molto intelligentemente, intuiva<br />

il carattere fondamentalmente ambiguo o equivoco di tale principio, in quanto leggibile in<br />

modi inversi tra loro, limitandosi tuttavia a precisare ciò che esso non avrebbe dovuto essere:<br />

“L’Unione sarà più vicina al cittadino se si concentra su quelli che dovrebbero essere i suoi compiti.


Ciò significa che essa deve rispettare il principio di sussidiarietà. Di conseguenza questo principio non deve essere interpretato<br />

come se giustificasse una crescita inesorabile di poteri europei, né come un pretesto per scalzare la solidarietà<br />

o i risultati dell’Unione.” 201<br />

In merito al secondo obiettivo, “fare in modo che l’Unione funzioni meglio e prepararla<br />

all’allargamento”, il Gruppo di riflessione si pronunciava, a proposito del Parlamento Europeo, nei<br />

seguenti termini:<br />

“Migliorare la democrazia nell’Unione significa sia avere un’equa rappresentanza in ciascuna delle istituzioni, sia rafforzare<br />

il Parlamento Europeo all’interno dell’equilibrio istituzionale esistente e il ruolo dei Parlamenti nazionali. In<br />

questo contesto si ricorda che, secondo il trattato, per le elezioni del Parlamento Europeo si dovrebbe stabilire una procedura<br />

uniforme. Molti di noi ritengono che le procedure del Parlamento Europeo siano troppo numerose e complesse e<br />

si pronunciano quindi per una loro riduzione a tre: consultazione, parere conforme e codecisione.<br />

L’attuale procedura di codecisione è estremamente complicata e noi proponiamo che la Conferenza la semplifichi, senza<br />

però alterare l’equilibrio tra il Consiglio e il Parlamento Europeo. Molti di noi propongono anche che la Conferenza<br />

estenda il campo d’applicazione della procedura di codecisione. […]<br />

I Parlamenti nazionali dovrebbero anch’essi essere adeguatamente coinvolti. Ciò non implica che essi debbano essere<br />

incorporati nelle istituzioni dell’Unione. Per molti di noi le procedure decisionali dovrebbero essere organizzate in<br />

modo da permettere ai Parlamenti nazionali di esaminare e influenzare adeguatamente le posizioni dei rispettivi governi<br />

nel processo decisionale dell’Unione. […]”<br />

Anche in questo caso il Gruppo di riflessione, nella sua maggioranza, seguiva, con moderazione, alcune<br />

indicazioni del PE al proposito e soprattutto individuava il ruolo-chiave che i Parlamenti nazionali<br />

potevano esercitare nella legislazione UE non già nel loro coinvolgimento diretto nell’iter<br />

legislativo, bensì nel grado di condizionamento che essi, grazie a una preventiva informazione sulle<br />

iniziative legislative europee, potevano esercitare nei confronti dei rispettivi governi nel corso di tale<br />

iter, ponendo fine allo stato di mancato controllo democratico dell’azione del rispettivo governo a<br />

livello europeo. 202<br />

Per quanto riguarda il Consiglio, il Gruppo di riflessione suggeriva:<br />

“I processi decisionali e i metodi di lavoro del Consiglio dei ministri dovrebbero essere riveduti. L’Unione deve essere<br />

in grado di prendere decisioni tempestive ed efficaci. Ma un processo decisionale efficiente non significa necessariamente<br />

un processo decisionale facile. Le decisioni dell’Unione devono ricevere l’appoggio popolare. Molti di noi riten-<br />

201 Effettivamente questa duplice lettura c’era già stata e ci sarebbe stata ancora: il primo tipo di lettura era e sarà quello<br />

preferito dal PE e che troverà espressione pure nel TCE e quindi alimenterà le resistenze a quest’ultimo, mentre il secondo<br />

tipo di lettura era e sarà quello preferito da taluni Stati membri già dell’epoca, il Regno Unito e la Danimarca, ma<br />

anche da futuri Stati membri, la Polonia e la Repubblica Ceca. Nel tracollo attuale del TCE la tendenza verso<br />

quest’ultimo tipo di lettura “al ribasso” sta assumendo toni talmente preoccupanti, da investire lo stesso concetto di acquis<br />

communautaire, dal momento che, secondo questo tipo di lettura, qualsiasi intervenuta ragione di “non convenienza”<br />

nel continuare ad aderire a un determinato punto dell’acquis autorizzerebbe, in base alla sussidiarietà, il “ritorno” di<br />

questa determinata prerogativa all’ambito nazionale. In tal caso l’UE si avvierebbe davvero a diventare quell’”Europa à<br />

la carte” tanto paventata dal PE. Tutto il contrario di quel che lo stesso Gruppo di riflessione sosteneva, quando,<br />

all’inizio della sua relazione, ricordava come i due più preziosi frutti dell’UE, “pace e prosperità”, fossero “basate su<br />

una definizione di interessi e azioni comuni, che è il risultato non già di politiche di potere, ma di un comune corpo di<br />

leggi accettato da tutti.”<br />

189 Uno degli equivoci più nocivi allo sviluppo della <strong>cittadinanza</strong> e della democrazia europee è dato dal fatto che i cittadini<br />

dei singoli Stati membri, immersi in un universo mediatico sostanzialmente nazionale e perciò statocentrico, accolgono<br />

per vere le affermazioni del rispettivo governo sul fatto che la bontà di certi provvedimenti europei dipenda<br />

dall’influsso positivo esercitato da tale governo o persino sia il risultato di un’originaria iniziativa legislativa nazionale,<br />

mentre la negatività di certi altri provvedimenti europei sia ascrivibile al fatto che sono stati decisi appunto dall’UE e<br />

non dal governo nazionale, che semplicemente li subirebbe. In tal modo si comunica l’immagine di un’Unione che, governata<br />

da chissà quali “entità”, non può produrre che atti negativi. In realtà nulla viene deciso nell’UE a prescindere<br />

dai governi nazionali. Ma questi, nell’atto di prendere determinate decisioni europee, agiscono al di fuori non solo del<br />

controllo dei rispettivi cittadini (a causa dell’assenza di un universo mediatico europeo), ma anche di quello del rispettivo<br />

Parlamento nazionale, che viene informato solo a “cose fatte” dell’iniziativa adottata ossia quando si tratta ormai solo<br />

di applicarla tramite la debita (obbligatoria) approvazione di una legge nazionale.


gono che una maggiore efficienza sarebbe favorita da un maggior ricorso a votazioni a maggioranza qualificata in sede<br />

di Consiglio […]”<br />

Anche in questo caso il Gruppo di riflessione, nella sua maggioranza, seguiva, con moderazione, il<br />

suggerimento del PE, ma insieme poneva, senza peraltro risolverlo, il problema dell’insufficienza di<br />

una sia pur migliorata efficienza della procedura decisionale europea, in assenza di una maggiore<br />

democraticità di essa.<br />

Per quanto riguarda la Commissione europea, il Gruppo di riflessione si spaccava a metà sulle opposte<br />

“opzioni” in merito alla composizione della Commissione in vista dell’allargamento<br />

dell’Unione a venticinque Stati:<br />

“Nelle grandi linee, una tendenza all’interno del Gruppo è favorevole a che in futuro si mantenga il sistema attuale,<br />

rafforzandone, se necessario, la collegialità e la coerenza. Questa opzione permetterebbe a tutti gli Stati membri di avere<br />

almeno un Commissario. Un’altra tendenza è favorevole a che si pervenga a una maggior collegialità e coerenza, riducendo<br />

il numero dei Commissari – che sarebbero quindi meno numerosi degli Stati membri – e rafforzandone<br />

l’indipendenza. Si dovrebbero stabilire procedure per selezionarne i membri in base alla loro qualificazione e al loro<br />

impegno per l’interesse generale dell’Unione. […]”<br />

In tal modo il Gruppo di riflessione poneva almeno il problema dell’opportunità di una Commissione,<br />

che, in un’Europa a Venticinque o più Stati membri, fosse messa in grado di esercitare una funzione<br />

di governo dell’Unione, anche a prescindere da una composizione che rappresentasse tutti gli<br />

Stati membri. A maggior ragione, in questo caso, la legittimità democratica di essa sarebbe dipesa<br />

soprattutto dall’elezione, fiducia e controllo esercitati su di essa da parte del PE.<br />

In conclusione il Gruppo di riflessione poneva la seguente regola d’oro per quanto riguarda il funzionamento<br />

dell’UE: “I risultati dell’Europa dipendono dalla sua capacità di prendere decisioni e<br />

poi di conformarvisi”.<br />

Per quanto riguarda, infine, il terzo e ultimo obiettivo, quello di “conferire all’Unione maggior capacità<br />

per un’azione esterna”, il Gruppo di riflessione sollecitava un potenziamento della “politica<br />

estera comune” nei seguenti termini:<br />

“Ciò significa che l’Unione deve essere in grado di analizzare e preparare, congiuntamente, la propria azione esterna.<br />

Su questa base proponiamo che sia creata un’unità per l’analisi e la programmazione della politica estera comune. Per<br />

la maggior parte di noi tale unità dovrebbe essere responsabile dinanzi al Consiglio. Molti di noi pensano anche che<br />

essa dovrebbe essere composta da persone provenienti dagli Stati membri, dal Segretariato del Consiglio e dalla Commissione<br />

ed essere incorporata nel quadro istituzionale dell’Unione. […]<br />

L’Unione deve essere in grado di eseguire le sue azioni esterne in una posizione di più alto profilo. Abbiamo esaminato<br />

diversi possibili modi di rendere l’Unione capace di parlare con una sola voce. […] Molti hanno sottolineato la necessità<br />

di una cooperazione strutturata tra la Presidenza del Consiglio e la Commissione, in modo da integrare in un tutto coerente<br />

i diversi aspetti della dimensione esterna dell’Unione, di cui esse sono responsabili.”<br />

In tal modo il Gruppo di riflessione, nella sua maggioranza, confermava il problema di una maggiore<br />

sistematicità della PESC e di una sua maggiore unitarietà, ravvisando in entrambi i casi la necessità<br />

di coinvolgere pienamente la Commissione, ma non spiegava come questo sarebbe stato possibile<br />

senza la riduzione della stessa PESC all’ambito comunitario.<br />

A proposito, invece, della “politica europea di sicurezza e di difesa”, la relazione proponeva:<br />

“Molti di noi ritengono che la Conferenza debba esaminare in che modo si possa incoraggiare lo sviluppo di capacità<br />

operative europee, promuovere una più stretta cooperazione nel campo degli armamenti e assicurare una maggior coerenza<br />

dell’azione in campo militare con gli aspetti politici, economici e umanitari di una gestione di crisi a livello europeo.<br />

Su queste basi molti di noi desiderano rafforzare ulteriormente le relazioni tra l’Unione Europea e l’Unione dell’Europa<br />

occidentale (UEO), che è parte integrante dello sviluppo dell’Unione.<br />

[…] molti di noi hanno appoggiato l’idea di una graduale integrazione dell’UEO nell’UE: si potrebbe pervenire a questo<br />

risultato promuovendo una convergenza UE/UEO con un impegno dell’UEO ad agire come organo d’esecuzione<br />

dell’Unione nel settore di operazioni militari o mettendosi d’accordo su una serie di tappe miranti alla piena fusione di


UE e UEO. In quest’ultimo caso, il trattato incorporerebbe non solo le operazioni Petersberg, ma anche un impegno di<br />

difesa collettiva, o nel corpo stesso del trattato o in un protocollo allegato.”<br />

Anche in questo caso il Gruppo di riflessione, nella sua maggioranza, faceva proprie le proposte del<br />

PE, salvo non mettere minimamente in discussione, anche nel caso della PESD, la struttura a “pilastri”<br />

dell’UE.<br />

Infine, a conclusione della propria relazione, il Gruppo di riflessione enunciava una formula che<br />

svuotava di senso, di contenuto e di realizzabilità le pur apprezzabili proposte concrete della sua<br />

maggioranza:<br />

“Europa e democrazia sono concetti inseparabili. Finora tutti i passi nella via della costruzione dell’Europa sono stati<br />

decisi di comune accordo dai governi democratici dell’Unione, sono stati ratificati dai Parlamenti nazionali e hanno ricevuto<br />

un appoggio popolare nei nostri Paesi. Questo è anche il modo in cui dobbiamo costruire l’avvenire.”<br />

Il Gruppo di riflessione definiva, quindi, la democrazia europea nei termini di semplici accordi intergovernativi,<br />

ratificati da Parlamenti nazionali (messi di fronte al fatto compiuto) e “appoggiati”<br />

dai cittadini non certo in base a un proprio atto politico, bensì sulla scorta di semplici sondaggi<br />

d’opinione, sino ad allora di segno negativo. E aggiungeva che questa era la sola democrazia europea<br />

possibile, da sempre e per sempre. Non era certo questa la via della costruzione di una nuova ed<br />

effettiva democrazia europea, indicata dal PE.<br />

Ai fini di un bilancio della relazione del Gruppo di riflessione, era ravvisabile nel testo una consistente<br />

eterogeneità tra diverse affermazioni generali (formulate all’unanimità) e le proposte particolari<br />

(a maggioranza), a sua volta riconducibile a una sostanziale divergenza di vedute all’interno del<br />

Gruppo non solo sulle proposte particolari, ma anche sulla stessa visione d’insieme ossia su quale<br />

dovesse essere la giusta “strategia per l’Europa”. 203 Ciò non avrebbe mancato d’influire sui lavori<br />

della prevista CIG e quindi sul futuro trattato europeo, quanto al suo carattere innovativo e alla condivisione,<br />

totale o parziale, del suo contenuto da parte di Stati membri.<br />

Di fronte agli esiti non esaltanti della relazione finale del Gruppo di riflessione (avallata invece dal<br />

Consiglio europeo di Madrid) e alla vigilia dell’imminente apertura della CIG, il Parlamento Europeo<br />

reagiva allora vigorosamente con la risoluzione del PE del 13 marzo 1996 “sull’opinione del<br />

Parlamento sulla convocazione della Conferenza intergovernativa, sulla valutazione del lavoro del<br />

Gruppo di riflessione e sulla definizione delle priorità politiche del Parlamento Europeo in vista della<br />

Conferenza intergovernativa” (relatori: Raymond Dury e Hanja Maij-Weggen) . La premessa generale<br />

era data dal fatto che la relazione del Gruppo di riflessione, secondo il PE, “contiene diverse<br />

opzioni positive, ma anche alcune deficienze e opzioni negative e un accordo non unanime sulle<br />

maggiori questioni per la CIG”; di qui la necessità, per il PE, di far sentire direttamente la propria<br />

voce alla CIG.<br />

Nella risoluzione il PE dava innanzi tutto il proprio sostegno alla convocazione della CIG al fine di<br />

procedere ai necessari miglioramenti e revisioni dei trattati e di progredire perciò “verso<br />

un’autentica Unione politica”. A questo scopo indicava alla CIG le seguenti “priorità-chiave per il<br />

futuro d’Europa”:<br />

203 In previsione dell’imminente riunione del Consiglio europeo, il PE aveva già adottato la risoluzione del 14 dicembre<br />

1995 “sull’ordine del giorno della Conferenza intergovernativa del 1996 in vista del Consiglio europeo di Madrid”. In<br />

essa si affermava che, a proposito delle conclusioni del Gruppo di riflessione, il PE: “3. deplora la mancanza di consenso<br />

sulle principali riforme necessarie all’Unione […]; 4. deplora che la relazione contenga talune carenze significative e<br />

ometta di fornire una risposta completa e chiara a importanti questioni, quali la soppressione completa dei pilastri, segnatamente<br />

nel settore della politica estera, di sicurezza comune e di difesa, l’efficacia delle istituzioni dell’Unione, il<br />

coordinamento delle sue politiche economiche e le procedure di bilancio; deplora anche l’assenza di un riferimento<br />

all’impatto culturale delle politiche dell’Unione; 5. ritiene essenziale che l’Unione definisca, sulla base degli orientamenti<br />

comunitari che restano un punto fermo, obiettivi e finalità chiari e precisi, condivisi da tutti gli Stati membri, che<br />

non potranno in nessun caso essere rimessi in discussione”.


“I. una potenziata definizione della <strong>cittadinanza</strong> europea e un evidenziato rispetto dei <strong>diritti</strong> umani […];<br />

II. una più effettiva risposta alle preoccupazioni del pubblico sulla sicurezza interna […];<br />

III. sviluppo della dimensione sociale ed ecologica e della politica per l’occupazione entro il mercato unico e il rafforzamento<br />

della coesione economica e sociale come obiettivo fondamentale dell’Unione e parte integrante del patrimonio<br />

della Comunità [...];<br />

IV. rafforzamento del ruolo esterno dell’Unione Europea, in particolare nel salvaguardare la pace e la sicurezza […];<br />

V. una positiva risposta al desiderio del pubblico di una maggiore apertura e trasparenza […];<br />

VI. un decisivo progresso verso un’Europa più democratica e più efficiente […]:<br />

VII. maggiore credibilità per l’Unione Europea, da conseguire per mezzo di un’effettiva azione contro l’uso fraudolento<br />

delle risorse finanziarie della Comunità a tutti i livelli […];<br />

VIII. un trattato semplificato, codificato e più comprensibile.”<br />

La risoluzione del PE proponeva quindi “una strategia, una dinamica istituzionale e degli strumenti<br />

al servizio di queste priorità-chiave”. A proposito della prima priorità-chiave, il PE proponeva questa<br />

nutrita quanto impegnativa serie di punti:<br />

“4.1. Una <strong>cittadinanza</strong> europea dovrebbe avere una precisa sostanza legale; i <strong>diritti</strong> e gli obblighi riguardanti la <strong>cittadinanza</strong><br />

europea dovrebbero essere consolidati nel primo capitolo del trattato sotto il titolo “Dichiarazione dei <strong>diritti</strong><br />

fondamentali e delle disposizioni che governano l’esercizio dei <strong>diritti</strong> dei cittadini europei e dei residenti” e ciò<br />

sulla base della Dichiarazione dei <strong>diritti</strong> e delle libertà fondamentali adottata dal Parlamento Europeo il 12 aprile 1989;<br />

questo nuovo capitolo nel trattato dovrebbe chiarire che la <strong>cittadinanza</strong> europea dà al cittadino nuovi <strong>diritti</strong> e obblighi<br />

verso l’Unione e non sostituisce la <strong>cittadinanza</strong> nazionale, ma la completa;<br />

4.2. L’Unione Europea dovrebbe accedere alla Convenzione europea sui <strong>diritti</strong> umani e le libertà fondamentali, in modo<br />

tale che i <strong>diritti</strong> umani presenti nella Convenzione non solo abbiano applicabilità legale a livello dell’Unione Europea,<br />

ma anche possano essere sottoposti all’esame della Corte europea dei <strong>diritti</strong> umani;<br />

4.3 Il trattato dovrebbe attribuire agli Stati membri l’incombenza di proteggere i <strong>diritti</strong> fondamentali e umani;<br />

4.4. Il trattato dovrebbe includere una lista di <strong>diritti</strong> fondamentali che si riferisca alla trasposizione e all’applicazione<br />

della legge dell’Unione e delle Comunità. Questa dovrebbe tener conto dell’aspetto transfrontaliero della protezione<br />

dei <strong>diritti</strong> fondamentali (p.e. della protezione della libertà d’associazione e della protezione della famiglia);<br />

4.5. L’Unione Europea dovrebbe includere in questo capitolo speciale il principio del pari trattamento e della non discriminazione,<br />

a prescindere, in particolare, da razza, genere, orientamento sessuale, età, religione o svantaggio;<br />

4.6. Nello stesso capitolo dovrebbe essere fatto un riferimento specifico all’abolizione della pena capitale e alla punizione<br />

di tutti gli atti di violenza, incitamento e abuso razziale o antisemitico;<br />

4.7. Il pari trattamento di donne e uomini dovrebbe essere riconosciuto come un diritto fondamentale nel trattato riformato;<br />

la sostanza dell’articolo 119 del trattato dovrebbe essere mantenuta, ma dovrebbe essere estesa a tutti gli aspetti<br />

delle pari opportunità in tutte le aree, in particolare economica, sociale e di vita familiare, con esplicito riferimento a<br />

un’azione affermativa;<br />

4.8. i <strong>diritti</strong> economici e sociali di portata transnazionale dovrebbero essere definiti chiaramente in questo capitolo, specialmente<br />

i <strong>diritti</strong> individuali e collettivi dei dipendenti;<br />

4.9. La lista dei <strong>diritti</strong> fondamentali dovrebbe contenere una sezione sui <strong>diritti</strong> politici europei, che dovrebbe contemplare,<br />

in particolare, l’adozione di un uniforme sistema elettorale con una scadenza per la realizzazione, un unico statuto<br />

dei membri del Parlamento Europeo e lo sviluppo di partiti politici a livello di Unione Europea;<br />

4.10. La posizione tradizionale dei gruppi sociali negli Stati membri dovrebbe essere rispettata e non menomata dalla<br />

legislazione comunitaria, nel debito riguardo dell’acquis communautaire;<br />

4.11. L’Unione dovrebbe promuovere lo sviluppo di politiche comuni nella sfera della gioventù;<br />

4.12. Per incoraggiare un sentimento d’appartenenza all’Unione e di solidarietà tra gli Stati membri, in particolare tra i<br />

giovani, dovrebbe essere allestito un Corpo Volontario di <strong>Pace</strong> Europeo, per esempio per missioni umanitarie entro e<br />

oltre l’Unione Europea;<br />

4.13. L’Unione Europea dovrebbe sostenere il riconoscimento della diversità culturale e linguistica e la protezione delle<br />

minoranze nazionali tradizionali e delle loro lingue da parte degli Stati membri e, nel contesto dei <strong>diritti</strong> umani, della<br />

democrazia e del dominio della legge, disporre espressamente un riconoscimento, protezione e sostegno per le sue<br />

lingue e culture minoritarie;<br />

4.14 Dovrà essere tenuto conto della specifica natura della dimensione culturale e del bisogno di garantire il pluralismo<br />

nelle misure e nelle politiche realizzate in tutti i settori di attività; l’Unione dovrebbe prendere le misure congiunte necessarie<br />

a promuovere un’intesa culturale e linguistica sia entro, sia fuori l’Unione, scambi e reti d’istituzioni ed esperienze,<br />

la protezione dei beni culturali, l’armonizzazione della legislazione sul diritto d’autore, e il sostegno per la traduzione,<br />

la circolazione e la diffusione di opere e informazione culturali;<br />

4.15. I cittadini europei non devono, in nessuna circostanza, essere trattati come stranieri all’interno dell’Unione Europea;


4.16. Ai cittadini di Paesi terzi legalmente residenti nell’Unione dovrebbero essere date garanzie riguardanti il rispetto<br />

dei <strong>diritti</strong> umani, l’uguaglianza di trattamento e la non-discriminazione in riferimento ai <strong>diritti</strong> sociali, economici e culturali<br />

e il diritto a votare nelle elezioni locali, in accordo con la Convenzione del Consiglio d’Europa;<br />

4.17. Dovrebbe essere garantita entro il campo d’azione dell’Unione Europea (inclusa l’EUROPOL) una comprensiva<br />

protezione legale da parte dei tribunali nazionali, della Corte di prima istanza e della Corte di giustizia europea;<br />

4.18. Lo sport deve essere incluso nel trattato, nel contesto di una politica dell’educazione, della formazione e<br />

dell’occupazione, come pure quale politica culturale. L’Unione dovrebbe incoraggiare in particolare iniziative transnazionali,<br />

pur rispettando le identità sportive nazionali.”<br />

Con queste richieste il PE confermava ancora una volta la sua chiarissima linea d’azione, mirante a<br />

porre la “<strong>cittadinanza</strong> europea” come la chiave di volta dell’intero edificio europeo ossia dell’UE<br />

come “Unione politica”. Di qui la richiesta di conferire una “precisa sostanza legale” a tale <strong>cittadinanza</strong>,<br />

individuandola in una serie di <strong>diritti</strong> (e di doveri), che, sino ad allora “sparsi per tutto il trattato”,<br />

avrebbero dovuto conoscere un loro “consolidamento” all’interno di un unico capitolo specifico,<br />

dedicato alla <strong>cittadinanza</strong> europea, che perciò avrebbe dovuto costituire anzi il primo capitolo<br />

del nuovo trattato. L’intitolazione attribuita a questa serie di <strong>diritti</strong> era peraltro sintomatica di<br />

un’intenzionalità ben più accentuata; infatti il termine “Dichiarazione”, ripreso dall’omonimo documento<br />

del PE del 1989 (che avrebbe dovuto essere la base per la sua elaborazione) e da tutta la<br />

tradizione “rivoluzionaria” moderna (olandese, inglese, americana e soprattutto francese), testimoniava<br />

la fedeltà del PE al disegno a) di un’originaria posizione fondativa di una serie di <strong>diritti</strong> umani,<br />

che, in quanto tali, venivano riferiti non solo ai cittadini europei, ma a tutti i residenti<br />

nell’Unione, nonché b) della predisposizione, in essa, di norme che regolassero “l’esercizio” di tali<br />

<strong>diritti</strong>. Quest’ultimo punto faceva la differenza con l’analoga Dichiarazione universale dell’ONU,<br />

perché, nel caso europeo, si sarebbe trattato di una Dichiarazione “autoinstallante” dei <strong>diritti</strong> umani.<br />

Tale novità era data dal fatto che il soggetto dichiarante ovvero l’UE avrebbe, con la propria adesione<br />

alla Convenzione europea del Consiglio d’Europa, assunto la natura e il ruolo di un vero soggetto<br />

politico-istituzionale, atto a rispettare e a far rispettare, nel diritto europeo, (almeno) i <strong>diritti</strong><br />

sanciti da tale Convenzione e disposto a sottoporsi a tal proposito all’esame della Corte europea dei<br />

<strong>diritti</strong> umani (organo giurisdizionale dello stesso Consiglio d’Europa), alla stessa stregua dei Paesi<br />

terzi europei.<br />

In tal modo la Dichiarazione dei <strong>diritti</strong> fondamentali, fondativa della stessa <strong>cittadinanza</strong> europea, sarebbe<br />

con ciò diventata la “missione” dell’UE, giustificativa della sua autorità politico-istituzionale<br />

intrinseca e sugli stessi Stati membri. Infatti il nuovo trattato avrebbe dovuto dire esplicitamente che<br />

“incombe” agli Stati membri la protezione dei <strong>diritti</strong> umani (così come sanciti dalla Dichiarazione),<br />

un’espressione, che, mentre assegnava a essi e solo a essi il compito pratico di tale protezione, insieme<br />

poneva loro questo compito come un dovere inderogabile di fronte all’UE e, come tale, condizione<br />

della loro stessa appartenenza all’Unione.<br />

Fra i <strong>diritti</strong> fondamentali della <strong>cittadinanza</strong> europea e dell’UE avrebbero dovuto figurare, tra l’altro,<br />

l’”abolizione della pena capitale” (al primo posto), il “pari trattamento” e la “non discriminazione”<br />

(in generale), il “pari trattamento tra donne e uomini” (in particolare) esteso a tutte le aree, ma anche<br />

i “<strong>diritti</strong> economici e sociali di portata transnazionale” (validi per tutti gli Stati membri), almeno<br />

quanto ai <strong>diritti</strong> individuali e collettivi dei lavoratori dipendenti.<br />

Quanto al diritto dell’UE, la Dichiarazione avrebbe dovuto prestarsi di per se stessa a criterio fondamentale<br />

di un’attività giuridica dell’Unione, che, proprio grazie al compito di far valere i <strong>diritti</strong><br />

umani, sarebbe stata una vera e propria attività legislativa, con autentiche leggi, che, per quanto riguarda<br />

la protezione immediata dei <strong>diritti</strong> umani, avrebbero dovuto regolare gli aspetti “transfrontalieri”<br />

ossia le situazioni in cui fossero coinvolti cittadini di uno Stato membro diverso da quello di<br />

residenza, p.e. per quanto riguarda la “libertà d’associazione” e la “famiglia”.<br />

Ma la Dichiarazione avrebbe dovuto comprendere soprattutto “una sezione sui <strong>diritti</strong> politici”, per i<br />

quali il PE prevedeva: 1) l’approvazione entro un termine ben preciso di un uniforme sistema elettorale<br />

del PE (atto a generare una vera omogeneità tra gli elettori); 2) uno statuto unico dei membri<br />

del PE (atto a generare una vera omogeneità tra gli eletti); 3) lo sviluppo di partiti politici a livello


dell’UE (indispensabile alla maturazione di una coscienza politica e di una volontà politica autenticamente<br />

europee).<br />

Condizione necessaria, anche se non sufficiente, di tale coscienza politica europea era peraltro lo<br />

sviluppo di un preliminare “sentimento d’appartenenza all’Unione”, che, come tale, avrebbe dovuto<br />

avere come suoi naturali destinatari e beneficiari soprattutto i giovani. Di qui la necessità per il PE<br />

di “politiche comuni nella sfera della gioventù”, comprensive dello stesso sport.<br />

Allo stesso scopo il PE non esitava anzi a ricorrere a un’esperienza analoga a quella che, per lo sviluppo<br />

del sentimento d’identità nazionale ossia d’appartenenza allo Stato nazionale, aveva rappresentato<br />

il servizio militare di leva e persino la guerra. Nel caso dell’Unione tale esperienza avrebbe<br />

dovuto essere, invece, civile, volontaria e pacifica: il previsto Corpo Civile Volontario di <strong>Pace</strong> Europeo<br />

per lo svolgimento di operazioni umanitarie dentro e fuori dell’UE, pensato in origine soprattutto<br />

per gli obiettori di coscienza, diventava con ciò, nell’ottica attuale del PE, lo strumento privilegiato<br />

di un’educazione dei giovani “sul campo” al sentimento d’appartenenza all’Unione come a<br />

un soggetto politico basato non già sulla contrapposizione tra nazioni, bensì sull’incrocio dei popoli,<br />

non sull’esclusione dello straniero, bensì sull’inclusione del diverso, non sullo sfruttamento di risorse<br />

altrui, bensì sull’alleviamento di sofferenze altrui.<br />

Per lo stesso scopo educativo e formativo del “sentimento d’appartenenza all’Unione” il PE conferiva<br />

un ruolo generale trainante alla “dimensione culturale”. Tuttavia la “cultura” dell’Unione veniva<br />

fatta consistere in primo luogo proprio nel riconoscimento della diversità culturale e linguistica<br />

non solo degli Stati membri, bensì anche delle stesse regioni all’interno del singolo Stato membro<br />

(esattamente all’inverso della “cultura nazionale”, propria dello Stato nazionale e propagata attraverso<br />

le scuole statali). La nuova cultura europea avrebbe anzi dovuto essere condivisa in primo<br />

luogo dallo stesso Stato membro nel suo dovere di proteggere le proprie minoranze nazionali tradizionali<br />

e le loro lingue. A maggior ragione la stessa UE doveva farsi carico, secondo il PE, di un<br />

“riconoscimento, protezione e sostegno per le sue lingue e culture minoritarie” quanto al campo dei<br />

<strong>diritti</strong> umani, della democrazia e del rispetto della legge.<br />

In questo senso la “dimensione culturale” avrebbe dovuto agire soprattutto come “luogo” atto a realizzare<br />

“un’intesa culturale e linguistica sia entro, sia fuori l’Unione”, attraverso una politica culturale<br />

dell’UE tesa a promuovere “scambi e reti d’istituzioni e d’esperienze, la protezione dei beni<br />

culturali, l’armonizzazione della legislazione sul diritto d’autore e il sostegno per la traduzione, la<br />

circolazione e la diffusione di opere culturali e informazione” 204 .<br />

Tutte queste realtà da promuovere, chiamate complessivamente “dimensione culturale” europea, e il<br />

loro convergente risultato ossia un’intesa culturale e linguistica dentro e fuori l’Unione avrebbero<br />

dovuto essere realmente formative del sentimento d’appartenenza all’Unione e quindi della <strong>cittadinanza</strong><br />

europea. 205 Il presupposto giuridico di tale “dimensione culturale” europea avrebbe dovuto<br />

essere perciò il seguente: “I cittadini europei non devono, in nessuna circostanza, essere trattati come<br />

stranieri all’interno dell’Unione Europea”. Ma tale presupposto giuridico avrebbe dovuto infine<br />

trasformarsi nella spia etica dell’avvenuta maturazione del sentimento d’appartenenza all’Unione e<br />

quindi del senso della <strong>cittadinanza</strong> europea ovvero nella disposizione spontanea a trattare i cittadini<br />

di altri Stati membri come propri concittadini.<br />

Quanto ai cittadini di Paesi terzi residenti legalmente nell’UE, il PE si pronunciava a favore<br />

dell’estensione a loro non solo del complesso dei <strong>diritti</strong> umani dell’UE (compresi <strong>diritti</strong> economici,<br />

sociali e culturali), bensì anche del diritto politico di voto alle elezioni locali nel Comune di resi-<br />

204 Tale senso della “dimensione culturale” europea sarà poi evidenziato graficamente nelle immagini “di valore” che i<br />

cittadini dell’Unione portano sempre con sé ossia nelle banconote in euro: finestre e porte in un verso, ponti nell’altro<br />

verso. Tali elementi architettonici, tuttavia, nell’unità stilistica delle varie epoche (classica: 5 euro, romanica: 10 euro;<br />

gotica: 20 euro; rinascimentale: 50 euro; barocco e rococò: 100 euro; vetro e ferro: 200 euro; XX secolo: 500 euro), parlano<br />

insieme di un’unica storia dell’arte, della cultura e della civiltà proprie dell’Europa in quanto tale.<br />

205 In tal senso la risoluzione del PE affermava: “Il rafforzamento della dimensione culturale e delle opportunità di<br />

scambio nell’Unione avrà un potente impatto sulla sua legittimazione democratica”.


denza, configurando così un’ampia integrazione delle comunità straniere nella vita non solo civile,<br />

ma anche politica della propria città di residenza.<br />

Infine l’effettivo valore legale cogente del complesso dei <strong>diritti</strong> fondamentali sanciti dalla prevista<br />

Dichiarazione e garantiti entro l’ambito di competenza dell’UE (compresa l’EUROPOL 206 ) sarebbe<br />

stato assicurato dalla “protezione legale” complessiva che di essi avrebbero dovuto fornire “i tribunali<br />

nazionali, la Corte di prima istanza e la Corte di giustizia europea”. In tal modo tutte le autorità<br />

giurisdizionali, nazionali ed europee, sarebbero state coinvolte in questa protezione legale dei <strong>diritti</strong><br />

fondamentali dell’UE nei confronti delle istituzioni e degli organi dell’UE, degli Stati membri e dei<br />

cittadini. 207<br />

A proposito della seconda priorità-chiave ossia di “una risposta più effettiva alle preoccupazioni del<br />

pubblico sulla sicurezza interna”, il PE proponeva: 1) la riconduzione nel primo “pilastro” ossia<br />

nell’ambito comunitario dei settori della CSGAI riguardati gli aspetti esterni: l’asilo,<br />

l’attraversamento delle frontiere esterne, l’immigrazione, i cittadini di Paesi terzi, la lotta contro la<br />

frode e il crimine organizzato e la cooperazione giudiziaria civile riguardante la libera circolazione<br />

delle persone; 2) l’introduzione, per gli altri settori della CSGAI (cooperazione di polizia, navale e<br />

doganale e cooperazione giudiziaria penale), dei seguenti elementi: rafforzamento dei poteri della<br />

Commissione (diritto d’iniziativa) e del PE (codecisione), competenza della Corte di giustizia, protezione<br />

dei <strong>diritti</strong> umani, maggiore uso del voto a maggioranza, trasparenza e fine del ricorso a<br />

strumenti legali (risoluzioni, raccomandazioni e convenzioni) non previsti dal TUE e quindi al di<br />

fuori della possibilità di un controllo democratico; 3) la possibilità (“passerella”) di trasferire anche<br />

questi settori all’ambito comunitario; 4) una lotta comune, senza riserve nazionali, contro il terrorismo.<br />

In altri termini il PE esigeva la graduale riduzione di tutte le attività della CSGAI all’ambito<br />

comunitario. 208<br />

A proposito della terza priorità-chiave, il PE proponeva: a) per “un’unione sociale che arrivi lontano”,<br />

l’inserimento nel trattato: 1) dell’accordo sulla politica sociale, 2) dei principi essenziali della<br />

Carta dei <strong>diritti</strong> sociali fondamentali della CE (l’uguaglianza tra donne e uomini e i <strong>diritti</strong> transnazionali<br />

di organizzazione, contrattazione collettiva e azione industriale, incluso lo sciopero), 3)<br />

dell’obbligo della Commissione a predisporre una programmazione e 4) dell’obbligo dell’UE a sviluppare<br />

una politica di superamento dell’ingiustizia sociale, dell’esclusione, della discriminazione e<br />

della povertà, da affidare alla Commissione; b) per “una politica <strong>attiva</strong> dell’occupazione”,<br />

l’inserimento nel trattato: 1) di un nuovo capitolo su ”L’Unione per l’occupazione”, 2) della funzione<br />

sociale comunitaria di “promuovere un alto livello d’occupazione e di protezione sociale per<br />

donne e uomini”, 3) dell’obiettivo di un alto livello d’occupazione tra i “principi guida” d’azione<br />

dell’UE, 4) della creazione di un Comitato sull’occupazione (come “contrappeso”, con analogo statuto,<br />

al Comitato monetario) e 5) dell’armonizzazione delle legislazioni sociali nazionali; c) per la<br />

“politica fiscale e il mercato interno”: l’armonizzazione di certe forme di tassazione; d) per<br />

l’”informazione”: accesso all’informazione e produzione di programmi radiotelevisivi concepiti a<br />

livello europeo; e) per gli “obblighi del servizio pubblico: un’Unione Europea che promuova<br />

l’interesse generale”, l’inserimento nel trattato: 1) di un riferimento ai servizi d’interesse generale e<br />

2) dei principi fondamentali del servizio pubblico (accessibilità, universalità, uguaglianza, continuità,<br />

qualità, trasparenza e partecipazione), f) per la “coesione economica e sociale”: sua trasformazione<br />

in compito fondamentale dell’Unione e parte integrante della normativa comunitaria; g) per<br />

206 La differenza fondamentale fra l’EUROPOL e l’Interpol è data dal fatto che solo la prima è soggetta al rispetto di<br />

una legislazione, in questo caso europea, sulla protezione dei dati personali.<br />

207 In tal modo veniva sostanzialmente a perdersi il senso classico dell’indipendenza dello Stato nazionale, che da sempre<br />

aveva trovato il proprio elemento d’identificazione in una giustizia amministrata in base ai <strong>diritti</strong> sanciti esclusivamente<br />

dalla Costituzione nazionale o (nel caso britannico) dal diritto consuetudinario nazionale. Perciò il Regno Unito<br />

lotterà con tutte le sue forze prima per l’esclusione di tale eventualità dai trattati europei e poi per la propria autoesclusione<br />

(un’ennesima “deroga”) dal rispetto di tale disposizione.<br />

208 A questo proposito la risoluzione affermava in generale per l’UE come tale: “il rafforzamento delle politiche esistenti,<br />

di cui c’è bisogno, non sarà possibile eccetto che nel contesto della fusione dei tre pilastri in un unico quadro istituzionale<br />

e legale e con il debito rispetto dei principi di sussidiarietà e di solidarietà”.


l’”ambiente”: sua presenza in tutte le politiche comunitarie e sua estensione alla protezione degli animali;<br />

h) per la “gioventù”: cooperazione tra Stati membri per politiche trasversali; i) per<br />

l’”energia”: inserimento nel trattato di un nuovo capitolo apposito (con l’integrazione degli aspetti<br />

di politica energetica della CEA e dell’Euratom entro un quadro di politica energetica comune); l)<br />

per il “turismo”: suo inserimento nel trattato come campo individuale e separato di politica comune;<br />

e m) per la “pesca”: inserimento nel trattato di un titolo separato e procedura per consenso sugli accordi<br />

internazionali.<br />

A proposito della quarta priorità-chiave, il PE proponeva: a) per il “rafforzamento del ruolo esterno<br />

dell’Unione Europea attraverso lo sviluppo di un’effettiva politica estera e di sicurezza comune”, il<br />

PE proponeva l’inserimento nel trattato: 1) dello spirito di solidarietà tra gli Stati membri, 2) della<br />

personalità legale dell’Unione 209 , 3) del compito dell’UE di “garantire la sua integrità territoriale e<br />

la sicurezza delle sue frontiere esterne”, 4) di un unico capitolo sui vari aspetti della politica esterna<br />

(comprensivo sia di quelli di competenza comunitaria sia della PESC), 5) per gli aspetti della politica<br />

economica esterna (di competenza comunitaria): a) dell’introduzione della codecisione e b)<br />

dell’estensione della procedura per consenso a tutti gli accordi internazionali e alle sanzioni economiche,<br />

6) dell’inclusione del Fondo europeo di sviluppo nella politica di cooperazione allo sviluppo<br />

(di ambito comunitario), 7) della creazione, per la PESC, di un’”Unità comune di analisi e pianificazione”,<br />

gestita dalla Commissione di concerto con il Segretariato generale del Consiglio, 8) del<br />

voto a maggioranza qualificata (anche per la PESC, con il diritto di non aderire a posizioni comuni<br />

o azioni congiunte di natura militare, ma senza il diritto di porre veti a esse), 9) della designazione<br />

dello stesso commissario alle relazioni esterne della CE come rappresentante dell’Unione per la<br />

PESC, 210 10) della creazione di una rappresentanza dell’Unione in ogni paese terzo, ove esistessero<br />

meno di quattro Stati membri avessero rappresentanza diplomatica, 11) del finanziamento della<br />

PESC a carico del bilancio comunitario e 12) del conferimento al PE del controllo parlamentare sulla<br />

PESC; b) per la “politica di sicurezza e di difesa”, il PE proponeva l’inserimento nel trattato: 1)<br />

della graduale incorporazione dell’UEO nell’UE e dell’attribuzione all’Unione degli obiettivi dei<br />

compiti di Petersberg (vincolanti per tutti gli Stati membri dell’UE), 2) del diritto di ogni Stato<br />

membro a non partecipare ad azioni militari e del suo dovere di non impedire fossero intraprese da<br />

una maggioranza di Stati membri, 3) del finanziamento delle operazioni dell’UEO (una volta integrata<br />

nell’UE) a carico del bilancio comunitario, 4) della creazione di una politica comune degli<br />

armamenti.<br />

A proposito della quinta priorità-chiave ossia di “una positiva risposta alle domande popolari di più<br />

apertura e trasparenza”, il PE proponeva l’inserimento nel trattato: 1) del principio d’apertura delle<br />

istituzioni europee, 2) di una norma generale d’accesso ai documenti dell’UE (con l’obbligo della<br />

pubblicazione immediata di quelli legislativi e della loro “leggibilità” 211 ) e 3) della pubblicità degli<br />

incontri del Consiglio dedicati alle funzioni legislative.<br />

A proposito della sesta priorità-chiave ossia di un “decisivo progresso verso un’Europa più democratica<br />

e più efficiente”, il PE proponeva: 1) l’estensione del voto a maggioranza qualificata, come<br />

procedura generale entro l’Unione (con l’introduzione di una nuova maggioranza superqualificata<br />

per certi temi sino ad allora soggetti al voto all’unanimità e con la restrizione di quest’ultimo ai soli<br />

casi di modifiche al trattato e di “decisioni costituzionali”, come l’allargamento, le risorse proprie e<br />

209<br />

Il PE sottolineava che questa misura, di portata di per sé fondamentale, era tanto più essenziale in politica estera, nella<br />

misura in cui nessun Paese terzo poteva prendere seriamente in considerazione la PESC di un’entità che non aveva<br />

personalità legale ovvero che non era un vero e proprio soggetto politico-istituzionale. Per converso tale conferimento<br />

avrebbe invece attribuito all’UE i connotati di tale soggettività anche in politica interna (compresa la CSGAI), comportando<br />

il superamento della struttura a tre “pilastri” dell’UE entro l’unico ambito comunitario.<br />

210<br />

Il PE si dichiarava invece contrario alla proposta, emersa in sede di Gruppo di riflessione, di affidare l’incarico di<br />

rappresentante solo della PESC a una nuova apposita figura, chiamata “Alto rappresentante” dell’UE per la PESC (a<br />

motivo della definitiva divisione, che si sarebbe così venuta a produrre, della politica esterna dell’UE fra gli ambiti comunitario<br />

e della PESC e quindi della conseguente permanenza definitiva della struttura almeno a due pilastri dell’UE).<br />

211<br />

A questo proposito il PE sosteneva (a maggior ragione): “I trattati devono essere compendiati, ristrutturati, semplificati<br />

e commentati”.


l’articolo 235); 2) una meditata riponderazione dei voti; 3) il mantenimento delle norme di composizione<br />

della Commissione 212 e l’elezione diretta del presidente della Commissione europea da parte<br />

del PE sulla base di una rosa di nomi disposta dal Consiglio europeo; 4) l’indipendenza e il rafforzamento<br />

del ruolo della Commissione; 5) una maggiore autonomia del Comitato delle Regioni; 6)<br />

un miglioramento delle procedure legislative attraverso: a) un’unica procedura legislativa ossia la<br />

codecisione, estesa a ogni tipo di legislazione (con decisioni del Consiglio a maggioranza qualificata)<br />

e semplificata, b) l’approvazione del PE per tutti i casi dell’articolo 235, le decisioni sulle risorse<br />

proprie e in tutti i casi di riforma del trattato e per gli accordi internazionali e c) una gerarchia degli<br />

atti giuridici; 7) un miglioramento delle procedure di bilancio (unificazione e semplificazione del<br />

bilancio e responsabilità del PE per tutti i tipi di spesa, nonché riforma del sistema delle risorse proprie<br />

per gli anni dal 2000 in poi) e 8) l’approvazione del PE per le nomine dei membri della Corte<br />

dei conti e della Corte di giustizia.<br />

A proposito della settima priorità-chiave ossia una “maggiore credibilità per l’Unione Europea, da<br />

conseguirsi per mezzo di un’effettiva azione contro l’uso fraudolento di fondi comunitari a tutti i livelli”,<br />

il PE proponeva: 1) l’attuazione di sanzioni a livello comunitario (varate con la procedura di<br />

codecisione e con voto del Consiglio a maggioranza qualificata), 2) l’inserimento nel trattato<br />

dell’obbligo per gli Stati membri di imporre effettive e proporzionate penalità e della base legale<br />

necessaria e sufficiente per stabilire norme comunitarie e per l’armonizzazione della legislazione<br />

degli Stati membri ai fini di adottare sanzioni penali uniformi, 3) il rafforzamento dei poteri della<br />

Corte dei conti (obbligo per le amministrazioni nazionali e gli uffici di revisione di cooperare con la<br />

Corte dei conti, estensione dei suoi poteri di controllo al Fondo europeo di sviluppo e a tutti i corpi<br />

amministranti fondi comunitari e le spese della PESC e della CSGAI, attribuzione di poteri giudiziari,<br />

compreso quello d’iniziativa, al fine di punire gli Stati membri e i corpi della Comunità implicati<br />

in violazioni della legge comunitaria con effetti sugli interessi finanziari comunitari) e 4)<br />

l’obbligo per la Commissione di ottemperare alle osservazioni accluse alla decisione del PE sul discarico<br />

di bilancio.<br />

A proposito dell’ottava e ultima priorità-chiave ossia di “un trattato semplificato e più comprensibile”,<br />

il PE proponeva: 1) la riscrittura di certe disposizioni costituzionali in modo tale da renderle più<br />

chiare e più motivanti per il pubblico, 2) la rimozione dal trattato di disposizioni che sono decadute<br />

o sono diventate obsolete e 3) la fusione dei tre trattati comunitari e delle altre disposizioni del trattato<br />

sull’Unione Europea in un unico trattato unificato 213 e 4) la riorganizzazione dei contenuti del<br />

trattato unificato, raggruppando tutte le disposizioni costituzionali in una parte e le disposizioni riguardanti<br />

politiche specifiche in un’altra. 214<br />

212 Il PE respingeva perciò la proposta, avanzata da una parte del Gruppo di riflessione, di ridurre il numero dei commissari<br />

al di sotto del numero degli Stati membri, ritenendola lesiva del principio di rappresentanza degli Stati membri.<br />

213 In questo contesto il PE incaricava, nello stesso anno 1996, l’Istituto Universitario Europeo (IUE) di Firenze (fondato<br />

nel 1972) e precisamente il suo Centro di Studi Avanzati “Robert Schuman” (fondato nel 1992) di formulare delle<br />

proposte per un consolidamento dei trattati a diritto costante. Il risultato di tale studio era, alla fine, una ponderosa pubblicazione,<br />

a cura di A. Bogdandy (relatore) e C.-D. Ehlermann (coordinatore), dal titolo “Un modello unificato e semplificato<br />

dei Trattati delle Comunità europee e del Trattato sull’Unione Europea in un solo trattato”, Parlamento Europeo,<br />

DG IV (Ricerca), Serie Affari Legali W-9, ottobre 1996 (510 pp.).<br />

214 In questo chiarissimo pronunciamento, espresso esplicitamente ai fini della semplificazione e di una maggiore comprensibilità<br />

del trattato per gli stessi cittadini europei, si possono ravvisare le stesse origini dell’architettura del futuro<br />

trattato costituzionale europeo del 2003, che realizzerà appunto una riscrittura più chiara e più motivante (per non dire<br />

cristallina e solenne) per il pubblico, la rimozione delle disposizioni decadute od obsolete, la fusione di tutti i trattati<br />

(eccetto quello della CEEA) in un unico trattato unificato e il raggruppamento delle disposizioni costituzionali nelle<br />

prime due parti (la seconda dedicata alla futura Carta dei <strong>diritti</strong> fondamentali dell’Unione) e di quelle sulle politiche e<br />

sul funzionamento dell’Unione nella terza parte, nonché delle disposizioni generali e finali nella quarta e ultima parte.<br />

Pur non nominando più la parola “Costituzione”, il PE stava infatti riproponendo, nel modo più rigoroso, non solo nei<br />

contenuti, ma anche nella forma, lo spirito di una Costituzione. Tuttavia la suddivisione del trattato unificato in due parti<br />

andava per il PE nella direzione di riservare il nucleo costituzionale solo alla prima, ben distinguendolo dal resto. Purtroppo<br />

l’esito finale della Convenzione del 2003 e della GIG del 2004 condurranno invece alla denominazione<br />

dell’intero trattato come “trattato costituzionale” o persino “Costituzione” e alla sua presentazione come tale ai cittadini,<br />

nei referendum nazionali. In due di questi, come noto, l’”indigeribilità” di tale mastodontico trattato unificato avrebbe


Stabiliti i contenuti delle priorità-chiave del lavoro della prevista CIG, il PE poneva peraltro pure il<br />

problema della “trasparenza nel processo di revisione del trattato”, nei termini di un “coinvolgimento”<br />

sia “del pubblico”, sia “del Parlamento Europeo”.<br />

Per quanto riguarda il “coinvolgimento del pubblico”, il PE riteneva essenziale che “i cittadini europei<br />

e i loro rappresentanti eletti siano direttamente informati, a livello sia nazionale, sia<br />

dell’Unione, del progresso e della sostanza della CIG” e comunicava di aver già iniziato lui stesso<br />

delle “audizioni pubbliche” per un “dialogo con il pubblico” teso a evidenziare una “lista di verifica<br />

delle preoccupazioni dei cittadini che hanno bisogno di venire affrontate dall’Unione Europea”, ma<br />

soprattutto considerava pure che “i <strong>diritti</strong> dei cittadini europei di fondare associazioni transfrontaliere<br />

dovrebbero essere esplicitamente riconosciuti nel trattato. Per realizzare questo obiettivo dovrebbe<br />

essere stabilito un appropriato quadro legale europeo, che dovrebbe abilitare simili associazioni a<br />

essere informate di, e coinvolte in, iniziative e azioni dell’UE” e infine invitava tutti gli Stati membri<br />

a “stimolare un dibattito pubblico sui temi della CIG”. 215<br />

Quanto al “coinvolgimento del Parlamento Europeo”, il PE esigeva la propria partecipazione ai lavori<br />

della CIG fin dal loro inizio, ponendo altrimenti in discussione la legittimità della stessa apertura<br />

della CIG.<br />

Infine il PE poneva precisi “limiti alla flessibilità” nei riguardi di “qualsiasi accordo speciale negoziato<br />

alla CIG”, ovvero che non si pervenisse a un’”Europa à la carte”, né si compromettessero “i<br />

principi chiave del mantenimento dell’acquis communautaire e il quadro istituzionale unico, la solidarietà,<br />

e la coesione economica e sociale, e l’uguaglianza di tutti gli Stati e cittadini dell’Unione<br />

davanti al trattato”. 216<br />

Di fronte a questa chiara, unitaria e articolata presa di posizione del PE, si svolgeva poi, finalmente,<br />

la riunione del Consiglio europeo di Torino del 29 marzo 1996, con l’inaugurazione della prevista<br />

Conferenza intergovernativa (CIG). Nelle conclusioni di tale riunione, il Consiglio europeo stabiliva<br />

l’”agenda della CIG”, dandole un chiaro mandato, basato sulla relazione del Gruppo di riflessione,<br />

ma caratterizzato da una maggiore omogeneità e univocità di direttive (frutto di un’attenta considerazione,<br />

da parte della presidenza italiana, dell’ultima risoluzione del PE) nei tre seguenti settori:<br />

1) “un’Unione più vicina ai cittadini”; 2) “le istituzioni in un’Unione più democratica ed efficiente”;<br />

3) “rafforzare la capacità per un’azione esterna dell’Unione”.<br />

Per quanto riguarda il primo settore, il Consiglio europeo sosteneva:<br />

contribuito non poco al rifiuto di esso, al blocco del processo di ratifica in altri sette Stati membri e alla conseguente decadenza<br />

del TCE. Il futuro “trattato di riforma”, in discussione nell’attuale CIG del 2007, dovrebbe portare, peraltro,<br />

pur nel ritorno alla vecchia e tranquillizzante procedura dei trattati emendativi (come, appunto, il trattato di Amsterdam<br />

del 1997), al mantenimento sostanziale non solo delle disposizioni del TCE, bensì anche della suddivisione di esso in<br />

due parti (“costituzionale” e applicativa) sotto forma stavolta di due trattati e precisamente dei due trattati fondativi,<br />

emendati, dell’Unione Europea e della Comunità Europea, con la conseguente ridenominazione di quest’ultimo appunto<br />

come trattato “sul funzionamento dell’Unione”. Come dire: al di là di questo forsennato rimescolamento di carte, il disegno<br />

originario sussiste ancora, ma alquanto sepolto sotto una dissimulazione, soprattutto formale, tesa a evitare lo<br />

stesso ricorso ai referendum e quindi anche solo il rischio del ripetersi (in tal caso letale) di rovinosi eventi referendari<br />

come quelli francese e olandese del 2005, anche a costo del sacrificio dei valori di trasparenza e apertura, tipici del vero<br />

spirito della Costituzione.<br />

215 In tal modo il PE, in previsione del coinvolgimento non solo di se stesso, ma anche del “pubblico”, nei lavori della<br />

CIG, apriva finalmente anch’esso alla prospettiva di una costante e strutturale partecipazione dei cittadini alla vita politico-istituzionale<br />

dell’UE, nella forma della proposta di inserire nel trattato i <strong>diritti</strong> dei cittadini europei di fondare “associazioni<br />

transfrontaliere”, abilitate, attraverso un apposito quadro legale europeo, a “essere informate di, e coinvolte<br />

in, iniziative e azioni dell’UE”: si trattava del più pieno riconoscimento della nuova dimensione della “democrazia partecipativa”<br />

europea, fatta agire in sinergia con la tradizionale “democrazia rappresentativa” europea (di cui il PE costituiva<br />

la massima espressione) quale volano per lo stesso sviluppo effettivo di quest’ultima.<br />

216 Memore delle “deroghe” già concesse o in via di concessione a taluni Stati membri (Danimarca e Regno Unito),<br />

nell’intento di impedire l’estensione di esse ad altri temi e persino ad altri Stati membri, il PE sosteneva pure: “è essenziale<br />

per l’Unione definire, sulla base dell’acquis communautaire, che deve essere mantenuto in pieno, chiari e precisi<br />

intenti e obiettivi, che siano condivisi da tutti gli Stati membri e che non possano essere messi in discussione in nessuna<br />

occasione.”


“Il Consiglio europeo chiede alla CIG di basare i suoi lavori sulla considerazione che i cittadini sono al centro della costruzione<br />

europea: l’Unione ha l’assoluto dovere di rispondere concretamente alle loro necessità e alle loro preoccupazioni.<br />

Poiché gli Stati membri reputano loro impegno vincolante il rispetto dei <strong>diritti</strong> umani, dei valori democratici e dei principi<br />

dell’uguaglianza e della non discriminazione, e poiché l’Unione è una comunità di valori condivisi, la CIG dovrebbe<br />

esaminare se e in quale misura sia possibile rafforzare questi <strong>diritti</strong> fondamentali e garantirne una migliore salvaguardia.<br />

[…]”<br />

Nel contesto della CSGAI “la Conferenza è invitata a produrre risultati adeguati soprattutto sulle seguenti questioni:<br />

- metodi e strumenti più efficaci nel quadro di obiettivi già stabiliti;<br />

- una migliore tutela dei cittadini dell’Unione contro la criminalità organizzata internazionale in particolare, il terrorismo<br />

e il traffico illecito di stupefacenti;<br />

- uno sviluppo coerente ed efficace delle politiche in materia di asilo, immigrazione e visti;<br />

- un chiarimento delle divergenze di opinioni sul controllo giurisdizionale e parlamentare delle decisioni dell’Unione<br />

nel settore della giustizia e degli affari interni. […]”<br />

Nel contesto delle politiche comunitarie il Consiglio europeo precisava: “Pertanto, per conseguire l’obiettivo di un alto<br />

livello di occupazione e assicurare insieme la protezione sociale, la CIG dovrebbe esaminare come l’Unione possa fornire<br />

la base di una cooperazione e di un coordinamento migliori per rafforzare le politiche nazionali. Inoltre la CIG dovrebbe<br />

esaminare se e come gli sforzi dei nostri governi e delle parti sociali possano essere meglio e più efficacemente<br />

coordinati dal trattato.<br />

La CIG potrebbe altresì affrontare la questione della compatibilità tra la concorrenza e i principi dell’accesso universale<br />

ai servizi essenziali, nell’interesse dei cittadini.<br />

Inoltre la CIG dovrebbe esaminare lo status delle regioni più remote. Dovrebbe anche esaminare lo status dei territori<br />

d’oltremare. Dovrebbe esaminare altresì il problema delle regioni insulari dell’Unione.<br />

[…] La CIG dovrà esaminare come rendere la protezione dell’ambiente più efficace e coerente al livello dell’Unione<br />

per conseguire uno sviluppo sostenibile a livello dell’Unione.<br />

La CIG deve assicurare una miglior applicazione e la stretta osservanza del principio di sussidiarietà, per garantire la<br />

trasparenza e l’apertura dei lavori dell’Unione ed esaminare se sia possibile semplificare e consolidare i trattati.”<br />

Con molta chiarezza, il Consiglio europeo chiedeva dunque alla CIG di impostare tutto il suo lavoro<br />

sulla base della centralità dei cittadini dell’Unione nell’architettura di quest’ultima e perciò di stabilire<br />

i <strong>diritti</strong> fondamentali di essi e la loro salvaguardia da parte dell’UE come primo punto del nuovo<br />

trattato.<br />

Per quanto riguarda la CSGAI, il Consiglio europeo invitava dunque la CIG a stabilire nel trattato<br />

disposizioni che rendessero la CSGAI stessa capace di affrontare la lotta contro il crimine e di attuare<br />

un’efficace politica di controllo delle frontiere esterne, ma soprattutto che la ponessero sotto il<br />

controllo giurisdizionale e parlamentare ossia della Corte di giustizia e del PE, con la prospettiva<br />

dunque di un graduale assorbimento della stessa CSGAI nell’ambito della CE.<br />

Per quanto riguarda le stesse politiche comunitarie, il Consiglio europeo invitava dunque la CIG a<br />

stabilire nel trattato delle disposizioni volte a creare una politica economica e sociale comune (con<br />

l’apporto delle parti sociali a livello europeo) e persino l’accesso di ogni cittadino dell’Unione ai<br />

“servizi essenziali” ossia ai servizi d’interesse generale ovvero ai servizi pubblici in tutto il territorio<br />

dell’Unione.<br />

Ma le istruzioni forse più interessanti assegnate dal Consiglio europeo alla CIG erano quelle generali,<br />

relative all’inserimento nel trattato di disposizioni che garantissero l’applicazione del principio di<br />

sussidiarietà, ovvero da un lato un’effettiva trasparenza e apertura dei lavori dell’Unione e dall’altro<br />

lato, soprattutto, la semplificazione e il consolidamento dei trattati. Quest’ultima istruzione significava<br />

la volontà dello stesso Consiglio europeo che si procedesse, proprio in nome della sussidiarietà,<br />

all’elaborazione di quel famoso “testo unico” dei trattati fondamentali o costitutivi dell’UE perorato<br />

dal PE.<br />

Per quanto riguarda il secondo settore, il Consiglio europeo sollecitava la CIG nei seguenti termini:<br />

“La Conferenza dovrà studiare:<br />

- quale sia il modo più efficace per semplificare le procedure legislative e renderle più chiare e trasparenti;<br />

- la possibilità di estendere il ricorso alla codecisione in questioni legislative propriamente dette;<br />

- la questione del ruolo del Parlamento Europeo, oltre all’esercizio dei suoi poteri legislativi, nonché la sua composizione<br />

e la procedura uniforme per la sua elezione.


La CIG dovrebbe parimenti esaminare come e in che misura i Parlamenti nazionali possano, anche collettivamente, meglio<br />

contribuire ai compiti dell’Unione.<br />

Quanto al Consiglio, il cui funzionamento deve essere migliorato, la CIG dovrebbe affrontare le questioni<br />

dell’estensione del voto a maggioranza, della ponderazione dei voti e della soglia richiesta per le decisioni a maggioranza<br />

qualificata.<br />

La Conferenza dovrà esaminare in che modo la Commissione potrebbe svolgere le sue funzioni fondamentali con maggiore<br />

efficienza, tenendo parimenti conto della sua composizione e delle sua rappresentatività.<br />

La Conferenza dovrebbe esaminare se e come si possano migliorare il ruolo e il funzionamento della Corte di giustizia e<br />

della Corte dei conti delle Comunità europee. Essa dovrebbe altresì esaminare come si possa pervenire a una legislazione<br />

più chiara e di miglior qualità, nonché quali siano i mezzi e i modi per lottare più efficacemente contro la frode.<br />

I capi si Stato e di governo chiedono alla Conferenza di esaminare se e come introdurre norme di carattere generale o<br />

riguardanti settori specifici allo scopo di consentire a un certo numero di Strati membri di sviluppare una cooperazione<br />

rafforzata, aperta a tutti, compatibile con gli obiettivi dell’Unione, al tempo stesso preservando l’acquis comunitario,<br />

evitando discriminazioni e distorsioni di concorrenza e rispettando il quadro istituzionale unico.”<br />

In tal modo il Consiglio europeo recepiva le proposte in merito non solo del Gruppo di riflessione,<br />

ma anche dello stesso PE e le trasmetteva alla CIG.<br />

Per quanto riguarda il terzo e ultimo settore, il Consiglio europeo invitava la CIG a individuare i<br />

mezzi per conseguire l’obiettivo di attuare la PESC, nei seguenti termini:<br />

“La realizzazione di tale obiettivo richiede una maggiore capacità di:<br />

- identificare i principi e i settori della politica estera comune;<br />

- definire le azioni necessarie per promuovere gli interessi dell’Unione in tali settori e conformemente a tali principi;<br />

- stabilire procedure e strutture atte a far sì che le decisioni siano prese in maniera più efficace e tempestiva, in uno spirito<br />

di lealtà e di solidarietà reciproca;<br />

- concordare adeguate disposizioni di bilancio.<br />

Tenendo presenti tali obiettivi, la Conferenza deve altresì esaminare se e come le disposizioni relative ad una nuova<br />

funzione specifica possano consentire all’Unione di esprimersi in maniera più coerente e tangibile, con un volto e una<br />

voce ben distinti.<br />

Inoltre la CIG dovrà esaminare come meglio affermare l’identità europea nelle questioni della sicurezza e della difesa.<br />

Essa dovrà pertanto affrontare la questione di una più chiara definizione delle relazioni con l’Unione dell’Europa occidentale,<br />

che fa parte integrante dello sviluppo dell’Unione Europea., tenendo conto in particolare della scadenza del<br />

1998 fissata dal trattato di Bruxelles. Tale obiettivo deve inoltre comprendere il miglioramento della capacità operativa<br />

di cui l’Unione può disporre, con specifico riferimento al settore coperto dalle cosiddette “operazioni Petersberg”<br />

dell’UEO e conformemente alla Carta delle Nazioni Unite. La Conferenza deve altresì esaminare se e in che misura il<br />

trattato debba promuovere una più stretta cooperazione nel settore degli armamenti.”<br />

Anche in questo settore, dunque, il Consiglio europeo recepiva effettivamente le indicazioni del<br />

Gruppo di riflessione, ma insieme andava oltre, prevedendo (in controtendenza stavolta rispetto al<br />

PE) l’istituzione di “una nuova funzione specifica”, destinata a costituire l’unico referente dell’UE<br />

per la PESC di fronte ai Paesi terzi; questa figura, per allora anonima, sarà il futuro Alto Rappresentante<br />

dell’UE per la PESC. 217<br />

Infine il Consiglio europeo raccomandava la CIG di “impostare i suoi lavori su una visione generale<br />

e coerente: il suo scopo è quello di soddisfare le esigenze e le aspettative dei cittadini e al contempo<br />

portare avanti il processo di costruzione europea e preparare l’Unione all’allargamento futuro”.<br />

L’autentica novità era peraltro costituita dall’”associazione del Parlamento Europeo ai lavori della<br />

Conferenza intergovernativa”, con una precisa regolamentazione di essa, che prevedeva per la prima<br />

volta nella storia del processo d’integrazione europea la possibilità di una reale incidenza del PE<br />

in una CIG ossia in quella che sino ad allora era stata la “riserva di caccia” per eccellenza dei governi<br />

degli Stati membri.<br />

Sulla base di tale “agenda politica” tracciata dal Consiglio europeo, la CIG iniziava perciò i suoi lavori<br />

per la durata prevista di un anno.<br />

217 In tal modo si faceva implicitamente intendere la volontà del Consiglio europeo di mantenere la struttura a pilastri<br />

dell’UE, almeno per quel che riguardava la distinzione tra il primo e il secondo pilastro (la CE e la PESC).


Nella successiva riunione ordinaria del Consiglio europeo di Firenze del 21-22 giugno 1996, la<br />

nuova guida della presidenza italiana ossia il nuovo capo del governo italiano, Romano Prodi, 218<br />

confermava il mandato già assegnato alla CIG, apportandovi peraltro accenti ancora più decisi. Si<br />

stabiliva infatti che la CIG, che avrebbe dovuto concludere i suoi lavori “entro la metà del 1997”,<br />

avrebbe dovuto accogliere, nell’ambito del compito di “avvicinare maggiormente l’Unione ai cittadini”<br />

e in particolare di soddisfare “le esigenze di sicurezza”, l’esplicita “prospettiva di uno spazio<br />

giudiziario comune”, venendo con ciò pienamente incontro alle richieste del PE per un progressivo<br />

assorbimento della CSGAI nell’ambito comunitario.<br />

II. La fondazione della democrazia partecipativa e della democrazia rappresentativa<br />

Frattanto il nuovo scenario aperto dall’approvazione del PE nei confronti della Commissione Santer<br />

e dunque dal legame politico di fatto esistente tra essa e il PE, poneva il problema, di natura ancora<br />

una volta eminentemente politica, di un diverso legame fra lo stesso PE e i cittadini dell’Unione in<br />

quanto tali ovvero il problema di una autentica “democrazia europea”, da proporre alla CIG allora<br />

in corso. Perciò il PE procedeva, nella medesima giornata, in un certo senso “storica”, del 10 dicembre<br />

1996, all’adozione di due risoluzioni fondative rispettivamente della “democrazia partecipativa”<br />

e della “democrazia rappresentativa” europee, che avrebbero improntato tutto lo sviluppo<br />

successivo della “democrazia europea” sino a oggi e anzi si rivelano tuttora futuribili.<br />

La prima, funzionale in realtà alla seconda, era la risoluzione “sulla partecipazione dei cittadini e<br />

degli interlocutori sociali al sistema istituzionale dell’Unione Europea” (relatore: Philippe Herzog)<br />

219 (A4-0338/1996). Le sue premesse sostenevano:<br />

“A. considerando che la partecipazione dei cittadini è una dimensione importante della cultura politica europea, ma<br />

che, malgrado gli sforzi intrapresi, l’Unione presenta ancora un deficit democratico e incontra una crisi di fiducia presso<br />

i cittadini,<br />

B. considerando che il successo della costruzione europea dipenderà da un miglioramento della sua capacità decisionale<br />

e da una maggiore partecipazione dei cittadini, in particolare attraverso l’ampliamento dei poteri del Parlamento Europeo,<br />

C. considerando che l’Unione deve ritrovare un senso per ristabilire la fiducia del cittadino e suscitare il desiderio di<br />

partecipazione grazie a un progetto incentrato non solo sulla sicurezza esterna e interna, ma anche sulla soluzione dei<br />

problemi della disoccupazione, dell’esclusione, del degrado ambientale, della crisi dei sistemi previdenziali e che deve<br />

pertanto incarnare un autentico impegno comune per promuovere l’occupazione, la parità di possibilità tra uomini e<br />

donne, la solidarietà e lo sviluppo duraturo,<br />

D. considerando che la partecipazione, segnatamente in una situazione di parità fra uomini e donne, contribuisce a rivalutare<br />

il sistema democratico,<br />

E. considerando che spetta a questo Parlamento il compito di dare impulso prendendo nuove iniziative volte a<br />

- precisare l’attuazione del principio di sussidiarietà in termini comprensibili per l’opinione pubblica;<br />

- dibattere pubblicamente le politiche dell’Unione;<br />

- promuovere la valutazione di queste politiche;<br />

- promuovere l’esercizio generale dei <strong>diritti</strong> di consultazione;<br />

218 Di orientamento politico vicino alla DC, professore ordinario di economia e politica industriale all’Università di Bologna,<br />

già presidente di alcune società gestite dall’istituto finanziario pubblico GEPI allo scopo di risanarle, ministro<br />

dell’industria (1978-’79), fondatore della società di studi economici e consulenza “Nomisma”, direttore di alcune riviste<br />

scientifiche, presidente dell’Istituto per la ricostruzione industriale (IRI) (1982-’89), Romano Prodi era stato nominato<br />

ancora una volta alla guida dell’IRI nel 1993 da Ciampi ai fini dell’esecuzione del programma di privatizzazioni. In seguito<br />

alle elezioni del 1994 e alla nascita del nuovo governo di centro-destra, Prodi aveva lasciato definitivamente l’IRI<br />

e nel 1995 aveva fondato e si era posto a capo di una coalizione politica, denominata “L’Ulivo”, che aveva raccolto sostanzialmente<br />

quanto era rimasto dei partiti politici italiani, che avevano fatto parte, a suo tempo, del CLN, in particolare<br />

il PDS e il Partito Popolare Italiano (PPI) (sorto nel 1994 dalla dissoluzione della DC). In seguito alle elezioni anticipate<br />

del 1996, l’Ulivo aveva acquisito la maggioranza parlamentare e il nuovo governo, presieduto da Romano Prodi,<br />

era entrato in carica il 17 maggio 1996. Su invito dello stesso Prodi, Carlo Azeglio Ciampi era divenuto da allora il ministro<br />

del tesoro italiano.<br />

219 Philippe Herzog è stato membro francese del PE per la coalizione delle sinistre (poi gruppo confederale della sinistra<br />

unitaria europea) dal 1989 al 1999 e dal 2000 al 2004.


F. considerando che gli Stati che hanno scelto di far parte dell’Unione devono favorire essi stessi la partecipazione, nei<br />

loro territori, al funzionamento del sistema comunitario, nonché lo sviluppo degli scambi e degli incontri a carattere<br />

transnazionale;<br />

G. considerando che le forze della società civile devono svolgere una importante funzione per la formazione di una<br />

coscienza europea, stimolando lo sforzo di informazione, il confronto delle idee e la ricerca degli interessi comuni;<br />

H. considerando che occorre perseguire gli sforzi già intrapresi a livello delle istituzioni comunitarie per venire in ascolto<br />

dei cittadini:<br />

I. considerando che l’attuale CIG deve costituire l’occasione per formulare contemporaneamente i principi e talune modalità<br />

significative della risposta a questa esigenza di partecipazione;”<br />

In questa articolata premessa emergeva la preoccupazione del PE circa il perdurante “deficit democratico”<br />

dell’UE e soprattutto della conversione di esso in una vera e propria “crisi di fiducia presso<br />

i cittadini” nei confronti dell’Unione. Il necessario varo di un’effettiva “democrazia rappresentativa”<br />

europea era, a quel punto, non solo troppo di là da venire, ma soprattutto si rivelava semplicemente<br />

improponibile in presenza di ciò che emergeva drammaticamente da tale situazione ovvero<br />

della mancanza di un’effettiva “coscienza europea”, presupposto indispensabile di tale forma classica<br />

di democrazia. Di qui l’esigenza di provvedere, da subito, alla “formazione” di tale coscienza europea.<br />

Ma come? La funzione maieutica in questo senso avrebbe dovuto essere svolta dalle stesse<br />

“forze della società civile”, che, pur per definizione apolitiche o prepolitiche, avrebbero dato<br />

l’esempio “contagioso” ai fini di tale formazione, nella misura in cui esse trovavano il proprio elemento<br />

identificativo nella volontà di “partecipazione” alla vita pubblica dell’Unione. La partecipazione<br />

era infatti, secondo il PE, già di per se stessa “una dimensione importante della cultura politica<br />

europea”, soprattutto nel senso appunto formativo del termine, dal momento che, comportando<br />

una <strong>cittadinanza</strong> <strong>attiva</strong> e dunque una nuova forma di democrazia partecipativa, avrebbe contribuito<br />

“a rivalutare il sistema democratico” nel suo complesso. A partire da questa così raggiunta “coscienza<br />

europea”, sarebbe stato allora possibile costruire un’autentica democrazia rappresentativa<br />

nell’Unione. Tale partecipazione avrebbe nel frattempo trovato la propria possibilità giuridica di realizzazione<br />

nell’”esercizio generale dei <strong>diritti</strong> di consultazione” riconosciuti alle forze della società<br />

civile, adeguatamente promosso dallo stesso PE. Tuttavia la piena realizzazione di tale partecipazione<br />

“al funzionamento del sistema comunitario” avrebbe dovuto comportare l’esercizio di essa già<br />

nel territorio nazionale (comprensivo dell’ambito locale e regionale) e con collegamenti transnazionali<br />

(previa la necessaria cooperazione del singolo Stato membro a tale sforzo), in una strutturazione<br />

eminentemente “glocale” di tale nuova dimensione, partecipativa, della democrazia europea.<br />

Quanto alle proposte vere e proprie della risoluzione, esse vertevano sui seguenti temi: 1) il “dibattito<br />

pubblico delle politiche dell’Unione”, 2) l’”informazione dei cittadini”, 3) il “diritto di espressione”<br />

e le “forme di consultazione e concertazione”, 4) la “rappresentanza dei cittadini”.<br />

In primo luogo la risoluzione riteneva infatti che “la <strong>cittadinanza</strong> europea sia indissociabile dal dibattito<br />

democratico” e dunque da un dibattito pubblico delle politiche dell’Unione. Tale dibattito<br />

avrebbe dovuto avere per suo oggetto i seguenti temi: a) il “modello sociale europeo”, b) il “patto<br />

per l’occupazione”, c) il “controllo democratico delle scelte di politica economica”, d) un “ampio<br />

dibattito pubblico sulle prossime importanti scadenze” ed e) una “conferenza annuale”.<br />

Per quanto riguarda la scelta del modello sociale europeo come tema privilegiato di tale dibattito<br />

pubblico, il PE così la motivava:<br />

“2. ritiene che l’Unione possa suscitare un desiderio di partecipazione solo se si afferma sia come unione sociale, sia<br />

come unione economica; che pertanto, tenuto conto delle prospettive dell’introduzione della moneta unica e<br />

dell’ampliamento, occorra definire senza ritardi le competenze sociali dell’Unione complementari a quelle degli Stati<br />

membri”, confermando la propria richiesta “dell’immediato inserimento nel trattato dei principi essenziali della Carta<br />

comunitaria dei <strong>diritti</strong> sociali fondamentali” e richiedendo anzi “di avviare una procedura specifica di dialogo tra le istituzioni<br />

comunitarie e i rappresentanti degli attori sociali in vista dell’attuazione concreta di questi <strong>diritti</strong> sociali”.<br />

Il risultato di tale dialogo sarebbe stato un patto per l’occupazione, basato su: a) la precisazione della<br />

competenza comunitaria in materia di occupazione, b) un’organizzazione dei mercati del lavoro<br />

che “deve al contempo renderli più flessibili e accrescere la solidarietà”; c) la riduzione del tempo


di lavoro; 220 d) un effettivo risultato positivo, quanto a incremento dell’occupazione, delle politiche<br />

monetarie e di bilancio e delle politiche strutturali; e) lo sviluppo di un Fondo europeo di investimenti;<br />

f) la creazione di un Comitato per l’occupazione quale sede di una concertazione annuale tra<br />

i ministri nazionali dell’economia e degli affari sociali e le parti sociali europee.<br />

Un potente ausilio in questo sforzo sarebbe stato un controllo democratico delle scelte di politica<br />

economica (operate da Commissione e Consiglio) da parte del PE.<br />

La risoluzione prevedeva peraltro che tale partecipazione dei cittadini fosse fin da allora estesa a un<br />

ampio dibattito pubblico sulle prossime importanti scadenze ossia il passaggio all’euro, la revisione<br />

delle prospettive finanziarie, l’ampliamento e il rafforzamento dell’Unione politica.<br />

Tale ampia dimensione del dibattito pubblico avrebbe dovuto avere anzi carattere permanente, attraverso<br />

una conferenza annuale, così strutturata:<br />

“10. ritiene indispensabile un regolare dibattito molto ampio su tutte le politiche dell’Unione, in modo da far partecipare<br />

i cittadini all’esame dei problemi comuni;<br />

11. reputa opportuno che a tale scopo si svolga ogni anno un dibattito in occasione di una tornata parlamentare speciale,<br />

con la partecipazione della Commissione e del Consiglio, sulle direttrici in materia di politica economica, dibattito che<br />

sia preceduto da una conferenza preparatoria del Parlamento Europeo con i rappresentanti del Comitato economico e<br />

sociale e del Comitato delle Regioni:<br />

12. ritiene necessario che detta conferenza sia preparata anche a livello nazionale secondo procedure democratiche scelte<br />

da ciascuno Stato membro”<br />

Condizione di tale dibattito pubblico doveva essere peraltro l’informazione dei cittadini, a proposito<br />

della quale la risoluzione precisava: a) un “principio generale”, b) la “corresponsabilità”, c) la “qualità<br />

dell’informazione” e d) la “valutazione delle politiche”.<br />

Il principio generale era il seguente:<br />

“14. sottolinea che il diritto all’informazione è indispensabile al buon funzionamento della democrazia […];<br />

15. precisa che occorre tener conto di altre dimensioni del diritto all’informazione, quali il diritto a una buona istruzione,<br />

alla condivisione del sapere, alla comunicazione tra i cittadini e tra questi ultimi e le istituzioni, che consenta a ciascuno<br />

di esercitare la propria capacità di giudizio”<br />

Richiamava inoltre alla corresponsabilità sia delle istituzioni comunitarie, sia degli stessi Stati<br />

membri, nell’obbligo di informazione sulla costruzione europea, riservando alle prime i seguenti<br />

compiti:<br />

“- vigilare alla trasparenza del funzionamento delle istituzioni politiche e dei sistemi peritali, nonché dell’attività delle<br />

lobby;<br />

- promuovere una politica di educazione civica iniziale e permanente specificamente europea;<br />

- fornire gli strumenti comuni di osservazione e valutazione necessari;<br />

- assicurare un miglioramento della conoscenza e dell’informazione, in particolare per i giovani, sulla storia dei vari<br />

Stati membri”<br />

Occorreva peraltro puntare pure a una qualità dell’informazione, attraverso i seguenti modi:<br />

“- incoraggiando la ricerca di convenzioni tra i mezzi di informazione, la Comunità e gli Stati membri, onde rendere più<br />

percebile la realtà della costruzione europea e promuovere il dibattito politico su quest’ultima; 221<br />

- rendendo disponibili i mezzi necessari a un’informazione statistica di qualità;<br />

220 Questa era stata l’oggetto della risoluzione del PE del 18 settembre 1996 “sulla riduzione e la riorganizzazione del<br />

tempo di lavoro”, che considerava come suo primo punto una “riduzione significativa della durata settimanale del lavoro”,<br />

che si concretizzerà, nel caso francese, nell’obiettivo delle 35 ore. Questa proposta, ripresa in Italia dall’estrema<br />

sinistra, ma rifiutata dal governo Prodi, avrà per conseguenza le dimissioni di quest’ultimo nell’ottobre 1998.<br />

221 Tale indicazione era forse la prima che, andando oltre il tema più propriamente “comunicativo” dell’informazione<br />

emessa dalle istituzioni, ravvisava nel coinvolgimento degli stessi mezzi d’informazione (privati) nella politica<br />

dell’informazione sulla costruzione europea il vero modo di conseguire gli obiettivi citati. Proprio la mancanza, soprattutto<br />

in Italia, di tale coinvolgimento ha sinora potentemente condizionato, in senso negativo, l’orientamento<br />

dell’opinione pubblica verso l’attenzione alla vita politica europea e quindi l’attivo interesse a essa.


- instaurando una rete di centri di informazione interistituzionale quanto più possibile decentrati e accessibili”<br />

Un’informazione davvero utile doveva riportare peraltro pure una valutazione delle politiche, intesa<br />

come “la raccolta e lo scambio di informazioni ottenute da molteplici fonti sugli effetti delle azioni<br />

comunitarie rispetto agli obiettivi perseguiti”. Tale valutazione doveva trovare il suo centro naturale<br />

nel PE e nella Commissione, di concerto con il CSE e il CR e con l’ausilio di “un istituto scientifico<br />

di esperti indipendenti”.<br />

Sulla base dell’informazione e del dibattito pubblico, i cittadini avrebbero poi potuto effettivamente<br />

partecipare alla vita politica dell’Unione in virtù del diritto di espressione e di forme di consultazione<br />

e concertazione.<br />

Il diritto di espressione era inteso dal PE come “il diritto di ogni cittadino e di ogni organizzazione<br />

rappresentativa di formulare e far conoscere il proprio parere, nonché di ricevere direttamente o indirettamente<br />

risposta”; il PE precisava anzi che tale diritto doveva poter essere esercitato “in ciascuno<br />

Stato membro e ciascuna regione presso le istituzioni pubbliche, i centri di informazione comunitari<br />

e le organizzazioni rappresentative, nonché in seno a reti di scambio transnazionali”, confermando<br />

così il carattere “glocale” di tale diritto.<br />

L’esercizio di esso avrebbe dovuto comportare soprattutto l’avvio effettivo del dialogo sociale e<br />

della consultazione. Il dialogo sociale tra le parti sociali sarebbe stato reso efficace infatti solo se inserito<br />

“nel quadro generale di una politica sociale che consenta ai due rami dell’autorità legislativa<br />

di svolgere pienamente il loro ruolo”, ovvero in quanto finalizzato a una consultazione delle parti<br />

sociali (eventualmente accordatesi tra loro) da parte del Consiglio e del PE nel corso della procedura<br />

legislativa. In questo senso si auspicava che “la consultazione delle associazioni che precede la<br />

presa di decisioni venga organizzata in modo da darvi un contenuto e un seguito reali”. Un ruolochiave<br />

in tale processo di consultazione avrebbero dovuto svolgere il CES (per le organizzazioni<br />

sociali) e il CR (per gli enti territoriali). Inoltre si chiedeva pure la costituzione e il riconoscimento<br />

del ruolo dei “comitati settoriali” organizzati a livello europeo ovvero di coordinamenti di associazioni<br />

operanti nel medesimo settore, al fine della loro consultazione a proposito di misure afferenti<br />

ai rispettivi ambiti d’interesse. Infine raccomandava agli Stati membri di “rimuovere gli ostacoli a<br />

un’ampia partecipazione” dei rappresentanti eletti (negli enti locali) e degli “interlocutori della società<br />

civile nel quadro dei partenariati territoriali e dell’applicazione dei Fondi strutturali”.<br />

A proposito di tale consultazione il PE così si esprimeva in tono perentorio:<br />

“31. invita pressantemente la Commissione e il Consiglio a prendere in considerazione, di concerto con questo Parlamento,<br />

i pareri espressi dai cittadini e dalle organizzazioni rappresentative degli interlocutori sociali e delle collettività<br />

territoriali e la risposta a essi come costitutivi di un obbligo di ascolto reale inerente al mandato loro conferito;<br />

32. precisa che questi pareri devono avere un carattere pubblico: in questo spirito, la loro sintesi sarà esaminata dalla<br />

conferenza annua e servirà d’appoggio a questo Parlamento nell’esercizio del suo potere di controllo”.<br />

Ci sarebbe stata in tal modo una duplice rappresentanza dei cittadini: la “rappresentanza eletta” e la<br />

“rappresentanza degli interlocutori sociali”.<br />

Per quanto riguarda la rappresentanza eletta ossia i membri del PE, la risoluzione confermava la<br />

proposta “di un modo di scrutinio che consenta di avvicinare gli eletti ai cittadini combinando, in<br />

ciascuno Stato in modo analogo, i principi di rappresentanza proporzionale e di circoscrizioni territoriali”<br />

(in funzione di un procedimento elettorale uniforme), nonché esigeva la riduzione della<br />

“prassi dei cumuli dei mandati e delle funzioni” (in direzione di un aumento delle incompatibilità) e<br />

infine l’elaborazione di “uno statuto comune del deputato europeo” (per l’omogeneità degli eletti).<br />

Infine auspicava che le direttive europee “ritrovino il loro carattere generale, lasciando sufficiente<br />

spazio alle misure di esecuzione nazionali”.<br />

Per quanto riguarda la rappresentanza degli interlocutori sociali, invece, il PE precisava:<br />

- “le istituzioni politiche debbono rispettare il principio di indipendenza degli interlocutori sociali e delle associazioni”;<br />

il ruolo di tali istituzioni era infatti quello “di offrire loro un quadro giuridico, capacità di informazione e accesso effettivo<br />

alle istituzioni”


- la proposta che “la composizione del Comitato economico e sociale tenga maggiormente conto dell’intera gamma<br />

delle associazioni sociali, ambientali e culturali”<br />

- la proposta “che d’ora in poi il processo legislativo tenga maggiormente conto dei pareri del Comitato economico e<br />

sociale e che quest’ultimo sia consultato più intensamente”<br />

- il far leva sul “diritto di associazione” come “aspetto essenziale della <strong>cittadinanza</strong> europea”, per concludere rapidamente<br />

il “progetto di statuto giuridico dell’associazione europea senza scopo di lucro”.<br />

La strategia complessiva di tale risoluzione del PE, molti contenuti della quale saranno ampiamente<br />

ripresi dal successivo trattato di Amsterdam, era quella di tentare di “rivalutare il sistema democratico”,<br />

partendo dall’esistente ovvero: il CES e il CR e i loro rispettivi rappresentati (parti sociali e<br />

interessi territoriali), il principio del “dialogo sociale” tra le parti sociali (riconosciuto dal trattato di<br />

Maastricht), l’acuto interesse per il problema della disoccupazione (comprensivo della questione<br />

della riduzione del tempo lavorativo), per “suscitare un desiderio di partecipazione”, nella misura in<br />

cui le istituzioni della CE ponessero tale dialogo sociale come premessa di una loro consultazione<br />

sistematica con le parti sociali in ordine all’avvio, allo svolgimento e alla conclusione di ogni procedura<br />

legislativa comunitaria nell’ambito di una nuova politica sociale dell’Unione. Se tale “esperimento”<br />

avesse avuto successo, tale sistema di partecipazione avrebbe potuto estendersi all’”intera<br />

gamma delle associazioni sociali, ambientali e culturali”, da rappresentare tutte nel CES, e venire<br />

formalizzato attraverso l’approvazione di un apposito “statuto giuridico dell’associazione europea<br />

senza scopo di lucro”. Il pieno sviluppo di tale dimensione partecipativa della democrazia europea<br />

avrebbe trovato quindi il suo momento supremo di saldatura con l’istanza della dimensione rappresentativa<br />

ossia il PE nell’istituto della “conferenza annuale” citata. In tal modo la nuova democrazia<br />

partecipativa, agente della “cultura politica europea”, avrebbe portato direttamente la società civile<br />

all’acquisizione di una “coscienza europea” ossia dell’indispensabile requisito per l’avvio di una<br />

piena democrazia rappresentativa.<br />

Lo sviluppo di quest’ultima era invece il tema dell’altra risoluzione del PE del 10 dicembre 1996<br />

“sulla posizione costituzionale dei partiti politici europei” (A4-0342/1996) (relatore: Dimitris Tsatsos).<br />

222 Essa muoveva dall’inserimento di questi ultimi nelle disposizioni del trattato di Maastricht,<br />

nonché dalle seguenti premesse:<br />

“A. considerando che la formazione della volontà politica a livello dell’Unione riguarda sempre di più questioni vitali<br />

della società europea, nonché direttamente i suoi cittadini e che è pertanto necessario un rafforzamento degli strumenti<br />

di partecipazione democratica dei cittadini alla formazione della politica dell’Unione,<br />

B. considerando che senza un sistema di partiti funzionante non è concepibile una democrazia forte, in grado di affrontare<br />

le difficoltà e caratterizzata da un’<strong>attiva</strong> partecipazione dei cittadini; che ciò vale anche a livello di Unione; che nella<br />

prospettiva dell’ampliamento i partiti politici europei offrono un’occasione unica all’integrazione della cultura politica,<br />

C. considerando che senza l’esistenza di partiti politici europei organizzati e attivi su scala transnazionale non si<br />

può parlare di una vera <strong>cittadinanza</strong> europea in grado di seguire, discutere e influenzare la formazione della volontà<br />

politica a livello europeo,<br />

D. considerando che la partecipazione dei partiti politici europei alla formazione della volontà politica a livello europeo<br />

avviene in modo complementare rispetto alla formazione della volontà in materia di politica europea in seno ai partiti<br />

attivi negli Stati dell’Unione; che in relazione alle competenze e ai poteri di questo Parlamento il campo d’azione dei<br />

partiti politici europei è complementare a quello dei gruppi politici costituiti al suo interno;<br />

E. considerando che solo attraverso l’iniziativa e la volontà di riforma nella vita dei partiti stessi si formerà una diversità<br />

pluralista di partiti politici europei attivi; che gli impulsi politici e una cornice adeguata, definita dall’Unione Europea,<br />

promuoverebbero in modo decisivo la crescita di una simile iniziativa democratica; che tale quadro deve essere molto<br />

ampio, affinché i partiti politici europei vi si possano sviluppare in un processo di trasformazione storica;<br />

F. considerando che i partiti politici europei dovranno in futuro poter essere finanziati mediante contributi provenienti<br />

da risorse comunitaria […],”<br />

In tali premesse veniva rilevata in modo molto netto l’esistenza di partiti politici europei come condizione<br />

necessaria dell’esistenza di un’effettiva <strong>cittadinanza</strong> europea. Posta infatti la presenza di<br />

una propria “coscienza europea”, il cittadino avrebbe potuto farla divenire effettiva “volontà politi-<br />

222 Dimitris Tsatsos è stato membro greco del PE nel gruppo del PSE dal 1994 al 2004.


ca a livello europeo” solo in presenza di una pluralità di partiti politici europei, che, con i loro diversi<br />

orientamenti e le loro diverse proposte in competizione tra loro, l’avrebbero indotto a scegliere,<br />

“aiutandolo” così a chiarire a se stesso il proprio orientamento e la propria volontà politica in<br />

senso europeo, e a determinare, insieme ad altri cittadini europei, al momento delle elezioni europee,<br />

la forza del proprio partito politico e più in generale, nell’esito complessivo di tali elezioni e nel<br />

rispetto del principio della maggioranza,, la volontà politica dei cittadini europei nel loro complesso.<br />

In tal senso i partiti politici europei sarebbero stati gli agenti dell’integrazione della cultura politica<br />

ovvero dell’avvento di una cultura politica in senso europeo, tesa a far maturare nei cittadini il<br />

desiderio di far sentire costantemente la propria volontà politica in tutti i settori di competenza comunitaria.<br />

E tanto più, nella misura in cui proprio il PE, eletto in tal modo, avrebbe a sua volta contribuito<br />

alla formazione della Commissione europea ovvero del “governo” della CE, responsabile<br />

anche di fronte al PE.<br />

I partiti politici europei, peraltro, non dovevano sostituire i partiti nazionali, né perciò gli stessi<br />

gruppi parlamentari del PE, bensì, in modo analogo al rapporto tra l’UE e gli Stati membri, sarebbero<br />

sorti come complemento della volontà dei partiti nazionali “in materia di politica europea” ossia<br />

nella misura in cui questi ultimi avessero maturato, dal proprio punto di vista nazionale, un interesse<br />

per la politica europea e quindi per un certo tipo di politica europea. Il riscontro di posizioni analoghe<br />

fra partiti nazionali di diversi Stati membri in materia di politica europea avrebbe determinato<br />

un naturale fenomeno di collegamento tra essi sino a dar luogo all’organizzazione di un vero e proprio<br />

partito politico unitario europeo.<br />

Tale processo e perciò la stessa effettiva pluralità dei partiti politici europei, quindi, non poteva dipendere,<br />

di per sé, se non dalla spontanea dinamica interna ai partiti nazionali. Tuttavia una certa<br />

“spinta” all’accelerazione di tale processo avrebbe potuto, e quindi dovuto, essere data dagli appropriati<br />

“impulsi politici” del Consiglio europeo e da “una cornice adeguata” ossia legislativa, varata<br />

da Commissione, Consiglio e PE. Il “quadro” legislativo così definito avrebbe dovuto essere abbastanza<br />

“ampio” ovvero duttile da permettere il pieno sviluppo dei partiti politici europei ossia la vera<br />

e propria metamorfosi “storica” dell’istanza politica suprema da nazionale a europea. Una volta<br />

maturata tale trasformazione, i partiti politici europei avrebbero avuto il diritto a finanziamenti pubblici<br />

europei ossia a carico dell’UE.<br />

Posta tale strategia, la risoluzione invitava l’UE “- a prescindere dai risultati della Conferenza intergovernativa<br />

–“ (e quindi confermando il carattere a lungo termine della sua proposta) a emanare i<br />

seguenti atti: a) “un regolamento quadro sulla posizione giuridica dei partiti politici europei” e b)<br />

“un regolamento sulle condizioni finanziarie dei partiti politici europei”. Rispetto a tale obiettivo la<br />

risoluzione intendeva porre, già fin da allora, degli orientamenti generali.<br />

Per poter beneficiare dei <strong>diritti</strong> statutari dei partiti politici europei, un’organizzazione politica avrebbe<br />

dovuto soddisfare ai seguenti requisiti:<br />

“a) pronunciarsi innanzitutto su temi di politica europea e di politica internazionale ed essere rappresentata al Parlamento<br />

Europeo o aspirare a una tale rappresentanza ovvero partecipare in altro modo comparabile alla formazione della volontà<br />

a livello europeo;<br />

b) essere strutturata in modo da poter esprimere la volontà politica dei cittadini dell’Unione;<br />

c) essere, per gli obiettivi e l’organizzazione, più di una semplice organizzazione di campagna elettorale o di una semplice<br />

organizzazione di sostegno di un gruppo politico e di lavori parlamentari;<br />

d) essere rappresentata in almeno un terzo degli Stati membri ed essere <strong>attiva</strong> a livello transnazionale”<br />

Una volta riconosciuto come tale, un partito politico europeo avrebbe dovuto “poter essere aperto<br />

alle singole adesioni” ossia all’iscrizione a esso del singolo cittadino dell’Unione, configurandosi<br />

così come un partito basato direttamente su una “platea” di cittadini europei.<br />

I partiti politici europei così riconosciuti avrebbero avuto i seguenti obblighi:<br />

“a) dotarsi di uno statuto organizzativo e di un programma politico di base ai quali i cittadini europei possano accedere;<br />

b) rispettare nel programma e nell’azione concreta i principi fondamentali di diritto costituzionale sanciti nel trattato<br />

sull’Unione Europea ossia democrazia, rispetto dei <strong>diritti</strong> umani e Stato di diritto;


c) concepire il loro statuto in modo che la volontà politica si formi secondo principi democratici e che tutti i cittadini<br />

dell’Unione che lo desiderino possano esprimere la loro volontà politica nel corso di tale processo”<br />

Tali partiti avrebbero avuto altresì i seguenti <strong>diritti</strong> da far valere sia di fronte all’UE, sia di fronte<br />

agli Stati membri:<br />

“a) il diritto di fondare liberamente un partito;<br />

b) la libertà generale di azione politica;<br />

c) il diritto alla parità di trattamento;<br />

d) il diritto di presentare candidati alle elezioni;<br />

e) la possibilità, al fine di garantirne la capacità d’azione, di ottenere la personalità giuridica in tutti gli Stati membri,<br />

secondo la forma giuridica che dovrà essere allo scopo stabilita”<br />

I partiti politici europei che avessero soddisfatto a tali obblighi e a cui fossero stati riconosciuti questi<br />

<strong>diritti</strong> dovevano poter beneficiare dei “contributi provenienti dalle risorse comunitarie”, i quali<br />

dovevano:<br />

“a) basarsi su un’autorizzazione espressa, conferita da un atto giuridico comunitario emanato a tal fine, ed essere riportati<br />

in modo specifico nel bilancio comunitario […];<br />

b) essere ripartiti secondo il principio della parità di opportunità, accordando ai partiti di recente costituzione una effettiva<br />

possibilità di riuscita e tenendo conto del numero di Stati membri in cui i partiti sono rappresentati;<br />

c) essere assegnati in vista dell’adempimento esclusivo della missione definita all’articolo 138 A del trattato CE [relativo<br />

ai partiti politici europei], al livello dell’Unione;<br />

d) essere subordinati all’obbligo per i beneficiari di rendere pubblica la propria situazione finanziaria; tale obbligo vige<br />

anche per tutte le altre entrate (per esempio, contributi dei membri, donazioni ecc.);<br />

e) creare per il beneficiario un incentivo finanziario a sviluppare la propria base sociale e a puntare a una maggiore autonomia<br />

finanziaria, determinando un equilibrio tra il finanziamento da parte dell’Unione e le risorse proprie del partito”<br />

Tornando all’immediato presente dell’epoca, esso trovava la sua espressione più importante nella<br />

riunione del Consiglio europeo di Dublino del 13-14 dicembre 1996. Essa infatti proclamava<br />

l’avvenuto riordinamento dei meccanismi di cambio all’interno dello SME e quindi l’effettiva preparazione<br />

dell’UE ad affrontare pienamente l’inizio, previsto per il 1° gennaio 1999, della terza e<br />

ultima fase dell’attuazione dell’UEM, che si sarebbe conclusa con la nascita della moneta<br />

dell’Unione ovvero dell’euro. 223 Ma si stabilivano pure delle misure per la CIG, che avrebbe dovuto<br />

concludere i suoi lavori ad Amsterdam nel giugno 1997: essa era invitata a concentrare sempre più<br />

la propria attenzione sui temi inerenti al settore della giustizia e degli affari interni,<br />

“al fine di rafforzare la capacità d’azione in materia di visti, asilo, immigrazione, attraversamento delle frontiere esterne,<br />

lotta contro il traffico di droga, lotta contro la criminalità organizzata - compresi il terrorismo, i reati contro i minori<br />

e la tratta degli esseri umani. L’Europol dovrebbe essere dotata di poteri operativi, agendo unitamente alle autorità nazionali<br />

a tal fine. Questi problemi costituiscono la più profonda preoccupazione dei cittadini di tutti gli Stati membri e<br />

l’Unione deve dotarsi dei mezzi che le consentano di agire efficacemente in questi settori.”<br />

In tal modo venivano ad aggiungersi i nuovi e attualissimi compiti (estremamente importanti quanto<br />

a una progressiva definizione dei <strong>diritti</strong> umani e della loro effettiva difesa) della lotta ai “reati contro<br />

i minori” (p.e. la pedofilia) e alla “tratta degli esseri umani” (connessa all’immigrazione illegale),<br />

da affrontare con nuovi mezzi, compresi quelli dell’attribuzione di “poteri operativi” (e non sol-<br />

223 A questa riunione i due Stati membri che avevano lasciato a suo tempo lo SME ossia il Regno Unito e l’Italia si presentavano<br />

con due ben diverse posizioni. Avvalendosi della propria facoltà di “deroga”, il Regno Unito aveva infatti<br />

comunicato, già il 16 ottobre 1996, la propria decisione ufficiale di non partecipare alla terza fase dell’unione economica<br />

e monetaria e quindi alla moneta unica, mentre l’Italia era appena reduce dal successo, costituito, grazie anche<br />

all’opera del ministro del tesoro Ciampi, dal ritorno, il 25 novembre 1996, della lira italiana nello SME, primo segno<br />

tangibile della nuova volontà politica di riscatto nazionale in atto (in direzione di un risanamento anche finanziario e<br />

quindi di un’autentica crescita economica), in un Paese che anzi conoscerà, entro quell’anno 1996, anche un sia pur effimero<br />

ritorno del PIL italiano al terzo posto in Europa.


tanto di raccolta e distribuzione d’informazioni) all’Europol, che sarebbe stata così messa in grado<br />

di svolgere indagini sul campo nel territorio di un singolo Stato membro (d’intesa con le forze<br />

dell’ordine pubblico nazionali). Ma la misura forse più significativa suggerita alla CIG era quella<br />

specifica sul tema dell’asilo:<br />

“Il Consiglio europeo chiede alla Conferenza di sviluppare l’importante proposta di modificare i trattati per stabilire<br />

chiaramente il principio che nessun cittadino di uno Stato membro dell’Unione può presentare domanda d’asilo in un<br />

altro Stato membro […]”<br />

Tale misura, una volta realizzata, avrebbe posto fine a un’altra delle prerogative dell’indipendenza<br />

dello Stato nazionale ossia a quella di avocare a sé la protezione di un cittadino di un Paese terzo rispetto<br />

alla giustizia di quest’ultimo. La soppressione di tale prerogativa, relativamente ai cittadini<br />

degli altri Stati membri dell’UE, era peraltro la condizione essenziale per la creazione dello “spazio<br />

giudiziario” comune perorato già dal Consiglio europeo di Firenze. 224<br />

In fine il Consiglio europeo di Dublino chiedeva, ancora una volta, alla CIG di “presentare una versione<br />

considerevolmente semplificata dei trattati”, precisando peraltro:<br />

“L’obiettivo dovrebbe essere quello di rendere i trattati più leggibili e più comprensibili ai cittadini dell’Unione e ciò<br />

senza rimettere in questione l’acquis dei trattati, mantenendo la struttura a pilastri, e senza ritardare l’esito della Conferenza.”<br />

In altri termini il Consiglio europeo, consapevole della vera intenzionalità politica del PE in tale richiesta,<br />

poneva in merito dei limiti ben precisi, esigendo che il “testo unico” semplificato non compromettesse<br />

né la pluralità dei trattati, né, a maggior ragione, la struttura a pilastri dell’UE (almeno<br />

per quanto riguarda la distinzione dei primi due pilastri, la CE e la PESC). Era il segno più chiaro di<br />

una decisa battuta d’arresto nei confronti degli obiettivi del PE.<br />

Come risposta a quest’ultima, il PE varava allora la risoluzione del 16 gennaio 1997 “sul quadro<br />

generale per un progetto di revisione dei trattati”, contenente una forte critica al progetto della presidenza<br />

irlandese della CIG. Anche nei confronti del progetto, pur migliorato, della successiva presidenza<br />

olandese della CIG, il PE adottava ben due risoluzioni, progressivamente meno critiche, la<br />

risoluzione del 13 marzo 1997 “sulla Conferenza intergovernativa” e la risoluzione dell’11 giugno<br />

1997 “sul progetto di trattato della presidenza olandese”. Tali tre risoluzioni del PE contribuivano<br />

perciò a un’evoluzione in senso più positivo dei lavori della CIG, sino all’esito conclusivo di<br />

quest’ultima.<br />

E finalmente, nel successivo Consiglio europeo di Amsterdam del 16-17 giugno 1997, veniva approvato<br />

il progetto di trattato emendativo dei trattati costitutivi, presentato dalla disciolta CIG. 225 La<br />

decisione più importante era peraltro l’approvazione di due risoluzioni “sulla stabilità, la crescita e<br />

l’occupazione” (allegato I alle conclusioni della Presidenza), la prima delle quali era quella “sul patto<br />

di stabilità e crescita”, contenente ferree misure per la convergenza effettiva delle economie degli<br />

Stati membri, quanto a finanze sane e sviluppo economico, in ordine all’appartenenza all’area euro,<br />

sia per l’entrata, sia per la permanenza in essa. 226<br />

224 Tale spazio sarebbe stato infatti funzionale anche alla lotta contro il terrorismo, impedendo, tra l’altro, che dei terroristi,<br />

cittadini di un certo Stato membro (p.e. l’Italia), richiedessero e ottenessero, accampando il pretesto di essere “perseguitati<br />

politici”, l’asilo e dunque la protezione legale, con il divieto di estradizione, presso un altro Stato membro (p.e.<br />

la Francia), come purtroppo era accaduto in misura consistente nei decenni precedenti.<br />

225 Una significativa novità nel campo dei <strong>diritti</strong> umani, introdotta in tale riunione, fu l’approvazione della<br />

“Dichiarazione del Consiglio europeo sul divieto della clonazione umana” (allegato IV alle conclusioni della Presidenza),<br />

nella quale si giustificava la necessità di tale divieto, in base al fatto che “la tutela dell'essere umano e il rispetto<br />

della sua integrità costituiscono principi essenziali ai quali non si può derogare”, dove sono da sottolineare l’attenzione<br />

sia all’”essere umano” in quanto tale (e non solo alla “persona”) ossia alla vita umana anche prima della nascita, sia<br />

all’”integrità” di esso ossia al fatto che non potesse essere minimamente menomato, neppure per la ricerca “ai fini del<br />

miglioramento della salute pubblica”.<br />

226 Il “patto di stabilità e crescita” era stato elaborato da Carlo Azeglio Ciampi, insieme al ministro delle finanze tedesco<br />

Theo Weigel e al capo del governo del Lussemburgo Jean-Claude Juncker.


Quanto all’approvazione del progetto di trattato, il PE dava una prima sommaria valutazione di<br />

quest’ultimo già con la risoluzione del 26 giugno 1997 “sulla riunione del Consiglio europeo di<br />

Amsterdam del 16 e 17 giugno 1997”, a proposito delle conclusioni della “Conferenza intergovernativa”.<br />

Nel quadro di un giudizio stavolta sostanzialmente positivo, si evidenziava peraltro che il<br />

PE:<br />

- “rileva, con riserva di un esame dettagliato del testo definitivo, che le revisioni del trattato concordate, pur comportando<br />

progressi in alcuni settori importanti, non assicurano quanto necessario in un certo numero di altri settori e non affrontano<br />

alcune questioni che devono essere definite prima dell’adesione di nuovi membri all’Unione”;<br />

- per quanto riguarda lo SLSG “deplora, tuttavia, il numero di decisioni da adottarsi all'unanimità, la mancanza di un<br />

adeguato controllo parlamentare e giudiziario, i complicati accordi tesi a inserire l'accordo di Schengen nel trattato e a<br />

conformare le posizioni di taluni Stati membri”;<br />

- “esprime in primo luogo la sua preoccupazione per la mancanza di un effettivo progresso nel processo decisionale nell'ambito<br />

della politica estera e di sicurezza comune, che consente tuttora di bloccare le decisioni e non precisa il ruolo e<br />

lo status dell'Alto rappresentante dell'Unione europea in questo settore”;<br />

- “resta dubbioso sul fatto che il nuovo quadro del trattato per la PESC e la politica di difesa, integrando le "missioni<br />

Petersberg" nel trattato, possa favorire progressi effettivi”;<br />

- “deplora che non sia stato possibile procedere verso un calendario vincolante per l'integrazione dell'UEO nell'UE”<br />

[…];<br />

- “manifesta la sua insoddisfazione per la revisione dell'articolo 113 concernente le relazioni economiche esterne e più<br />

specificamente per l'incapacità di giungere a una politica commerciale completa in presenza di un adeguato controllo<br />

parlamentare e per la minaccia nei confronti dell'efficacia di tale politica”;<br />

- “esprime il proprio disappunto per il fatto che le riforme istituzionali, in particolare l'estensione della votazione a<br />

maggioranza qualificata, non siano sufficienti per un futuro ampliamento […]”;<br />

- “deplora che non siano state recepite le proposte riguardanti la personalità giuridica dell'Unione”;<br />

- “si oppone al protocollo sulla sede delle istituzioni […]”;<br />

- “deplora che la necessità di un coordinamento delle politiche economiche non sia stata presa sufficientemente in considerazione<br />

nei grandi orientamenti delle politiche economiche sottoposti al Consiglio europeo […]”<br />

- per quanto riguarda il settore “giustizia e affari interni”: “è estremamente preoccupato, tuttavia, del deficit democratico<br />

causato non solo dal fatto che negoziati e accordi in questo settore rimangono interamente ed esclusivamente nelle<br />

mani dei governi, ma anche del fatto che non è stato chiarito quale Corte possa eventualmente esercitare controlli giudiziari”.<br />

III. Il Trattato di Amsterdam<br />

Infine i ministri degli esteri degli Stati membri procedevano alla firma, il 2 ottobre 1997, del<br />

trattato di Amsterdam, “che modifica il trattato sull’Unione Europea, i trattati che istituiscono<br />

le Comunità Europee e alcuni atti connessi”.<br />

Il Trattato di Amsterdam si presentava in primo luogo quanto mai voluminoso, per la semplice ragione<br />

che esso conteneva pure: a) una serie di “Protocolli”, b) l’“Atto finale” della CIG, c) una serie<br />

di “Dichiarazioni” e, soprattutto, d) le versioni consolidate dei due principali trattati costitutivi ossia<br />

di quello dell’Unione Europea e di quello della Comunità Europea, ben distinti, ma insieme coordinati<br />

tra loro nell’ambito di quel famoso “testo unico” semplificato, richiesto dallo stesso Consiglio<br />

europeo nel suo tentativo di fornire un’immagine unitaria dell’Unione Europea, pur nel mantenimento<br />

della struttura a pilastri di essa.<br />

Il Trattato di Amsterdam come tale, in quanto semplice trattato emendativo, mancava persino di un<br />

preambolo e si limitava a prevedere, nelle sue tre parti, rispettivamente: le “modifiche di merito”<br />

(artt. 1-5), la “semplificazione” (artt. 6-11) e le “disposizioni generali e finali” (artt. 12-15).<br />

La Parte prima, relativa alle “Modifiche di merito” conteneva le modifiche apportate rispettivamente<br />

al trattato dell’Unione Europea (art. 1), al trattato della Comunità Europea (art. 2), al trattato della<br />

CECA (art. 3), al trattato della CEEA (art. 4) e all’atto relativo all’elezione dei rappresentanti nel<br />

Parlamento Europeo a suffragio universale diretto (art. 5).<br />

Per quanto riguarda l’articolo 1 relativo alle modifiche apportate al trattato dell’Unione Europea, si<br />

prevedeva:<br />

1) per quanto riguarda il suo Preambolo:


a) l’inserimento del seguente nuovo punto 4:<br />

«CONFERMANDO il proprio attaccamento ai <strong>diritti</strong> sociali fondamentali quali definiti nella Carta sociale europea<br />

firmata a Torino il 18 ottobre 1961 e nella Carta comunitaria dei <strong>diritti</strong> sociali fondamentali dei lavoratori del 1989,» 227<br />

b) l’inserimento nel nuovo punto 7 dell’espressione: “tenendo conto del principio dello sviluppo sostenibile”<br />

228<br />

c) l’inserimento nel nuovo punto 10 dell’espressione “con l’istituzione di uno spazio di libertà, sicurezza<br />

e giustizia” 229<br />

2) per quanto riguarda il suo articolo B, l’inserimento delle espressioni:<br />

“- promuovere… un elevato livello di occupazione e pervenire a uno sviluppo equilibrato e sostenibile”,<br />

- conservare e sviluppare l'Unione quale spazio di libertà, sicurezza e giustizia in cui sia assicurata la libera circolazione<br />

delle persone insieme a misure appropriate per quanto concerne i controlli alle frontiere esterne, l'asilo, l'immigrazione,<br />

la prevenzione della criminalità e la lotta contro quest'ultima;<br />

3) per quanto riguarda l’articolo F, l’inserimento del seguente paragrafo:<br />

«1. L'Unione si fonda sui principi di libertà, democrazia, rispetto dei <strong>diritti</strong> dell'uomo e delle libertà fondamentali, e dello<br />

Stato di diritto, principi che sono comuni agli Stati membri.» 230<br />

4) l’inserimento di un nuovo articolo F.1, così formulato:<br />

«1. Il Consiglio, riunito nella composizione dei capi di Stato o di governo, deliberando all'unanimità su proposta di un<br />

terzo degli Stati membri o della Commissione e previo parere conforme del Parlamento europeo, può constatare l'esistenza<br />

di una violazione grave e persistente da parte di uno Stato membro dei principi di cui all'articolo F, paragrafo 1,<br />

dopo aver invitato il governo dello Stato membro in questione a presentare osservazioni.<br />

2. Qualora sia stata effettuata una siffatta constatazione, il Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata, può decidere<br />

di sospendere alcuni dei <strong>diritti</strong> derivanti allo Stato membro in questione dall'applicazione del presente trattato,<br />

compresi i <strong>diritti</strong> di voto del rappresentante del governo di tale Stato membro in seno al Consiglio. Nell'agire in tal senso,<br />

il Consiglio tiene conto delle possibili conseguenze di una siffatta sospensione sui <strong>diritti</strong> e sugli obblighi delle persone<br />

fisiche e giuridiche.<br />

Lo Stato membro in questione continua in ogni caso ad essere vincolato dagli obblighi che gli derivano dal presente<br />

trattato.<br />

3. Il Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata, può successivamente decidere di modificare o revocare le misure<br />

adottate a norma del paragrafo 2, per rispondere ai cambiamenti nella situazione che ha portato alla loro imposizione.<br />

4. Ai fini del presente articolo, il Consiglio delibera senza tener conto del voto del rappresentante dello Stato membro in<br />

questione. Le astensioni dei membri presenti o rappresentati non ostano all'adozione delle decisioni di cui al paragrafo<br />

1. Per maggioranza qualificata si intende una proporzione di voti ponderati dei membri del Consiglio interessati equivalente<br />

a quella prevista all'articolo 148, paragrafo 2 del trattato che istituisce la Comunità europea.<br />

Il presente paragrafo si applica anche in caso di sospensione dei <strong>diritti</strong> di voto a norma del paragrafo 2.<br />

5. Ai fini del presente articolo, il Parlamento europeo delibera alla maggioranza dei due terzi dei voti espressi, che rappresenta<br />

la maggioranza dei suoi membri.» 231<br />

227 In tal modo veniva confermata nel modo più ufficiale la costitutività della “dimensione sociale” dell’UE.<br />

228 In tal modo, attraverso l’inserimento del principio dello “sviluppo sostenibile”, veniva definita nel modo più ufficiale<br />

l’indissolubilità tra lo sviluppo economico da un lato e la protezione sociale e ambientale dall’altro lato.<br />

229 In tal modo, pur nel mantenimento della struttura a pilastri dell’UE, veniva fissata nel modo più ufficiale la creazione<br />

di uno “spazio di libertà, sicurezza e giustizia” (SLSG), che, reso necessario già in vista dell’effettiva “libera circolazione<br />

delle persone” in tutto il territorio dell’Unione, avrebbe comportato peraltro il superamento della CSGAI in una vera<br />

e propria “politica comune” nel settore della giustizia e degli affari interni, che avrebbe determinato a sua volta<br />

l’attribuzione all’Unione (proprio nel suo primo pilastro comunitario) di altre prerogative esterne dell’indipendenza già<br />

nazionale (ossia di tutte quelle relative al controllo delle frontiere esterne e alle norme sui cittadini di Paesi terzi).<br />

230 La sottolineatura che tali principi fossero “comuni agli Stati membri” non era una semplice constatazione di fatto,<br />

bensì il richiamo al loro dovere di condividerli, ai fini non solo dell’entrata nell’UE, ma anche della permanenza in essa<br />

(vedi oltre).<br />

231 In tal modo si stabiliva che i principi predetti dovevano essere rispettati non solo dalle istituzioni dell’UE, ma anche<br />

dallo stesso singolo Stato membro, pena la perdita dei propri <strong>diritti</strong> di voto pur nel mantenimento degli “obblighi” deri-


5) per quanto riguarda il suo titolo V (“Disposizioni sulla politica estera e di sicurezza comune”),<br />

veniva riscritto l’intero testo, le uniche novità del quale erano peraltro le seguenti:<br />

a) per l’articolo J.1:<br />

- l’inserimento, tra gli obiettivi della PESC, della difesa “dell’integrità dell’Unione” e del mantenimento della sicurezza<br />

internazionale anche in riferimento “alle frontiere esterne” 232<br />

b) per l’articolo J.2:<br />

- una più precisa gerarchia delle modalità di perseguimento degli obiettivi (in ordine decrescente d’importanza): “principi<br />

e orientamenti generali”, “strategie comuni” (nuova modalità), “azioni comuni”, “posizioni comuni”, “cooperazione<br />

sistematica”<br />

c) per l’articolo J.3:<br />

- il potenziamento del ruolo del Consiglio europeo, al quale veniva riservata la decisione in merito sia ai “principi e agli<br />

orientamenti generali” (compresi quelli della PESD), sia alle stesse “strategie comuni”, rivolte soltanto ai settori in cui<br />

gli Stati membri “hanno importanti interessi in comune”<br />

- la riduzione del ruolo del Consiglio all’attuazione di tali strategie comuni, attraverso l’adozione di “azioni comuni” e<br />

di “posizioni comuni”<br />

d) per l’articolo J.4:<br />

- la definizione di “azioni comuni”, come azioni che “affrontano specifiche situazioni in cui si ritiene necessario un intervento<br />

operativo dell’Unione”<br />

- la facoltà del Consiglio di richiedere (o no) alla Commissione una sua proposta in merito all’attuazione di un’azione<br />

comune già adottata (con la conferma dello scarso rilievo della Commissione nella PESC)<br />

e) per l’articolo J.5:<br />

- la definizione di “posizioni comuni”, come posizioni che “definiscono l’approccio dell’Unione su una questione particolare<br />

di natura geografica o tematica”<br />

f) per l’articolo J.7:<br />

- l’attribuzione al Consiglio europeo di ogni decisione in merito alla creazione di una eventuale “difesa comune”<br />

- l’attribuzione al Consiglio europeo di ogni decisione in merito a un’eventuale integrazione dell’UEO nell’Unione Europea,<br />

alla quale l’UEO “conferisce l’accesso ad una capacità operativa di difesa” e comunque “aiuta l’Unione nella definizione<br />

degli aspetti della politica estera e di sicurezza comune”<br />

- l’attribuzione agli stessi Stati membri della decisione di una eventuale “cooperazione nel settore degli armamenti”,<br />

come sostegno della progressiva definizione di una PESD<br />

- l’inclusione nell’ambito delle eventuali operazioni di difesa dei seguenti tipi di operazioni: “le missioni umanitarie e di<br />

soccorso, le attività di mantenimento della pace e le missioni di unità di combattimento nella gestione di crisi, ivi comprese<br />

le missioni tese al ristabilimento della pace”<br />

- il ricorso all’UEO per l’elaborazione e per l’attuazione di “decisioni e azioni aventi implicazioni nel settore della difesa”;<br />

vanti dall’appartenenza all’UE. Anche questa norma andava in direzione di una sostanziale perdita di quella prerogativa<br />

dell’indipendenza dello Stato nazionale, che consisteva nel darsi qualsiasi tipo di assetto costituzionale, istituzionale o<br />

politico preferisse; e difatti nessuna organizzazione internazionale né alcuna confederazione prevede o comunque pratica<br />

la disposizione qui menzionata. Questa era invece in qualche modo paragonabile a quella parte del XIV emendamento<br />

(tuttora in vigore), sezione 2, della Costituzione degli Stati Uniti d’America, che dice: “se il diritto di voto… è ristretto<br />

in qualsiasi modo, la base della rappresentanza di questo Stato sarà ridotta in proporzione…”.<br />

Approvato il 28 luglio 1868, all’indomani della guerra di Secessione, del varo del XIII emendamento (abolizione della<br />

schiavitù) del 1865 e della ribellione di diversi Stati ex-sudisti al riconoscimento dell’uguaglianza razziale assoluta, tale<br />

emendamento contiene, nella sua sezione 1, la seguente affermazione: “Tutte le persone nate o naturalizzate negli Stati<br />

Uniti o soggette alla loro giurisdizione sono cittadini degli Stati Uniti e dello Stato in cui risiedono. Nessuno Stato emanerà<br />

o darà vigore ad alcuna legge che riduca i privilegi e le immunità dei cittadini degli Stati Uniti…”, compresi i <strong>diritti</strong><br />

politici anche dei nuovi cittadini ossia degli ex-schiavi; nel caso d’inadempienza a questa norma sarebbe scattato il<br />

citato dispositivo presente nella sezione 2, che prevede una riduzione, proporzionata alla gravità della violazione, del<br />

numero dei membri della Camera dei Rappresentanti riservato a tale Stato. Il successivo XV emendamento (del 1870)<br />

avrebbe ribadito definitivamente che “il diritto di voto spettante ai cittadini degli Stati Uniti non potrà essere negato né<br />

limitato dagli Stati Uniti, né da alcuno Stato, per ragioni di razza o di precedente condizione servile.”<br />

La disposizione menzionata del trattato di Amsterdam era anche più severa, stabilendo la sospensione del diritto di voto<br />

per lo Stato in quanto tale in seno al Consiglio. In questo senso tale disposizione era dunque rivelativa della vera natura<br />

della nuova UE ossia di un’Unione politica di tipo federale.<br />

232 Veniva con ciò stabilito che la PESC avrebbe dovuto occuparsi pure dell’”integrità dell’Unione”, compresa la sicurezza<br />

delle sue “frontiere esterne”, prerogative tipiche dell’indipendenza propria dello Stato nazionale in relazione al<br />

proprio territorio e ai propri confini.


- il diritto di tutti gli Stati membri dell’UE a “partecipare a pieno titolo e in condizioni di parità alla programmazione e<br />

alle decisioni dell’UEO”<br />

g) per l’articolo J.8:<br />

- il conferimento al segretario generale del Consiglio delle funzioni di “Alto rappresentante” per la PESC<br />

- l’eventuale nomina di “un rappresentante speciale con un mandato per problemi politici specifici”<br />

h) per l’articolo J.9:<br />

- l’obbligo per gli Stati membri di difendere “le posizioni comuni” dell’UE nell’ambito delle organizzazioni internazionali<br />

e delle conferenze internazionali, a cui partecipano<br />

i) per l’articolo J.13:<br />

- la norma in base alla quale “le astensioni di membri presenti o rappresentati non impediscono l’adozione” delle decisioni,<br />

prese di regola all’unanimità nel campo della PESC, da parte del Consiglio<br />

- la norma in base alla quale, nel caso di un’astensione motivata con relativa dichiarazione formale, lo Stato membro<br />

“non è obbligato ad applicare la decisione, ma accetta che essa impegni l’Unione”, nonché la clausola in base alla quale<br />

“la decisione non è adottata” se in sede di Consiglio si registrano gli Stati membri con astensione motivata rappresentino<br />

più di un terzo dei voti<br />

- la previsione di deliberazioni a maggioranza qualificata (con soglia di 62 voti espressi da 10 membri) nei seguenti casi:<br />

1) adozione di azioni comuni, posizioni comuni o decisioni, prese comunque sulla base di una strategia comune; 2)<br />

adozione di decisioni relative all’attuazione di azioni comuni o posizioni comuni; nonché l’impossibilità della votazione<br />

nel caso di veto di uno Stato membro<br />

l) per l’articolo J.14:<br />

- l’obbligo del voto all’unanimità del Consiglio per l’autorizzazione della Commissione ad avviare negoziati per la conclusione<br />

di accordi internazionali in campo PESC e per la loro conclusione effettiva, nonché la clausola (estesa anche<br />

alla CSGAI) in base alla quale nessun accordo sarebbe stato vincolante per uno Stato che dichiarasse che tale accordo<br />

avrebbe dovuto conformarsi alle prescrizioni della propria procedura costituzionale<br />

m) per l’articolo J.16:<br />

- il ruolo dell’Alto rappresentante per la PESC: assistere il Consiglio nelle questioni della PESC, contribuendo alla formulazione,<br />

preparazione e attuazione delle decisioni politiche conducendo un dialogo politico con terzi<br />

n) per l’articolo J.17:<br />

- il diritto dei cittadini europei di accesso ai documenti della PESC<br />

- attribuzione anche delle spese operative a carico del bilancio comunitario, tranne quelle derivanti da operazioni militari<br />

o della difesa, da attribuire a carico degli Stati membri prendenti parte a esse in base a un criterio di ripartizione basato<br />

sul prodotto nazionale lordo.<br />

La nuova PESC definita dal trattato di Amsterdam era perciò caratterizzata da un notevole divario<br />

tra i suoi obiettivi, comprensivi persino del compito di difendere “l’integrità dell’Unione” e la sicurezza<br />

delle sue “frontiere esterne”, e i mezzi atti a conseguirli.<br />

Infatti la difesa comune, le nuove “operazioni” militari, l’integrazione dell’UEO nell’Unione, la politica<br />

di sicurezza e di difesa comune (PESD) e la stessa semplice “cooperazione nel settore degli<br />

armamenti” erano delle mere eventualità “futuribili”, dipendenti esclusivamente dagli Stati membri<br />

o al massimo dalle decisioni all’unanimità del Consiglio europeo. 233 A quest’ultima condizione sottostavano<br />

pure le adozioni dei principi e degli orientamenti generali, nonché delle nuove “strategie<br />

comuni” della stessa PESC.<br />

Al Consiglio restava la competenza unicamente di adottare azioni comuni o posizioni comuni.<br />

Se assunte al di fuori di qualsiasi strategia comune o comunque riguardanti accordi internazionali,<br />

esse avrebbero peraltro dovuto essere adottate all’unanimità. Il principio dell’astensione costruttiva<br />

nel caso di questo tipo di votazione era peraltro vanificato dal fatto che l’astensione motivata, che<br />

avrebbe consentito al singolo Stato membro di non applicare la decisione comune senza peraltro<br />

impedire fosse presa dall’Unione, sarebbe riuscita, nel caso fosse stata assunta da un numero di Stati<br />

membri assommanti più di un terzo dei voti, ad annullare la decisione comune stessa.<br />

Solo se assunte in base a una strategia comune, le azioni comuni o le posizioni comuni avrebbero<br />

potuto essere adottate con voto a maggioranza qualificata (con soglia rafforzata), ma anch’esso sarebbe<br />

stato vanificato appena uno Stato membro avesse manifestato la propria intenzione di opporsi<br />

a tale decisione (potere di veto) e dunque si era in presenza di un’opportunità praticamente inesistente.<br />

233 L’unica nota positiva a proposito della PESD era data dalla proclamazione del diritto di ogni Stato membro a prendere<br />

parte a operazioni militari di difesa (e non più soltanto a quelli facenti parte dell’UEO).


Inoltre, anche se effettivamente fossero state adottate azioni comuni o posizioni comuni o stati conclusi<br />

accordi internazionali, ogni Stato membro che avesse espressamente dichiarato le proprie riserve<br />

al proposito era in facoltà di non attenervisi.<br />

A tali condizioni il carattere vincolante per gli Stati membri dei principi e degli orientamenti generali,<br />

delle strategie comuni e soprattutto delle azioni comuni e persino delle posizioni comuni era<br />

francamente un pio desiderio, tutto fondato sul vero principio della PESC ossia sulla “lealtà” e sullo<br />

“spirito di solidarietà” tra gli Stati membri, che, essendo essi appunto Stati nazionali, avrebbe lasciato<br />

alquanto a desiderare alla prima prova dei fatti.<br />

La stessa questione di uno stabile riferimento unico dell’Unione per i Paesi terzi era stata lasciata<br />

cadere, in quanto il “capo” della PESC continuava a essere il presidente di turno (semestrale) del<br />

Consiglio. La stessa “nuova figura”, perorata dallo stesso Consiglio europeo, veniva anch’essa vanificata,<br />

in quanto l’effettiva nascita della figura dell’Alto rappresentante per la PESC era associata<br />

alla sua attribuzione a una figura già esistente ossia a quella dello stesso segretario generale del<br />

Consiglio; perciò lo stesso ruolo di tale nuovo Alto rappresentante per la PESC non era molto dissimile<br />

da quello di quest’ultimo ovvero di assistente della presidenza del Consiglio per le questioni<br />

appunto della PESC, nonché, solo subordinatamente e su esplicito mandato specifico, quello di<br />

condurre “un dialogo politico con terzi” (con un ruolo, se si vuol assumere un paragone con gli Stati<br />

Uniti, più da “consigliere per la sicurezza nazionale”, che da “segretario di Stato”).<br />

Infine, per quanto riguarda il rapporto della PESC con la CE, quest’ultima, nel mantenimento della<br />

struttura a pilastri dell’UE, continuava, a maggior ragione, a esser “lasciata fuori dalla porta”, come<br />

primo pilastro, dalle competenze del secondo pilastro ossia della PESC, con le uniche novità del diritto<br />

dei cittadini europei all’accesso ai documenti della PESC, nonché dell’attribuzione anche delle<br />

spese operative della PESC (ma non di quelle derivanti da operazioni militari o della difesa) a carico<br />

del bilancio comunitario e quindi del loro rientro nella procedura di bilancio comunitaria (con la<br />

necessità del consenso anche del PE per l’approvazione del bilancio).<br />

6) per quanto riguarda il suo titolo VI (“Disposizioni sulla Cooperazione di polizia e giudiziaria in<br />

materia penale”), veniva riscritto l’intero testo, le novità del quale erano le seguenti:<br />

a) per la stessa titolazione:<br />

- restava ancora in piedi anche il terzo pilastro dell’UE e sempre nella forma di una semplice cooperazione, ma stavolta<br />

ristretta alla Cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale (CPGMP), in quanto il resto dei temi della precedente<br />

CSGAI passava al primo pilastro ossia alla stessa CE<br />

b) per l’articolo K.1:<br />

- i rapporti tra la CE e la nuova CPGM erano basati sulla oggettiva convergenza delle loro rispettive competenze nel<br />

comune fine della costruzione del nuovo unico “Spazio di libertà, sicurezza e giustizia” (SLSG), a proposito del quale<br />

l’UE in quanto tale (e dunque anche nel suo ambito comunitario) avrebbe contribuito anche “prevenendo e reprimendo<br />

il razzismo e la xenofobia” [nella misura sufficiente a farli divenire un crimine penalmente perseguibile]<br />

- l’obiettivo specifico della CSGAI era quello di prevenire e reprimere la criminalità in quanto tale (non più soltanto internazionale<br />

od organizzata), con l’indicazione di nuovi ulteriori settori d’intervento rispetto alla vecchia CSGAI (tratta<br />

degli esseri umani, reati contro i minori, traffico illecito di armi, corruzione, frode), in quanto crimini penalmente perseguibili<br />

- le modalità di perseguimento di tale obiettivo erano le seguenti: a) cooperazione tra le forze di polizia e le autorità doganali<br />

degli Stati membri direttamente e tramite l’EUROPOL; b) cooperazione tra le autorità giudiziarie degli Stati<br />

membri; c) ravvicinamento delle normative nazionali in materia penale<br />

c) per l’articolo K.2:<br />

- l’azione comune nel settore della cooperazione di polizia (CP) comprendeva: 1) l’azione classica dell’EUROPOL di<br />

raccolta, archiviazione, trattamento e scambio di informazioni (nel rispetto della normativa sulla protezione dei dati personali),<br />

comprese le segnalazioni di transazioni finanziarie sospette; 2) formazione, scambio di ufficiali di collegamento,<br />

comando di funzionari, uso di attrezzature, ricerca in campo criminologico; 3) valutazione comune di tecniche investigative<br />

per le forme gravi di criminalità organizzata<br />

- l’agente principale della CP era la stessa EUROPOL, che, anzi, il Consiglio avrebbe dovuto, entro cinque anni<br />

dall’entrata in vigore del trattato di Amsterdam [ossia entro il 1° maggio 2004], mettere in grado di: 1) preparare, coordinare<br />

ed effettuare “specifiche azioni investigative”, svolte dalle autorità competenti degli Stati membri, comprese “azioni<br />

operative di unità miste cui partecipano rappresentanti di EUROPOL con funzioni di supporto”; 2) “condurre e<br />

coordinare le indagini delle autorità competenti degli Stati membri” e “sviluppare competenze specifiche che possono<br />

essere messe a disposizione degli Stati membri per assisterli nelle indagini relative a casi criminalità organizzata”; 3)


coordinare un prestabilito collegamento tra organi inquirenti (sia di magistratura, sia di polizia) specializzati nella lotta<br />

contro la criminalità organizzata; 4) avere a disposizione una rete di ricerca, documentazione e statistica sulla criminalità<br />

internazionale<br />

d) per l’articolo K.3:<br />

- l’azione comune nel settore della cooperazione giudiziaria in materia penale (CGMP) comprendeva: 1) cooperazione<br />

tra i ministeri competenti e le autorità giudiziarie degli Stati membri in relazione ai procedimenti e all’esecuzione delle<br />

decisioni; 2) facilitatazione dell’estradizione fra Stati membri; 3) garanzia della compatibilità delle normative applicabili<br />

negli Stati membri; 3) prevenzione dei conflitti di giurisdizione tra Stati membri; 4) fissazione di norme minime relative<br />

agli elementi costitutivi dei reati e delle sanzioni, per quanto riguarda la criminalità organizzata, il terrorismo e il<br />

traffico illecito di stupefacenti<br />

e) per l’articolo K.4:<br />

- possibilità che le autorità competenti di polizia e giudiziarie potessero operare nel territorio di un altro Stato membro<br />

(in collegamento e d’intesa con le autorità di quest’ultimo)<br />

f) per l’articolo K.6:<br />

- nel quadro della CPGMP, il Consiglio poteva adottare: 1) decisioni-quadro per il ravvicinamento delle disposizioni<br />

legislative e regolamentari degli Stati membri, vincolanti per questi ultimi quanto ai risultati da ottenere; 2) decisioni<br />

vincolanti; 3) stabilire convenzioni, che, una volta adottate anche solo dalla metà degli Stati membri, entrassero in vigore<br />

per detti Stati membri<br />

- per l’adozione delle misure necessarie per l’attuazione delle decisioni di cui al punto 2) le deliberazioni del Consiglio<br />

erano prese a maggioranza qualificata, con soglia stabilita a 62 voti favorevoli espressi da 10 membri<br />

g) per l’articolo K.7:<br />

- il principio chiaro che la Corte di giustizia delle CE “è competente” a pronunciarsi in via pregiudiziali a) sulla validità<br />

o sull’interpretazione delle decisioni-quadro e delle decisioni, b) sull’interpretazione di convenzioni stabilite nel quadro<br />

della CPGMP e sulla validità e c) sull’interpretazione delle misure di applicazione delle stesse<br />

- la facoltà, esercitabile dallo Stato membro in qualsiasi momento, di effettuare una dichiarazione di accettazione di tale<br />

principio, in virtù della quale ogni giurisdizione di tale Stato membro, sia nel caso in cui avverso le sue decisioni non<br />

potesse proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno sia direttamente, potesse chiedere alla Corte di giustizia di<br />

pronunciarsi in via pregiudiziale su una questione sollevata in un giudizio pendente davanti alla sua giurisdizione e concernente<br />

la validità o l’interpretazione di un atto della CPGMP<br />

- la competenza della Corte di giustizia a riesaminare la legittimità delle decisioni-quadro e delle decisioni nei ricorsi<br />

proposti (entro un termine di due mesi dalla pubblicazione dell’atto impugnato) da uno Stato membro o dalla Commissione<br />

per incompetenza, violazione delle forme sostanziali, violazione del trattato o di qualsiasi regola di diritto relativa<br />

alla sua applicazione ovvero per sviamento di potere<br />

- la competenza della Corte di giustizia a statuire su ogni controversia tra Stati membri concernente l’interpretazione o<br />

l’applicazione di atti adottati dalla CPGMP, nonché a statuire su ogni controversia tra Stati membri e Commissione<br />

concernente l’interpretazione o l’applicazione delle convenzioni stabilite dalla CPGMP<br />

h) per l’articolo K.11:<br />

- il diritto del Parlamento Europeo a venire consultato prima dell’adozione di qualsiasi atto del Consiglio in tema di<br />

CPGMP, con un termine di ostensione di tale parere di almeno tre mesi<br />

i) per l’articolo K.12:<br />

- la possibilità dell’autorizzazione del Consiglio (con voto a maggioranza qualificata con la soglia predetta) di una cooperazione<br />

rafforzata tra Stati membri in settori della CPGMP al “fine di consentire all’Unione di svilupparsi più rapidamente<br />

come spazio di libertà, sicurezza e giustizia”<br />

- il potere di veto del singolo Stato membro di opporsi a tale autorizzazione, che in tal caso non sarebbe stata messa ai<br />

voti<br />

l) per l’articolo K.13:<br />

- l’attribuzione anche delle spese operative della CPGMP a carico del bilancio comunitario<br />

m) per l’articolo K.14:<br />

- la possibilità che il Consiglio, con deliberazione all’unanimità, decidesse che un’azione in settori della CPGMP rientrasse<br />

nell’ambito del primo pilastro ossia comunitario<br />

Pur nel mantenimento della struttura a tre pilastri dell’UE, la nuova CSPGM era la vera novità della<br />

nuova versione del trattato sull’Unione Europea, sia perché, ristretta ormai ai soli settori della polizia<br />

e giudiziario in materia penale, era il segno della riconduzione di tutti gli altri aspetti della vecchia<br />

CSGAI all’ambito comunitario, sia per la sua dettagliata e ricca potenzialità.<br />

La convergenza tra CE e CPGMP era comunque assicurata dall’intento comune della costruzione<br />

dell’unico SLSG, rispetto alla quale l’UE nel suo complesso (quindi CE e CPGMP insieme) avrebbe<br />

dovuto provvedere a svolgere un’unica opera di prevenzione e di repressione del razzismo e della<br />

xenofobia, consistente nell’operazione della CE di farli divenire crimini penalmente perseguibili<br />

e della CPGMP di definirne esattamente gli elementi costitutivi e le relative sanzioni penali.


L’obiettivo specifico della CPGMP veniva insieme esteso alla lotta contro la criminalità in quanto<br />

tale (internazionale e non, organizzata e non), con l’indicazione di nuovi settori d’intervento nel<br />

campo della tratta degli esseri umani, dei reati contro i minori, del traffico illecito di armi, della corruzione<br />

e della frode.<br />

Le modalità del conseguimento di tale obiettivo erano date non solo dalle due cooperazioni, di polizia<br />

e giudiziaria in materia penale, svolte entrambe direttamente tra le autorità rispettivamente di<br />

polizia (compresi la polizia e le dogane) e giudiziarie degli Stati membri, ma anche, e soprattutto,<br />

dall’ambizioso e impegnativo compito del Consiglio del ravvicinamento delle normative nazionali<br />

in materia penale, che avrebbe prefigurato una sostanziale omogeneità europea dei <strong>diritti</strong> nazionali.<br />

Tale ravvicinamento avrebbe permesso al Consiglio di deliberare, con voto all’unanimità, il passaggio<br />

delle varie azioni della CPGMP all’ambito comunitario (la cosiddetta “passerella”) ovvero alla<br />

creazione di un diritto europeo (ossia dell’Unione) in materia di giustizia penale, che è sempre stata<br />

la più gelosa prerogativa interna dell’indipendenza dello Stato nazionale, in quanto coincidente con<br />

il potere di togliere la libertà di movimento al cittadino (il carcere). 234<br />

Per quanto riguarda la cooperazione di polizia (CP) il grande elemento di novità era costituito dal<br />

rilievo posto al ruolo dell’EUROPOL, che, oltre a costituire il centro di raccolta, archiviazione,<br />

trattamento (con protezione dei dati personali), analisi e scambio delle informazioni (comprese<br />

quelle su transazioni finanziarie sospette), avrebbe avuto il compito di presiedere a una formazione<br />

europea (e quindi omogenea) del personale di polizia, allo scambio di ufficiali di collegamento tra<br />

le polizie nazionali, al comando ovvero al distacco di funzionari nazionali presso l’Ufficio europeo<br />

di polizia, all’uso delle attrezzature più avanzate e alla ricerca in campo criminologico, nonché alla<br />

valutazione in comune delle tecniche investigative più adatte all’individuazione di forme gravi di<br />

criminalità organizzata. Ma la meta più ambiziosa era di pervenire a un ruolo operativo<br />

dell’EUROPOL, che avrebbe dovuto scattare entro cinque anni dopo l’entrata in vigore del trattato<br />

di Amsterdam (quindi entro il 1° maggio 2004), quando, a quella data, il Consiglio avrebbe già dovuto<br />

mettere l’Ufficio europeo di polizia in grado di organizzare “specifiche operazioni investigative”<br />

nel territorio degli Stati membri, comprese “azioni operative di unità miste” con la partecipazione<br />

di “rappresentanti dell’EUROPOL con funzioni di supporto” ossia non abilitati all’uso della<br />

forza, di “condurre e coordinare” le indagini delle polizie nazionali “su casi specifici”, di sviluppare<br />

“competenze specifiche” “nelle indagini relative a casi di criminalità organizzata”, di coordinare il<br />

collegamento tra gli organi inquirenti nazionali sia di magistratura sia di polizia specializzati nella<br />

lotta contro la criminalità organizzata e di controllare la futura “rete” di informazioni sulla criminalità<br />

transnazionale, rendendo così meno impropria la definizione dell’Ufficio europeo di polizia<br />

come una sorta di ufficio federale d’investigazione (FBI) europeo.<br />

Per quanto riguarda la cooperazione giudiziaria in materia penale (CGMP), si registravano novità<br />

ancora più notevoli, quali: una cooperazione tra i ministeri competenti e le autorità giudiziarie in<br />

ordine “ai procedimenti e all’esecuzione delle decisioni” ossia al mutuo riconoscimento dei rispettivi<br />

procedimenti giudiziari e perciò alla collaborazione nell’esecuzione delle rispettive decisioni<br />

giudiziarie; la conseguente facilitazione dell’estradizione fra Stati membri; la conseguente garanzia<br />

della compatibilità delle normative applicabili negli Stati membri; la conseguente prevenzione dei<br />

conflitti di giurisdizione tra Stati membri; e soprattutto la conseguente fissazione di norme minime<br />

relative agli elementi costitutivi dei reati e alle sanzioni per quanto riguarda la criminalità organizzata,<br />

il terrorismo e il traffico illecito di stupefacenti.<br />

La profondità di entrambe tali cooperazioni avrebbe comportato inoltre l’eventualità che le autorità<br />

competenti nazionali operassero nel territorio di un altro Stato membro in relazione al perseguimento<br />

di una persona sospetta di aver compiuto un reato nel proprio.<br />

234 In questo senso le ambizioni del trattato di Amsterdam andavano ben oltre la stessa realtà attuale di un’Unione federale<br />

a carattere nazionale come gli Stati Uniti d’America, dove la stessa pena di morte non solo è ammessa in linea di<br />

principio, ma insieme dipende dalla volontà del singolo Stato quanto alla sua effettiva assunzione e applicazione, con<br />

un’incredibile varietà di opzioni al riguardo, analoga a quella esistente tra il 1820 (“compromesso del Missouri“) e il<br />

1865 (XIII emendamento) a proposito della schiavitù.


Il Consiglio avrebbe provveduto a porre le basi legali di questa complessiva azione comune nei due<br />

settori della CPGMP attraverso l’adozione, all’unanimità, di: a) decisioni-quadro per il ravvicinamento<br />

delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri, vincolanti per questi ultimi<br />

quanto ai risultati da ottenere; b) decisioni, comunque vincolanti, con misure attuative votate a<br />

maggioranza qualificata (con la stessa soglia prevista per la PESC); c) convenzioni, da ratificare,<br />

ma che, in presenza della ratifica di almeno la metà degli Stati membri sarebbero entrate subito in<br />

vigore per questi ultimi.<br />

Altra novità era quella dell’espressa competenza della Corte di giustizia in materia di CPGMP, che<br />

faceva ricadere quest’ultima nell’ambito delle attribuzioni di un’istituzione comunitaria e quindi<br />

della CE. Tale riconoscimento era limitato soltanto dalla facoltà dello Stato membro di decidere autonomamente<br />

se e quando permettere, una volta per tutte, alle diverse istanze della giurisdizione nazionale<br />

di adire alla Corte di giustizia per gli atti della CPGMP.<br />

L’unica novità di rilievo concernente invece il Parlamento Europeo era data dall’obbligo di una<br />

preventiva sua consultazione su ogni atto da adottare nell’ambito della CPGMP.<br />

Inoltre anche per i settori della CPGMP era prevista la possibilità dell’adozione, a maggioranza<br />

qualificata, di una “cooperazione rafforzata” tra Stati membri all’espresso “fine di consentire<br />

all’Unione di svilupparsi più rapidamente come spazio di libertà, sicurezza e giustizia”. Tuttavia tale<br />

concessione era vanificata ancora una volta dal principio del potere di veto dello Stato membro,<br />

rendendo di fatto alquanto incerta la stessa possibilità di una cooperazione rafforzata in settori della<br />

CPGMP.<br />

Anche per la CPGMP infine valevano i principi comunitari dell’astensione costruttiva e della pubblicità<br />

dei documenti, nonché dell’attribuzione delle sue spese anche operative a carico del bilancio<br />

comunitario.<br />

7) veniva aggiunto un nuovo Titolo VI bis intitolato “Disposizioni su una cooperazione rafforzata”,<br />

contenente tutte le disposizioni relative a questo principio ormai ufficialmente inserito a pieno titolo<br />

nell’ambito del trattato di Maastricht, in quanto valido per qualsiasi pilastro dell’UE. Fra tali disposizioni<br />

spiccava la condizione del coinvolgimento in essa di almeno la maggioranza degli Stati<br />

membri, perché una cooperazione rafforzata potesse essere semplicemente proponibile.<br />

8) riscrittura del primo comma dell’articolo O, al fine di precisare che la stessa domanda di adesione<br />

di uno Stato europeo all’UE era presentabile solo alla condizione che esso rispettasse effettivamente<br />

i principi stabiliti all’articolo F (paragrafo 1) (vedi sopra).<br />

Per quanto riguarda l’articolo 2 del trattato di Amsterdam, relativo alle modifiche apportate al trattato<br />

della Comunità Europea, si prevedeva:<br />

1) per il Preambolo, l’aggiunta del seguente nono e ultimo punto:<br />

“DETERMINATI a promuovere lo sviluppo del massimo livello possibile di conoscenza nelle popolazioni attraverso<br />

un ampio accesso all'istruzione e attraverso l'aggiornamento costante,” 235<br />

2) per la parte I (“Principi”):<br />

- per l’articolo 2, l’inserimento dei seguenti punti (sottolineati) nella “missione” complessiva della<br />

CE:<br />

“La Comunità ha il compito di promuovere nell’insieme della Comunità, …, uno sviluppo…sostenibile delle attività<br />

economiche, …, la parità tra uomini e donne, …, un alto grado di competitività e di convergenza dei risultati economici,<br />

un elevato livello di protezione dell’ambiente ed il miglioramento della qualità di quest’ultimo,…”<br />

- per l’articolo 3, l’inserimento dei seguenti nuovi obiettivi della CE:<br />

235 Faceva così la sua comparsa nell’UE e proprio nell’ambito del primo pilastro comunitario l’affermazione più ufficiale<br />

e anzi solenne della promozione della conoscenza popolare attraverso l’istruzione e l’aggiornamento come una delle<br />

stesse finalità della CE.


“d) misure riguardanti l'ingresso e la circolazione di persone, come previsto dal titolo III bis;… i) la promozione del coordinamento<br />

tra le politiche degli Stati membri in materia di occupazione al fine di accrescerne l'efficacia con lo sviluppo<br />

di una strategia coordinata per l'occupazione; … 2. L'azione della Comunità a norma del presente articolo mira a eliminare<br />

le ineguaglianze, nonché a promuovere la parità, tra uomini e donne.<br />

- un nuovo articolo 3 C, su un obiettivo trasversale:<br />

“Le esigenze connesse con la tutela dell'ambiente devono essere integrate nella definizione e nell'attuazione delle politiche<br />

e azioni comunitarie di cui all'articolo 3, in particolare nella prospettiva di promuovere lo sviluppo sostenibile.”<br />

- un nuovo articolo 5 A, sulle cooperazioni rafforzate nell’ambito della CE, in cui si precisava: a)<br />

che esse non avrebbero potuto riguardare né settori rientranti “nell’ambito della competenza esclusiva<br />

della Comunità”, né “la <strong>cittadinanza</strong> dell’Unione”, b) che se un membro del Consiglio si fosse<br />

opposto alla votazione a maggioranza qualificata per l’autorizzazione, essa non avrebbe avuto luogo<br />

236 e c) che in tal caso la questione avrebbe potuto essere deferita alla formazione del Consiglio<br />

composta “di capi di Stato o di governo”. 237<br />

- un nuovo articolo 6 A, che recita testualmente:<br />

“Fatte salve le altre disposizioni del presente trattato e nell'ambito delle competenze da esso conferite alla Comunità, il<br />

Consiglio, deliberando all'unanimità su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento europeo,<br />

può prendere i provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l'origine etnica,<br />

la religione o le convinzioni personali, gli handicap, l'età o le tendenze sessuali.” 238<br />

- un nuovo articolo articolo 7 D, che recita testualmente:<br />

“Fatti salvi gli articoli 77, 90 e 92, in considerazione dell'importanza dei servizi di interesse economico generale nell'ambito<br />

dei valori comuni dell'Unione, nonché del loro ruolo nella promozione della coesione sociale e territoriale, la<br />

Comunità e gli Stati membri, secondo le rispettive competenze e nell'ambito del campo di applicazione del presente<br />

trattato, provvedono affinché tali servizi funzionino in base a principi e condizioni che consentano loro di assolvere i<br />

loro compiti.” 239<br />

3) per la parte II (“Cittadinanza dell’Unione”):<br />

- per l’articolo 8, l’aggiunta:<br />

236 Così veniva confermata per tutti e tre i pilastri dell’UE la norma che rendeva impugnabile da qualsiasi singolo Stato<br />

membro qualsiasi proposta di cooperazione rafforzata. In tal modo quest’ultimo istituto si rivelava quanto mai fantomatico<br />

e il ricorso a esso come alternativa a un blocco o a una paralisi dell’UE si rivelava quanto mai illusorio.<br />

237 Tale possibilità esisteva pure sia nella PESC, sia nella CPGMP, ma, mentre in questi due pilastri dell’UE il ricorso<br />

andava fatto al Consiglio europeo, qui andava fatto allo stesso Consiglio nella sua composizione di capi di Stato o di<br />

governo ovvero a una formazione identica (tolto il presidente della Commissione europea). Se da un lato ciò confermava<br />

l’assenza del Consiglio europeo dalle istituzioni della CE, dall’altro lato ciò portava peraltro a una fondamentale ambiguità<br />

fra l’unica istituzione dell’UE in quanto tale e tale formazione del Consiglio ossia di un’istituzione comunitaria.<br />

La controprova di tale ambiguità è data dal fatto che tuttora esiste un sito web per ciascuna istituzione comunitaria<br />

(compreso il Consiglio), ma non per il Consiglio europeo. Per esso esiste solo il sito web della sua Presidenza semestrale,<br />

che ufficialmente si chiama Presidenza dell’Unione Europea solo in quanto quello Stato membro è detto altrettanto<br />

ufficialmente avere la Presidenza del Consiglio dell’Unione Europea ossia del Consiglio in quanto tale. In altri termini:<br />

il Consiglio europeo non è nient’altro che la riunione del Consiglio (nella non ufficialmente prevista composizione di<br />

capi di Stato o di governo) e del presidente della Commissione europea.<br />

238 Per “provvedimenti opportuni” non si intendevano condanne morali o politiche (già ampiamente enunciate), bensì<br />

disposizioni di natura giuridica, legale, legislativa, tali da rendere le discriminazioni fondate su almeno qualcuno di questi<br />

motivi (la razza o l’origine etnica) veri e propri reati, anzi crimini, penalmente perseguibili. Una volta divenute tali,<br />

esse sarebbero state trattate dalla stessa CPGMP, in vista della definizione minima dei reati e delle sanzioni.<br />

239 Per “servizi di interesse economico generale” si intendono le attività commerciali che assolvono missioni d'interesse<br />

generale, p.e. nel campo dell’energia, dei servizi postali, dei trasporti e delle telecomunicazioni, ma anche della sanità,<br />

dell'istruzione e dei servizi sociali. Il senso di questo articolo era che tali servizi avrebbero dovuto essere messi comunque<br />

in condizione di funzionare bene ed essere fruibili per chiunque in tutto il territorio dell’UE, a prescindere sia dalle<br />

vicissitudini economiche del mercato unico, sia dalle particolari condizioni politico-istituzionali di uno Stato membro.<br />

Si trattava della più grande sfida per saldare la prevista unione economica e monetaria a una futuribile unione sociale.


“La <strong>cittadinanza</strong> dell’Unione costituisce un complemento della <strong>cittadinanza</strong> nazionale e non sostituisce quest’ultima.”<br />

- per l’articolo 8 D, l’aggiunta:<br />

“Ogni cittadino dell'Unione può scrivere alle istituzioni o agli organi di cui al presente articolo o all'articolo 4 in una<br />

delle lingue menzionate all'articolo 248 e ricevere una risposta nella stessa lingua.” [in una delle lingue ufficiali<br />

dell’UE]<br />

4) per la parte III (“Politiche della Comunità”):<br />

A) per il titolo III (“Libera circolazione delle persone, dei servizi e dei capitali”):<br />

a) per il capo 1 (“I lavoratori”):<br />

- la previsione di “un sistema che consenta di assicurare ai lavoratori migranti e ai loro aventi diritto: a) il cumulo di tutti<br />

i periodi presi in considerazione dalle varie legislazioni nazionali, sia per il sorgere e la conservazione del diritto alle<br />

prestazioni sia per il calcolo di queste, b) il pagamento delle prestazioni alle persone residenti nei territori degli Stati<br />

membri.”<br />

- la previsione di un “coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri<br />

relative all'accesso alle attività non salariate e all'esercizio di queste.” [per i lavoratori indipendenti, compresi i liberi<br />

professionisti]<br />

B) l’inserimento di un nuovo Titolo III bis (“Visti, asilo, immigrazione ed altre politiche connesse<br />

con la libera circolazione delle persone”) 240 , i cui punti salienti erano i seguenti:<br />

- l’articolo 73 I, sullo SLSG:<br />

“Allo scopo di istituire progressivamente uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia, il Consiglio adotta:<br />

a) entro un periodo di cinque anni a decorrere dall'entrata in vigore del trattato di Amsterdam [entro il 1° maggio 2004],<br />

misure volte ad assicurare la libera circolazione delle persone …, insieme a misure di accompagnamento direttamente<br />

collegate in materia di controlli alle frontiere esterne, asilo e immigrazione, …, nonché misure per prevenire e combattere<br />

la criminalità, …;<br />

b) altre misure nei settori dell'asilo, dell'immigrazione e della salvaguardia dei <strong>diritti</strong> dei cittadini dei paesi terzi, …;<br />

c) misure nel settore della cooperazione giudiziaria in materia civile, …;<br />

d) misure appropriate per incoraggiare e rafforzare la cooperazione amministrativa, …;<br />

e) misure nel settore della cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale volte ad assicurare alle persone un elevato<br />

livello di sicurezza mediante la prevenzione e la lotta contro la criminalità all'interno dell'Unione, in conformità<br />

alle disposizioni del trattato sull'Unione europea.” 241<br />

- l’articolo 73 J, sui visti:<br />

“Il Consiglio, …, entro un periodo di cinque anni a decorrere dall'entrata in vigore del trattato di Amsterdam [entro il 1°<br />

maggio 2004] adotta:<br />

1) misure volte a garantire, …, che non vi siano controlli sulle persone, sia cittadini dell'Unione sia cittadini di paesi<br />

terzi, all'atto dell'attraversamento delle frontiere interne;<br />

2) misure relative all'attraversamento delle frontiere esterne degli Stati membri, che definiscono:<br />

a) norme e procedure cui gli Stati membri devono attenersi per l'effettuazione di controlli sulle persone alle suddette<br />

frontiere;<br />

b) regole in materia di visti relativi a soggiorni previsti di durata non superiore a tre mesi, che comprendono:<br />

i) un elenco dei paesi terzi i cui cittadini devono essere in possesso del visto all'atto dell'attraversamento delle frontiere<br />

esterne e di quelli i cui cittadini sono esenti da tale obbligo;<br />

ii) le procedure e condizioni per il rilascio dei visti da parte degli Stati membri;<br />

240 Si trattava del risultato del trasferimento dei settori della vecchia CSGAI (tranne quelli della nuova CPGMP) al primo<br />

pilastro comunitario, con la conseguente integrazione degli accordi di Schengen nell’acquis comunitario. Nasceva<br />

così effettivamente l’”Europa senza frontiere”.<br />

241 Degno di nota è il tipo di presentazione di tale titolo. La libera circolazione delle persone era inserita come parte di e<br />

fatta dipendere dall’esistenza di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia, da costruire sia dalla CE in base al presente<br />

titolo, sia dalla CPGMP per quanto riguarda la lotta alla criminalità, secondo un complessivo approccio fortemente integrato.


iii) un modello uniforme di visto;<br />

iv) norme relative a un visto uniforme;<br />

3) misure che stabiliscono a quali condizioni i cittadini dei paesi terzi hanno libertà di spostarsi all'interno del territorio<br />

degli Stati membri per un periodo non superiore a tre mesi.” 242<br />

- l’articolo 73 K, sull’asilo e sull’immigrazione:<br />

“Il Consiglio, …, entro un periodo di cinque anni dall'entrata in vigore del trattato di Amsterdam [entro il 1° maggio<br />

2004] adotta:<br />

1) misure in materia di asilo, a norma della convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 e del protocollo del 31 gennaio<br />

1967, relativo allo status dei rifugiati, e degli altri trattati pertinenti, nei seguenti settori:<br />

a) criteri e meccanismi per determinare quale Stato membro è competente per l'esame della domanda di asilo presentata<br />

da un cittadino di un paese terzo in uno degli Stati membri,<br />

b) norme minime relative all'accoglienza dei richiedenti asilo negli Stati membri,<br />

c) norme minime relative all'attribuzione della qualifica di rifugiato a cittadini di paesi terzi,<br />

d) norme minime sulle procedure applicabili negli Stati membri per la concessione o la revoca dello status di rifugiato;<br />

2) misure applicabili ai rifugiati e agli sfollati nei seguenti settori:<br />

a) norme minime per assicurare protezione temporanea agli sfollati di paesi terzi che non possono ritornare nel paese di<br />

origine e per le persone che altrimenti necessitano di protezione internazionale,<br />

b) promozione di un equilibrio degli sforzi tra gli Stati membri che ricevono i rifugiati e gli sfollati e subiscono le conseguenze<br />

dell'accoglienza degli stessi;<br />

3) misure in materia di politica dell'immigrazione nei seguenti settori:<br />

a) condizioni di ingresso e soggiorno e norme sulle procedure per il rilascio da parte degli Stati membri di visti a lungo<br />

termine e di permessi di soggiorno, compresi quelli rilasciati a scopo di ricongiungimento familiare,<br />

b) immigrazione e soggiorno irregolari, compreso il rimpatrio delle persone in soggiorno irregolare;<br />

4) misure che definiscono con quali <strong>diritti</strong> e a quali condizioni i cittadini di paesi terzi che soggiornano legalmente in<br />

uno Stato membro possono soggiornare in altri Stati membri. 243<br />

Le misure adottate dal Consiglio a norma dei punti 3 e 4 non ostano a che uno Stato membro mantenga o introduca, nei<br />

settori in questione, disposizioni nazionali compatibili con il presente trattato e con gli accordi internazionali.<br />

Alle misure da adottare a norma del punto 2, lettera b), del punto 3, lettera a), e del punto 4 non si applica il suddetto<br />

periodo di cinque anni. [senza precise scadenze]”<br />

- l’articolo 73 L, sulle emergenze migratorie:<br />

“1. Il presente titolo non osta all'esercizio delle responsabilità incombenti agli Stati membri per il mantenimento dell'ordine<br />

pubblico e la salvaguardia della sicurezza interna.<br />

2. Qualora uno o più Stati membri debbano affrontare una situazione di emergenza caratterizzata dall'afflusso improvviso<br />

di cittadini di Paesi terzi e fatto salvo il paragrafo 1, il Consiglio può, deliberando a maggioranza qualificata su proposta<br />

della Commissione, adottare misure temporanee di durata non superiore a sei mesi a beneficio degli Stati membri<br />

interessati.” 244<br />

- l’articolo 73 M, sulla cooperazione giudiziaria in materia civile:<br />

“Le misure nel settore della cooperazione giudiziaria in materia civile che presenti implicazioni transfrontaliere, da adottare<br />

a norma dell'articolo 73 O e per quanto necessario al corretto funzionamento del mercato interno, includono:<br />

a) il miglioramento e la semplificazione:<br />

- del sistema per la notificazione transnazionale degli atti giudiziari ed extragiudiziali;<br />

- della cooperazione nell'assunzione dei mezzi di prova;<br />

- del riconoscimento e dell'esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, comprese le decisioni extragiudiziali;<br />

b) la promozione della compatibilità delle regole applicabili negli Stati membri ai conflitti di leggi e di competenza giurisdizionale;<br />

242 In tal modo la libera circolazione delle persone si estendeva ai cittadini di Paesi terzi, che anzi avrebbero goduto<br />

nell’intero territorio dell’UE anche della libertà di soggiorno per un periodo sino a tre mesi.<br />

243 Il trattato non escludeva dunque la possibilità che lo stesso permesso di soggiorno a tempo indeterminato in uno Stato<br />

membro fosse esteso all’intero territorio dell’UE.<br />

244 Il carattere strutturale del massiccio afflusso di immigrati clandestini negli Stati membri più meridionali (Grecia,<br />

Malta, Italia e Spagna) renderà tale norma del tutto inadeguata.


c) l'eliminazione degli ostacoli al corretto svolgimento dei procedimenti civili, se necessario promuovendo la compatibilità<br />

delle norme di procedura civile applicabili negli Stati membri.” 245<br />

- l’articolo 73 N, sulla cooperazione amministrativa:<br />

“Il Consiglio, …, adotta misure atte a garantire la cooperazione tra i pertinenti servizi delle amministrazioni degli Stati<br />

membri nelle materie disciplinate dal presente titolo, nonché tra tali servizi e la Commissione.”<br />

- l’articolo 73 O, sulle modalità di deliberazione:<br />

“1. Per un periodo transitorio di cinque anni dall'entrata in vigore del trattato di Amsterdam [sino al 1° maggio 2004], il<br />

Consiglio delibera all'unanimità su proposta della Commissione o su iniziativa di uno Stato membro e previa consultazione<br />

del Parlamento europeo.<br />

2. Trascorso tale periodo di cinque anni [dal 1° maggio 2004]:<br />

- il Consiglio delibera su proposta della Commissione; la Commissione esamina qualsiasi richiesta formulata da uno<br />

Stato membro affinché essa sottoponga una proposta al Consiglio;<br />

- il Consiglio, deliberando all'unanimità previa consultazione del Parlamento europeo, prende una decisione al fine di<br />

assoggettare tutti o parte dei settori contemplati dal presente titolo alla procedura di cui all'articolo 189 B e di adattare le<br />

disposizioni relative alle competenze della Corte di giustizia.<br />

3. In deroga ai paragrafi 1 e 2, le misure di cui all'articolo 73 J, punto 2, lettera b), punti i) e iii), successivamente all'entrata<br />

in vigore del trattato di Amsterdam [dal 1° maggio 1999], sono adottate dal Consiglio, che delibera a maggioranza<br />

qualificata su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento europeo;<br />

4. In deroga al paragrafo 2, le misure di cui all'articolo 73 J, punto 2, lettera b), punti ii) e iv), trascorso un periodo di<br />

cinque anni dall'entrata in vigore del trattato di Amsterdam [dal 1° maggio 2004], sono adottate dal Consiglio, che delibera<br />

secondo la procedura di cui all'articolo 189 B.”<br />

- l’articolo 73 P, sulla competenza, in merito, della Corte di giustizia:<br />

“1. L'articolo 177 si applica al presente titolo nelle seguenti circostanze e alle seguenti condizioni: quando è sollevata,<br />

in un giudizio pendente davanti a una giurisdizione nazionale avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale<br />

di diritto interno, una questione concernente l'interpretazione del presente titolo oppure la validità o l'interpretazione<br />

degli atti delle istituzioni della Comunità fondati sul presente titolo, tale giurisdizione, qualora reputi necessaria<br />

per emanare la sua sentenza una decisione su tale punto, domanda alla Corte di giustizia di pronunciarsi sulla questione.<br />

2. La Corte di giustizia non è comunque competente a pronunciarsi sulle misure o decisioni adottate a norma dell'articolo<br />

73 J, punto 1 in materia di mantenimento dell'ordine pubblico e salvaguardia della sicurezza interna.<br />

3. Il Consiglio, la Commissione o uno Stato membro possono chiedere alla Corte di giustizia di pronunciarsi sull'interpretazione<br />

del presente titolo o degli atti delle istituzioni della Comunità fondati sul presente titolo. La decisione pronunciata<br />

dalla Corte di giustizia in risposta a siffatta richiesta non si applica alle sentenze degli organi giurisdizionali<br />

degli Stati membri passate in giudicato.”<br />

- l’articolo 73 Q, sulle “deroghe” in merito per il Regno Unito, l’Irlanda e la Danimarca:<br />

“Il presente titolo si applica nel rispetto delle disposizioni del protocollo sulla posizione del Regno Unito e dell'Irlanda e<br />

del protocollo sulla posizione della Danimarca e fatto salvo il protocollo sull'applicazione di alcuni aspetti dell'articolo 7<br />

A del trattato che istituisce la Comunità europea al Regno Unito e all'Irlanda.”<br />

Quest’ultimo articolo rimandava ai seguenti punti fissati in vari Protocolli annessi al trattato:<br />

- gli accordi di Schengen diventavano parte integrante dell’”acquis” comunitario e perciò l’adesione all’”acquis” di<br />

Schengen diventava condizione per l’adesione all’UE da parte di ogni presente e futuro Stato candidato<br />

- all’”acquis” di Schengen venivano anzi “associati” i due Paesi terzi, membri del SEE, ossia Norvegia e Islanda<br />

- tuttavia veniva concessa una “deroga” dallo stesso “acquis” di Schengen, nonché dallo stesso titolo III bis del trattato<br />

CE (“Visti, asilo, immigrazione ed altre politiche connesse con la libera circolazione delle persone”), al Regno Unito e<br />

all’Irlanda, a motivo del rifiuto “temporaneo” del Regno Unito di aderirvi e della necessità per l’Irlanda di conformarsi<br />

a tale rifiuto britannico ai fini della conservazione della “zona di libero spostamento” esistente tra questi due Paesi<br />

245 Ciò significava il ravvicinamento delle legislazioni nazionali anche in materia civile.


- in conseguenza di tale “deroghe” britannica e irlandese gli altri 13 Stati membri erano “autorizzati” a instaurare tra loro<br />

una “cooperazione rafforzata” sull’”acquis” di Schengen (da estendere ovviamente a tutti i futuri Stati membri<br />

dell’UE)<br />

- la Danimarca, pur partecipando all’”acquis” di Schengen, otteneva anch’essa una “deroga” rispetto al citato titolo III<br />

bis del trattato CE, salvo per i “visti” (condizione minima per l’adesione a tale “acquis”), nonché la conferma della “deroga”<br />

già concessa rispetto alla PESD, che quindi sarebbe stata anch’essa oggetto soltanto di un’eventuale “cooperazione<br />

rafforzata”, a cui la Danimarca non si sarebbe opposta. 246<br />

C) l’inserimento di un nuovo Titolo VI bis (“Occupazione”), con i seguenti punti principali:<br />

- “Gli Stati membri e la Comunità, in base al presente titolo, si adoperano per sviluppare una strategia coordinata a favore<br />

dell'occupazione, e in particolare a favore della promozione di una forza lavoro competente, qualificata, adattabile<br />

e di mercati del lavoro in grado di rispondere ai mutamenti economici” (dall’articolo 109 N)<br />

- “Il Consiglio, previa consultazione del Parlamento europeo, istituisce un comitato per l'occupazione a carattere consultivo,<br />

al fine di promuovere il coordinamento tra gli Stati membri per quanto riguarda le politiche in materia di occupazione<br />

e di mercato del lavoro” (dall’articolo 109 S) 247<br />

D) l’inserimento di un nuovo Titolo VII bis (“Cooperazione doganale”), ad articolo unico (n. 116)<br />

E) per il titolo VIII (“Politica sociale ecc.):<br />

a) per il capo 1 (“Disposizioni sociali”), l’inserimento dei seguenti nuovi punti:<br />

- la menzione della “Carta comunitaria dei <strong>diritti</strong> fondamentali dei lavoratori del 1989” e perciò l’aggiunta, tra gli obiettivi<br />

sociali della CE, di: promozione dell’occupazione, protezione sociale adeguata, dialogo sociale, sviluppo delle risorse<br />

umane<br />

- le misure da prendere avrebbero dovuto tenere conto peraltro “della necessità di mantenere la competitività<br />

dell’economia”<br />

- l’inserimento dei seguenti nuovi settori d’intervento della CE ossia del Consiglio, con deliberazioni a maggioranza<br />

qualificata: condizioni di lavoro, informazione e consultazione dei lavoratori, integrazione delle persone escluse dal<br />

mercato del lavoro, parità tra uomini e donne<br />

- l’inserimento dei seguenti nuovi settori d’intervento della CE ossia del Consiglio, con deliberazioni all’unanimità: sicurezza<br />

sociale e protezione sociale dei lavoratori, protezione dei lavoratori in caso di risoluzione del contratto di lavoro,<br />

rappresentanza e difesa collettiva degli interessi dei lavoratori e dei datori di lavoro, compresa la cogestione, condizioni<br />

di impiego dei cittadini dei Paesi terzi che soggiornano legalmente nel territorio della Comunità, contributi finanziari<br />

volti alla promozione dell'occupazione e alla creazione di posti di lavoro<br />

- possibilità per lo Stato membro di affidare alle parti sociali, a loro richiesta congiunta, il compito di mettere in atto le<br />

direttive (la “concertazione”)<br />

- l’esclusione dalle competenze CE ossia del Consiglio di emanare direttive su: retribuzioni, diritto di associazione, diritto<br />

di sciopero, diritto di serrata<br />

- l’inserimento della seguente nuova redazione dell’articolo 118 A:<br />

“1. La Commissione ha il compito di promuovere la consultazione delle parti sociali a livello comunitario e prende ogni<br />

misura utile per facilitarne il dialogo provvedendo ad un sostegno equilibrato delle parti.<br />

2. A tal fine la Commissione, prima di presentare proposte nel settore della politica sociale, consulta le parti sociali sul<br />

possibile orientamento di un'azione comunitaria.<br />

246 Veniva quindi confermato nel modo più pieno che la facoltà di “deroga”, concessa ai tre Stati membri, entrati nella<br />

CE nel 1973, lungi dal dar luogo a un’eccezione temporanea e circoscritta a un solo settore, conduceva a una “norma”<br />

permanente ed estesa a sempre più numerosi e importanti settori, approfondendo sempre più il divario tra questi Stati<br />

membri, e in particolare il Regno Unito, e gli altri Stati membri dell’UE. La conseguenza incredibile di tale situazione<br />

era che l’altra facoltà delle “cooperazioni rafforzate”, lungi dall’essere spinta propulsiva all’accelerazione della realizzazione<br />

degli obiettivi degli stessi trattati, si riduceva invece a diventare la semplice misura compensativa a tali “deroghe”,<br />

necessaria a portare avanti il lavoro di “ordinaria amministrazione” all’interno dell’UE da parte degli altri Stati<br />

membri, dietro graziosa “concessione” da parte dei primi.<br />

247 In tale nuovo Titolo del trattato CE è ravvisabile il “luogo di nascita” delle successive politiche occupazionali degli<br />

Stati membri (compresa quella italiana), volte alla cosiddetta “flessibilità” del mercato del lavoro, come chiave di volta<br />

per coniugare sviluppo economico e crescita dell’occupazione nell’era della “globalizzazione”. Non a caso Marco Biagi,<br />

l’ispiratore dell’omonima legge italiana sull’occupazione ucciso dalle BR nel 2002, inizierà la sua attività di consulenza<br />

politica quale rappresentante italiano nel Comitato per l’occupazione dell’UE, di cui diverrà vicepresidente dal<br />

1999, e verrà nominato nel 2001 anche membro del Gruppo di alta riflessione sul futuro delle relazioni industriali, istituito<br />

dalla Commissione europea.


3. Se, dopo tale consultazione, ritiene opportuna un'azione comunitaria, la Commissione consulta le parti sociali sul<br />

contenuto della proposta prevista. Le parti sociali trasmettono alla Commissione un parere o, se opportuno, una raccomandazione.<br />

4. In occasione della consultazione le parti sociali possono informare la Commissione della loro volontà di avviare il<br />

processo previsto dall'articolo 118 B. La durata della procedura non supera nove mesi, salvo proroga decisa in comune<br />

dalle parti sociali interessate e dalla Commissione.”<br />

- la precisazione delle modalità del “dialogo tra gestione e lavoro a livello europeo, che può, se le due parti lo considerano<br />

desiderabile, condurre a relazioni basate su un accordo” (come già previsto dal trattato CE), secondo la seguente<br />

nuova redazione dell’articolo 118 B:<br />

“[…] 2. Gli accordi conclusi a livello comunitario sono attuati secondo le procedure e le prassi proprie delle parti sociali<br />

e degli Stati membri o, nell'ambito dei settori contemplati dall'articolo 118, e a richiesta congiunta delle parti firmatarie,<br />

in base ad una decisione del Consiglio su proposta della Commissione. […]” 248<br />

F) per il titolo X (“Sanità pubblica”), l’inserimento dei seguenti nuovi settori specifici d’intervento:<br />

- “a) misure che fissino parametri elevati di qualità e sicurezza degli organi e sostanze di origine umana, del sangue e<br />

degli emoderivati; […]<br />

b) ][…] misure nei settori veterinario e fitosanitario il cui obiettivo primario sia la protezione della sanità pubblica;<br />

c) misure di incentivazione destinate a proteggere e a migliorare la salute umana, ad esclusione di qualsiasi armonizzazione<br />

delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri.” 249<br />

5) per la parte V (“Le istituzioni della Comunità”):<br />

A) per il titolo I (“Disposizioni istituzionali”):<br />

a) per il Capo 1 (“Le istituzioni”), le seguenti innovazioni:<br />

- per la Sezione 1° (“Il Parlamento Europeo”):<br />

- il numero massimo dei suoi membri a 700<br />

- l’affidamento allo stesso PE del compito di elaborare un progetto di elezione del Parlamento Europeo “secondo una<br />

procedura uniforme in tutti gli Stati membri o secondo principi comuni a tutti gli Stati membri”<br />

- l’affidamento allo stesso PE del compito di stabilire “lo statuto e le condizioni generali per l'esercizio delle funzioni<br />

dei suoi membri”<br />

- per la Sezione 2° (“Il Consiglio”):<br />

- la pubblicità delle sue riunioni in veste di legislatore<br />

- per la Sezione 3° (“La Commissione”):<br />

- la necessità dell’approvazione del PE alla nomina del presidente della Commissione<br />

- l’obbligo dei commissari di seguire la linea politica del presidente<br />

b) per il Capo 2 (“Disposizioni comuni a più istituzioni”):<br />

- una semplificata procedura di codecisione legislativa (Consiglio a maggioranza qualificata e PE) (articolo 189 B)<br />

- un nuovo articolo (191 A) sul diritto di qualsiasi persona residente nell’UE ad accedere ai documenti del PE, del Consiglio<br />

e della Commissione<br />

248 La politica sociale dell’UE assumeva in tal modo un più ampio respiro. Ma soprattutto era l’intero impianto della<br />

procedura di decisione in politica sociale che mutava, tramite l’inserimento della clausola del necessario coinvolgimento<br />

diretto delle parti sociali a livello europeo, prima e durante la definizione delle iniziative legislative della Commissione.<br />

Si trattava della prima grande affermazione, negli stessi trattati costitutivi, della democrazia partecipativa europea<br />

assunta come base della stessa legislazione sociale europea. Nell’ambito di tale procedimento veniva poi data alle stesse<br />

parti sociali la possibilità di instaurare un dialogo diretto tra loro, teso all’individuazione di un accordo, che avrebbe dato<br />

molto più peso alla loro possibilità d’incidere sulla definizione della proposta legislativa e della sua trasformazione in<br />

direttiva europea.<br />

249 Tale inserimento rifletteva le preoccupazioni per il diffondersi di nuove malattie trasmesse attraverso il sangue<br />

(AIDS), la carne animale (BSE) e gli organismi vegetali OGM.


A proposito dell’intero dispositivo sulle “istituzioni”, veniva peraltro accluso al trattato di Amsterdam<br />

un Protocollo “sulle istituzioni nella prospettiva dell’allargamento dell’Unione Europea”, in<br />

cui si fissavano i seguenti punti:<br />

1) all’entrata in vigore del trattato (che sarebbe avvenuta il 1° maggio 1999) “la Commissione sarà composta da un cittadino<br />

di ciascuno Stato membro, a condizione che, entro tale data, la ponderazione dei voti in sede di Consiglio sia stata<br />

modificata, con l'introduzione di una nuova ponderazione dei voti o di un sistema di doppia maggioranza, in maniera<br />

accettabile a tutti gli Stati membri, tenendo conto di tutti i pertinenti elementi, in particolare prevedendo una compensazione<br />

per gli Stati membri che rinunciano alla possibilità di nominare un secondo membro della Commissione<br />

2) almeno un anno prima della nascita di un’UE a più di 20 Stati membri (perciò entro il 1° maggio 2003) “è convocata<br />

una conferenza dei rappresentanti dei governi degli Stati membri allo scopo di procedere ad un riesame globale delle<br />

disposizioni dei trattati concernenti la composizione e il funzionamento delle istituzioni.”<br />

Tale Protocollo tradiva la consapevolezza della stessa CIG riguardo all’insufficienza delle “disposizioni<br />

istituzionali” varate dal trattato di Amsterdam, rispetto alle esigenze poste dal futuro massiccio<br />

allargamento dell’UE.<br />

Ciò valeva in particolare per quanto riguarda la Commissione e il problema di conciliare insieme la<br />

sua efficienza e la sua rappresentatività nel quadro di un’UE a più di venti Stati membri. La stessa<br />

CIG indicava peraltro la possibile soluzione, prevedendo, già per l’entrata in vigore del trattato, una<br />

Commissione, dove ogni Stato membro avrebbe avuto effettivamente un commissario della propria<br />

nazionalità, ma non più di uno (nemmeno p.e. la Germania). Al fine di compensare tale perdita di<br />

“peso politico” da parte degli Stati membri di dimensioni maggiori, la stessa CIG poneva come<br />

condizione per tale nuova composizione della Commissione la preventiva definizione di un nuovo<br />

tipo di maggioranza in Consiglio, basato o su una nuova ponderazione dei voti (con un sensibile accrescimento<br />

del peso del voto degli Stati membri di maggiori dimensioni) o su una doppia maggioranza<br />

(di Stati membri e di popolazione). 250<br />

Il problema generale esigeva comunque, secondo la stessa CIG, l’avvio, almeno un anno prima del<br />

futuro massiccio allargamento dell’UE, di una successiva CIG, incaricata di approvare un trattato<br />

rivolto espressamente a “la composizione e il funzionamento delle istituzioni”. 251<br />

L’insoddisfazione per l’insufficienza delle nuove disposizioni istituzionali varate dal trattato di Amsterdam<br />

era ancora più accentuata in tre Stati membri, che firmavano una dichiarazione congiunta,<br />

acclusa allo stesso trattato, del seguente tenore:<br />

“Il Belgio, la Francia e l'Italia osservano che, sulla base dei risultati della Conferenza intergovernativa, il trattato di Amsterdam<br />

non risponde alla necessità, riaffermata al Consiglio europeo di Madrid, di progressi sostanziali sulla via del<br />

rafforzamento delle istituzioni. Questi Paesi considerano che un tale rafforzamento è una condizione indispensabile per<br />

la conclusione dei primi negoziati di adesione. Essi sono determinati a dare al protocollo sulla composizione della<br />

Commissione e la ponderazione dei voti tutto il seguito appropriato e considerano che un'estensione significativa del<br />

ricorso al voto a maggioranza qualificata fa parte degli elementi pertinenti di cui occorrerà tenere conto.” 252<br />

6) per la parte VI (“Disposizioni generali e finali”):<br />

- la previsione di un potenziamento di Eurostat (l’ufficio statistico europeo) per l’attuazione delle politiche dell’UE<br />

- “1. A decorrere dal 1° gennaio 1999 gli atti comunitari sulla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento<br />

dei dati personali nonché alla libera circolazione di tali dati si applicano alle istituzioni e agli organismi istituiti<br />

dal presente trattato o sulla base del medesimo.”, con la preventiva istituzione di un apposito “organo di controllo indipendente”<br />

(dall’art. 213 B)<br />

- un ripresa in sede di CE della procedura di sospensione dei <strong>diritti</strong> di voto a uno Stato membro per violazione dei principi<br />

fondamentali dell’UE, ulteriormente aggravata in proporzione della gravità della violazione<br />

250<br />

Già questa proposta avrebbe comportato l’avvio di una nuova CIG approdata al successivo trattato di Nizza.<br />

251<br />

La grandiosità di tale progetto avrebbe portato al varo di una preliminare Convenzione sul futuro dell’Europa e quindi<br />

alla prevista CIG e perciò al trattato, che si sarebbe nel frattempo “allargato” alle dimensioni di un “trattato costituzionale<br />

europeo”.<br />

252<br />

In tal modo l’Italia si ricollocava <strong>attiva</strong>mente nella sua tradizionale posizione di risoluta affermazione dell’effettivo<br />

sviluppo del processo d’integrazione europea.


Per quanto riguarda gli articoli 3, 4 e 5 del trattato di Amsterdam, si prevedevano analoghe modifiche<br />

rispettivamente al trattato Ceca, a quello CEEEA e all’atto del 1976 relativo all'elezione dei<br />

rappresentanti nel Parlamento europeo a suffragio universale.<br />

Per la Parte seconda (“Semplificazione”) del trattato di Amsterdam, si elencavano tutte le modifiche,<br />

anche verbali, ritenute necessarie a “sopprimere disposizioni obsolete” dei trattati costitutivi.<br />

In ultima analisi anche il trattato di Amsterdam, nell’atto stesso in cui rispondeva positivamente a<br />

una serie di esigenze, lasciava insoluti altri problemi, in questo caso quello più importante in vista<br />

dell’allargamento massiccio dell’UE ovvero “la composizione e il funzionamento delle istituzioni”,<br />

rinviando espressamente per la soluzione a una nuova CIG e quindi a un nuovo trattato. Tale continuo<br />

processo di revisione dei trattati costitutivi avrebbe tuttavia assunto (proprio per la mancata soluzione<br />

al problema di fondo delle “istituzioni” di fronte all’avvicinarsi dell’allargamento dell’UE)<br />

un ritmo sempre più frenetico, di molto superiore alle capacità di “assorbimento” da parte dei “cittadini<br />

europei”, e finendo così, paradossalmente, per conseguire l’effetto opposto a quello che si<br />

sperava raggiungere grazie a una soluzione del problema istituzionale, ovvero la progressiva paralisi<br />

dell’UE.<br />

In ogni caso, poche settimane dopo la firma del trattato di Amsterdam, il 30 ottobre 1997, il Regno<br />

Unito notificava ufficialmente la propria definitiva intenzione di non partecipare alla terza fase<br />

dell’UEM e quindi alla moneta dell’Unione ossia all’euro. 253<br />

Quanto al nuovo trattato, il PE prendeva posizione su di esso con la risoluzione del 19 novembre<br />

1997 “sul trattato di Amsterdam” (relatori: Iñigo Méndez de Vigo 254 e Dimitris Tsatsos). Stavolta il<br />

giudizio del PE sul nuovo trattato era molto positivo, riconoscendo i notevoli miglioramenti apportati<br />

al trattato di Maastricht. 255 E tuttavia, nella sua “valutazione complessiva”, il PE “lamenta<br />

l’assenza nel trattato di Amsterdam delle riforme istituzionali che occorrono per il funzionamento<br />

effettivo e democratico di un’Unione allargata e afferma che queste riforme dovrebbero essere<br />

completate prima dell’allargamento e al più presto possibile in modo da non ritardare le adesioni”.<br />

Per quanto riguarda i “principi” del trattato, il PE “lamenta, comunque, l’assenza di un preambolo<br />

del tipo di quelli usati in precedenti trattati per esprimere chiaramente una comune volontà politica<br />

tra le parti contraenti che dovrebbe essere diretta verso l’appartenenza a una Comunità […]”.<br />

Per quanto riguarda le “basi delle politiche dell’Unione”, il PE, molto preoccupato per le “deroghe”<br />

concesse ai soliti tre Stati membri rispetto allo SLSG, “fa appello ai governi di Danimarca, Irlanda e<br />

del Regno Unito di prender parte fin dalle prime fasi alle misure della Comunità in questo campo”.<br />

Per quanto riguarda i “temi istituzionali”, la risoluzione del PE avanzava le seguenti specifiche richieste:<br />

1) le seguenti riforme istituzionali da realizzare senza una precisa scadenza:<br />

253 Tale decisione finale britannica era motivata pure dal fatto che l’economia del Regno Unito stava rapidamente riprendendosi<br />

dalla crisi del 1992 e anzi, proprio entro quell’anno 1997, il PIL britannico avrebbe definitivamente superato<br />

il PIL italiano, ricollocandosi saldamente al terzo posto in Europa. Anzi la Gran Bretagna, grazie alla più avanzata<br />

adozione proprio della nuova politica UE per l’occupazione, fissata dal trattato di Amsterdam e dallo stesso Consiglio<br />

europeo immediatamente successivo alla sua firma (vedi oltre), conosceva il raggiungimento di un PIL, che già entro il<br />

1999 superava quello della stessa Francia, con un collocamento stabile dell’economia britannica al secondo posto in Europa.<br />

Questa situazione, prodottasi quindi già prima dell’adozione “pratica” dell’euro, avrebbe comportato, negli anni<br />

successivi a quest’ultima, la nascita di facili paragoni tra la dinamicità dell’economia britannica senza euro e la sclerosi<br />

dell’economia della zona euro. In realtà ciò che mancherà ad “Eurolandia” sarà una politica economica necessariamente<br />

comune condotta con la stessa risolutezza britannica.<br />

254 Iñigo Méndez de Vigo è dal 1992 membro spagnolo del PE nel gruppo del PPE.<br />

255 Nei richiami di ordine giuridico, comprovanti questo giudizio, la risoluzione affermava, tra l’altro: “richiamandosi<br />

alle opinioni delle organizzazioni non-governative che hanno risposto all’invito della Commissione sugli affari istituzionali<br />

e hanno preso parte alla seduta congiunta del 7 ottobre 1997 ,“. Il PE stava dunque proseguendo stabilmente, anche<br />

a trattato concluso, la propria opera di consultazione con le “associazioni” di cittadini, usando ormai la chiara espressione<br />

di “organizzazioni non-governative” (ONG), coinvolte stabilmente persino nel più delicato e onnicomprensivo<br />

settore politico ovvero in quello istituzionale. Era il trionfo, anche nell’ambito della sfera di riferimento del PE, della<br />

“dimensione partecipativa” della democrazia europea.


- “ogni emendamento dei trattati costitutivi deve essere soggetto al consenso del Parlamento e deve essere introdotto un<br />

nuovo metodo per preparare e adottare emendamenti del trattato” 256<br />

- “la procedura di codecisione deve essere estesa alle rimanenti aree di legislazione […]”<br />

- la compiuta assunzione, da parte della Commissione, dei propri compiti, da svolgere in prima persona, senza deleghe a<br />

funzionari<br />

- “l’Unione e le Comunità devono fondersi in un’unica personalità legale”<br />

- “gli accordi internazionali significativi devono essere soggetti al consenso del Parlamento”<br />

- una collaborazione alla pari, funzionale e democratica tra Consiglio e PE riguardo ai temi di bilancio<br />

- “deve essere definita l’attendibilità democratica della futura Banca Centrale Europea” 257<br />

- “deve essere elaborata una specifica Carta dei <strong>diritti</strong> fondamentali dell’Unione”<br />

- il controllo della Corte di giustizia su ogni “sospensione di certi <strong>diritti</strong> di uno Stato membro” (in presenza di “una violazione<br />

seria e persistente” dei principi generali dell’UE) prevista dal trattato CE emendato<br />

- “nell’area della politica sociale il Parlamento deve essere tenuto informato dei negoziati tra datori di lavoro e lavoratori<br />

e, quando gli accordi tra questi ultimi sono realizzati per mezzo di una decisione del Consiglio, devono essere soggetti<br />

al consenso del Parlamento”<br />

- una realizzazione risoluta del “progresso nel campo dell’uguaglianza tra uomini e donne”<br />

- l’estensione del voto a maggioranza qualificata alla sfera della “cultura”<br />

- il perfezionamento dei meccanismi per la solidarietà e la coesione economica, sociale e territoriale<br />

- la realizzazione delle disposizioni del trattato per l’ulteriore sviluppo di partiti politici europei<br />

- “il trattato EURATOM deve essere rivisto urgentemente, in particolare allo scopo di rimediare al deficit democratico<br />

nel suo funzionamento”<br />

- “lamenta che il trattato di Amsterdam ha determinato la sede del Parlamento Europeo senza il coinvolgimento di<br />

quest’ultimo”<br />

2) le seguenti riforme istituzionali da realizzare assolutamente prima del previsto allargamento:<br />

- riforma della ponderazione dei voti nel Consiglio e del numero dei membri della Commissione<br />

- l’assunzione del voto a maggioranza qualificata come la norma generale nel Consiglio<br />

- la restrizione del requisito dell’unanimità a decisioni di natura costituzionale (emendamenti al trattato, adesioni, decisioni<br />

sulle risorse proprie, procedura elettorale, “applicazione dell’articolo 308 (ex-235) CE” 258 )<br />

Per quanto riguarda, infine, la “strategia futura”, il PE sosteneva:<br />

- “il trattato di Amsterdam segna la fine di un’era storica, quando l’opera di unificazione europea poteva essere intrapresa,<br />

fase per fase, usando i metodi della diplomazia classica”<br />

- invece “la politica dovrebbe diventare la forza guida sottostante alla formazione della nuova Unione Europea” e “il<br />

Parlamento Europeo e i Parlamenti degli Stati membri dovrebbero svolgere un pieno ruolo a questo riguardo”<br />

- perciò “il Parlamento dovrebbe essere pienamente coinvolto nella prossima Conferenza intergovernativa”, in modo<br />

tale che “il trattato possa entrare in vigore solo con l’approvazione del Parlamento”.<br />

Nel suo complesso, tale risoluzione del PE si segnalava per una grande serenità e fiducia rispetto alle<br />

prospettive future. Nella riaffermazione decisa degli obiettivi fondamentali del superamento della<br />

struttura “a pilastri” dell’Unione attraverso il conferimento di una precisa “personalità legale” a<br />

quest’ultima e dell’elaborazione di “una specifica Carta dei <strong>diritti</strong> fondamentali dell’Unione” come<br />

motivo determinante del riconoscimento di tale “personalità legale”, la risoluzione focalizzava, peraltro,<br />

la sua attenzione sui traguardi immediati da raggiungere ovvero sulla già prevista CIG successiva,<br />

che avrebbe dovuto occuparsi delle “riforme istituzionali” più urgenti in vista<br />

dell’allargamento dell’UE.<br />

Ed è proprio in tale prospettiva che affiorava nel PE una nuova consapevolezza di se stesso e del<br />

proprio ruolo. Di fatto il PE era stato da sempre ossia almeno fin dal 1979 la vera “coscienza criti-<br />

256<br />

A questo proposito la risoluzione del PE osservava: “la recente Conferenza intergovernativa ha mostrato i limiti del<br />

metodo del negoziato diplomatico”.<br />

257<br />

A questo proposito la risoluzione del PE notava: “gli ulteriori poteri politici conferiti all’Unione dal trattato di Amsterdam<br />

sono troppo limitati per essere un valido accompagnamento per l’unione monetaria; […] di conseguenza c’è<br />

bisogno di focalizzare il più rapidamente possibile il modus operandi istituzionale dell’unione monetaria, in particolare<br />

l’attendibilità democratica”.<br />

258<br />

L’articolo in questione recita: “Quando un'azione della Comunità risulti necessaria per raggiungere, nel funzionamento<br />

del mercato comune, uno degli scopi della Comunità, senza che il presente trattato abbia previsto i poteri d'azione<br />

a tal uopo richiesti, il Consiglio, deliberando all'unanimità su proposta della Commissione e dopo aver consultato il<br />

Parlamento europeo, prende le disposizioni del caso.”


ca” del processo d’integrazione europea, fornendo, con chiara visione e paziente tenacia, precisi orientamenti<br />

persino allo stesso Consiglio europeo sulla strategia da assumere, e di fatto, pur con intoppi,<br />

ritardi, misconoscimenti, erano stati proprio questi indirizzi strategici a prevalere, punto per<br />

punto, nella concreta evoluzione di lungo periodo. Nel contempo quelli che sino ad allora erano stati<br />

i protagonisti assoluti della scena politica europea ossia il Consiglio europeo e anzi gli stessi governi<br />

degli Stati membri avevano mostrato sempre più i loro limiti nelle miopie e negli egoismi nazionali,<br />

emergenti soprattutto in occasione delle varie CIG.<br />

Ne derivava allora, per il PE, un nuovo ruolo di “regista” o di “cabina di regia” dello “spettacolo”<br />

europeo, dove sulla “scena” sarebbero comparsi ancora in prima persona e quindi da apparenti “protagonisti”<br />

soltanto i governi degli Stati membri nel loro ruolo di “attori” con le loro diverse personalità<br />

e i loro diversi caratteri e umori, di cui tener conto. Ma in questa “prova d’orchestra” il ruolo di<br />

“direttore” sarebbe stato svolto dallo stesso PE nella precisa consegna che comunque “lo spettacolo<br />

deve andare avanti”.<br />

La cifra di questa trasformazione era data, nell’UE, dal tramonto (quanto ad efficacia) della pur sapiente<br />

opera virtuosistica di “improvvisazione sul tema” tipica del metodo classico (usuale) dei negoziati<br />

diplomatici tra gli Stati membri, e viceversa dall’alba (necessaria) di un “nuovo” metodo,<br />

proprio del PE e degli stessi Parlamenti nazionali cooperanti con esso, ossia dell’articolata visione<br />

d’insieme di lungo periodo, caratteristica del procedimento autenticamente classico della “politica”,<br />

come attività “architettonica” (nel senso greco del termine) collocante ogni particolare solo nella<br />

logica dell’intero disegno complessivo e quindi dell’unitario scopo ultimo da perseguire, garantendo<br />

così la “solidità” dell’edificio ovvero la “solidarietà” tra gli Stati membri dell’UE. 259<br />

IV. Il “dirigismo” del Consiglio europeo e la “<strong>cittadinanza</strong> <strong>attiva</strong>”<br />

In vista dell’immediata applicazione della più urgente disposizione del trattato di Amsterdam, già<br />

poco dopo la sua firma si svolgeva il Consiglio europeo straordinario sull’occupazione di Lussemburgo<br />

del 20-21 novembre 1997, che adottava la nuova politica europea dell’occupazione secondo<br />

la citata linea della “flessibilità”, con nuove “parole d’ordine”, molte delle quali destinate a dominare<br />

le agende e le scene politiche nazionali (compresa quella italiana) per tutti gli anni successivi:<br />

“la sfida dell’occupazione: una nuova impostazione”, “un contesto economico favorevole”, “una strategia coordinata<br />

per le politiche nazionali dell’occupazione” (“un metodo innovativo”, “orientamenti per il 1998” [1) “migliorare<br />

l’occupabilità”: “affrontare la disoccupazione giovanile e prevenire la disoccupazione di lunga durata”, “passare dalle<br />

misure passive alle misure attive”, “promuovere un approccio improntato alla compartecipazione”, “agevolare il passaggio<br />

dal mondo della scuola al mondo del lavoro”; 2) “sviluppare l’imprenditorialità”; 3) “incoraggiare<br />

l’adattabilità delle imprese e dei loro lavoratori”: “modernizzare l’organizzazione del lavoro”, “sostenere<br />

l’adattabilità delle imprese”; 4) “rafforzare le politiche in materia di pari opportunità”: “affrontare il problema della discriminazione<br />

fra donne e uomini”, “conciliare lavoro e vita familiare”, “facilitare il reinserimento nella vita <strong>attiva</strong>”,<br />

“favorire l’inserimento dei portatori di handicap nella vita <strong>attiva</strong>”]), “politiche comunitarie al servizio dell’occupazione”<br />

(“mercato interno – concorrenza e competitività”, “regime fiscale”, “grandi reti”, “fondi strutturali”, “società della<br />

259 Il problema vero, da quel momento, sarebbe stato il “pubblico” ovvero gli stessi cittadini europei (dell’Unione). Il<br />

loro ruolo, infatti, non avrebbe potuto limitarsi a essere quello di una massa di “spettatori”, affascinati dagli attori sulla<br />

scena ossia dai capi di Stato o di governo degli Stati membri e tifanti chi per l’uno chi per l’altro, bensì si sarebbe dovuto<br />

trasformarlo in un pubblico “colto”, educato dalla “critica teatrale”, volta a considerare appunto la qualità complessiva<br />

dello spettacolo e quindi la regia di esso ossia gli indirizzi strategici suggeriti dal PE. Tali “critici teatrali” avrebbero<br />

dovuto essere gli stessi nuovi partiti politici europei, che, orientando i “gusti” del pubblico e catturando, chi più chi meno,<br />

il suo consenso, avrebbero guadagnato una corrispondente influenza nella cabina di regia ovvero nel PE, contribuendo<br />

con ciò alla creazione di una regia voluta, in ultima analisi, dallo stesso pubblico ossia a una legittimazione realmente<br />

democratica di un’effettiva vita politica dell’UE.


conoscenza”), “nuove iniziative specificamente orientate verso lo sviluppo dell’occupazione” (“piano d’azione della<br />

BEI”, “iniziativa europea a favore dell’occupazione”) 260<br />

Poco dopo aveva luogo la riunione, ordinaria, del Consiglio europeo di Lussemburgo del 12-13 dicembre<br />

1997, che decideva ufficialmente l’avvio del processo d’allargamento e adottava una risoluzione<br />

sul “coordinamento delle politiche economiche nella terza fase dell’UEM”, “sulla politica dei<br />

tassi di cambio e sulla posizione esterna e la rappresentanza della Comunità” e sul “dialogo tra il<br />

Consiglio e la BCE”.<br />

Infine il Consiglio europeo straordinario del 3 maggio 1998 decideva che 11 Stati membri (ossia i<br />

13 “disponibili”, meno la Grecia e la Svezia) soddisfacevano effettivamente le condizioni necessarie<br />

per l’adozione della moneta unica, fissata per il 1° gennaio 1999. 261 Di conseguenza venivano<br />

stabilite l’armonizzazione delle specifiche tecniche delle monete metalliche in euro e l’introduzione<br />

dell’euro, nonché le condizioni della fissazione dei tassi irrevocabili di conversione dell’euro.<br />

Sempre alla vigilia dell’imminente avvio della terza e ultima fase dell’UEM veniva istituita il 1°<br />

giugno 1998 la Banca centrale europea (BCE), con sede a Francoforte sul Meno, governata dal suo<br />

Comitato esecutivo, guidato dal suo presidente e dal suo vicepresidente.<br />

Di fronte a questo nuovo slancio dell’UE il Consiglio europeo di Cardiff del 15-16 giugno 1998 intendeva<br />

dargli nuovo impulso, prendendo posizione sui seguenti temi: 1) “l’Unione economica e<br />

monetaria”; 2) “riforma economica e finanze pubbliche sane: basi della crescita, della prosperità e<br />

dell’occupazione”, fornendo in merito le seguenti parole d’ordine: un’”elaborazione degli indirizzi<br />

di massima per le politiche economiche come strumento di crescita”, l’”azione a favore<br />

dell’occupazione”, “fare del mercato unico un motore per creare nuovi posti di lavoro”, “promuovere<br />

imprenditorialità e competitività” 262 ; 3) “un’Unione più vicina ai suoi cittadini”, con azioni a favore<br />

dell’”apertura”, dell’”ambiente”, nel settore “giustizia e affari interni” e in rapporto ai “problemi<br />

creati nel settore informatico dal passaggio all’anno 2000”; 5) infine il grande compito di<br />

“sviluppare l’Unione”.<br />

A quest’ultimo proposito il Consiglio europeo di Cardiff prendeva posizione sui seguenti punti: 1)<br />

la “preparazione dell’attuazione del trattato di Amsterdam”, già avviata; 2) l’”Agenda 2000” ossia il<br />

complesso di proposte della Commissione per le politiche essenziali e per il necessario quadro finanziario<br />

a medio termine, previsti per il primo decennio del secolo successivo: a) il “quadro finanziario”,<br />

in merito al quale, tuttavia, emergeva per molti aspetti un sostanziale disaccordo tra gli Stati<br />

membri; 263 b) la “riforma della politica agricola comune”; 264 c) la “riforma del Fondo di coesione e<br />

260 Tale scelta strategica dell’UE in materia di occupazione, che intendeva portare l’Unione ad affrontare con successo<br />

le sfide della “globalizzazione”, non sarà peraltro recepita positivamente non solo dai partiti politici di estrema sinistra<br />

(p.e. nel caso italiano della sfiducia parlamentare al governo Prodi il 9 ottobre 1998), portando anzi a una recrudescenza<br />

del terrorismo vecchio (p.e. delle BR italiane, con gli omicidi di D’Antona nel 1999 e dello stesso Biagi nel 2002) e<br />

nuovo (“anarchico-insurrezionalista”, p.e. gli scontri a margine della riunione del G7 a Genova nel 2001), ma nemmeno,<br />

a lungo andare, dalla stessa società civile, soprattutto negli Stati membri più fedeli al modello “pre-global”, come la<br />

Francia, dove il rifiuto della menzionata politica UE dell’occupazione sarà infatti uno dei motivi principali dell’esito<br />

negativo del referendum francese del 2005 sul TCE.<br />

261 Fra tali undici Stati membri fondatori di Eurolandia figurava pure l’Italia che, grazie a una strenua lotta contro il<br />

tempo per un risanamento finanziario sufficiente a soddisfare le condizioni poste da Bruxelles, riusciva così a ritornare<br />

pienamente all’avanguardia del processo d’integrazione europea. Protagonista di tale vittoria era stato Carlo Azeglio<br />

Ciampi, che, come ministro del tesoro, con una rigorosa politica di stabilità era riuscito ad abbassare efficacemente il<br />

deficit di bilancio, il tasso d’inflazione e la quota del debito pubblico dell’Italia.<br />

262 A questo proposito il Consiglio europeo di Cardiff insisteva molto sul concetto di “innovazione” tecnologica delle<br />

imprese, delle infrastrutture e dei servizi, con una strategia relativa che avrebbe assunto il nome di “processo di Cardiff”.<br />

263 Il centro di tali disaccordi verteva sulla ancora una volta “particolare” posizione britannica in tema di bilancio. Ancora<br />

negli anni Ottanta la quasi totalità (80%) delle spese UE andava a favore della PAC (politica agricola comune), di<br />

cui, per ragioni strutturali, l’economia britannica non beneficiava in grande misura, al contrario di quella francese. Nel<br />

1984, con un PIL britannico che stava per scendere al quarto posto in ambito CEE, la Gran Bretagna aveva perciò chiesto,<br />

e ottenuto, un ribasso o sconto di bilancio annuale, consistente nella retrocessione al Regno Unito di due terzi della<br />

somma costituente l’eccedenza degli introiti di provenienza britannica all’UE rispetto ai finanziamenti UE diretti in<br />

Gran Bretagna. Tale prima “deroga” sui generis a favore del Regno Unito, lungi dall’essere temporanea, si sarebbe rive-


dei Fondi strutturali” 265 ; 3) “il futuro dell’Europa”, con l’impegno, una volta ratificato il trattato di<br />

Amsterdam, di “una rapida decisione sulle modalità e sui tempi per affrontare le questioni istituzionali”;<br />

4) l’”allargamento”, con la conferma della procedura ormai avviata, basata sul rispetto dei<br />

“criteri di Copenhagen” da parte dei Paesi candidati.<br />

Dal canto suo, il PE procedeva, invece, con molta più prudenza, all’attenta verifica dell’effettiva<br />

possibilità di applicazione del trattato di Amsterdam con l’adozione di tre risoluzioni, approvate una<br />

il 15 luglio 1998 e le altre due nel giorno successivo, il 16 luglio 1998, e tutte strettamente connesse<br />

tra loro, in quanto vertenti tutte sul tema generale delle procedure atte a far avanzare l’integrazione<br />

europea.<br />

La prima era la risoluzione del 15 luglio 1998 “sull’elaborazione di un progetto di procedura elettorale<br />

contenente principi comuni per l’elezione dei membri del Parlamento Europeo”. Ultimo anello<br />

di una lunga catena di tentativi di risolvere la ventennale questione di una “procedura elettorale uniforme”<br />

del PE, 266 questa risoluzione era tanto più importante in relazione ai cospicui poteri conferiti<br />

al PE dal trattato di Amsterdam. Essa proponeva dunque:<br />

1) le misure che avrebbero dovuto essere oggetto di specifiche disposizioni del Consiglio:<br />

- il sistema proporzionale come unico sistema elettorale del PE;<br />

- la ripartizione del territorio di ogni Stato membro con oltre 20 milioni di abitanti in circoscrizioni elettorali europee,<br />

con decorrenza dalle elezioni europee del 2004; con l’avvertenza che i membri del PE eletti in una circoscrizione sono i<br />

rappresentanti non di essa, bensì “dei popoli degli Stati riuniti nella Comunità”;<br />

- la possibilità di una soglia minima per la ripartizione dei seggi, comunque non superiore al 5% dei suffragi espressi;<br />

- la possibilità del voto di preferenza;<br />

- l’assegnazione di una determinata percentuale del totale dei seggi a una circoscrizione unica formata dal territorio<br />

degli Stati membri dell’UE (ossia a una sorta di collegio elettorale unico europeo), con disposizioni applicative da adottare<br />

entro il 1° gennaio 2008 e con decorrenza dalle elezioni europee del 2009; 267<br />

- l’incompatibilità del mandato di membro del PE con quello di membro del Parlamento nazionale;<br />

2) ulteriori misure proposte:<br />

- il rispetto da parte del singolo partito politico della parità uomo/donna nella lista elettorale;<br />

lata, come tutte quelle successive, permanente. Così, anche di fronte a una PAC, la cui incidenza sulle spese UE era scesa<br />

o stava per scendere al 45%, e a un PIL britannico che stava per salire al secondo posto in ambito UE, il Regno Unito<br />

si dimostrava irremovibile nel pretendere il mantenimento di uno “sconto”, che, proprio in ragione dello sviluppo sempre<br />

più forte della propria economia, aumentava di entità, drenando preziose risorse necessarie al sostegno finanziario<br />

delle ambiziose politiche comunitarie future. Questa posizione britannica sarà mantenuta anche negli anni successivi,<br />

minacciando la realizzazione degli obiettivi dei trattati e approfondendo ulteriormente il divario politico di tale Paese<br />

rispetto alla posizione ufficiale dell’UE.<br />

264<br />

La riforma della PAC era associata al quadro finanziario in ragione del suo ancora eccessivo peso rispetto al totale<br />

dei finanziamenti UE, tanto più stonato di fronte all’emergere, alla vigilia del terzo millennio, di “priorità” ben maggiori<br />

nel quadro dello sviluppo produttivo ed economico dell’UE (come p.e. la ricerca scientifica e tecnologica). Tuttavia le<br />

buone ragioni di una riduzione del peso finanziario della PAC si scontravano qui con il veto di un altro Stato membro<br />

ossia della Francia, tradizionalmente legata a una forte agricoltura potentemente sovvenzionata dalla CE. Anche questa<br />

posizione francese sarà mantenuta pure negli anni successivi, contribuendo, assieme alla posizione britannica sullo<br />

sconto di bilancio, all’aggravamento del problema delle risorse finanziarie dell’UE e quindi alla difficoltà di realizzare<br />

ambiziose politiche comunitarie.<br />

265<br />

A questo proposito esisteva il duplice problema, specifico, del criterio di scelta, delle priorità e della ripartizione, e<br />

generale, dell’affidabilità dei destinatari, collegato a sua volta al tema della lotta contro la frode, se non contro la stessa<br />

corruzione.<br />

266<br />

Già l’Atto relativo del 1976 aveva previsto che il PE elaborasse un progetto di “procedura elettorale uniforme” in<br />

tutti gli Stati membri e infatti il PE aveva avanzato una proposta in merito con la sua risoluzione del 10 marzo 1982,<br />

non recepita. In seguito all’Atto unico, il PE aveva avanzato una sua nuova proposta con la risoluzione del 10 ottobre<br />

1991, ugualmente non recepita. In seguito al trattato di Maastricht, il PE aveva adottato una nuova specifica risoluzione<br />

il 10 giugno 1992, anch’essa non recepita. A questo punto lo stesso PE, con la sua risoluzione del 10 marzo1993, aveva<br />

proposto di rinunciare al progetto di una vera e propria procedura elettorale uniforme, per puntare piuttosto<br />

all’elaborazione di una serie di “principi comuni a tutti gli Stati membri”. Tale possibilità era stata recepita dal trattato<br />

di Amsterdam, come alternativa a quella, ugualmente prevista, della procedura uniforme. Di conseguenza il PE con<br />

questa risoluzione intendeva procedere alla concreta elaborazione di tali “principi comuni”.<br />

267<br />

A questa originale proposta il PE attribuiva la seguente motivazione: ”nell’ottica di una coscienza politica europea<br />

e dello sviluppo di partiti politici europei”.


- l’anticipazione del mese di svolgimento delle elezioni europee al mese di maggio (preferibilmente il 9 maggio);<br />

- la massima riduzione possibile del numero dei giorni di votazione per lo svolgimento delle votazioni in tutta l’UE e in<br />

ogni caso a non più di due (sabato e domenica).<br />

Questa risoluzione del PE sarà all’origine degli effettivi mutamenti introdotti sino a oggi ed è tuttora<br />

suscettibile di produrne altri per il prossimo futuro.<br />

La seconda era la risoluzione del 16 luglio 1998 “sull’applicazione del trattato di Amsterdam: conseguenze<br />

della cooperazione rafforzata” (A4-0257/1998). In essa il PE prendeva specificamente posizione<br />

sul nuovo istituto in termini particolarmente critici. Infatti in primo luogo sosteneva che lo<br />

stesso trattato di Amsterdam non prevedesse la sua applicazione al secondo pilastro ossia alla PESC<br />

(non riconoscendo come tale quella prevista all’art. J.7, comma 4, del TUE, relativa, nel quadro della<br />

PESD, allo “sviluppo di una cooperazione rafforzata fra due o più Stati membri a livello bilaterale,<br />

nell'ambito dell'UEO e dell'Alleanza atlantica”). In effetti, per il PE, la vera cooperazione rafforzata<br />

era solo quella avente luogo entro un quadro istituzionale dell’UE e in questo senso tale istituto<br />

era applicabile solo ai due restanti pilastri, della CE e della CPGMP. Tuttavia in entrambi tali pilastri<br />

il trattato di Amsterdam legittimava l’eventualità del veto di un singolo Stato membro alla stessa<br />

possibilità della votazione a maggioranza qualificata della creazione di un cooperazione rafforzata.<br />

Il PE, a questo proposito, si esprimeva certo in termini negativi:<br />

“ritiene che la possibilità offerta dal trattato di Amsterdam a qualsiasi Stato membro di opporsi, per importanti ragioni<br />

di politica nazionale, all'attuazione a maggioranza qualificata delle disposizioni su una cooperazione rafforzata sia nel<br />

contempo contraria all'intento di risolvere mediante questo strumento alcuni blocchi e sproporzionata rispetto alla portata<br />

delle potenziali applicazioni e costituisca quindi un'opzione davvero eccezionale cui ricorrere come ultimo espediente<br />

in casi di emergenza politica”<br />

E tuttavia, secondo il PE, la cooperazione rafforzata come tale, soprattutto se riferita all’ambito<br />

propriamente comunitario, era da giudicarsi più un aggravamento del male che un rimedio a esso. Il<br />

male era dato dal fatto che “esiste tuttora il rischio di blocchi, dovuti segnatamente alle aspettative a<br />

volte divergenti degli Stati membri, e al fatto che nel trattato di Amsterdam viene, in numerosi casi,<br />

mantenuta l’unanimità”. Ma il rimedio non poteva essere costituito dalla creazione di una cooperazione<br />

rafforzata, dato che quest’ultima era essa pure “una nuova formula di differenziazione”, che,<br />

come tale, “comporta il rischio di minare i legami di solidarietà tra gli Stati membri e di frazionare<br />

lo spazio giuridico comunitario”. Perciò il PE suggeriva: “la cooperazione rafforzata può prestarsi,<br />

più che all’azione legislativa, all’attuazione di programmi d’azione, segnatamente in materia di cooperazione<br />

di polizia e giudiziaria, di politica industriale, di ricerca, d’istruzione, di formazione professionale<br />

o di ambiente”. E concludeva:<br />

- “nessun meccanismo procedurale può esimere dalla definizione di una volontà politica comune”<br />

- è “illusorio aspettarsi che la cooperazione rafforzata possa costituire il quadro istituzionale adeguato per raccogliere le<br />

principali sfide future della costruzione europea, quali l’ampliamento e l’approfondimento degli aspetti economici<br />

dell’UEM” 268<br />

- “ritiene che la storia della costruzione europea e l’analisi approfondita delle disposizioni su una cooperazione rafforzata<br />

che derivano dal trattato di Amsterdam dimostrino il carattere ineludibile della votazione a maggioranza qualificata<br />

per le decisioni diverse da quelle di natura costituzionale, ai fini dello sviluppo dell’integrazione”.<br />

Questa conclusione segnava l’ideale passaggio al tema proprio dell’ultima risoluzione del 16 luglio<br />

1998 “sulla nuova procedura di codecisione dopo il trattato di Amsterdam” (A4-0271/1998). Concentrato<br />

sulla vera strada capace di attuare integrazione ovvero quella della votazione a maggioranza<br />

qualificata in Consiglio, inserita nella procedura legislativa di codecisione Consiglio-PE, il Parlamento<br />

Europeo fissava, in questa risoluzione, le misure più atte ad applicare tale procedura così<br />

268 In merito a questo tema, la risoluzione sosteneva: “l’introduzione della moneta unica obbliga l’Unione a dotarsi dei<br />

mezzi necessari per condurre una politica economica veramente comune” ossia valida per tutti gli Stati membri non solo<br />

della zona euro, ma dell’UE in quanto tale.


come era stata semplificata e insieme estesa a più ambiti dal trattato di Amsterdam, in attesa di ulteriori<br />

passi in avanti in occasione di un futuro trattato.<br />

Molto legato al tema di questa risoluzione era poi il tema della risoluzione del 16 settembre 1998<br />

“sulla revisione delle modalità per l’esercizio delle competenze di esecuzione conferite alla Commissione<br />

– “comitatologia” (decisione del Consiglio del 13 luglio 1987)”. Il problema era dato dal<br />

fatto che la Commissione, da sempre detentrice sia dell’iniziativa legislativa, sia della funzione esecutiva,<br />

manteneva, pur nella sua nuova posizione di responsabilità anche di fronte al PE, una prassi<br />

tradizionale che tendeva a far passare atti di natura legislativa per atti esecutivi e quindi rientranti<br />

nelle proprie competenze, con il risultato di “vanificare” l’attività legislativa, basata ormai sulla<br />

procedura di codecisione Consiglio-PE. La produzione di questi atti pseudo-esecutivi trovava la sua<br />

origine nei cosiddetti “comitati”, inseriti all’interno della non trasparente e tanto meno democratica<br />

macchina burocratica della Commissione. Alla radice di questa paradossale situazione stava il problema<br />

generale, mai affrontato in modo idoneo dai trattati e posto ora con forza dal PE, “della definizione<br />

e della classificazione degli atti” comunitari. La strada indicata dal PE per sciogliere questo<br />

equivoco era allora quella della creazione almeno di una chiara distinzione fra atti legislativi e atti<br />

esecutivi, per mezzo della seguente definizione “provvisoria” degli atti esecutivi: “per misure di esecuzione<br />

si devono intendere , fra l’altro, tutte quelle misure che non modificano, completano o<br />

aggiornano gli aspetti essenziali delle norme di base [ossia degli atti legislativi] e che queste ultime<br />

non possono essere modificate nemmeno qualora il Consiglio si avvalga di una competenza esecutiva.”<br />

269<br />

Quanto alle prospettive a più lungo termine, il PE adottava poi la risoluzione del 22 ottobre 1998<br />

“sulla preparazione della riunione dei capi di Stato e di governo dell’ottobre 1998 riguardante il futuro<br />

politico dell’Unione Europea” (che si doveva tenere di lì a poco per un esame preliminare delle<br />

riforme istituzionali, che avrebbero dovuto essere adottate in un’apposita CIG da convocare dopo la<br />

ratifica del trattato di Amsterdam).<br />

A proposito del tema centrale della risoluzione il PE sottolineava: 1) la necessità della “riforma istituzionale”;<br />

2) la necessità di una riforma del finanziamento dell’UE 270 ; 3) l’effettivo coordinamento<br />

delle politiche economiche e il controllo democratico della politica economica e monetaria; 4) una<br />

rappresentanza unica degli Stati membri dell’UEM presso gli organismi internazionali come il G7;<br />

5) la coerenza in genere tra gli obiettivi e gli strumenti, istituzionali e finanziari, necessari a perseguirli;<br />

6) la necessità quindi una riforma istituzionale globale, basata sul rafforzamento della legittimità<br />

democratica dell’UE.<br />

Per quanto riguarda “il rispetto del principio di sussidiarietà” (sottolineato a Cardiff), il PE avvertiva<br />

in toni molto chiari e concreti:<br />

“10. mette in guardia il Consiglio europeo contro la tentazione di utilizzare la sussidiarietà come un alibi per la rinazionalizzazione<br />

delle politiche comunitarie; afferma che, se nell’attività delle istituzioni sono state rilevate violazioni del<br />

rispetto del principio di sussidiarietà, la responsabilità è dell’insieme degli Stati membri e delle istituzioni che partecipano<br />

al processo legislativo;<br />

11. sottolinea che i timori di una centralizzazione eccessiva nell’Unione Europea sono fortemente esagerati, considerando<br />

che l’Unione può agire solo nei settori definiti dai trattati e che, in ogni caso, agisce conformemente al principio<br />

di sussidiarietà e con la partecipazione al processo decisionale dei ministri nazionali; constata che tramite il bilancio UE<br />

viene data esecuzione solo al 3% della spesa pubblica [dell’intera UE] e che la Commissione dispone di un organico<br />

complessivamente inferiore a quello delle amministrazioni comunali della maggior parte delle grandi città;” 271<br />

269 In quest’ultima precisazione il PE lanciava in realtà un monito al Consiglio. Infatti era proprio il Consiglio, che, in<br />

quanto istituzione sia pienamente legislatrice, sia esecutiva, correva il rischio di “confondere” le due sfere di attività.<br />

270 A tal proposito, con evidente riferimento al Regno Unito, affermava: “condanna pertanto la teoria detta del giusto<br />

ritorno per quanto concerne le risorse proprie; ritiene in effetti che debba essere preso in considerazione l’insieme dei<br />

benefici di bilancio e non di bilancio ottenuti grazie alla partecipazione alla costruzione europea”.<br />

271 Queste espressioni erano risposte anticipate ai malumori popolari (alimentati dalla stessa condotta irresponsabile di<br />

certi Stati membri), che si sarebbero apertamente manifestati in occasione delle future prossime elezioni europee del<br />

giugno 1999 e avrebbero guadagnato sempre più forza nel corso degli anni successivi.


Per quanto riguarda “il rafforzamento della legittimità democratica e dell’efficacia” (perorato dal<br />

PE), invece, la risoluzione ribadiva i seguenti punti.<br />

Per la legittimità democratica: 1) “il controllo democratico delle istanze nazionali esercitato dai Parlamenti<br />

nazionali è parte integrante del processo democratico europeo” 272 ; 2) per le istituzioni europee:<br />

a) un Consiglio che deliberasse pubblicamente in quanto legislatore, a maggioranza qualificata,<br />

con la pubblicazione dei verbali delle riunioni conclusive; b) una Commissione responsabile dinanzi<br />

al PE e trasparente; c) un PE dotato del potere di codecisione su tutti gli atti legislativi e di bilancio<br />

e del potere di controllo sulla Commissione, nonché avente il potere di decisione, attraverso il suo<br />

necessario parere conforme, sugli atti di natura costituzionale e sugli accordi internazionali; d) una<br />

Corte di giustizia più facilmente accessibile dai cittadini e avente competenza su tutti settori UE<br />

(compresi gli affari interni e giustizia); e) un CR e un CES aventi udienza nel PE; 3) lo sviluppo dei<br />

partiti politici europei; 4) l’elaborazione di una dichiarazione dei <strong>diritti</strong> dei cittadini europei.<br />

Per l’efficacia: 1) per il Consiglio: la trasformazione della formazione “Affari generali” in un vero<br />

Consiglio di coordinamento e di direzione delle politiche europee e la creazione di una formazione<br />

competente insieme per gli affari esteri, la sicurezza e la difesa, nonché la previsione della votazione<br />

a maggioranza qualificata per la totalità degli atti legislativi e delle nomine (“questione molto più<br />

importante della ponderazione dei voti o della rotazione della Presidenza del Consiglio”, aggiungeva<br />

causticamente la risoluzione); 2) per la Commissione: il rafforzamento delle sue competenze politiche<br />

e della sua rappresentatività politica, nonché la chiara distinzione tra le sue funzioni di impulso<br />

e i suoi compiti di gestione e di controllo; 3) per la Corte di giustizia: la possibilità<br />

dell’adozione di decisioni rapide per quel che riguarda il rispetto del trattato da parte di istituzioni e<br />

Stati membri; 4) per il PE: l’adozione di uno statuto unico per i deputati del PE; 5) l’integrazione<br />

delle competenze dell’UEO nell’UE.<br />

Infine si proponeva il ricorso al metodo comunitario (Commissione, Consiglio e PE) per la preparazione<br />

della “prossima revisione dei trattati”. 273<br />

Il successivo Consiglio europeo di Vienna dell’11-12 dicembre 1998 lanciava la “strategia di Vienna”<br />

per la fine del secondo millennio, con le seguenti consegne: 1) “promuovere l’occupazione, la<br />

crescita economica e la stabilità”, 2) “migliorare la sicurezza e la qualità della vita” (il “piano di<br />

Vienna”), 3) “riformare le politiche e le istituzioni dell’Unione” e 4) “promuovere la stabilità e la<br />

prosperità dovunque in Europa e nel mondo”. 274<br />

Infine il 31 dicembre 1998 venivano adottati i tassi fissi irrevocabili di conversione tra l’euro e le<br />

valute nazionali degli 11 Stati membri partecipanti a esso. E finalmente il 1° gennaio 1999 avveniva<br />

il lancio ufficiale dell’euro, con l’adozione formale da parte degli 11 Stati membri predetti dell’euro<br />

quale moneta ufficiale dell’Unione. 275 Da quel momento iniziava per l’”eurogruppo” un duplice<br />

272 Questa affermazione prospettava un’impostazione “glocale” della “democrazia rappresentativa” europea, concependo<br />

l’azione politica dello stesso Parlamento nazionale come inserita in una strategia “concertata”, tesa a impedire al governo<br />

di uno Stato membro di rivendicare, almeno in sede europea, una condotta sostanzialmente “irresponsabile” persino<br />

rispetto al proprio Parlamento nazionale.<br />

273 Nel contesto del nuovo dibattito sul “futuro politico dell’Unione Europea”, il PE stava in realtà riavviando pure la<br />

sua strategia “costituzionale”. Nello stesso anno 1998, infatti, la Commissione Affari istituzionali richiedeva<br />

l’approntamento, da parte di un gruppo di esperti provenienti da differenti Paesi, di uno studio di diritto costituzionale<br />

comparato dal tema “Opzioni per un’evoluzione del Trattato sull’Unione Europea verso una Costituzione”. Tale studio<br />

veniva commissionato dalla Direzione generale degli studi del PE ancora una volta al gruppo di ricerca del Centro di<br />

Studi Avanzati “Robert Schuman” dell’IUE di Firenze.<br />

274 Il Consiglio europeo di Vienna decideva pure di approvare una propria risoluzione priva di titolazione ufficiale, in<br />

quanto relativa non a un tema, bensì a una persona, Helmut Kohl, allora dimessosi dopo circa 30 anni dalla carica di<br />

cancelliere federale di Germania e quindi dall’altrettanto lunga attività di artefice anche dell’Unione Europea, al quale<br />

veniva conferito, con un atto del tutto atipico, il semplice, ma glorioso titolo di “cittadino onorario dell’Europa”, prefigurante<br />

il futuro quadro di un’Unione allargata effettivamente a tutta l’Europa.<br />

275 Questo evento segnava il traguardo dell’attività professionale e di governo di Carlo Azeglio Ciampi, che il 13 maggio<br />

1999 lascerà la guida del ministero del tesoro, in quanto eletto dal Parlamento italiano, alla prima votazione e dunque<br />

a larghissima maggioranza, presidente della Repubblica Italiana. Da quel momento il popolo italiano avrebbe scoperto<br />

l’altra dimensione di Ciampi ossia quella dell’uomo di cultura di respiro europeo, dell’ufficiale in guerra al servizio<br />

dell’unico Stato italiano (prima e dopo l’8 settembre 1943) e insieme della militanza politica nel Partito d’Azione e


problema: 1) di stabilire una necessaria politica economica comune attraverso l’unico mezzo concesso<br />

dai trattati ovvero il semplice coordinamento delle politiche economiche nazionali, comprensivo<br />

anche di quelle degli Stati membri “senza” euro, data l’esistenza non solo di un unico quadro di<br />

riferimento comunitario, ma soprattutto di un mercato unico per tutta l’UE; 2) di stabilire una rappresentanza<br />

esterna della Comunità in rapporto all’euro (p.e. al G7, al Fondo monetario internazionale<br />

(FMI), di fronte ai Paesi terzi), in presenza non solo di una divisione della CE tra Stati con e<br />

senza euro, ma anche di una perdurante struttura “a pilastri” dell’UE, che vedeva la CE separata<br />

dalla PESC. E la pur autonoma BCE non poteva far da surrogato di un’unitaria autorità politica assente<br />

persino rispetto a terzi, pena la degenerazione del sistema. Proprio quest’ultimo problema,<br />

fonte di non pochi imbarazzi per tutti sulla scena internazionale, farà sentire, nel modo più scottante,<br />

la necessità di un rapido superamento della struttura a pilastri dell’UE nel senso della loro riduzione<br />

al primo pilastro comunitario. Tuttavia il problema delle due “deroghe” concesse alla Danimarca<br />

e al Regno Unito non sarà invece risolvibile, minacciando di compromettere l’efficacia per la<br />

zona euro di un coordinamento di politiche economiche condizionate da differenti valute e persino<br />

di offrire motivi di ripensamento sull’euro per altri Stati membri, presenti (la Svezia) e futuri (p.e. la<br />

Polonia), nonostante il loro obbligo di adottarlo.<br />

Il lancio ufficiale dell’euro, tuttavia, era di per sé un grande motivo di soddisfazione e di entusiasmo<br />

per l’UE. Tale entusiasmo fu tuttavia turbato, pochi mesi dopo, dall’esito negativo di una vicenda<br />

che, se da un lato gettò una macchia sulla Commissione europea, dall’altro lato diede occasione al<br />

PE di far valere sino alle ultime conseguenze il proprio potere di controllo su di essa.<br />

La stessa nuova moneta dell’Unione, l’euro, dipendeva, quanto alla sua affidabilità, dalla presenza<br />

di finanze sane non solo negli Stati membri, ma anche nella stessa UE. Ciò significava che le spese<br />

dell’UE avrebbero dovuto essere sottoposte a un severo controllo anche per scongiurare versamenti<br />

“a vuoto”, causati dalle frodi ai danni dell’UE. Tali frodi peraltro potevano essere il risultato anche<br />

di una corruzione o persino di una concussione degli organi eroganti, e non solo di quelli degli Stati<br />

membri, bensì anche di quelli della stessa UE ovvero della stessa Commissione europea, non solo a<br />

livello di funzionari, bensì anche a livello politico ossia degli stessi membri della Commissione. E<br />

questo è ciò che era sembrato essere avvenuto.<br />

Sull’onda delle critiche sui metodi di gestione della Commissione Santer, il PE si era rifiutato già il<br />

17 dicembre 1998 di dare il “discarico di bilancio” ossia il proprio benestare all’esercizio di bilancio<br />

del 1996. La reazione del presidente Santer fu quella di chiedere lui stesso al PE il 12 gennaio<br />

1999 un voto di fiducia nei confronti della Commissione.<br />

La situazione, alquanto delicata, spingeva allora il PE ad accelerare i tempi per un pronunciamento<br />

di ordine generale sul tema dei rapporti Commissione-PE, sulla base delle implicazioni politiche<br />

delle nuove disposizioni specifiche del trattato di Amsterdam e in vista dell’avvento della nuova<br />

Commissione per il gennaio 2000. Tale pronunciamento del PE avveniva con l’adozione della<br />

risoluzione del 13 gennaio 1999 “sulle implicazioni istituzionali dell’approvazione da parte del Parlamento<br />

Europeo della designazione del presidente della Commissione e sull’indipendenza dei<br />

membri del collegio”. In essa il PE sottolineava come le nuove disposizioni del trattato di Amsterdam<br />

avevano le seguenti implicazioni:<br />

- il PE avrebbe conferito “alla Commissione un mandato fiduciario che dovrà essere il più possibile riempito di contenuti<br />

politico-programmatici”<br />

- il presidente della Commissione avrebbe assunto “l’importantissimo ruolo istituzionale di stabilire un programma corrispondente<br />

alla durata di un’intera legislatura del Parlamento Europeo” e perciò avrebbe dovuto avere “una maggiore<br />

capacità direttiva” nei confronti della Commissione<br />

nel CLN, dell’ideale di una patria riconciliata e indivisa nella libertà, nella democrazia, nella Repubblica e nella Costituzione<br />

e perciò orgogliosa del proprio tricolore e delle proprie forze armate, ma anche il sostenitore dell’identità europea,<br />

dell’Unione Europea e della Costituzione europea, e a partire da questa identità fautore del dialogo tra le civiltà. In<br />

tale sua nuova veste di capo dello Stato, per la sua personalità e per i grandi meriti acquisiti nei confronti dell’Italia e<br />

dell’Europa, Ciampi riceverà ad Aquisgrana il 5 maggio 2005 il “Premio Carlo Magno”, con la dedica personalizzata<br />

“Europa dei Valori”. Dal 15 maggio 2006 continua il suo servizio in qualità di senatore a vita.


- il PE avrebbe conosciuto un rafforzamento della “dimensione politica delle sue relazioni con la Commissione”<br />

- perciò “il riassorbimento graduale dello squilibrio politico tuttora esistente fra il livello di integrazione già realizzato<br />

e la partecipazione dei cittadini e delle forze politiche al processo di integrazione europeo induce a ricercare […]<br />

l’istituzione di un rapporto chiaro, forte e pubblico tra le scelte effettuate dai cittadini nel quadro delle elezioni<br />

europee e la designazione del presidente della Commissione, anche per evitare che l’elezione del Parlamento venga<br />

vissuta al massimo come un mero esercizio elettorale nazionale” 276<br />

- di conseguenza l’elezione del presidente della Commissione comporta scelte in ordine non solo “alle personalità designate,<br />

ma anche alla struttura della Commissione, agli impegni di ordine istituzionale della stessa e al suo programma<br />

legislativo”, mentre il voto finale di approvazione collettiva “deve essere un voto di fiducia all’organo nel suo complesso,<br />

sulla base di una valutazione positiva del metodo e dei contenuti”, nonché “sulla qualità delle relazioni dello stesso<br />

con il Parlamento”<br />

- per tutti questi motivi “solo un presidente molto autorevole potrà garantire che una delle istituzioni chiave dell’Unione<br />

continui a svolgere il ruolo di impulso politico”<br />

- in ogni caso andava riconosciuta non solo al Consiglio, ma anche al PE “la possibilità di richiedere le dimissioni<br />

d’ufficio di membri della Commissione”<br />

Sulla base di queste implicazioni politiche delle nuove disposizioni del trattato di Amsterdam, il PE<br />

proponeva le seguenti misure per la formazione già della successiva Commissione.<br />

Per quanto riguarda le “modalità di designazione e voto di approvazione della designazione del presidente<br />

della Commissione”, il PE proponeva:<br />

- “la persona che i governi degli Stati membri […]designeranno “di comune accordo” alla carica di presidente della<br />

Commissione dovrà avere caratteristiche personali e politiche tali da riscuotere il favore di un Parlamento neoeletto”;<br />

- “sarebbe un passo importante del processo di integrazione politica se, durante le campagne per le future elezioni europee,<br />

le formazioni politiche europee proponessero ciascuna il candidato che auspicano di veder accedere alla carica<br />

di presidente della Commissione europea; in tal modo la campagna sarebbe incentrata su questi candidati, il che contribuirebbe<br />

a conferire una maggiore visibilità alle elezioni europee”; 277<br />

- la designazione, da parte del Consiglio europeo, del presidente della Commissione doveva avvenire dopo le elezioni<br />

del PE;<br />

- subito dopo la designazione, il presidente designato della Commissione doveva dar modo al PE di esprimere un voto<br />

“sulla base degli impegni che il presidente designato assumerà in ordine agli “orientamenti politici” che caratterizzeranno<br />

il suo mandato, alla qualità delle relazioni interistituzionali, ai criteri ai quali si atterrà nel concorrere con i governi<br />

alla designazione delle persone da nominare membri della Commissione, nonché al calendario e al metodo per pervenire<br />

alla riforma istituzionale, preliminare all’allargamento dell’Unione”<br />

Oltre a questo elenco molto impegnativo di requisiti politici del futuro presidente della Commissione,<br />

il PE proponeva, per quanto riguarda “composizione e riorganizzazione interna della Commissione”,<br />

le seguenti misure:<br />

- “un numero considerevole di membri della Commissione dovrebbe essere scelto fra parlamentari europei in carica 278 e<br />

tutte le personalità designate dovrebbero avere maturato significative esperienze politiche, istituzionali e parlamentari in<br />

materie europee”<br />

- una netta suddivisione degli incarichi<br />

- “l’organizzazione di audizioni con i singoli commissari da parte del Parlamento”<br />

276 In questa importante affermazione il PE lanciava il suo guanto di sfida alla progressiva disaffezione dell’elettorato<br />

europeo, sempre più incline a vedere le elezioni europee al massimo come una sorta di nuovo test elettorale nazionale,<br />

più o meno interessante a seconda dei casi nazionali. L’esito politico complessivo delle elezioni europee come motivo<br />

determinante nella stessa designazione del nuovo presidente della Commissione avrebbe dovuto infatti determinare, già<br />

di per sé, secondo il PE, un motivo di recupero d’interesse per le elezioni europee.<br />

277 Questa ulteriore proposta, tuttora futuribile, attende l’esito del completo sviluppo dei partiti politici europei. Una volta<br />

fosse realizzata, un pubblico nazionale difficilmente farebbe a meno di votare per il candidato, pur di diversa nazionalità,<br />

del proprio orientamento politico, persino in presenza di un candidato connazionale di opposto orientamento politico.<br />

A quel punto le elezioni europee diverrebbero quindi davvero europee.<br />

278 Questa richiesta, di per sé in aperta contraddizione con l’incompatibilità sancita fin dal 1976 tra membri della Commissione<br />

e membri del PE, era da intendere per la proposta delle dimissioni da membro del PE al fine della nomina a<br />

membro della Commissione. Tuttavia le uniche persone che la futura Commissione (19 commissari) accoglierà dalle<br />

fila del PE saranno quelle del belga Philippe Busquin (PSE) per la ricerca e della lussemburghese Viviane Reding (PPE)<br />

per l’educazione e la cultura.


Per quanto riguarda l’”indipendenza della Commissione”, il PE proponeva:<br />

1) il potere del PE di chiedere al Consiglio l’avvio della procedura di dimissioni d’ufficio dei singoli commissari;<br />

2) una serie di misure atte a “prevenire i conflitti d’interesse”, quali:<br />

- una “dichiarazione pubblica degli interessi e delle fonti di reddito esterno”,<br />

- “l’obbligo di astensione in deliberazioni che riguardino interessi incompatibili con le loro funzioni”,<br />

- “l’utilizzo dell’istituto del blind trust ovvero l’attribuzione a un trustee della gestione delle attività patrimoniali e finanziarie<br />

che possano dar luogo a conflitti di interesse”,<br />

3) “estendere la garanzia d’indipendenza anche ai gabinetti dei commissari e alla loro composizione [per nazionalità]”<br />

4) “è necessario che i commissari possano essere ritenuti politicamente responsabili per mancanze gravi dei loro subalterni”<br />

Per quanto riguarda “programma e calendario”, il PE suggeriva:<br />

- l’approvazione parlamentare della Commissione entro il dicembre 1999 e la sua entra in funzione dal gennaio 2000;<br />

- i governi degli Stati membri dovevano designare a presidente della Commissione una persona che fossero sicuri “sia<br />

in grado di ottenere una grande maggioranza nella votazione di investitura ed abbia l’autorità necessaria per esercitare le<br />

funzioni di direzione politica”<br />

- tale personalità, una volta designata, avrebbe dovuto fare “una dichiarazione d’intenti” davanti al PE “nel corso della<br />

tornata di luglio 1999, seguita da discussione”<br />

- il presidente, una volta approvato, avrebbe dovuto adempiere alle proprie responsabilità “quanto alla scelta dei membri<br />

della Commissione, con tutto il peso della sua legittimazione democratica”<br />

- la designazione dei commissari avrebbe dovuto aver luogo entro il 1° novembre 1999, in vista delle immediate audizioni<br />

di essi da parte del PE prima del voto finale sulla Commissione nel dicembre 1999<br />

- “l’adeguata pubblicità di tali audizioni, che conferiscono al voto di investitura la sua piena dimensione e potenziano<br />

la legittimità democratica della Commissione”<br />

Con questa risoluzione il PE poneva le premesse dell’effettiva democratizzazione della Commissione<br />

e le misure previste saranno effettivamente realizzate già all’atto della formazione della successiva<br />

Commissione.<br />

Quanto alla Commissione Santer ancora in carica, veniva presentata al voto del PE una mozione di<br />

censura nei suoi confronti, che veniva respinta il 14 gennaio 1999 con una maggioranza, peraltro,<br />

alquanto ristretta. Perciò il PE votava una risoluzione che proponeva la creazione di un Comitato<br />

d’esperti indipendenti, incaricato di svolgere un’inchiesta sulle irregolarità amministrative, già rilevate<br />

dagli organi interni di controllo e rese pubbliche. Santer accettava tale proposta e partecipava<br />

anzi alla designazione degli esperti, che iniziavano il loro lavoro. Nel frattempo Santer cercò di ottenere<br />

le dimissioni dei membri della Commissione più coinvolti nelle critiche ossia la francese Edith<br />

Cresson e lo spagnolo Manuel Marín, ma non vi riuscì.<br />

Nel frattempo il PE rilanciava la sua “offensiva” per la piena applicazione delle nuove disposizioni<br />

del trattato di Amsterdam, prima ancora della sua ratifica, in ordine alla principale novità, costituita<br />

dal varo dello SLSG, peraltro secondo una particolare ottica del PE tendente a considerarlo soprattutto<br />

come un nuovo “spazio di democrazia e di libertà”. Perciò il PE adottava la risoluzione dell’11<br />

febbraio 1999 “sul rafforzamento delle istituzioni dell’Unione in vista della costituzione di uno spazio<br />

di democrazia e di libertà” (relatore: Antoni Gutiérrez Díaz). 279 In essa il PE poneva le seguenti<br />

premesse di estrema importanza in ordine allo sviluppo della “democrazia europea”, soprattutto nella<br />

sua dimensione partecipativa:<br />

- “i blocchi nel progresso della riforma istituzionale constatati ad Amsterdam, in particolare per quanto riguarda<br />

l’estensione del voto a maggioranza qualificata, dipendono soprattutto dall’assenza di una riflessione approfondita sugli<br />

obiettivi dell’integrazione”<br />

- “un’Europa democratica si può costruire esclusivamente a patto che i cittadini siano riconosciuti non solo come i beneficiari<br />

diretti del progetto di integrazione, ma anche come soggetti che contribuiscono <strong>attiva</strong>mente<br />

all’elaborazione delle scelte comuni”<br />

279<br />

Antoni Gutiérrez Díaz è stato membro spagnolo del PE nel gruppo della SUE (Sinistra unitaria europea) dal 1987 al<br />

1999.


- il PE aveva perciò il diritto e il dovere di valutare “a quale spazio di libertà e democrazia corrisponda l’Europa dei cittadini”<br />

In base a queste chiare premesse, il PE, pur nell’ambito di un giudizio complessivamente positivo<br />

del trattato di Amsterdam e soprattutto dello SLSG, riteneva necessario offrire “una concezione<br />

d’insieme dello spazio di libertà e democrazia”, basata sui seguenti punti:<br />

“- precisare gli obiettivi comuni delle società europee;<br />

- arricchire il contenuto dei <strong>diritti</strong> riconosciuti ai cittadini europei in quanto tali;<br />

- rafforzare i <strong>diritti</strong> delle minoranze […];<br />

- determinare gli strumenti giuridici e le procedure più adeguati per l’attuazione di tali <strong>diritti</strong>;<br />

- organizzare la partecipazione dei cittadini alla creazione e all’arricchimento progressivo di detto spazio;”<br />

Per quanto riguarda la “libera circolazione”, la risoluzione affermava::<br />

- “mette in guardia gli Stati membri dalla tentazione di scaricare su “Bruxelles” le loro responsabilità in materia, traendo<br />

peraltro vantaggio dall’assenza di un controllo parlamentare [del PE] vincolante sulle misure relative alla libera circolazione<br />

delle persone”;<br />

- “deplora le limitazioni imposte alla Corte di giustizia”<br />

- “deplora che l’acquis di Schengen non sia stato ancora completamente integrato nel primo pilastro”;<br />

- “invita i governi di Danimarca, Irlanda e Regno Unito a partecipare fin dall’inizio alle misure comunitarie in questo<br />

ambito”;<br />

- “la libera circolazione delle persone, nella misura in cui si traduce nello sviluppo di relazioni personali transnazionali,<br />

implica segnatamente uno sforzo specifico di coordinamento delle legislazioni civili (divorzio per esempio)”;<br />

- “la libera circolazione dei lavoratori richiede il miglioramento del dispositivo relativo alle pensioni”;<br />

- “la libera circolazione delle merci andrebbe completata mediante disposizioni che assicurino un’efficace tutela del<br />

consumatore”;<br />

- “per essere efficace, la libertà di circolazione delle persone deve andare a beneficio, oltre che dei cittadini europei, dei<br />

cittadini di Paesi terzi entrati o residenti legalmente nell’Unione”;<br />

- “invita la Commissione ad esercitare <strong>attiva</strong>mente il diritto d’iniziativa” anche nel terzo pilastro ovvero nella CPGMP;<br />

- invocava l’effettiva realizzazione del diritto del cittadino a “fare appello alla Corte di giustizia delle Comunità europee<br />

nell’ambito della decisione pregiudiziale”;<br />

Per quanto riguarda i “<strong>diritti</strong> sociali”, la risoluzione sosteneva:<br />

- “ritiene che la libera circolazione sia imprescindibile dalla definizione di una base minima comune di disposizioni relative<br />

al diritto del lavoro e di protezione sociale e, in questa ottica, la Carta dei <strong>diritti</strong> sociali fondamentali […] debba<br />

venire attuata nella sua integrità nei cinque anni successivi all’entrata in vigore del trattato di Amsterdam”; 280<br />

Per quanto riguarda la “<strong>cittadinanza</strong> politica”, la risoluzione notava:<br />

- “ritiene che la <strong>cittadinanza</strong> europea implichi un legame diretto tra i cittadini e le istituzioni dell’Unione e che, in questa<br />

ottica, sia necessario sviluppare il ruolo degli interlocutori sociali europei”;<br />

- “ritiene che l’Unione necessiti di una direttiva sulla trasparenza della sua amministrazione, che descriva con precisione<br />

in che cosa consiste il diritto del cittadino all’informazione dell’Unione e le sue istituzioni”;<br />

- “ritiene che la <strong>cittadinanza</strong> europea implichi una partecipazione <strong>attiva</strong> dei cittadini al funzionamento democratico<br />

delle istituzioni europee; ritiene indispensabile a tale proposito il ruolo dei partiti politici transnazionali, che va legittimato<br />

e favorito riconoscendo loro uno statuto legale e accordando loro, a carico del bilancio dell’Unione, le risorse<br />

finanziarie necessarie per svolgere il proprio compito”;<br />

- “ritiene necessario riconoscere al cittadino europeo il diritto di espressione e il diritto ad un’informazione quanto più<br />

diretta possibile”;<br />

- si pronunciava “a favore dell’adozione di uno statuto dell’associazione europea, in modo da agevolare l’espressione<br />

di organizzazioni derivanti dalla società civile; suggerisce inoltre che venga incoraggiata, per esempio, la creazione di<br />

reti di servizi di interesse generale, di progetti territoriali o di cooperazioni interterritoriali”;<br />

280 La Carta dei <strong>diritti</strong> sociali fondamentali avrebbe dunque dovuto venire attuata entro il 1° maggio 2004. Se questo<br />

impegno fosse stato integralmente soddisfatto, - si sarebbe tentati di chiedersi - l’esito del referendum francese del<br />

maggio 2005 sul TCE avrebbe potuto essere forse diverso?


- “raccogliere in un titolo specifico del trattato intitolato “<strong>diritti</strong> dei cittadini” l’insieme dei <strong>diritti</strong> derivanti per i cittadini<br />

dall’appartenenza all’Unione Europea; chiede alla Commissione di studiare le conseguenze giuridiche e finanziarie<br />

dell’eventuale riconoscimento a tali <strong>diritti</strong> di un effetto diretto”.<br />

Con questa risoluzione il PE rilanciava dunque il rinnovamento della “democrazia europea” in direzione<br />

di una nuova “<strong>cittadinanza</strong> <strong>attiva</strong>”, che si doveva misurare sia nella dimensione propriamente<br />

partecipativa, sia nella dimensione rappresentativa.<br />

Un mese dopo, il 15 marzo 1999, il Comitato di esperti indipendenti pubblicava un rapporto in cui<br />

criticava severamente la gestione della Commissione, stimando che nella loro collegialità i commissari<br />

non controllassero abbastanza le loro amministrazioni, coinvolgendo nelle critiche non solo i<br />

due commissari citati, ma anche altri membri della Commissione. 281 Di fronte all’inevitabile prospettiva<br />

dell’adozione, da parte del PE, di una nuova mozione di censura nei suoi confronti, la<br />

Commissione Santer dava quel giorno stesso le proprie dimissioni, con più di dieci mesi d’anticipo<br />

rispetto alla fine del mandato. La Commissione dimissionaria veniva presieduta ad interim da Manuel<br />

Marín.<br />

Per la prima volta, dunque, nella storia del processo d’integrazione europea, la Commissione europea<br />

rassegnava in blocco le proprie dimissioni in seguito a una semplice presa di posizione critica,<br />

non ancora formalizzata, del PE nei suoi confronti. Da allora in poi i rapporti tra la Commissione e<br />

il PE sarebbero stati assai più simili a quelli tra il governo e il Parlamento di uno Stato membro.<br />

Di fronte a tali sviluppi della situazione il Consiglio europeo di Berlino del 24-25 marzo 1999 282<br />

decideva, in primo luogo, di approvare l’”Agenda 2000”, con l’indicazione delle “nuove prospettive<br />

finanziarie”, nonché di disposizioni su “risorse proprie e squilibri di bilancio”.<br />

Per quanto riguarda le nuove prospettive finanziarie, il Consiglio europeo, esaminati “gli aspetti generali”,<br />

esponeva una “presentazione delle prospettive finanziarie nel contesto dell’allargamento”,<br />

che avrebbe inciso sul bilancio futuro dell’UE, ed enunciava i “principi che sovrintendono al rinnovo<br />

dell’accordo interistituzionale” tra Consiglio, PE e Commissione sulla procedura di bilancio in<br />

previsione di tale maggiorazione degli oneri dell’UE. Erano poi precisate delle “rubriche” ossia dei<br />

capitoli di spesa specifici nei settori dell’agricoltura, delle azioni strutturali, delle politiche interne,<br />

delle azioni esterne, delle spese amministrative e delle riserve.<br />

Per quanto riguarda il quadro “risorse proprie e squilibri di bilancio”, venivano presentate due “tabelle”,<br />

una sulle “prospettive finanziarie dell’UE a 15” e l’altra sul “quadro finanziario dell’UE a<br />

21”, quanti erano gli Stati membri allora previsti in seguito all’allargamento. 283<br />

In secondo luogo il Consiglio europeo di Berlino non si limitava ad accogliere le dimissioni di Santer,<br />

bensì procedeva immediatamente alla nomina del suo successore alla guida della Commissione.<br />

284 La scelta cadeva sul nome dell’italiano Romano Prodi, in virtù sia dell’accreditato orientamento<br />

politico di sinistra, sia dei risultati acquisiti dal governo italiano da lui presieduto per l’Italia<br />

e per l’Europa. 285<br />

281<br />

Tra questi ultimi figurava anche Emma Bonino, severamente criticata per la sua gestione dell’Ufficio umanitario della<br />

CE (ECHO).<br />

282<br />

Questo fu il primo Consiglio europeo “di primavera” ossia, a partire da questa riunione, il Consiglio europeo si sarebbe<br />

riunito, in seduta ordinaria, non più una sola volta, bensì due volte per semestre.<br />

283<br />

Ancora una volta venivano, peraltro, mantenute sia la quota enorme della PAC (45% delle spese), sia la compensazione<br />

finanziaria speciale per il Regno Unito.<br />

284<br />

Da questo momento anche il rapporto tra il Consiglio europeo e la Commissione sarebbe stato ancora più simile al<br />

rapporto tra il capo di Stato e il governo di uno Stato membro. E tuttavia tale designazione immediata, prima delle elezioni<br />

europee del giugno 1999, veniva a sconvolgere la tabella di marcia prospettata dal PE al proposito.<br />

285<br />

Per il primo motivo: nella primavera 1999 il PE aveva come primo gruppo parlamentare quello del PSE (214 seggi).<br />

Per il secondo motivo: nel periodo tra il settembre 1992 e il maggio 1996 nessuno nell’UE era disposto a scommettere<br />

sulle possibilità dell’Italia di entrare nella zona euro, anzi semmai si era disposti a scommettere sull’impossibilità di<br />

questo evento e comunque la Germania era persino contraria a tale eventualità. In seguito ai sorprendenti risultati, in<br />

termini di risanamento finanziario e morale, del governo Prodi tra il maggio 1996 e l’ottobre 1998, non stupisce che<br />

proprio la presidenza tedesca del Consiglio europeo di Berlino decidesse di proporre il nome di Prodi per la guida della<br />

Commissione europea in un momento così delicato per l’UE quanto ai temi della concussione, della corruzione, della<br />

frode e del dissesto finanziario in “casa europea”.


Quanto alla Commissione dimissionaria, essa adottava, il 28 aprile 1999, una decisione “che istituisce<br />

l’Ufficio europeo per la lotta antifrode (OLAF)”. Tale decisione della Comunità entrerà quasi<br />

subito in vigore, grazie alle tempestive approvazioni del PE il 6 maggio 1999 e del Consiglio il 25<br />

maggio 1999. L’OLAF, entrato in funzione il 1° giugno 1999, sarà destinato, da allora in poi, quale<br />

organo indipendente dalla stessa Commissione, a vigilare operativamente (con indagini amministrative)<br />

su casi di frode e corruzione ai danni degli interessi finanziari dell’UE a tutti i livelli, sia quello<br />

dell’UE, sia quello degli Stati membri (di concerto, in questo caso, con le autorità nazionali).<br />

E finalmente, il 1° maggio 1999, entrava in vigore il trattato di Amsterdam. Si apriva così la possibilità<br />

di realizzare pienamente e nel modo più veloce possibile tutte le modifiche, in esso stabilite, ai<br />

trattati costitutivi, compresa la disposizione che prevedeva l’elaborazione di “riforme istituzionali”<br />

urgenti, che avrebbero dovuto essere oggetto di una nuova CIG e quindi di un nuovo trattato emendativo.<br />

La prima misura del trattato di Amsterdam veniva applicata appena quattro giorni dopo, quando il<br />

PE adottava la risoluzione del 5 maggio 1999 “sulla nomina del presidente della Commissione”,<br />

nella quale il PE “approva la nomina di Romano Prodi come presidente della Commissione per il<br />

resto del termine d’ufficio” ossia sino al 22 gennaio 2000, 286 esercitando così per la prima volta il<br />

proprio nuovo diritto di approvare o respingere già la prima fase del processo di creazione del “governo”<br />

dell’UE. 287 L’approvazione di questa risoluzione spianava così a Prodi la strada per la formazione<br />

della Commissione.<br />

La grande novità di tale evento portava allora il PE ad adottare subito una risoluzione che tenesse<br />

conto di entrambi i processi allora in gioco ossia della formazione della nuova Commissione e della<br />

preparazione della futura CIG, la risoluzione del 6 maggio 1999 “sul metodo e il calendario<br />

dell’imminente riforma istituzionale”.<br />

Essa proponeva innanzi tutto “obiettivi e calendario” di tale riforma istituzionale, prevedendo “inizio<br />

e svolgimento dei lavori preparatori durante l’anno 2000”, seguiti dalla “convocazione della<br />

CIG nel 2001” e dalla “conclusione della Conferenza entro la fine dell’anno 2001”.<br />

Per quanto riguarda l’”investitura della Commissione”, essa ricordava i requisiti a cui la Commissione<br />

designata avrebbe dovuto soddisfare per ottenere la votazione di approvazione del PE e raccomandava<br />

che “la Commissione svolga un forte ruolo di incitazione politica e assicuri la coerenza<br />

del progetto politico europeo”.<br />

Per quanto riguarda il “metodo” dell’imminente riforma istituzionale, il PE esigeva le seguenti nuove<br />

modalità:<br />

- riteneva che per quanto riguardava la futura CIG “occorra mantenere il requisito dell’unanimità unicamente per il risultato<br />

finale dei negoziati” e non più per ogni modifica del trattato;<br />

- auspicava “l’applicazione del metodo comunitario, durante la preparazione della CIG”;<br />

- perciò riteneva che “spetti alla Commissione avviare tale processo” e quindi “sia suo compito elaborare un primo documento<br />

preparatorio”;<br />

- “ritiene che, per adempiere a tale compito, la Commissione possa ricorrere ad un gruppo di alte personalità indipendenti<br />

e di esperti (secondo la formula utilizzata per il Comitato Delors)”;<br />

- “ritiene che la natura comunitaria del metodo comporti il ricorso ad una concertazione istituzionale, in particolare fra il<br />

Parlamento e la Commissione, in modo che il documento finale scaturisca da un’intesa tra le due istituzioni”;<br />

- “per assicurare la piena efficacia democratica di tale lavoro preparatorio”, sarebbe stato opportuno “organizzare un<br />

quanto più ampio processo di consultazione che coinvolga i Parlamenti nazionali”;<br />

- “nell’ambito di tale processo, si dovrà incoraggiare anche l’espressione dei partiti politici, delle autorità regionali e<br />

locali, delle organizzazioni della società civile, nonché dell’opinione pubblica europea, anche ricorrendo alle moderne<br />

tecnologie di comunicazione”;<br />

286 Tale precisazione era dovuta al fatto che il PE di allora, in quanto il proprio mandato sarebbe scaduto (a causa delle<br />

elezioni europee del giugno 1999) il 20 luglio 1999, aveva il potere di approvare la nomina di un nuovo presidente della<br />

Commissione europea solo per il resto del mandato di quest’ultima rientrante sotto la propria competenza ossia appunto<br />

sino al 22 gennaio 2000. In tal modo veniva confermata la stretta aderenza tra mandato del PE e mandato della Commissione.<br />

287 Nemmeno nell’ordinamento costituzionale italiano è prevista per il Parlamento la possibilità di approvare o rifiutare<br />

la designazione del capo del governo da parte del presidente della Repubblica.


- “chiede che questi progetti di riforma istituzionale costituiscano la base dei negoziati della CIG”;<br />

- “l’attribuzione al PE del “diritto di ratificare qualsiasi nuovo trattato”, e ciò “già con la prossima riforma”;<br />

- “la necessità politica di avviare a livello dell’Unione un processo di tipo costituzionale che comprenda<br />

l’elaborazione di una Carta dei <strong>diritti</strong> e delle libertà fondamentali”;<br />

- “considera indispensabile, in tale prospettiva, definire nei trattati alcuni principi semplici e comprensibili, per tutti i<br />

cittadini, in modo da segnare una nuova tappa significativa nel processo di costituzionalizzazione del sistema comunitario,<br />

tenuto conto anche delle implicazioni dell’Unione monetaria e della definizione di uno spazio di libertà, sicurezza<br />

e giustizia, in cui si esercita una <strong>cittadinanza</strong> europea pienamente garantita”.<br />

Questa risoluzione rivelava il disegno del PE di avvalersi della nuova procedura, in atto, per la formazione<br />

della Commissione e dunque della stretta collaborazione futura di quest’ultima con il PE,<br />

per attribuirle il ruolo primario di “motore d’avviamento” della riforma istituzionale, attraverso la<br />

presentazione di un progetto, che sarebbe stato il tema di un vasto dibattito pubblico coinvolgente i<br />

più diversi soggetti in tutta l’Unione e alla fine avrebbe dovuto essere accolto dalla stessa CIG come<br />

base dei suoi lavori, condotti con votazioni a maggioranza per le singole modifiche e conclusi solo<br />

alla fine con un voto all’unanimità sull’intero progetto di nuovo trattato. Infine quest’ultimo non avrebbe<br />

potuto entrare in vigore senza la ratifica anche dello stesso PE, che si sarebbe poi impegnato,<br />

a partire dall’elaborazione di una Carta dei <strong>diritti</strong> e delle libertà fondamentali, nel processo di costituzionalizzazione<br />

dell’UE. 288<br />

Da questo disegno complessivo scaturiva il calendario proposto dal PE, che prevedeva che addirittura<br />

l’intero anno 2000 fosse dedicato alla sola fase preparatoria della CIG, alla quale sarebbe stato<br />

dedicato l’intero anno 2001. Tale tabella di marcia era tuttavia destinata a essere travolta da<br />

un’altra, dettata dalle diverse, imperiose, ragioni del Consiglio europeo.<br />

Il successivo Consiglio europeo di Colonia del 3-4 giugno 1999 portava la grande responsabilità di<br />

stabilire l’agenda della realizzazione complessiva del trattato di Amsterdam.<br />

In primo luogo esso applicava quella disposizione del nuovo trattato, riguardante la nuova carica di<br />

Segretario generale del Consiglio e Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune,<br />

chiamando a ricoprirla lo spagnolo Javier Solana Madariaga, che la detiene tuttora.<br />

In secondo luogo il Consiglio europeo decideva di applicare le disposizioni del nuovo trattato in<br />

materia di politica economica e monetaria, attraverso una radicale ristrutturazione dei dispositivi sino<br />

ad allora presenti. Infatti sino a quel momento esisteva da un lato una politica monetaria comune,<br />

fondata sul patto di stabilità e crescita, inteso a sua volta essenzialmente come consolidamento dei<br />

bilanci pubblici. Dall’altro lato esisteva invece una cooperazione in politica economica, fondata essenzialmente<br />

sulla politica per l’occupazione, intesa a sua volta come realizzazione della “flessibilità”<br />

del lavoro (processo di Lussemburgo) e come capacità d’innovazione delle imprese (processo di<br />

Cardiff). In questo modo esisteva, tuttavia, uno “scollamento” tra politica monetaria e politica economica,<br />

alquanto pericoloso in presenza della realizzazione dell’UEM con l’entrata in vigore<br />

dell’euro. Si trattava allora di realizzare effettivamente un’integrale politica economica e monetaria<br />

comune, anche se nel rispetto delle differenti basi giuridiche (politica comune e cooperazione politica)<br />

che lo stesso trattato prevedeva per i due settori. Lo strumento prescelto dal Consiglio europeo<br />

di Colonia e che perciò porta il suo nome, “processo di Colonia”, doveva essere un coordinamento<br />

della politica economica, capace di dar luogo a una “politica macroeconomica” (= propria dell’UE<br />

in quanto tale), e perciò aveva per obiettivo la piena attuazione del patto di stabilità e crescita, che<br />

doveva comprendere, oltre alla stretta politica monetaria, finanziaria e di bilancio, anche due nuove<br />

politiche, una “politica fiscale” (orientata alla crescita, in particolare attraverso la “riduzione degli<br />

oneri fiscali gravanti sul fattore lavoro”) e una “politica salariale” (orientata alla creazione di posti<br />

di lavoro). Il nuovo processo di Colonia doveva poi a sua volta venire integrato con gli altri due<br />

288 L’esplicita decisione del PE di avviare il processo di costituzionalizzazione dell’UE avveniva in concomitanza con la<br />

pubblicazione dello studio commissionato al gruppo di ricerca del Centro di Studi Avanzati “Robert Schuman” dell’IUE<br />

di Firenze, con Giuliano Amato (presidente) e Hervé Bribosia (relatore), “Quale Carta costituzionale per l’Unione Europea?<br />

Strategie e opzioni per rafforzare il carattere costituzionale dei Trattati”, Parlamento Europeo, DGS, Serie politica<br />

105, maggio 1999.


processi, di Lussemburgo (flessibilità) 289 e di Cardiff (innovazione) 290 , all’interno di un unico progetto<br />

globale, denominato “patto europeo per l’occupazione”. In tal modo, sotto questa denominazione<br />

complessiva, sarebbe stato possibile creare un’autentica politica economica e monetaria comune,<br />

all’altezza della realtà dell’UEM e dell’euro.<br />

Il processo di Colonia, vera chiave di volta di tale politica, si doveva fondare, operativamente, sul<br />

“dialogo macroeconomico” (= a livello UE) fra i diversi attori della politica monetaria (la BCE), finanziaria<br />

e di bilancio, nonché fiscale (i governi nazionali e dunque il Consiglio) e della politica salariale<br />

(parti sociali, ossia imprese e sindacati, europee), attraverso il coordinamento generale della<br />

Commissione. 291<br />

Sulla base di questo dialogo macroeconomico, si sarebbe potuta avviare una politica macroeconomica,<br />

che non avrebbe peraltro avuto effettive possibilità di successo, a meno che non si fossero<br />

realizzate anche “ampie riforme strutturali a livello di Comunità e di Stati membri” ossia una vera e<br />

propria armonizzazione delle legislazioni nazionali in base a precise direttive comunitarie, in particolare<br />

nel settore della politica fiscale. Occorreva perciò “strutturare i sistemi fiscali in Europa” ossia<br />

uniformarli, in particolare la “tassazione del risparmio”, al fine di evitare “la concorrenza fiscale”<br />

tra Stati membri (esiziale per un “mercato finanziario unico” e quindi per qualsiasi “politica macroeconomica”),<br />

attraverso direttive p.e. “sulla tassazione del reddito da capitale e sul regime fiscale<br />

degli interessi e dei canoni”.<br />

L’ambizione del colossale progetto del “processo di Colonia” e più in generale del “patto europeo<br />

per l’occupazione” era direttamente proporzionale alla consapevolezza dei rischi che altrimenti avrebbe<br />

corso l’intero processo di integrazione europea in presenza della sfida posta dalla realtà<br />

dell’UEM e dell’euro. Tale ambizione si misurava persino nel linguaggio usato, che, per evitare di<br />

parlare di vera e propria “politica economica comune” (non permessa dal trattato di Amsterdam),<br />

usava l’espressione “politica macroeconomica”. La scommessa sulla riuscita del “processo di Colonia”<br />

si giocava tutta peraltro su ben altri fattori.<br />

Infatti la sua premessa procedurale era il “dialogo macroeconomico”, che comportava il coinvolgimento<br />

anche delle parti sociali, imprenditori e sindacati, che sinora avevano conosciuto una dimensione<br />

essenzialmente nazionale. Anche a questo proposito, perciò, occorreva superare la dimensione<br />

puramente nazionale, rafforzando (come voleva il trattato di Amsterdam) “la cooperazione culturale<br />

e gli scambi culturali” al fine di creare “la consapevolezza di una comunanza culturale” europea<br />

(basata, in particolare su “una migliore conoscenza della cultura e della storia dei popoli europei”).<br />

Occorreva inoltre creare effettivamente, come previsto dal trattato, “uno spazio di libertà, sicurezza<br />

e giustizia”, ma soprattutto era giunto il momento di creare una “Carta dei <strong>diritti</strong> fondamentali<br />

dell’Unione europea” (come voluto da sempre dal PE). E infatti si affermava: “Il Consiglio europeo<br />

ritiene che, allo stato attuale dello sviluppo dell’Unione Europea, i <strong>diritti</strong> fondamentali vigenti a livello<br />

dell’Unione debbano essere raccolti in una Carta e in tal modo resi più manifesti”.<br />

L’intenzionalità era molto diversa ossia molto più blanda di quella politica del PE, ma intanto il<br />

289 A proposito del processo di Lussemburgo, il Consiglio europeo di Colonia proponeva p.e. di “rendere più incisiva<br />

dal punto di vista occupazionale la creazione di posti di lavoro nella parte del settore dei servizi ad alta intensità di manodopera”<br />

(p.e. i call center), attraverso l’introduzione di “aliquote IVA più basse per i servizi non transfrontalieri ad<br />

alta intensità di lavoro” (p.e. i call center nazionali).<br />

290 A proposito del processo di Cardiff il Consiglio europeo di Colonia programmava: 1) una propria riunione straordinaria<br />

sul tema “verso un’Europa dell’innovazione e dei saperi” in Portogallo nella primavera del 2000 (che avrebbe<br />

condotto al famoso “processo di Lisbona”), 2) massicci investimenti della BEI per la ricerca tecnologica a livello europeo<br />

(con il varo del progetto “Galileo”, il sistema di navigazione satellitare europeo), per gli investimenti in alta tecnologia<br />

delle piccole e medie imprese (in collaborazione con il FES), per la concessione di crediti nel risanamento urbano,<br />

nell’istruzione (“tutte le scuole devono essere dotate quanto prima dell’accesso a Internet” e il decollo dei programmi in<br />

presenza Socrates e Gioventù per l’Europa), nella sanità, nella tutela dell’ambiente (con la promozione delle energie<br />

rinnovabili e l’imposizione fiscale sui prodotti energetici ad impatto ambientale), per il sostegno allo sviluppo delle regioni<br />

(soprattutto quando, in seguito all’allargamento, sarebbero venute meno tali possibilità, in quanto dirottate a favore<br />

dei nuovi Stati membri), per i crediti ai Paesi candidati, ma soprattutto per le reti transeuropee.<br />

291 In tal modo il “dialogo sociale” europeo previsto dal trattato di Amsterdam diveniva elemento portante del “processo<br />

di Colonia” e quindi dell’intero “patto europeo per l’occupazione”.


processo di costituzionalizzazione dell’UE finalmente partiva. E anzi si aggiungeva: “Il Consiglio<br />

europeo […] invita a valutare l’opportunità di istituire un’Agenzia dell’Unione Europea per i <strong>diritti</strong><br />

dell’uomo e della democrazia.” Era l’alba di una nuova epoca per l’UE.<br />

Ma la questione nodale in cui si giocava tutto il “dialogo macroeconomico” era la credibilità stessa<br />

del suo coordinatore, la Commissione, e di uno dei partecipanti, il Consiglio, di fronte agli altri (la<br />

BCE e le parti sociali), in mancanza della risoluzione delle “questioni istituzionali” (indicate dallo<br />

stesso trattato) che impedivano un’efficace attività delle due istituzioni europee. Perciò il Consiglio<br />

europeo decideva<br />

“di convocare all’inizio del 2000 una conferenza dei rappresentanti dei governi degli Stati membri per risolvere prima<br />

dell’allargamento le questioni istituzionali lasciate in sospeso nel trattato di Amsterdam. La conclusione della conferenza<br />

e l’accordo sulle necessarie modifiche del trattato devono aver luogo per la fine del 2000”;<br />

- “In virtù del protocollo di Amsterdam sulle istituzioni nella prospettiva dell’allargamento dell’Unione Europea e delle<br />

dichiarazioni connesse, il mandato della conferenza intergovernativa abbraccia i temi seguenti:<br />

- dimensioni e composizione della Commissione europea;<br />

- ponderazione dei voti in sede di Consiglio (nuova ponderazione, introduzione di una doppia maggioranza, soglia per le<br />

decisioni a maggioranza qualificata);<br />

- questione dell’eventuale estensione delle votazioni a maggioranza qualificata in sede di Consiglio.” 292<br />

Con tale titanico programma di lavoro per la realizzazione complessiva e rapida di tutte le disposizioni<br />

del trattato di Amsterdam, il Consiglio europeo di Colonia peraltro apriva, senza esserne consapevole,<br />

la stagione della “costituzionalizzazione” dell’Unione Europea.<br />

Pochi giorni dopo avevano luogo le elezioni del Parlamento Europeo, svoltesi nelle giornate dal 10<br />

al 13 giugno 1999. 293 Esse vedevano ormai un’insoddisfacente affluenza complessiva al voto<br />

(49,8%), confermata dai casi nazionali dell’Austria (49,4%), della Francia (46,8%), della Germania<br />

(45,2%) e del Portogallo (40%) e aggravata dai casi nazionali preoccupanti della Svezia (38,8%),<br />

della Finlandia (31,4%) e dei Paesi Bassi (30%) e dal caso nazionale allarmante del Regno Unito<br />

(24%).<br />

Come interpretare tali dati? Nonostante l’Atto unico, il Trattato di Maastricht (istitutivo dell’Unione<br />

Europea) e il Trattato di Amsterdam, sempre meno cittadini europei partecipavano alle elezioni del<br />

PE ossia sembravano interessati al PE e quindi a essere effettivamente cittadini dell’Unione. La situazione<br />

era davvero insoddisfacente, in quanto, a parte il risultato complessivo, c’era da considerare<br />

il fatto che ben 8 Stati membri su 15 erano interessati da tale tendenza e tra essi spiccavano i due<br />

Stati membri all’origine stessa del processo d’integrazione europea, Germania e Francia. Più spiegabile<br />

appariva il caso britannico: ormai era quanto mai chiara la deriva a cui lo stesso ricorso a<br />

“deroghe” sempre più corpose stava portando il Regno Unito, lontano comunque dal processo<br />

d’integrazione europea. Ma gli altri Stati membri? Forse la spiegazione era semplicemente questa:<br />

per i cittadini europei era passato il tempo delle elezioni europee come altrettanti “plebisciti”<br />

sull’UE, ciò che ora essi volevano, a prescindere dai diversi (e spesso opposti) motivi di insoddisfazione,<br />

era il potere di decidere, con il proprio voto, i futuri orientamenti politici dell’UE, in modo<br />

analogo a ciò che effettivamente avveniva (paradossalmente anche per mezzo delle stesse elezioni<br />

europee!) a livello nazionale.. E questo potere, nonostante i grandi progressi registrati sino ad allora,<br />

dopo vent’anni ancora non c’era. Di qui il disincanto, la disillusione, la delusione, il disinteresse e<br />

l’indifferenza per il PE e una montante insoddisfazione, diffidenza, sospetto, risentimento per<br />

un’Unione con competenze sempre più estese e con una legittimazione democratica sempre più inadeguata<br />

rispetto alle aspettative crescenti dei cittadini.<br />

In ogni caso questi risultati delle elezioni europee furono letti, sia dal PE, sia dal Consiglio europeo,<br />

come un motivo decisivo per accelerare ulteriormente la realizzazione dei rispettivi obiettivi, che<br />

stavano, anzi, progressivamente convergendo tra loro.<br />

292 In tal modo il Consiglio europeo vanificava del tutto il piano d’azione del PE per l’”imminente riforma istituzionale”.<br />

Con la convocazione diretta della CIG per l’inizio del 2000 e la restrizione del suo mandato ai punti citati diventava<br />

infatti chiaro che anche la futura Conferenza non sarebbe stata diversa da quelle precedenti.<br />

293 Queste furono le prime elezioni svoltesi in tutti gli Stati membri in base all’unico sistema proporzionale.


LA QUINTA LEGISLATURA EUROPEA (1999-2004)<br />

La quinta legislatura rappresentò, nell’intera storia dell’integrazione europea, il periodo senza dubbio<br />

più “alto” e più intenso, quanto a pregnanza di obiettivi perseguiti, convergenza di volontà delle<br />

diverse istituzioni, rapidità di esecuzione. Era come se l’intero mezzo secolo precedente avesse atteso<br />

proprio quel quinquennio per dare i suoi frutti in un colpo solo, per quanto riguarda entrambe le<br />

dimensioni, complementari tra loro, dell’integrazione, ovvero sia l’enorme allargamento, sia la “costituzionalizzazione”<br />

dell’UE.<br />

I. Lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia e la Carta dei <strong>diritti</strong> fondamentali dell’Unione<br />

Alla vigilia dell’apertura del nuovo PE, il 9 luglio 1999 il Consiglio designava, in accordo con Prodi,<br />

i membri della Commissione. 294<br />

In occasione dell’apertura del nuovo PE, dei 626 suoi membri il 22 luglio 1999 risultavano iscritti:<br />

233 al gruppo del PPE, 180 a quello del PSE, 50 a quello degli ELDR e 48 a quello dei Verdi. 295 La<br />

prima misura del nuovo PE, rivelativa della nuova “stagione politica” dell’UE, fu la trasformazione<br />

della Commissione “Affari istituzionali” (fondata da Altiero Spinelli) nella nuova Commissione<br />

“Affari costituzionali”(AFCO), che già il 21 luglio 1999 eleggeva a suo presidente l’italiano Giorgio<br />

Napolitano (PSE). 296<br />

I membri designati della Commissione si presentavano poi al PE per le rispettive “audizioni” fra il<br />

30 agosto 1999 e il 7 settembre 1999. Nel frattempo il presidente della Commissione Prodi invitava<br />

tre personalità (i “tre saggi”) “a presentare in tutta indipendenza, entro metà ottobre, le loro opinioni<br />

sulle implicazioni istituzionali dell’allargamento, in vista della prossima Conferenza intergovernativa”<br />

297 . Infine il 15 settembre 1999 il PE votava la approvazione della nuova Commissione Prodi per<br />

un mandato con scadenza il 22 gennaio 2005. 298 La Commissione Prodi sarebbe entrata in funzione<br />

il 18 settembre 1999.<br />

Nel frattempo, il giorno dopo l’approvazione di quest’ultima, il PE adottava la risoluzione del 16<br />

settembre 1999 “sull’elaborazione della Carta dei <strong>diritti</strong> fondamentali” (relatori: Giorgio Napolitano<br />

e Graham Watson 299 ). In previsione dell’imminente Consiglio europeo di Tampere, che avrebbe do-<br />

294<br />

Ben pochi dei precedenti commissari venivano riconfermati. Tra loro figurava Mario Monti, designato ad assumere<br />

stavolta la responsabilità per la concorrenza.<br />

295<br />

Membro del nuovo PE era Emma Bonino, che, candidatasi ed eletta, optava per il seggio al PE, uscendo perciò dalla<br />

Commissione europea dimissionaria. Rimarrà membro del PE sino al 2004. Dal 2006 è deputato, nonché il ministro del<br />

commercio internazionale.<br />

296<br />

Esponente del PCI (poi del PDS e infine dei DS), deputato dal 1953 al 1963 e dal 1968 al 1996, Giorgio Napolitano<br />

aveva perorato la causa europea all’interno del PCI, sostenendo la candidatura nelle liste di questo partito per le elezioni<br />

italiane ed europee Altiero Spinelli. Dopo la scomparsa di quest’ultimo, Napolitano si candidava e veniva eletto a sua<br />

volta nel 1989 membro del PE (nel gruppo della SUE). Lasciava il seggio del PE nel 1992, in quanto divenuto il presidente<br />

della Camera dei deputati nella breve legislatura 1992-’94. Ministro dell’interno nel governo Prodi (1996-’98),<br />

Napolitano si era candidato ed era stato eletto nel 1999 membro del PE (nel gruppo del PSE).<br />

297<br />

Si trattava dell’inizio dell’esecuzione del mandato del PE alla Commissione di presentare un progetto di riforma istituzionale.<br />

Le tre personalità erano Jean-Luc Dehaene, ex-primo ministro del Belgio, Richard von Weizsäcker, expresidente<br />

della Repubblica federale di Germania, e Lord Simon of Highbury, ex-presidente di British Petroleum ed exministro.<br />

La presidenza del Comitato sarà assunta dal belga Dehaene.<br />

298<br />

La procedura era articolata in realtà in cinque distinte votazioni: 1) conferma dell’approvazione della nomina di Prodi<br />

a presidente della Commissione per il resto del mandato corrente ossia sino al 22 gennaio 2000 (con 446 voti a favore<br />

su 592); 2) approvazione della nomina della Commissione con la stessa scadenza; 3) approvazione della nomina di Prodi<br />

a presidente della Commissione per il nuovo mandato dal 23 gennaio 2000 al 22 gennaio 2005 (con 426 voti a favore<br />

su 592); 4) approvazione della nomina della Commissione con la stessa scadenza; 5) approvazione dell’intero dispositivo.<br />

Tale procedura stabiliva l’autorità del PE di porre la fiducia distintamente sul presidente e sulla Commissione ossia<br />

sui singoli commissari (“vagliati” uno a uno nelle audizioni) , richiamando ciascuno di essi alla propria responsabilità<br />

politica personale nei confronti del PE.<br />

299<br />

Graham Watson è dal 1994 membro britannico del PE (iscritto nel gruppo del PELDR). Presidente dal 1999 al 2002<br />

della Commissione per le libertà e i <strong>diritti</strong> dei cittadini, la giustizia e gli affari interni, nonché dal 2002 al 2004 del


vuto pronunciarsi su di essa, il PE manifestava naturalmente la propria soddisfazione più viva nei<br />

confronti della prospettiva, aperta dal Consiglio europeo di Colonia, della realizzazione di quello<br />

che era stato da sempre il suo principale obiettivo, precisando peraltro che l’importanza di esso era<br />

dovuta al suo carattere eminentemente “costituzionale” ovvero al fatto di rappresentare il principio<br />

di una futura Costituzione europea e quindi l’inizio del processo di “costituzionalizzazione”<br />

dell’Unione Europea, traguardo finale della “strategia” del PE.<br />

Al fine dell’istituzione della Carta il PE rivendicava “la responsabilità congiunta delle due istituzioni<br />

sulle quali è fondata la legittimità dell’Unione, ossia: il Consiglio (per quanto riguarda gli Stati<br />

membri) e il Parlamento Europeo (per quanto riguarda i popoli d’Europa)”. E anzi richiamava<br />

l’attenzione “al bisogno di un approccio aperto e innovativo nel formare la Carta, alla natura dei <strong>diritti</strong><br />

che devono essere messi in evidenza, e alla parte che essa giocherà e allo stato giuridico di cui<br />

essa disporrà nello sviluppo costituzionale dell’Unione”.<br />

A questi scopi il PE richiedeva:<br />

“- che il numero dei membri del Parlamento Europeo sia uguale al numero dei rappresentanti dei capi di Stato e di governo<br />

degli Stati membri, al fine di conferire un pubblico profilo ugualmente alto a ogni parte e di disporre un’adeguata<br />

rappresentanza delle differenti tendenze e sensibilità politiche rappresentate nel Parlamento Europeo;<br />

- che siano assicurati il ruolo e il contributo essenziali dei Parlamenti nazionali con i mezzi più efficaci possibili, da determinare<br />

alla luce di consultazioni appropriate con i presidenti dei Parlamenti nazionali;<br />

- che da parte dell’autorità di redazione [il Consiglio e il PE] siano determinati i poteri del presidente e dell’Ufficio;<br />

- che quest’ultimo sia investito del potere di decidere sull’opzione di convocare un comitato di redazione e le parti che<br />

vi lavorino;<br />

- che siano fatti passi appropriati per assicurare la trasparenza delle attività; per assicurare anche i contributi delle ONG<br />

[organizzazioni non governative] e del pubblico generale, e perché siano tenute audizioni pubbliche;”<br />

- che il segretariato dell’autorità abbia “la responsabilità dei corpi partecipanti.”<br />

Il PE, dunque, era talmente consapevole dell’importanza storica dell’evento che non solo rivendicava<br />

una composizione paritaria, per il Consiglio (europeo) e per sé (con la rappresentanza dei diversi<br />

orientamenti politici), dell’autorità che avrebbe presieduto alla redazione della Carta, ma anche esigeva<br />

il coinvolgimento, nell’operazione, dei Parlamenti nazionali e anzi delle ONG e in genere del<br />

“pubblico”, con apposite audizioni pubbliche, nonché la trasparenza dei lavori. L’atto fondativo della<br />

Costituzione europea non poteva infatti aver luogo se non all’insegna della massima “democrazia<br />

europea”, sia nella dimensione rappresentativa, sia nella dimensione partecipativa.<br />

Un mese dopo si svolgeva il Consiglio europeo di Tampere del 15-16 ottobre 1999 . Esso era dedicato<br />

interamente all’applicazione del più importante dispositivo previsto dal trattato di Amsterdam<br />

ossia alla creazione effettiva dello SLSG. Le conclusioni della Presidenza, anzi, costituivano il più<br />

efficace preludio al varo della Carta dei <strong>diritti</strong> fondamentali dell’UE e insieme la più convincente<br />

risposta all’”allarme” suscitato dai risultati delle recenti elezioni europee. La Presidenza, infatti, introduceva<br />

il tema della creazione dello SLSG con un’intenzionalità talmente simile a quella del PE,<br />

da poter credere di trovarsi in presenza di una risoluzione dello stesso PE, e insieme con un linguaggio<br />

così piano e persuasivo, da non poter non coinvolgere i cittadini europei nella condivisione<br />

del progetto dell’Unione. Premesso che il Consiglio europeo “metterà questo obiettivo al primo posto<br />

dell’agenda politica e ve lo manterrà”, la Presidenza così formulava “i capisaldi di Tampere”:<br />

“1. Sin dall’inizio l’integrazione europea è stata saldamente basata su un comune impegno per la libertà ancorata ai <strong>diritti</strong><br />

dell’uomo, alle istituzioni democratiche e allo Stato di diritto. Questi valori comuni si sono rivelati necessari per<br />

garantire la pace e sviluppare la prosperità all’interno dell’Unione Europea e saranno anche il fondamento per il suo allargamento.<br />

2. L’Unione Europea ha già posto in atto per i suoi cittadini i principali elementi di uno spazio comune di prosperità e<br />

pace: un mercato unico, un’unione economica e monetaria e la capacità di raccogliere le sfide politiche ed economiche<br />

mondiali. La sfida insita nel trattato di Amsterdam è ora quella di garantire che tale libertà, che comprende il diritto alla<br />

libera circolazione in tutta l’Unione, possa essere goduta in condizioni di sicurezza e di giustizia accessibili a tutti. Si<br />

gruppo del PELDR (Partito europeo dei liberali, democratici e riformatori), è dal 2004 il presidente del gruppo<br />

dell’ADLE (Alleanza dei democratici e dei liberali per l’Europa).


tratta di un progetto che risponde alle preoccupazioni frequentemente espresse dai cittadini e che ha ripercussioni dirette<br />

sulla loro vita quotidiana.<br />

3. Tale libertà non dovrebbe, tuttavia, essere considerata appannaggio esclusivo dei cittadini dell’Unione. La sua stessa<br />

esistenza [dell’UE] serve da richiamo per molti altri che nel mondo non possono godere della libertà che i cittadini<br />

dell’Unione danno per scontata. Sarebbe contrario alle tradizioni europee negare tale libertà a coloro che sono stati legittimamente<br />

indotti dalle circostanze a cercare accesso nel nostro territorio. Ciò richiede a sua volta che l’Unione elabori<br />

politiche comuni in materia di asilo e immigrazione, considerando nel contempo l’esigenza di un controllo coerente<br />

alle frontiere esterne per arrestare l’immigrazione clandestina e combattere coloro che la organizzano commettendo<br />

i reati internazionali a essa collegati. Queste politiche comuni devono basarsi su principi che siano chiari per i nostri<br />

cittadini e offrano allo stesso tempo garanzie per coloro che cercano protezione o accesso nell’Unione Europea.<br />

4. L’obiettivo è un’Unione Europea aperta, sicura, pienamente impegnata a rispettare gli obblighi della Convenzione di<br />

Ginevra relativa allo status dei rifugiati e di altri importanti strumenti internazionali per i <strong>diritti</strong> dell’uomo, e capace di<br />

rispondere ai bisogni umanitari con la solidarietà. Deve altresì essere messo a punto un approccio comune per garantire<br />

l’integrazione nella nostra società dei cittadini di Paesi terzi che soggiornano legalmente nell’Unione.<br />

5. Per godere della libertà è necessario uno spazio autentico di giustizia, in cui i cittadini possano rivolgersi ai tribunali<br />

e alle autorità di qualsiasi Stato membro con la stessa facilità che nel loro. I criminali non devono poter sfruttare le differenze<br />

esistenti tra i sistemi giudiziari degli Stati membri. Le sentenze e le decisioni dovrebbero essere rispettate ed<br />

eseguite in tutta l’Unione, salvaguardando al tempo stesso la sicurezza giuridica di base per i cittadini in genere e per<br />

gli operatori economici. Gli ordinamenti giuridici degli Stati membri dovranno diventare maggiormente compatibili<br />

e convergenti.<br />

6. Le persone hanno il diritto di esigere che l’Unione affronti la minaccia alla loro libertà e ai loro <strong>diritti</strong> giuridici costituita<br />

dalle forme più gravi di criminalità. Per opporsi a queste minacce occorre uno sforzo comune per prevenire e combattere<br />

il crimine e la criminalità organizzata nell’intera Unione. Si impone una mobilitazione congiunta di forze di<br />

polizia e strutture giudiziarie per garantire che i criminali non possano trovare nascondigli , né occultare i proventi dei<br />

loro reati all’interno dell’Unione.<br />

7. Lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia dovrebbe basarsi sui principi di trasparenza e controllo democratico. Occorre<br />

sviluppare un dialogo franco con la società civile sugli obiettivi e i fondamenti di questo spazio per accrescere<br />

l’accettazione e il sostegno dei cittadini. Al fine di preservare la fiducia nelle autorità, è necessario elaborare norme<br />

comuni sulla loro integrità [dei cittadini].<br />

8. Il Consiglio europeo ritiene essenziale che in questi settori l’Unione sviluppi anche una capacità di agire e di essere<br />

riconosciuta come partner di rilievo sulla scena internazionale. Ciò richiede una stretta cooperazione con i Paesi partner<br />

e le organizzazioni internazionali, in particolare il Consiglio d’Europa, l’OSCE, l’OCSE e le Nazioni Unite. […]”<br />

Sulla base di queste chiarissime indicazioni di ordine generale, il Consiglio europeo di Tampere avanzava<br />

poi le seguenti proposte concrete:<br />

1) per quanto riguarda la “politica comune dell’UE in materia di asilo e migrazione”:<br />

a) un “partenariato con i Paesi d’origine”, volto a “combattere la povertà, migliorare le condizioni di vita e le opportunità<br />

di lavoro, prevenire i conflitti e stabilizzare gli Stati democratici, garantendo il rispetto dei <strong>diritti</strong> umani, in particolare<br />

quelli delle minoranze, delle donne e dei bambini”<br />

b) un “regime europeo comune in materia d’asilo”, che prevedesse:<br />

- il “rispetto assoluto del diritto di chiedere asilo” e che “nessuno venga esposto nuovamente alla persecuzione”;<br />

- “determinare con chiarezza e praticità lo Stato competente per l’esame delle domande di asilo”, delle “norme comuni<br />

per l’accoglienza dei richiedenti asilo”, il “riavvicinamento delle normative relative al riconoscimento e agli elementi<br />

sostanziali dello status di rifugiato”, delle “misure che prevedano forme complementari di protezione e offrano uno status<br />

adeguato alle persone che necessitano tale protezione”;<br />

- una “procedura comune in materia di asilo” e “uno status uniforme per coloro che hanno ottenuto l’asilo, valido in tutta<br />

l’Unione”;<br />

- un “accordo sulla protezione temporanea degli sfollati, basato sulla solidarietà tra gli Stati membri”, nonché la predisposizione<br />

di “qualche forma di riserva finanziaria per la protezione temporanea nelle situazioni di afflusso massiccio di<br />

rifugiati”;<br />

il completamento del “sistema per l’identificazione dei richiedenti asilo (Eurodac)”;<br />

c) un “equo trattamento dei cittadini dei Paesi terzi”:<br />

- “Una politica di integrazione più incisiva dovrebbe mirare a garantire loro <strong>diritti</strong> e obblighi analoghi a quelli dei cittadini<br />

dell’UE”, nonché “rafforzare la non discriminazione nella vita economica, sociale e culturale e prevedere<br />

l’elaborazione di misure contro il razzismo e la xenofobia”;<br />

- “la necessità di un ravvicinamento delle legislazioni nazionali relative alle condizioni di ammissione e soggiorno dei<br />

cittadini dei Paesi terzi”;<br />

- la necessità di “ravvicinare lo status giuridico dei cittadini dei Paesi terzi a quello dei cittadini degli Stati membri”, in<br />

modo tale che “alle persone che hanno soggiornato legalmente in uno Stato membro per un periodo di tempo da definire<br />

e che sono in possesso di un permesso di soggiorno di lunga durata dovrebbe essere garantita in tale Stato membro una


serie di <strong>diritti</strong> uniformi il più possibile simili a quelli di cui beneficiano i cittadini dell’UE, ad esempio il diritto a ottenere<br />

la residenza, ricevere un’istruzione, esercitare un’attività in qualità di lavoratore dipendente o autonomo” senza “discriminazione<br />

rispetto ai cittadini dello Stato di soggiorno”, nonché si dovrebbe “offrire ai cittadini dei Paesi terzi che<br />

soggiornano legalmente in maniera prolungata l’opportunità di ottenere la <strong>cittadinanza</strong> dello Stato membro in cui<br />

risiedono”;<br />

d) una “gestione dei flussi migratori”:<br />

- “campagne di informazione sulle effettive possibilità di immigrazione legale”, “misure per prevenire qualsiasi forma<br />

di tratta di esseri umani”, “un’<strong>attiva</strong> politica comune in materia di visti e documenti falsi”, con una “più stretta cooperazione<br />

fra i consolati dell’UE nei Paesi terzi” e “la creazione di servizi comuni dell’UE preposti al rilascio dei visti”;<br />

- il contrasto di “coloro che si dedicano alla tratta degli esseri umani e allo sfruttamento economico dei migranti”, con<br />

l’adozione di “una normativa” europea che prevedesse “sanzioni severe contro tale grave reato”, nonché il coinvolgimento<br />

dell’EUROPOL nello sforzo degli Stati membri per “individuare e smantellare le organizzazioni criminali coinvolte”;<br />

- una “più stretta cooperazione e assistenza tecnica fra i servizi degli Stati membri preposti al controllo delle frontiere<br />

[…], in particolare alle frontiere marittime”;<br />

- “sviluppare l'assistenza ai paesi di origine e transito, al fine di promuovere il rientro volontario e di aiutare le autorità<br />

di tali paesi a rafforzare la loro capacità di combattere efficacemente la tratta degli esseri umani e di adempiere i loro<br />

obblighi di riammissione nei confronti dell'Unione e degli Stati membri”;<br />

- compito della CE doveva essere anche quello di “concludere accordi di riammissione o a includere clausole tipo in altri<br />

accordi fra la Comunità europea e i paesi terzi o gruppi di paesi pertinenti. Occorre altresì rivolgere l'attenzione a<br />

norme sulla riammissione interna” ossia da uno Stato membro non di soggiorno allo Stato membro di soggiorno;<br />

2) per quanto riguarda “un autentico spazio di giustizia europeo”:<br />

a) un “migliore accesso alla giustizia in Europa”:<br />

- “lanciare una campagna di informazione e a pubblicare adeguate "guide dell'utente" sulla cooperazione giudiziaria nell'Unione<br />

e sui sistemi giuridici degli Stati membri”, nonché “un sistema di informazione di facile accesso”;<br />

- “norme minime che garantiscano un livello adeguato di assistenza giudiziaria nelle cause transnazionali in tutta l'Unione<br />

e specifiche norme procedurali comuni per semplificare e accelerare la composizione delle controversie transnazionali<br />

di piccola entità in materia commerciale e riguardanti i consumatori, nonché le cause relative alle prestazioni alimentari,<br />

e in materia di crediti non contestati”, nonché, a livello nazionale, “procedure extragiudiziali alternative”;<br />

- “norme minime comuni per i formulari o documenti multilingui da utilizzare nelle cause giudiziarie transnazionali nell'Unione.<br />

Tali documenti o formulari dovrebbero quindi essere accettati reciprocamente come documenti validi in tutti i<br />

procedimenti che si svolgono nell'Unione”;<br />

- “norme minime sulla tutela delle vittime della criminalità, in particolare sull'accesso delle vittime alla giustizia e sui<br />

loro <strong>diritti</strong> al risarcimento dei danni, comprese le spese legali. Dovrebbero inoltre essere creati programmi nazionali di<br />

finanziamento delle iniziative, sia statali che non governative, per l'assistenza alle vittime e la loro tutela”;<br />

b) il “reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziarie”:<br />

- tale principio “dovrebbe diventare il fondamento della cooperazione giudiziaria nell'Unione tanto in materia civile<br />

quanto in materia penale”;<br />

- “ridurre ulteriormente le procedure intermedie tuttora necessarie per ottenere il riconoscimento e l'esecuzione delle<br />

decisioni o sentenze nello Stato richiesto. Inizialmente, tali procedure intermedie dovrebbero essere abolite per i titoli<br />

relativi alle cause di modesta entità in materia commerciale o relative ai consumatori e per determinate sentenze nel settore<br />

delle controversie familiari (per esempio quelle relative alle prestazioni alimentari e ai <strong>diritti</strong> di visita), nonché<br />

“norme minime su taluni aspetti del diritto di procedura civile”;<br />

- “la procedura formale di estradizione debba essere abolita tra gli Stati membri per quanto riguarda le persone che<br />

si sottraggono alla giustizia dopo essere state condannate definitivamente ed essere sostituita dal semplice trasferimento<br />

di tali persone, in conformità dell'articolo 6 del TUE. Occorre inoltre prendere in considerazione procedure di estradizione<br />

accelerate, fatto salvo il principio di un equo processo”;<br />

- il riconoscimento reciproco avrebbe dovuto applicarsi anche “alle ordinanze preliminari, in particolare a quelle che<br />

permettono alle autorità competenti di procedere rapidamente al sequestro probatorio e alla confisca di beni facilmente<br />

trasferibili; le prove legalmente raccolte dalle autorità di uno Stato membro dovrebbero essere ammissibili<br />

dinanzi ai tribunali degli altri Stati membri”;<br />

c) una “maggiore convergenza nel settore del diritto civile”:<br />

- una “nuova legislazione procedurale nelle cause transnazionali, in particolare sugli elementi funzionali ad una cooperazione<br />

agevole e ad un migliore accesso alla legislazione, ad esempio misure preliminari, raccolta delle prove, ordini di<br />

pagamento e scadenze”;<br />

- la necessità di “ravvicinare le legislazioni degli Stati membri in materia civile”;<br />

3) per quanto riguarda la “lotta a livello dell’Unione contro la criminalità”:


a) la “prevenzione della criminalità a livello dell’Unione”:<br />

- un programma finanziato dalla Comunità per la cooperazione tra gli organismi nazionali per prevenire “la criminalità<br />

giovanile e urbana e quella connessa alla droga”;<br />

b) il “potenziamento della cooperazione contro la criminalità”:<br />

- la creazione di “squadre investigative comuni” ossia plurinazionali, inizialmente “per combattere il traffico di droga,<br />

la tratta di esseri umani e il terrorismo”, con il permesso “ai rappresentanti dell'Europol di partecipare, se opportuno,<br />

a tali squadre con funzioni di supporto”;<br />

- “l'istituzione di una Task Force operativa europea dei capi della polizia, incaricata di scambiare, in cooperazione<br />

con l'Europol, esperienze, migliori prassi e informazioni sulle tendenze attuali della criminalità transnazionale e di contribuire<br />

alla predisposizione di azioni operative”;<br />

- “L'Europol ha un ruolo fondamentale di sostegno per quanto riguarda la prevenzione della criminalità, l'analisi e le<br />

indagini a livello dell'Unione. Il Consiglio europeo chiede al Consiglio di fornire all'Europol il sostegno e le risorse necessarie.<br />

Nel prossimo futuro il suo ruolo dovrebbe essere rafforzato, conferendogli la facoltà di ottenere dati operativi<br />

dagli Stati membri e autorizzandolo a chiedere agli Stati membri [il permesso] di avviare, svolgere o coordinare indagini<br />

o di istituire squadre investigative comuni per alcuni settori della criminalità, rispettando nel contempo i sistemi<br />

di controllo giudiziario degli Stati membri”;<br />

- “il Consiglio europeo ha convenuto di istituire un'unità (EUROJUST) composta di pubblici ministeri, magistrati o<br />

funzionari di polizia di pari competenza, distaccati da ogni Stato membro in conformità del proprio sistema giuridico.<br />

L'EUROJUST dovrebbe avere il compito di agevolare il buon coordinamento tra le autorità nazionali responsabili dell'azione<br />

penale, di prestare assistenza nelle indagini riguardanti i casi di criminalità organizzata, in particolare sulla base<br />

dell'analisi dell'Europol, e di cooperare strettamente con la rete giudiziaria europea, in particolare allo scopo di semplificare<br />

l'esecuzione delle rogatorie.”;<br />

- l’istituzione di “un'accademia europea di polizia per la formazione degli alti funzionari incaricati dell'applicazione<br />

della legge”;<br />

- “gli sforzi intesi a concordare definizioni, incriminazioni e sanzioni comuni dovrebbero incentrarsi in primo luogo<br />

su un numero limitato di settori di particolare importanza, come la criminalità finanziaria (riciclaggio di denaro, corruzione,<br />

falsificazione dell'euro), il traffico di droga, la tratta di esseri umani e in particolare lo sfruttamento delle donne,<br />

lo sfruttamento sessuale dei minori, la criminalità ad alta tecnologia e la criminalità ambientale”;<br />

c) un’”azione specifica antiriciclaggio”:<br />

- “iniziative concrete per rintracciare, sequestrare e confiscare i proventi di reato”;<br />

- “migliorare la trasparenza delle transazioni finanziarie e degli assetti societari e accelerare lo scambio di informazioni<br />

fra le unità di informazione finanziaria (FIU) esistenti relativamente alle operazioni sospette”;<br />

- un “ravvicinamento delle normative e procedure penali relative al riciclaggio dei capitali (ad es., in materia di rintracciamento,<br />

sequestro e confisca dei capitali). La sfera delle attività criminose che si configurano come reati presupposto<br />

del riciclaggio dovrebbe essere il più possibile uniforme e sufficientemente vasta in tutti gli Stati membri”;<br />

- “estendere la competenza dell'Europol al riciclaggio in generale, a prescindere dal tipo di reato da cui i proventi riciclati<br />

derivano”;<br />

- l’introduzione di “regole uniformi per impedire che società o altre persone giuridiche registrate fuori dalla giurisdizione<br />

dell'Unione vengano usate per occultare e riciclare i proventi di attività criminose. L'Unione e gli Stati membri<br />

dovrebbero concludere intese con i centri offshore dei paesi terzi per assicurare una cooperazione efficiente e trasparente<br />

nel campo dell'assistenza giudiziaria”;<br />

4) infine un’”azione esterna di maggiore incisività” nel campo dello SLSG.<br />

Questo copioso e consistente programma relativo alla creazione dello SLSG implicava, in generale,<br />

la realizzazione di tre elementi, che costituivano uno il presupposto dell’altro: a) un organismo<br />

(EUROPOL) e un’azione comune in materia di polizia; 2) un organismo (EUROJUST) e un’azione<br />

comune in materia giudiziaria; 3) una legislazione comune in materia sia civile, sia penale.<br />

Quest’ultimo punto, peraltro, presupponeva, a sua volta, l’esistenza di una serie di <strong>diritti</strong> fondamentali<br />

comuni, in quanto facenti parte di un’apposita Carta dell’UE. Pertanto il Consiglio europeo di<br />

Tampere affermava : “In stretta relazione con lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia, il Consiglio<br />

europeo ha approvato la composizione, il metodo di lavoro e le modalità pratiche (riportati in allegato)<br />

concernenti l'organo preposto all'elaborazione di un progetto di Carta dei <strong>diritti</strong> fondamentali<br />

dell'Unione europea.”<br />

L’allegato in questione indicava:<br />

a) per la “composizione dell’organo”:<br />

- i suoi “membri” dovevano essere: i capi di Sto o di governo degli Stati membri, un rappresentante<br />

del presidente della Commissione, 16 membri del PE, due membri di ogni Parlamento nazionale;


- era previsto “l’incarico del presidente e del vicepresidente dell’organo”, il primo eletto dalla totalità<br />

del collegio, e un vicepresidente per ogni componente del collegio stesso;<br />

- erano previsti pure degli “osservatori”: due rappresentanti della Corte di giustizia e due rappresentanti<br />

del Consiglio d’Europa (di cui uno per la Corte europea dei <strong>diritti</strong> dell’uomo);<br />

- gli “organi dell’Unione Europea da invitare a esprimere il loro parere” erano: il Comitato economico<br />

e sociale (CES), il Comitato delle Regioni (CR) e il mediatore (del PE);<br />

- era previsto pure un costante “scambio di opinioni con gli Stati candidati”;<br />

- era prevista la possibilità di “altri organismi, gruppi sociali o esperti da invitare a esprimere il loro<br />

parere”:<br />

- la creazione di un “Segretariato” dell’organo in questione;<br />

b) per i “metodi di lavoro dell’organo”:<br />

- “preparazione”: il presidente avrebbe predisposto un piano di lavoro;<br />

- “trasparenza dei lavori”: pubblicità delle riunioni e dei documenti;<br />

- possibilità di creare “gruppi di lavoro”;<br />

- “redazione della Carta”: si stabiliva che “un comitato di redazione costituito dal Presidente, dal<br />

Vicepresidente e dal rappresentante della Commissione, assistito dal Segretariato generale, elabora<br />

un progetto preliminare di Carta”;<br />

- “elaborazione del progetto di Carta da parte dell’organo”: una volta elaborato in modo tale da ottenere<br />

la firma di tutte le parti presenti nell’organo, il progetto di Carta avrebbe dovuto essere trasmesso<br />

al Consiglio europeo;<br />

c) per le “modalità pratiche”:<br />

- i lavori avrebbero dovuto essere svolti a Bruxelles, con riunioni alternativamente presso la sede<br />

del Consiglio e presso la sede del PE.<br />

Si può davvero affermare che il PE, ancora una volta, aveva vinto su tutta la linea, e stavolta in<br />

tempi brevissimi. La convergenza tra esso e la massima istituzione dell’UE stava ormai emergendo<br />

nella più evidente nettezza, all’insegna della legittimazione democratica dell’Unione, sia nella dimensione<br />

della democrazia rappresentativa, sia in quella della stessa democrazia partecipativa.<br />

Pochi giorni dopo il Comitato presieduto dal belga Dehaene presentava, il 18 ottobre 1999, al presidente<br />

della Commissione europea il suo rapporto, dal titolo “Implicazioni istituzionali<br />

dell’allargamento”. In esso veniva affermato tra l’altro:<br />

- “La riorganizzazione dei trattati proposta nel presente rapporto potrebbe contribuire alla limpidezza e alla semplificazione<br />

necessarie per rendere l’intera costruzione più comprensibile.”<br />

- “Il gruppo ritiene necessario cambiare in modo fondamentale la procedura che in futuro dovrà permettere di modificare<br />

i testi legislativi che attualmente si presentano sotto forma di trattato. Per permettere questo cambiamento occorrerà<br />

preventivamente distinguere la natura delle disposizioni nei trattati attuali.<br />

Negli ultimi dieci-quindici anni, l'Unione ha vissuto un processo permanente di modifica dei trattati. Non vi è stato<br />

momento in cui non si stesse preparando, negoziando o ratificando l'una o l'altra modifica. Al riguardo, la situazione<br />

attuale è emblematica: il trattato di Amsterdam è entrato in vigore il 1° maggio, e il 4 giugno il consiglio europeo di Colonia<br />

ha deciso la convocazione di una nuova Conferenza intergovernativa.<br />

Un processo permanente di revisione dei trattati è fonte di difficoltà politiche in molti degli attuali Stati membri. Esso<br />

contribuisce ad alimentare un senso di incertezza del diritto, nonché il timore di continui nuovi interventi e di un progressivo<br />

accentramento - timore che, a torto o a ragione, è diffuso in settori rilevanti della pubblica opinione. Non è<br />

possibile continuare su questa via in un'Unione allargata e aspettare che ogni modifica dei trattati passi per le procedure<br />

di ratifica di 25 o più sistemi parlamentari, con prevedibili ritardi e frustrazioni, oltre ai rischi di completa paralisi.”<br />

- “Il gruppo suggerisce che i testi dei trattati attuali vengano divisi in due parti distinte.<br />

• La parte fondamentale del trattato enuncerà solo le finalità, i principi e gli orientamenti di politica generale, i <strong>diritti</strong> dei<br />

cittadini e il quadro istituzionale. Queste disposizioni, come avviene attualmente, potrebbero essere modificate solo all'unanimità,<br />

mediante una CIG e previa ratifica da parte di ciascuno Stato membro. È probabile che modifiche del genere<br />

sarebbero poco frequenti.<br />

• In un testo distinto (o in vari testi) figurerebbero le altre disposizioni degli attuali trattati, comprese quelle relative a<br />

politiche specifiche. Queste disposizioni potrebbero essere modificate con una decisione del Consiglio (che delibererebbe<br />

a una nuova maggioranza superqualificata o all'unanimità, a seconda degli argomenti) e con l'assenso del Parlamento<br />

europeo (eventualmente con una maggioranza speciale).<br />

Un cambiamento del genere presenterebbe vari vantaggi:


• ridurrebbe notevolmente l'attuale bisogno di modificare incessantemente i trattati europei;<br />

• renderebbe la struttura istituzionale di base più perspicua, più comprensibile per l'opinione pubblica;<br />

• introdurrebbe una procedura di revisione basata, almeno in parte, su una forma di votazione a maggioranza, con l'intervento<br />

del Parlamento europeo.”<br />

- “Su questo argomento è già stato condotto un lavoro preliminare rilevante, in particolare presso l'Istituto universitario<br />

europeo di Firenze. Esistono progetti che mostrano come si potrebbe procedere a una divisione del genere.<br />

L'impostazione suggerita dal presente rapporto non provocherebbe quindi indebiti ritardi. La Commissione potrebbe<br />

dare mandato all'Istituto europeo affinché ultimi il suo lavoro, in cooperazione con i servizi giuridici del Consiglio, della<br />

Commissione e del Parlamento. Ciò permetterebbe di chiarire i termini della discussione e di dimostrare la fattibilità<br />

e l'interesse di una riorganizzazione dei testi dei trattati. Fin dall'inizio dei suoi lavori la CIG potrebbe allora disporre di<br />

un progetto concreto quale base di negoziato se, conformemente alla proposta del gruppo, deciderà di procedere in questo<br />

modo.”<br />

Con queste affermazioni il gruppo di Dehaene focalizzava nel modo più chiaro il pericolo maggiore<br />

a cui l’UE era ormai posta di fronte. Il processo d’integrazione europea era infatti iniziato, quasi<br />

mezzo secolo prima, con l’istituzione, da parte di soli sei Paesi di una serie di Comunità, fondate su<br />

altrettanti trattati di natura internazionale, che, come tali, richiedevano la negoziazione, la firma e la<br />

ratifica di essi all’unanimità. Nello sviluppo storico di tale processo d’integrazione il modello comunitario<br />

fu peraltro talmente fecondo da provocare la necessità di un sempre più rapido e intensivo<br />

arricchimento del diritto primario comunitario, sotto forma di nuovi trattati emendativi, protocolli,<br />

trattati di adesione di nuovi Stati membri ecc., con la creazione persino di una nuova Unione Europea,<br />

accanto o al di sopra delle Comunità. Il risultato fu una pletora di trattati sempre più difficilmente<br />

controllabile e gestibile da parte degli stessi addetti ai lavori e soprattutto sempre meno comprensibile<br />

e persino leggibile da parte dei cittadini, con la conseguente loro diffidenza nei confronti<br />

dell’Unione. Inoltre il perdurante meccanismo della regola dell’unanimità nella conclusione di ogni<br />

singolo trattato, anche in presenza di una Comunità a 9 o a 10 o a 12 o persino a 15 Stati membri,<br />

portava alla conseguenza che, al fine di garantire il successo di esso e quindi il reperimento di tale<br />

unanimità, si puntava sempre più a soluzioni al ribasso, che rendevano perciò necessario un sempre<br />

più ravvicinato ricorso a un nuovo trattato per soddisfare alle esigenze che quello precedente aveva<br />

disattese. In tal modo si produceva una situazione di continuo cambiamento, di conseguente incertezza<br />

del diritto negli Stati membri e anzi di un vero e proprio sospetto dei cittadini nei confronti di<br />

un’UE, che si temeva facesse questo non altro che per accentrare sempre più velocemente ogni potere<br />

nelle proprie mani. Se poi si pensava all’allargamento imminente, che avrebbe condotto in pochi<br />

anni a un’UE a più di 20 Stati membri, e alla conseguente elevazione all’ennesima potenza dei<br />

meccanismi già in atto sino allo scenario finale della paralisi dell’UE e del rigetto di essa da parte<br />

dei cittadini, diventava quanto mai chiara la necessità e anzi l’urgenza di addivenire subito a una<br />

semplificazione dei trattati accompagnata da una nuova procedura di revisione di essi.<br />

Tale duplice esigenza andava fatta valere unitariamente secondo questa prospettiva: la semplificazione<br />

e anzi la modernizzazione di trattati risalenti in qualche caso a mezzo secolo prima doveva<br />

andare certo in direzione di una vera e propria codificazione dei trattati ovvero a un’autenticazione<br />

giuridica delle versioni consolidate di essi, ma ciò non sarebbe bastato; si sarebbe dovuto procedere<br />

in realtà a una loro vera e propria fusione, almeno per quanto riguarda i due principali ossia il trattato<br />

CE e il trattato UE. Neanche questo peraltro sarebbe bastato, dato che la vera semplificazione,<br />

agli occhi dei cittadini, sarebbe stata costituita dall’offrire loro un trattato di base, fondamentale o<br />

costituzionale o una Costituzione, nella quale raccogliere le disposizioni di base, fondamentali o costituzionali<br />

già presenti nei due trattati CE e UE, e prevedere quindi un altro testo, ben distinto e anzi<br />

separato, in cui raccogliere le altre disposizioni dei due trattati CE e UE. Ciò avrebbe permesso di<br />

introdurre una gerarchia delle norme, trasformando queste ultime disposizioni da diritto primario in<br />

diritto derivato ovvero a una sorta di leggi organiche e, come tali, suscettibili di un nuovo tipo di<br />

procedura di revisione, basata sull’intervento delle sole istituzioni comunitarie (Commissione, Consiglio<br />

e PE) in base alla regola di una maggioranza (per quanto superqualificata) e in ogni caso senza<br />

bisogno di convocare nuove CIG, né, tanto meno, dar luogo ai processi di ratifica nazionali, par-


lamentari o referendari. Tutta la proposta del gruppo di Dehaene si reggeva peraltro su questa semplice,<br />

quanto cruciale condizione: la necessità ci fossero due testi separati.<br />

Lo stesso gruppo di Dehaene riconosceva comunque che tale sua proposta di riorganizzazione dei<br />

trattati passava di fatto attraverso modifiche sostanziali della stessa “architettura” costituzionale<br />

dell’UE in quanto tale, quali la fusione dell’UE e della CE nella stessa UE, l’attribuzione della personalità<br />

giuridica all’UE e solo all’UE, la soppressione della struttura a pilastri dell’UE, la semplificazione<br />

delle procedure decisionali e la fissazione di una gerarchia degli atti giuridici in ambito comunitario,<br />

l’estensione del metodo comunitario agli altri pilastri, la creazione di un preambolo unico<br />

ai trattati, l’affermazione esplicita del primato del diritto europeo e quindi del valore legale della<br />

giurisprudenza della Corte di giustizia, nonché l’adesione dell’UE alla CEDU e l’inserimento nei<br />

trattati della futura Carta dei <strong>diritti</strong> fondamentali dell’UE con valore legale cogente. Perciò, in mancanza<br />

di una reale volontà politica di addivenire a tali mutamenti sostanziali, neppure la proposta di<br />

riorganizzazione dei testi dei trattati avrebbe potuto essere fatta propria dalla prevista CIG..<br />

Perciò il suggerimento del gruppo di Dehaene di coinvolgere ancora una volta e subito il gruppo di<br />

ricerca del Centro di Studi Avanzati “Robert Schuman” dell’IUE di Firenze nella redazione di un<br />

trattato di base o fondamentale e di un testo distinto e anzi separato in cui raccogliere le altre disposizioni<br />

dei due trattati CE e UE e nella predisposizione di due rispettive procedure di revisione, in<br />

un documento da sottoporre alla prevista CIG già all’atto dell’apertura dei suoi lavori, non verrà<br />

immediatamente recepito dal presidente della Commissione Prodi, che attiverà di fatto il nuovo<br />

progetto di ricerca solo all’inizio dell’anno 2000 ossia alla stessa vigilia dell’inizio dei lavori della<br />

CIG, quando era ormai chiaro che quest’ultima non si sarebbe occupata di questi temi, né sostanziali,<br />

né formali.<br />

In previsione del successivo Consiglio europeo di Helsinki, che avrebbe dovuto decidere anche in<br />

merito alla prevista CIG, il PE tornava allora “alla carica” con la risoluzione del 18 novembre 1999<br />

“sulla preparazione della riforma dei trattati e la prossima Conferenza intergovernativa” (relatori:<br />

Giorgios Dimitrakopoulos e Jo Leinen). 300 In piena sintonia con la Commissione Prodi (più volte<br />

citata), ma purtroppo in soltanto apparente sintonia con il rapporto del gruppo di Dehaene, il PE indicava<br />

i seguenti “obiettivi della prossima riforma dell’Unione”:<br />

“1. afferma con forza che un’Unione Europea che riunirà un così gran numero di Stati deve disporre degli strumenti necessari<br />

per realizzare i suoi obiettivi comuni di natura politica, economica e sociale;<br />

2. ritiene pertanto che l’imminente riforma dell’Unione debba rafforzare le istituzioni rendendole più efficaci, trasparenti<br />

e democratiche, al fine di potenziare la legittimità dell’Unione agli occhi dei cittadini e di consentirle di far fronte<br />

all’ampliamento, di svolgere un ruolo attivo nel mondo, di meglio servire i cittadini e di consolidare i <strong>diritti</strong> fondamentali<br />

e la sicurezza interna”<br />

Perciò già “il metodo da applicare alla prossima riforma dell’Unione” avrebbe dovuto riflettere tali<br />

obiettivi, nei seguenti termini:<br />

“3. ritiene necessario che in occasione della prossima riforma dell’Unione si conseguano gli obiettivi seguenti:<br />

- un dibattito pubblico ampio e una trasparenza totale;<br />

- un dialogo permanente con i Paesi candidati all’adesione;<br />

- l’instaurazione di una procedura che consenta un più ampio controllo democratico sull’elaborazione delle modifiche<br />

dei trattati e sulla loro adozione;<br />

4. ritiene che il metodo comunitario, secondo le indicazioni in appresso, possa applicarsi alla preparazione e allo svolgimento<br />

della prossima riforma dei trattati;<br />

5. chiede che la Commissione elabori una proposta globale sulla riforma dell’Unione e presenti un progetto concreto di<br />

riforma del trattato prima dell’avvio ufficiale della CIG; si attende che la Conferenza accetti tale progetto come base dei<br />

negoziati; ritiene necessario pervenire a un consenso politico con il Consiglio sull’ordine del giorno e sul metodo della<br />

riforma;<br />

300 Giorgios Dimitrakopoulos è dal 1994 membro greco del PE nel gruppo del PPE. Jo Leinen è dal 1999 membro tedesco<br />

del PE nel gruppo del PSE, nonché dal 2004 il presidente della Commissione “Affari costituzionali” del PE.


6. reputa indispensabile, per la preparazione dei lavori della CIG, organizzare una concertazione con i Parlamenti nazionali<br />

degli Stati membri e avviare un dialogo aperto con i Parlamenti dei Paesi candidati e le organizzazioni che<br />

rappresentano la società civile; […]<br />

8. chiede che la CIG sia convocata il più presto possibile dopo il Consiglio europeo di Helsinki del dicembre 1999;<br />

9. ritiene ovvio e legittimo di dover partecipare pienamente a tutte le fasi e a tutti i livelli della CIG per il tramite di due<br />

rappresentanti eletti dall’Aula;<br />

10. ritiene che la decisione finale degli Stati membri gli debba essere sottoposta come nella procedura del parere conforme;<br />

Posto questo metodo, il PE si sentiva a maggior ragione autorizzato a proporre un “contenuto delle<br />

riforme” che fosse all’altezza degli obiettivi della riforma, e lo individuava nei seguenti elementi<br />

portanti: 1) la costituzionalizzazione dell’Unione (per avvicinare l’Europa ai cittadini), 2) riforme<br />

istituzionali sufficientemente ambiziose, 3) una nuova clausola relativa a un rafforzamento<br />

dell’integrazione, 3) il rafforzamento del ruolo esterno dell’UE, 4) lo spazio di libertà, di sicurezza e<br />

di democrazia, 5) il rafforzamento della politica economica, sociale e occupazionale.<br />

Per quanto riguarda la “costituzionalizzazione dell’Unione”, il PE affermava risolutamente:<br />

“13. ritiene che la prospettiva di un’Unione ampliata renda necessario il varo di un processo costituzionale che comprenda<br />

una semplificazione e razionalizzazione dei trattati al fine di assicurarne la trasparenza e l’intelligibilità per i cittadini;<br />

è del parere che l’elaborazione della Carta dei <strong>diritti</strong> fondamentali sia parte integrante di tale processo costituzionale;<br />

14. ritiene che tale processo costituzionale consoliderebbe i <strong>diritti</strong> degli Stati membri e dei cittadini dell’Unione Europea<br />

e chiarirebbe le competenze delle istituzioni comuni;<br />

15. ritiene che la costituzionalizzazione dell’Unione implichi, in particolare, la fusione dei trattati in un testo unico e<br />

la distinzione tra due parti:<br />

a) una parte costituzionale, comprendente il preambolo, gli obiettivi dell’Unione e i <strong>diritti</strong> fondamentali, nonché le disposizioni<br />

concernenti le istituzioni, le procedure decisionali e le varie competenze;<br />

b) una seconda parte che definisce gli altri settori dell’attuale trattato;<br />

16. ritiene che la CIG debba modificare la futura procedura di revisione dei trattati basandola sulla duplice legittimazione<br />

dell’Unione, onde pervenire a una democratizzazione del processo di revisione grazie all’introduzione di un<br />

potere codecisionale dell’istituzione che rappresenta gli Stati [il Consiglio] e di quella che rappresenta i cittadini<br />

dell’Unione [il Parlamento Europeo];<br />

17. è favorevole all’elaborazione di uno statuto dei partiti politici a livello europeo quale passo positivo per facilitare<br />

la partecipazione politica dei cittadini;”<br />

Il PE poneva dunque come primo contenuto delle riforme, da realizzarsi già attraverso l’imminente<br />

CIG, la stessa “costituzionalizzazione” dell’UE, che veniva ormai fatta coincidere con la redazione<br />

di un unico trattato, che, pur senza venir denominato “Costituzione”, né “trattato costituzionale”,<br />

comportasse (proprio nella sua natura di rappresentare il punto di riferimento tra l’UE e i suoi cittadini<br />

e quindi nella necessità di risultare comprensibile a questi ultimi) la rifusione in sé di tutti i trattati<br />

costitutivi preesistenti, secondo un’articolazione logico-giuridica di natura prettamente costituzionale.<br />

La suddivisione, infatti, di quest’unico trattato in due parti ben distinte tra loro, una propriamente<br />

costituzionale, e l’altra per così dire applicativa, mentre consentiva comunque una visione<br />

unitaria di tutta la normativa costitutiva esistente, focalizzava, nella prima parte, gli elementi<br />

portanti dell’UE (preambolo, obiettivi, <strong>diritti</strong> fondamentali (ossia la stessa Carta, incardinata quindi<br />

nel trattato e perciò rivestita di valore legale vincolante), istituzioni, procedure decisionali e competenze),<br />

in una sorta di quadro di immediato utilizzo proprio per i cittadini.<br />

Il carattere in qualche modo definitivo di tale trattato si evidenziava pure dalla nuova procedura di<br />

revisione di esso per i tempi futuri, individuata non più in una CIG, bensì nella stessa procedura codecisionale,<br />

del Consiglio e del PE, che avrebbe dovuto caratterizzare tutta l’attività politica futura<br />

dell’UE. 301 Infine il nuovo ruolo del PE avrebbe dovuto comportare una maggiore vicinanza di esso<br />

301 In tal modo il PE non raccoglieva, di fatto, la chiara indicazione del rapporto del gruppo di Dehaene sulla necessità<br />

di distinguere e anzi di separare i due testi, fondamentale e non, al duplice fine di fornire ai cittadini un trattato fondamentale<br />

(ben separato dal resto) e di permettere invece alle disposizioni presenti nell’altro testo di venire sottoposte a un<br />

procedimento di revisione istituzionale europeo (senza CIG, ratifiche nazionali e unanimità). E infatti la risoluzione del


ai suoi elettori per mezzo della costruzione concreta di veri e propri partiti politici europei, sulla base<br />

della creazione di uno specifico “statuto”, che ne precisasse la natura giuridica, la funzione nella<br />

società civile europea e il ruolo nel PE.<br />

Per quanto riguarda le “riforme istituzionali”, il PE proponeva:<br />

- “la votazione e a maggioranza qualificata e la codecisione devono divenire il metodo normale per la presa di decisioni<br />

legislative di carattere generale nella Comunità”, mentre “l’unanimità deve essere riservata alle questioni di carattere<br />

costituzionale e fondamentale”;<br />

- stabilire “la nuova ponderazione dei voti in seno al Consiglio e la composizione della Commissione”;<br />

- la pubblicità delle riunioni del Consiglio se convocate per decisioni legislative;<br />

- la possibilità anche per il PE di chiedere alla Corte di giustizia l’intimazione delle dimissioni d’ufficio di un membro<br />

della Commissione, la facoltà del presidente di quest’ultima di destituire un singolo commissario e di sottoporre al PE la<br />

questione della fiducia;<br />

- la competenza del PE a organizzare la propria attività;<br />

- l’obbligo degli Stati membri di combattere le frodi ai danni degli interessi finanziari della Comunità.<br />

Per quanto riguarda “una nuova clausola relativa a un rafforzamento dell’integrazione”, il PE raccomandava:<br />

- la necessità di “ridurre le possibilità di blocco da parte di qualsiasi Stato membro”, nonché di “salvaguardare il quadro<br />

istituzionale unico” dell’UE;<br />

- fatte salve queste premesse, il potenziamento dell’istituto della “cooperazione rafforzata”.<br />

Per quanto riguarda il “rafforzamento del ruolo esterno dell’UE”, il PE proponeva in primo luogo<br />

l’attribuzione a quest’ultima della “personalità giuridica”, con la seguente argomentazione:<br />

“32. Ritiene che lo status, la visibilità e il potere negoziale dell’Unione sul piano internazionale resteranno limitati finché<br />

essa non disporrà di una personalità giuridica unica e che pertanto l’Unione debba godere, nelle relazioni internazionali,<br />

della capacità giuridica necessaria all’esercizio delle sue funzioni e alla realizzazione dei suoi scopi.”<br />

E, in secondo luogo, per quanto attiene a “sicurezza e difesa”, le seguenti misure:<br />

- una PESD “che garantisca le frontiere esterne degli Stati membri quali frontiere dell’Unione Europea;”<br />

- la creazione di “una capacità d’azione, basata su mezzi militari credibili, attraverso l’integrazione dell’UEO” e la necessità<br />

che “gli Stati membri neutrali e quelli non allineati debbano poter partecipare pienamente e su base paritaria alle<br />

operazioni dell’UE”;<br />

E, in terzo luogo, per quanto attiene alle “relazioni economiche esterne”, le seguenti richieste:<br />

- la “partecipazione della Comunità alle organizzazioni internazionali multilaterali” e la necessità che “la competenza<br />

della Comunità e i poteri della Commissione di negoziare accordi esterni vengano estesi a tutti i servizi e ai <strong>diritti</strong> di<br />

proprietà intellettuale”, p.e. “ai negoziati OMC”;<br />

- che “la regola del parere conforme [anch4e del PE] divenga la regola generale per la conclusione di tutti gli accordi<br />

internazionali di importanza rilevante”, comprese “le decisioni relative all’applicazione provvisoria o alla sospensione<br />

degli accordi a causa di violazioni dei <strong>diritti</strong> umani o del mancato rispetto delle regole democratiche”<br />

Per quanto riguarda lo “spazio di libertà, di sicurezza e di democrazia”, si chiedeva pure<br />

l’istituzione di una “Procura europea con funzioni inquirenti” ai fini della “protezione degli interessi<br />

finanziari dell’Unione”.<br />

Per quanto riguarda il “rafforzamento della politica economica, sociale e occupazionale”, si raccomandava:<br />

- il potenziamento del ruolo delle istituzioni politiche dell’Unione “nella definizione degli orientamenti di politica economica,<br />

sociale e occupazionale dell’Unione, in vista di una migliore sinergia e di un migliore equilibrio fra tali politi-<br />

PE proponeva tale nuovo tipo di procedura di revisione per tutte le disposizioni (fondamentali e non) contenute, come<br />

semplici parti distinte, in un unico testo ovvero in un unico trattato.


che in seno all’UE, per dare un quadro di riferimento alle decisioni indipendenti di politica monetaria affidate alla Banca<br />

centrale europea”; 302<br />

la sostituzione, nel trattato CE, dell’espressione “economia di mercato aperta” con quella di “economia di mercato sociale”;<br />

- la previsione di interventi “sui sistemi di sicurezza sociale dell’Unione Europea”;<br />

- l’introduzione di disposizioni sul turismo, la politica energetica, la creazione di un’autorità unica europea preposta al<br />

controllo del traffico aereo, la pesca e lo sport.”<br />

Un mese dopo tale risoluzione del PE si svolgeva il Consiglio europeo di Helsinki del 10-11 dicembre<br />

1999, che in primo luogo adottava la “Dichiarazione per il millennio”. Con questo quanto mai<br />

ambizioso traguardo temporale, il Consiglio europeo poneva all’UE i seguenti obiettivi:<br />

- “L’Europa sta affrontando le realtà della società dell’informazione e della globalizzazione. E’ necessario prendere<br />

provvedimenti in relazione all’invecchiamento della popolazione e rispondere alle aspettative dei giovani, Svilupperemo<br />

le nostre risorse umane mediante la formazione permanente e l’innovazione e promuoveremo un’economia europea<br />

dinamica e aperta, basata sul sapere, per garantire la crescita e ridurre su base permanente la disoccupazione”<br />

- la lotta “contro il degrado dell’ambiente a livello locale e mondiale”<br />

- “faremo dell’Unione un autentico spazio di libertà, sicurezza e giustizia”<br />

- la creazione di “capacità dell’Unione in ambito militare e civile al fine di gestire le crisi internazionali e di offrire<br />

assistenza umanitaria”<br />

Per il conseguimento di questi obiettivi del successivo “millennio”, il Consiglio europeo ricordava<br />

peraltro la necessità di disporre di “un’Unione aperta, democratica ed efficiente”, , nonché che occorreva<br />

“la fiducia e l’attivo coinvolgimento dei cittadini e delle organizzazioni civili”, nonché il<br />

“pieno sostegno degli Stati membri”, in rapporto “all’idea di un’Europa per tutti”, condivisa e sostenuta<br />

da “ogni nuova generazione”.<br />

In rapporto all’obiettivo del secolo o anzi del decennio successivo ovvero quello della “preparazione<br />

all’allargamento”, il Consiglio europeo stabiliva l’enorme obiettivo di un “processo di adesione“<br />

comprensivo di ben “13 Stati candidati in un quadro unico” e soprattutto decideva che “dopo la ratifica<br />

dei risultati” della CIG sulla riforma istituzionale “l’Unione dovrebbe essere in grado di accogliere<br />

nuovi Stati membri a partire dalla fine del 2000”. 303<br />

Inoltre il Consiglio europeo notava che il “processo di allargamento” avrebbe dovuto comportare<br />

per gli Stati candidati in primo luogo “tutti gli sforzi per comporre ogni controversia ancora insoluta<br />

in materia di confini”.<br />

L’avvertenza era rivolta in particolare alla situazione di Cipro, un’isola coincidente in teoria con un<br />

unico Stato, ma divisa di fatto fra due Stati “alternativi” fra loro, l’uno, greco-cipriota, non riconosciuto<br />

solo dalla Turchia e candidato all’adesione all’UE, e l’altro, turco-cipriota, riconosciuto soltanto<br />

dalla Turchia. Si trattava di un problema, che esigeva una soluzione politica nell’ambito<br />

dell’ONU. Ma il Consiglio europeo precisava: “Se, al termine dei negoziati di adesione, non sarà<br />

stata trovata una soluzione, il Consiglio deciderà in merito all’adesione senza che il raggiungimento<br />

di una soluzione costituisca una condizione preliminare.” E, nello stesso tempo, riconosceva: “La<br />

Turchia è uno Stato candidato destinato ad aderire all’Unione in base agli stessi criteri applicati agli<br />

altri Stati candidati.” 304<br />

Per quanto riguarda, invece, il necessario complemento del processo di allargamento ovvero la<br />

“Conferenza intergovernativa sulle riforme istituzionali”, il Consiglio europeo decideva la sua con-<br />

302 Il PE era dunque quanto mai consapevole della necessità di mettere la BCE di fronte a una unitaria, integrata e coerente<br />

politica economica, sociale e occupazionale comune (come delineata nel Consiglio europeo di Colonia), pena lo<br />

squilibrio complessivo del sistema dell’UE.<br />

303 Emergeva in tal modo la diversa strategia del Consiglio europeo, centrata a tal punto sulla quasi ossessiva urgenza di<br />

far entrare quanti più Stati possibili dentro l’UE e nel minor tempo possibile, da restringere i tempi di svolgimento della<br />

CIG e conseguentemente il suo mandato, con il rischio di compromettere seriamente il delicato equilibrio fra allargamento<br />

e riforme istituzionali.<br />

304 In tal modo erano già poste virtualmente le premesse della futura adesione di Cipro nel senso del solo Stato grecocipriota,<br />

nonché dell’impossibile adesione della Turchia, in quanto quest’ultima non riconosce tuttora tale Stato, che è<br />

ormai uno Stato membro dell’UE.


vocazione per l’inizio del febbraio 2000 e la sua conclusione entro il dicembre 2000. Confermava il<br />

mandato della CIG, ristretto ai soli elementi seguenti: dimensioni e composizione della Commissione<br />

e ponderazione dei voti ed eventuale estensione delle votazioni a maggioranza qualificata in sede<br />

di Consiglio. Ma soprattutto prevedeva la partecipazione alla CIG solo del rappresentante della<br />

Commissione, con l’esclusione di fatto del PE. Era la più secca smentita, stavolta, alla “strategia” di<br />

quest’ultimo.<br />

Per quanto riguarda la “politica europea comune in materia di sicurezza e di difesa”, il Consiglio<br />

europeo prevedeva lo “sviluppo della capacità di gestione militare e non militare delle crisi da parte<br />

dell’Unione Europea”. L’affermazione più impegnativa raccomandava di “sviluppare una capacità<br />

decisionale autonoma e, ove non sia impegnata la NATO nel suo complesso, a lanciare e condurre<br />

operazioni militari dirette dall’UE in risposta a crisi internazionali.” Sul piano delle proposte concrete<br />

si prevedeva, fra l’altro, la capacità, entro il 2003, “di schierare nell’arco di 60 giorni e mantenere<br />

per almeno un anno forze militari fino a 50.000-60.000 uomini capaci di svolgere l’insieme dei<br />

compiti di Petersberg”. Ma si prevedeva pure la creazione di “un meccanismo di gestione non militare<br />

delle crisi per coordinare e rendere più efficaci i vari mezzi e le varie risorse civili, parallelamente<br />

a quelle militari, a disposizione dell’Unione e degli Stati membri”.<br />

Per quanto riguarda l’”economia concorrenziale, sostenibile e generatrice di occupazione” si sottolineavano<br />

da un lato i mutamenti demografici e quindi la necessità di politiche per l’invecchiamento<br />

attivo (innalzamento dell’età pensionabile) e di una maggiore efficacia nei settori pubblico e privato<br />

per gestire gli oneri economici derivanti da tali mutamenti (restrizione delle pensioni, diverso uso<br />

del TFR, fondi-pensione, pensioni integrative ecc.), mentre, dall’altro lato, si evidenziava il processo<br />

di globalizzazione e quindi la necessità di favorire l’innovazione e le riforme strutturali, soprattutto<br />

in direzione delle nuove tecnologie e della società dell’informazione. In tale rivoluzionario<br />

cambiamento sarebbe occorso peraltro anche garantire l’esistenza di adeguate reti di sicurezza sociale.<br />

Tali riforme avrebbero peraltro dovuto trovare la necessaria elaborazione nell’ambito di un integrato<br />

coordinamento delle politiche economiche, strutturali e dell’occupazione, da affidare ultimativamente<br />

allo stesso Consiglio europeo, che nella sua successiva riunione a Lisbona il 23-24 marzo<br />

2000 avrebbe affrontato il tema di “un’economia basata sul possesso delle conoscenze”.<br />

Tra le riforme strutturali si faceva menzione pure di un “pacchetto fiscale”, a proposito del quale si<br />

affermava: “Tutti i cittadini residenti in uno Stato membro dell’Unione Europea dovrebbero pagare<br />

ogni imposta dovuta sui loro redditi da risparmio”.<br />

A proposito del mercato unico, si richiamava l’attenzione sulla necessità di un efficace utilizzo delle<br />

tecnologie dell’informazione e della comunicazione, nell’ambito di una società dell’informazione<br />

che avrebbe determinato lo stesso mercato del lavoro e anzi il mercato come tale. In merito a tale<br />

mercato elettronico si poneva l’esigenza della presenza di un mercato delle telecomunicazioni aperto<br />

e competitivo e quindi di una legislazione che sostenesse il commercio elettronico a livello europeo<br />

e dunque di una normativa UE sul commercio elettronico.<br />

Infine si raccomandava la ratifica del protocollo di Kyoto sull’ambiente prima del 2002.<br />

Il secondo millennio si concludeva quindi, degnamente, con l’insediamento, il 17 dicembre 1999,<br />

dell’”organo” destinato a redigere la prevista Carta dei <strong>diritti</strong> fondamentali dell’Unione ossia della<br />

Convenzione, nome designato originariamente dal PE per indicare l’assemblea che avrebbe dovuto<br />

redigere una Costituzione per l’Europa e attribuito ora all’assemblea incaricata di compiere di fatto<br />

il primo passo fondamentale della “costituzionalizzazione” dell’UE. 305<br />

305 Il presidente della Convenzione era il tedesco Roman Herzog, già presidente della Corte costituzionale federale<br />

(1987-’94) e poi presidente della Repubblica federale di Germania (1994-’99). Il capo della delegazione dei membri del<br />

PE era Iñigo Méndez de Vigo (E, PPE). Gli altri 15 membri del PE erano: Pervenche Berès (F, PSE), Georges Berthu<br />

(F, UEN, Unione per l’Europa delle nazioni), Jens-Peter Bonde (DK, EDD, Europa delle democrazie e delle diversità),<br />

Charlotte Cederschiöld (S, PPE), Thierry Cornillet (F, PPE), Andrew Duff (UK, ELDR), Ingo Friedrich (D, PPE),<br />

Sylvia-Yvonne Kaufmann (D, SUE), Timothy Kirkhope (UK, PPE), Jo Leinen (D, PSE), Hanja Maij-Weggen (NL,<br />

PPE), David Martin (UK, PSE), Hans-Peter Martin (A, PSE), Elena Paciotti (I, PSE), Johannes Voggenhuber (A, Ver-


E finalmente l’Unione Europea perveniva al presente primo decennio del XXI secolo. Il primo suo<br />

atto fu l’adozione da parte del PE della risoluzione del 3 febbraio 2000 “sulla convocazione della<br />

Conferenza intergovernativa” (relatori; Giorgios Dimitrakopoulos e Jo Leinen). Essa affermava<br />

molto semplicemente, ancora una volta in pieno accordo con la Commissione, che le conclusioni<br />

del Consiglio europeo di Helsinki non avevano tenuto conto delle proposte del PE e anzi l’ordine<br />

del giorno definito a Helsinki per la CIG non rispettava nemmeno lo stesso protocollo (del trattato)<br />

di Amsterdam sulle riforme da adottare in vista dell’allargamento (tanto più in quanto esteso a ben<br />

13 Paesi a partire dalla fine del 2000), mettendolo così a rischio. Infine si augurava che la presidenza<br />

portoghese della CIG recepisse comunque le istanze del PE.<br />

In tale clima di ”euforia” dell’UE per l’imminente allargamento e di forte preoccupazione del PE<br />

per le prospettive della riforma istituzionale si apriva poi, il 14 febbraio 2000, la Conferenza intergovernativa<br />

sulle riforme istituzionali in vista dell’allargamento.<br />

Alla vigilia della riunione di primavera del Consiglio europeo, il PE interveniva allora sulle sue ancor<br />

più ambiziose prospettive “costituzionali” con la risoluzione del 16 marzo 2000<br />

“sull’elaborazione di una Carta dei <strong>diritti</strong> fondamentali dell’Unione Europea” (relatori: Andrew<br />

Duff e Johannes Voggenhuber). 306<br />

Collegando l’elaborazione in corso della Carta da parte della Convenzione con i temi apparentemente<br />

irrelati della CIG e dello stesso allargamento dell’UE e riassumendo una volta per tutte la valenza<br />

costituzionale per eccellenza della Carta, la risoluzione faceva presente alla Convenzione i requisiti<br />

a cui doveva soddisfare tale documento:<br />

- “che la Carta sia dotata di carattere giuridicamente vincolante mediante il suo inserimento nel trattato<br />

sull’Unione Europea”;<br />

- “che la Carta includa <strong>diritti</strong> fondamentali quali il diritto di associazione in sindacato e il diritto di sciopero”;<br />

- “che la Carta riconosca l’indivisibilità dei <strong>diritti</strong> fondamentali, estendendo il suo campo di applicazione a tutte le istituzioni<br />

e a tutti gli organi dell’Unione Europea, nonché a tutte le sue politiche, comprese quelle che rientrano nel secondo<br />

e terzo pilastro […]”;<br />

- “che la Carta sia vincolante per gli Stati membri quando attuano o recepiscono disposizioni di diritto comunitario”;<br />

- “che la Carta sia dotata di carattere innovativo, concedendo alle persone presenti nell’Unione Europea una protezione<br />

giuridica anche nei confronti di nuove minacce ai <strong>diritti</strong> fondamentali, come ad esempio nel settore delle tecnologie<br />

dell’informazione e delle biotecnologie e confermi come parte integrante dei <strong>diritti</strong> fondamentali soprattutto i <strong>diritti</strong> della<br />

donna, la clausola generale di non discriminazione e la protezione dell’ambiente”<br />

La risoluzione esigeva altresì “un’ampia discussione sociale negli Stati membri che coinvolga le<br />

parti sociali, le ONG ed altri rappresentanti della società civile”. Auspicava anzi “il riconoscimento<br />

del contributo che possono fornire le organizzazioni della società civile al processo di elaborazione<br />

della Carta”.<br />

Infine la risoluzione coinvolgeva la stessa CIG, che stava discutendo la riforma istituzionale, a:<br />

- “iscrivere nel suo ordine del giorno l’inclusione nel trattato della Carta dei <strong>diritti</strong> fondamentali e ad accordarle il<br />

ruolo che le spetta, vista la sua straordinaria importanza per la realizzazione di un’Unione sempre più stretta tra i popoli<br />

dell’Europa”;<br />

- “consentire all’Unione di aderire alla Convenzione europea per i <strong>diritti</strong> dell’uomo al fine di assicurare una stretta<br />

cooperazione con il Consiglio d’Europa […]”;<br />

- “garantire a tutte le persone che godono della protezione della Carta l’accesso alla Corte di giustizia delle Comunità<br />

europee, ampliando così i meccanismi esistenti di revisione giudiziaria”.<br />

Con tale risoluzione il PE riassumeva proposte maturate in decenni di elaborazione costituzionale<br />

europea, presentandole peraltro in forma semplice, sintetica e al momento giusto. Da allora in poi<br />

di). Elena Paciotti, unico membro italiano del PE, era stata magistrato sino alla Corte di cassazione, membro del CSM e<br />

presidente dell’Associazione nazionale magistrati; lascerà il PE nel 2004.<br />

306 Andrew Duff è dal 1999 membro britannico del PE (nel gruppo dell’ALDE). Johannes Voggenhuber è dal 1999<br />

membro austriaco del PE (nel gruppo dei Verdi), nonché dal 1999 vicepresidente della Commissione “Affari costituzionali”.


questi temi, connessi alla Carta, domineranno il dibattito politico-istituzionale comunitario, sino a<br />

venire puntualmente recepiti nel futuro TCE e anche oggi, a Costituzione “eclissata”, formano parte<br />

integrante del nuovo trattato di riforma in discussione nell’attuale CIG.<br />

Pochi giorni dopo si svolgeva il Consiglio europeo di Lisbona del 23-24 marzo 2000, volto a “concordare<br />

un nuovo obiettivo strategico per l'Unione al fine di sostenere l'occupazione, le riforme economiche<br />

e la coesione sociale nel contesto di un'economia basata sulla conoscenza”.<br />

Il Consiglio europeo individuava nella “nuova sfida” posta dalla globalizzazione e dalla nuova economia<br />

basata sulla conoscenza l’occasione per una trasformazione radicale dell’economia europea<br />

che fosse modellata dall’UE “in modo coerente con i propri valori e concetti di società”, attraverso<br />

un ampio spettro di interventi volti a “creare le infrastrutture del sapere, promuovere l’innovazione<br />

e le riforme economiche e modernizzare i sistemi di previdenza sociale e d’istruzione”.<br />

La situazione di partenza ovvero i “punti di forza e di debolezza dell’Unione” erano rappresentati<br />

rispettivamente, per i punti di forza da: un basso livello dell’inflazione e dei tassi d’interesse, una<br />

notevole riduzione dei disavanzi del settore pubblico, un equilibrio della bilancia dei pagamenti<br />

dell’UE, l’introduzione dell’euro, una larga realizzazione del mercato interno, l’imminente allargamento,<br />

un elevato livello di formazione della forza lavoro e adeguati sistemi di protezione sociale;<br />

per i punti di debolezza da: un troppo basso tasso di occupazione (soprattutto quanto a donne e lavoratori<br />

anziani), marcati squilibri regionali, l’insufficiente sviluppo del settore dei servizi (soprattutto<br />

quanto a telecomunicazioni e Internet) e una progressiva mancanza di qualificazione (soprattutto<br />

nelle tecnologie dell’informazione).<br />

Di qui il nuovo obiettivo strategico dell’UE: “diventare l’economia basata sulla conoscenza più<br />

competitiva e dinamica del mondo” (con la previsione di un tasso medio di crescita economica del<br />

3% circa). Le “modalità d’azione” previste per il conseguimento di questo obiettivo entro il 2010<br />

erano: 1) “predisporre il passaggio a un’economia competitiva, dinamica e basata sulla conoscenza”;<br />

2) “modernizzare il modello sociale europeo investendo nelle persone e costruendo uno Stato<br />

sociale attivo”; 3) “porre in atto le decisioni: un approccio più coerente e sistematico”.<br />

Per quanto riguarda la prima modalità d’azione, essa coincideva con l’instaurazione di “una società<br />

dell’informazione per tutti”, nella quale:<br />

a) “le imprese e i cittadini devono avere accesso a un’infrastruttura delle comunicazioni a livello mondiale poco costosa<br />

e a un’ampia gamma di servizi. Occorre che ogni cittadino possieda le competenze necessarie per vivere e lavorare in<br />

questa nuova società dell’informazione”;<br />

b) “il pieno sfruttamento del potenziale elettronico dell’Europa dipende dalla creazione di condizioni favorevoli allo<br />

sviluppo del commercio elettronico e di Internet; l’Unione potrà in tal modo stare al passo con i suoi concorrenti grazie<br />

al collegamento veloce con Internet di un maggior numero di imprese e di privati cittadini. Le regole del commercio elettronico<br />

devono essere affidabili e ispirare fiducia a imprese e consumatori. E’ necessario intraprendere iniziative per<br />

garantire che l’Europa mantenga il suo ruolo guida in settori tecnologici chiave quali le telecomunicazioni mobili”<br />

Tale piano d’azione “eEurope” avrebbe dovuto essere modulato poi secondo i seguenti obiettivi<br />

specifici: 1) “definire uno spazio europeo della ricerca e dell’innovazione” (con una ricerca scientifica<br />

europea integrata e una tutela europea unificata dei brevetti tecnici), 2) creare un ambiente favorevole<br />

all’avviamento e allo sviluppo di imprese innovative, specialmente di piccole e medie imprese<br />

(PMI)” (con semplificazioni delle procedure, abbassamento dei costi e interconnessione con i<br />

soggetti esterni al mondo delle imprese), 3) “riforme economiche per un mercato interno completo e<br />

pienamente operativo” (con la liberalizzazione di servizi, quali gas, energia elettrica, acqua, poste e<br />

trasporti, compresi quelli aerei, nonché appalti pubblici), 4) “mercati finanziari efficienti e integrati”,<br />

5) “coordinamento delle politiche macroeconomiche: risanamento di bilancio, qualità e sostenibilità<br />

delle finanze pubbliche” (per i seguenti scopi: a) allentare la pressione fiscale sul lavoro, b)<br />

riorientare la spesa pubblica in direzione dell’accumulazione di capitale fisico e umano e del sostegno<br />

a ricerca e sviluppo, innovazione e tecnologie dell’informazione, c) garantire la sostenibilità a<br />

lungo termine delle finanze pubbliche rispetto all’impatto dell’invecchiamento della popolazione).<br />

Per quanto riguarda la seconda modalità d’azione ossia “modernizzare il modello sociale europeo<br />

investendo nelle persone e costruendo uno Stato sociale attivo”, il Consiglio europeo affermava:


“Le persone sono la principale risorsa dell’Europa e su di esse dovrebbero essere imperniate le politiche dell’Unione.<br />

Investire nelle persone e sviluppare uno Stato sociale attivo e dinamico sarà essenziale per la posizione dell’Europa<br />

nell’economia della conoscenza, nonché per garantire che l’affermarsi di questa nuova economia non aggravi i problemi<br />

sociali esistenti, rappresentati dalla disoccupazione, dall’esclusione e dalla povertà.”<br />

Di qui i seguenti obiettivi specifici: 1) “istruzione e formazione per vivere e lavorare nella società<br />

dei saperi” (con scuole intese come centri locali di apprendimento rivolti a giovani, adulti disoccupati<br />

e persone occupate soggette al rischio di obsolescenza delle loro competenze, per la promozione<br />

di nuove competenze di base e il rilascio di qualifiche più trasparenti), 2) “posti di lavoro più<br />

numerosi e migliori per l’Europa: sviluppo di una politica <strong>attiva</strong> dell’occupazione” (con la previsione<br />

per il 2010 di un tasso di occupazione del 70%), 3) “modernizzare la protezione sociale” (con la<br />

sostenibilità dei sistemi pensionistici sino al 2020 e oltre, attuata grazie all’ampliamento della forza<br />

lavoro), 4) “promuovere l’inclusione sociale” (attraverso l’accesso universale alle nuove conoscenze<br />

e quindi il lavoro per tutti).<br />

Per quanto riguarda la terza modalità d’azione ovvero “porre in atto le decisioni: un approccio più<br />

coerente e sistematico”, lo stesso Consiglio europeo di Lisbona, da cui prenderà nome il “processo<br />

di Lisbona”, affermava: “Non occorre alcun nuovo processo. Gli attuali indirizzi di massima per le<br />

politiche economiche e i processi di Lussemburgo, Cardiff e Colonia offrono i necessari strumenti<br />

[…]”. Il motivo di questa strana affermazione stava nella seguente strategia complessiva in materia<br />

di politica economica comune per “migliorare i processi attuali”: il Consiglio nelle formazioni specifiche<br />

avrebbe dovuto occuparsi dei tre processi predetti, il Consiglio ECOFIN avrebbe dovuto<br />

presiedere alla formulazione degli indirizzi di massima per le politiche economiche, ma il nuovo obiettivo<br />

strategico dell’UE dell’”economia basata sulla conoscenza”, che avrebbe dovuto far da<br />

traino per tutta l’economia europea ed essere il punto focale di tutte le politiche economiche<br />

dell’UE, era considerato troppo importante, perché a occuparsene direttamente e stabilmente non<br />

fosse lo stesso Consiglio europeo, attraverso l’”attuazione di un nuovo metodo di coordinamento<br />

aperto”.<br />

Quest’ultimo,”concepito per assistere gli Stati membri nell’elaborazione progressiva delle loro politiche”,<br />

consisteva, in presenza della regola dell’unanimità per tale istituzione, in una sorta di mutua<br />

assistenza degli Stati membri dell’UE, volta a definire per ciascuno di essi: 1) calendari specifici per<br />

il conseguimento degli obiettivi, 2) indicatori quantitativi e qualitativi e parametri di riferimento ai<br />

massimi livelli mondiali, 3) obiettivi specifici nazionali, 4) attività di monitoraggio, verifica e valutazione<br />

inter pares organizzate con funzione di processi di apprendimento reciproco. In altri termini:<br />

i membri del Consiglio europeo si impegnavano tra loro per concordare e rispettare degli obiettivi<br />

precisamente scanditi nel tempo e definiti scientificamente, accettando una valutazione collegiale<br />

dei risultati conseguiti. Si trattava del massimo sforzo dell’UE per realizzare quella politica economica<br />

comune, così indispensabile soprattutto a fronte della politica monetaria comune, del mercato<br />

unico e della prospettiva dell’enorme allargamento. Ciò peraltro comportava di fatto: a) la rigorosa<br />

subordinazione della politica economica nazionale dello Stato membro alla concertazione comune;<br />

b) una concertazione comune a sua volta ristretta alle decisioni dello stesso Consiglio europeo,<br />

che in tal modo si attribuiva un ruolo e un potere sempre più consistente rispetto alle istituzioni comunitarie<br />

dell’UE.<br />

La realizzazione di questa concertazione doveva basarsi peraltro su “un’impostazione totalmente<br />

decentrata, […] a cui l’Unione, gli Stati membri, i livelli regionali e locali, nonché le parti sociali e<br />

la società civile parteciperanno <strong>attiva</strong>mente mediante diverse forme di partenariato. Un metodo di<br />

analisi comparativa delle migliori pratiche in materia di gestione del cambiamento sarà messo a<br />

punto dalla Commissione europea, di concerto con vari fornitori e utenti, segnatamente le parti sociali,<br />

le imprese e le ONG”. In tal modo persino il Consiglio europeo, in mancanza dei presupposti<br />

per un controllo democratico nella forma della dimensione rappresentativa, faceva posto alla nuova<br />

dimensione partecipativa della democrazia europea (nel senso glocale), al fine di assicurare il con-


seguimento di obiettivi, che di fatto erano strettamente connessi pure alle condizioni materiali (tecnologiche<br />

ed economiche) dell’effettiva emersione di una integrata “società civile europea”.<br />

Nel frattempo continuavano peraltro i lavori della Convenzione per la Carta e della CIG per le riforme<br />

istituzionali. A proposito di quest’ultima il PE adottava allora la risoluzione del 13 aprile<br />

2000 “recante proposte per la Conferenza intergovernativa” (relatori: Giorgios Dimitrakopoulos e<br />

Jo Leinen). In essa il PE si adeguava alla strategia del Consiglio europeo per la conclusione della<br />

CIG entro il 2000 “allo scopo di non ritardare lo storico e vitale processo di ampliamento”. Tuttavia<br />

poneva, con ben sette anni di anticipo rispetto a un tema solo oggi ufficialmente dibattuto in sede di<br />

Consiglio europeo, la necessità dello “svolgimento di una discussione approfondita sulle prospettive<br />

del processo di unificazione e i confini della futura Unione”. 307<br />

Inoltre il PE presentava comunque una serie di richieste alla CIG largamente eccedenti lo strettissimo<br />

mandato affidatole dal Consiglio europeo.<br />

Al primo punto figurava il tema “per un’Unione più democratica ed efficace: composizione e funzionamento<br />

delle istituzioni e degli organi dell’Unione e procedure decisionali”. Per quanto riguarda<br />

lo stesso Parlamento Europeo, la risoluzione proponeva:<br />

- il mantenimento del numero di membri entro il limite di 700 sino alle elezioni europee del 2009;<br />

- a partire dalle elezioni europee del 2009 “la possibilità che un certo numero di deputati del Parlamento possa essere<br />

eletto nel quadro di una circoscrizione europea unica, attribuendo ad ogni elettore due suffragi: uno a titolo delle liste<br />

nazionali e l’altro a titolo delle liste europee; le liste europee comporteranno almeno un cittadino di ogni Stato membro”;<br />

308<br />

- l’inserimento nel trattato CE della seguente dicitura: “Il Parlamento Europeo stabilisce lo statuto e le condizioni generali<br />

per l’esercizio delle funzioni dei suoi membri”<br />

- l’inserimento nel trattato CE della seguente dicitura: “I partiti politici a livello europeo contribuiscono a formare una<br />

coscienza europea e ad esprimere la volontà politica dei cittadini dell’Unione”, l’adozione entro un anno dall’entrata in<br />

vigore del presente trattato [entro il 1° febbraio 2004] de “i requisiti di riconoscimento, lo statuto e le modalità di finanziamento<br />

(compreso il finanziamento comunitario) dei partiti politici europei”; per “i partiti politici europei che non<br />

rispettano i principi democratici e i <strong>diritti</strong> fondamentali” l’introduzione di “una procedura mirante a sospenderne il finanziamento<br />

da parte dell’UE”;<br />

- l’inserimento nel trattato CE della seguente dicitura: “Il Parlamento Europeo decide a maggioranza assoluta dei deputati<br />

che lo compongono dove fissare la sua sede e tenere tutte le sue riunioni” 309<br />

Per quanto riguarda il Consiglio, il PE proponeva:<br />

- la definizione di “maggioranza qualificata” come “il voto favorevole della maggioranza semplice degli Stati membri<br />

che rappresentano almeno la maggioranza della popolazione totale degli Stati membri dell’Unione”; 310<br />

- la pubblicità dei lavori del Consiglio quando agisce in qualità di legislatore o di autorità di bilancio; il resoconto integrale<br />

delle riunioni;<br />

- un regolamento interno<br />

Per quanto riguarda la Commissione, il PE proponeva:<br />

- posto che “la Commissione deve essere di dimensioni funzionali”, essa avrebbe dovuto essere composta in alternativa:<br />

a) “da un numero fisso di 20 commissari e dal presidente, purché esista un sistema di rotazione [che assicurasse la presenza<br />

di un cittadino di ogni Stato membro almeno ogni due mandati]”, b) “da un commissario per ciascuno Stato<br />

membro, purché il ruolo del presidente sia rafforzato e sia istituita una gerarchia interna […]”<br />

307<br />

Attualmente è allo studio del Consiglio europeo la nomina di un Comitato di saggi sul futuro dell’Europa in precisa<br />

connessione con il tema dei “confini dell’Europa”, nel quale rientra la questione dei rapporti dell’UE non solo con la<br />

Turchia, ma anche con gli Stati membri della CSI.<br />

308<br />

In questo modo si renderebbero le elezioni europee effettivamente tali, in quanto parzialmente basate su liste per definizione<br />

transnazionali e dunque presentate dagli stessi partiti politici europei.<br />

309<br />

Era implicita in questa richiesta il desiderio del PE di avere un’unica sede e in un luogo deciso da esso.<br />

310<br />

In questo modo il PE accoglieva la proposta della “doppia maggioranza”, di Stati e di popolazione, inizialmente non<br />

condivisa.


- la procedura di formazione della Commissione: a) “il Parlamento elegge il presidente della Commissione fra i candidati<br />

proposti dal Consiglio”, b) “il presidente della Commissione, d’accordo con gli Stati membri, designa i membri del<br />

collegio” e c) le successive fasi già sperimentate in occasione della formazione della Commissione Prodi;<br />

- la possibilità per il presidente della Commissione di chiedere e ottenere le dimissioni di un commissario;<br />

- la stessa possibilità per la Corte di giustizia, anche su richiesta del PE;<br />

- la possibilità per il presidente della Commissione di chiedere la questione di fiducia dinanzi al PE e in caso di rifiuto<br />

di tale fiducia la necessità delle dimissioni della Commissione;<br />

- l’iniziativa legislativa della Commissione anche negli altri due pilastri (PESC e CPGMP)<br />

Per quanto riguarda la Corte di giustizia, il PE suggeriva:<br />

- estendere le competenze a tutti settori dello SLSG (compresa la CPGMP);<br />

- dare anche al PE l’opportunità di ricorrere alla Corte di giustizia<br />

Per quanto riguarda il “procuratore europeo”, il PE esigeva:<br />

- “istituire un procuratore europeo in quanto organo indipendente responsabile della tutela degli interessi dell’Unione<br />

contro le frodi sull’intero territorio comunitario”;<br />

- “consentire all’Unione di adottare misure legislative in materia penale nel settore delle frodi che ledono gli interessi<br />

dell’Unione”<br />

Per quanto riguarda la Corte dei conti, il PE proponeva per essa “un diritto di accesso diretto al controllo<br />

finanziario delle autorità nazionali e regionali […] implicate in spese a titolo del bilancio<br />

UE”.<br />

Per il Comitato delle Regioni si proponeva fosse composto soltanto di persone aventi “un mandato<br />

politico effettivo a livello regionale o locale”.<br />

Per il Comitato economico e sociale di proponeva fosse composto “dai rappresentanti della società<br />

civile, compresi i rappresentanti delle varie categorie della vita economica e sociale” e venisse<br />

inteso come “luogo di dialogo sociale e di incontri della società civile”. 311<br />

Per quanto riguarda le procedure decisionali, il PE proponeva:<br />

- la procedura di codecisione e la votazione a maggioranza qualificata in seno al Consiglio come “regola generale per<br />

l’adozione di decisioni nel settore legislativo” da estendere pure alla legislazione derivata nel settore della CPGMP,<br />

nonché la soppressione della procedura di cooperazione in tutti i settori di competenza comunitaria (compresa la politica<br />

economica e monetaria);<br />

- la votazione a maggioranza qualificata anche per le nomine nelle istituzioni e negli organi dell’Unione;<br />

- la limitazione del voto all’unanimità in seno al Consiglio alle decisioni di carattere costituzionale, che necessitano della<br />

ratifica dei Parlamenti nazionali;<br />

- l’inserimento di “specifiche basi giuridiche” nel trattato CE “per la creazione di agenzie decentrate, la cooperazione<br />

economica, finanziaria e tecnica con Paesi terzi e il settore dell’energia”;<br />

- la necessità del parere conforme del PE sulla revisione dei trattati, su tutti gli accordi internazionali, sulle decisioni relative<br />

alle risorse proprie e alle nomine in diversi organi dell’UE<br />

Come se tutto ciò non bastasse, al secondo punto della risoluzione figurava il tema “per un processo<br />

costituzionale in seno all’Unione”, con le seguenti proposte:<br />

- la “costituzionalizzazione dei trattati” e dunque la loro semplificazione e il loro consolidamento “in un unico testo, che<br />

si articola in due parti:” A) “disposizioni di natura costituzionale: preambolo, obiettivi dell’Unione, Carta dei <strong>diritti</strong><br />

fondamentali, istituzioni, procedure decisionali e ripartizione delle competenze tra l’Unione e gli Stati membri”; B) “altri<br />

settori coperti dai trattati attuali”;<br />

- l’introduzione di “una gerarchia delle norme”, consistente in: a) “la parte A del trattato è adottata dal Consiglio<br />

all’unanimità, soggetta all’approvazione del Parlamento e quindi ratificata dagli Stati membri”, b) “la parte B del trattato<br />

può essere modificata dal Consiglio, previo parere conforme del Parlamento”, c) “gli atti legislativi sono adottati dal<br />

Consiglio che delibera a maggioranza qualificata e dal Parlamento […]”, d) gli atti amministrativi […] sono adottati<br />

dalla Commissione […]”;<br />

311 In tal modo il PE proponeva una sorta di ridefinizione del CES, che, senza perdere la sua originaria valenza economico-sociale,<br />

avrebbe dovuto essere riconfigurato essenzialmente come il “foro” della più ampia società civile europea.


- una “più chiara delimitazione delle competenze tra livello europeo e livello nazionale”;<br />

- l’espresso invito alla CIG “a iscrivere nel suo ordine del giorno l’inserimento nel trattato della Carta dei <strong>diritti</strong> fondamentali<br />

per darle un carattere giuridico cogente […]”, nonché “a fare in modo che l’Unione aderisca alla Convenzione<br />

europea per la salvaguardia dei <strong>diritti</strong> dell’uomo […]”, e infine “a migliorare l’accesso delle persone fisiche e giuridiche<br />

alla Corte di giustizia […]”;<br />

- la procedura di revisione dei trattati doveva “riflettere la duplice legittimità dell’Unione in quanto unione di popoli e<br />

unione di Stati”;<br />

- “la struttura a pilastri e la cooperazione intergovernativa […] dovrebbero essere gradualmente abbandonate”;<br />

- l’<strong>attiva</strong>zione della cooperazione rafforzata “solo in casi di effettiva impossibilità dell’Unione Europea ad agire collettivamente”;<br />

l’applicazione delle disposizioni sulla cooperazione rafforzata a tutti e tre i pilastri (CE, PESC e CPGMP);<br />

la presenza di almeno un terzo degli Stati membri per l’<strong>attiva</strong>zione di una cooperazione rafforzata; la sua autorizzazione<br />

dietro proposta della Commissione, voto a maggioranza qualificata del Consiglio e parere conforme del PE.<br />

Dallo stesso modo di formulazione di tali proposte “costituzionali” emergeva che in realtà il PE sapeva<br />

benissimo che tali richieste non avrebbero potuto essere recepite dalla CIG e infatti riservava<br />

espressamente a quest’ultima solo quelle, primarie, inerenti all’inserimento nel trattato della Carta<br />

dei <strong>diritti</strong> fondamentali con valore giuridico cogente, all’adesione dell’UE alla Convenzione europea<br />

e all’accesso universale alla Corte di giustizia. Una volta avesse ottenuto questo, sarebbe scattato<br />

pressoché automaticamente il processo di costituzionalizzazione dell’UE e quindi l’esigenza di<br />

soddisfare a tutte le altre richieste specificate nella risoluzione. Queste coincidevano sostanzialmente<br />

con i contenuti che saranno propri del futuro TCE e, anche dopo il suo abbandono, del futuro<br />

“trattato di riforma” in discussione nell’attuale CIG. La vera novità, a questo proposito, era data<br />

dall’introduzione di “una gerarchia delle norme”, che comportava in particolare diversi tipi di procedura<br />

di revisione per la parte A e per la parte B del trattato unificato, ossia la previsione solo per<br />

la parte A di una procedura di ratifica da parte degli Stati membri, mentre la parte B avrebbe potuto<br />

essere emendata attraverso un procedimento di codecisione a maggioranza del Consiglio e del PE,<br />

senza CIG né processi di ratifica nazionali e perciò senza il requisito dell’unanimità. 312<br />

Al terzo punto della risoluzione figurava il tema “per un rafforzamento del ruolo esterno<br />

dell’Unione Europea”.<br />

A proposito delle relazioni economiche esterne il PE si pronunciava per la necessità che, “una volta<br />

conclusi i negoziati […] il Parlamento esprime il suo parere conforme sullo strumento normativo<br />

internazionale e codecide in merito alla necessaria legislazione in seno alla Comunità europea.”<br />

Quanto alla PESC, invece, si avanzavano le seguenti proposte:<br />

- “la distinzione tra il primo e il secondo pilastro del trattato va progressivamente ridotta e va potenziata la competenza<br />

comunitaria, in particolare attribuendo alla Commissione un ruolo maggiore nel coordinamento degli strumenti comunitari<br />

e nazionali non militari per quanto attiene alla gestione internazionale delle crisi”;<br />

- la creazione di “un Consiglio dei ministri della difesa, che si occupi delle questioni tecnico-operative della politica europea<br />

in materia di sicurezza e di difesa, mentre tutte le decisioni riguardanti la PESC dovrebbero essere proposte al<br />

Consiglio “Affari generali” e da esso adottate”;<br />

- la soppressione della possibilità di veto circa le decisioni a maggioranza qualificata e del rinvio al Consiglio europeo e<br />

la loro sostituzione con la possibilità “di derogare dall’obbligo di appoggiare la posizione comune o partecipare<br />

all’azione comune”;<br />

- la previsione del finanziamento a carico del bilancio comunitario anche per le azioni comuni nel quadro dei compiti di<br />

Petersberg (detratto il finanziamento nazionale delle truppe e della relativa dotazione nella gestione delle crisi);<br />

312 In tal modo il PE riconosceva finalmente il principio della differenziazione dei procedimenti di revisione a seconda<br />

delle disposizioni di natura costituzionale e di quelle di altra natura e di conseguenza anche il principio di una gerarchizzazione<br />

dei due tipi di disposizioni. E ciononostante continuava a ignorare la precisa proposta del gruppo di Dehaene<br />

sulla necessità di redigere, anche a tale scopo, due testi ben distinti tra loro, insistendo invece sul fatto che i due<br />

gruppi di disposizioni avrebbero dovuto costituire due parti di un unico testo. C’è da chiedersi invece cosa sarebbe avvenuto<br />

del TCE, se esso fosse stato effettivamente limitato alla “parte A” ossia alle prime due parti dello stesso TCE<br />

(preambolo, parte I e parte II ossia la Carta), all’atto di presentarlo alle ratifiche e soprattutto ai referendum nazionali.<br />

Indubbiamente avrebbe avuto un effetto molto meno “indigesto” e forse molto più “appetibile”.


- “ritiene che a tempo debito le funzioni di Alto rappresentante e di commissario responsabile per le relazioni esterne<br />

andrebbero fuse nella carica di un vicepresidente della Commissione specificamente nominato” 313<br />

Al quarto e ultimo punto della risoluzione figurava il tema “per un rafforzamento delle politiche interne”.<br />

A proposito del “coordinamento delle politiche economica, sociale e occupazionale” il PE formulava<br />

le seguenti proposte:<br />

- l’esplicito invito alla CIG di inserire nel trattato la dizione “economia sociale di mercato”;<br />

- l’incarico alla Commissione di presentare una vera e propria proposta degli indirizzi economici di massima;<br />

- la conseguente adozione di essi da parte del Consiglio con votazione a maggioranza qualificata;<br />

- l’inserimento dei <strong>diritti</strong> sociali fondamentali nella Carta dei <strong>diritti</strong> fondamentali 314<br />

Quanto al “bilancio” il PE proponeva: la soppressione della distinzione tra spese obbligatorie e non<br />

obbligatorie, l’iscrizione nell’unico bilancio comunitario del Fondo europeo di sviluppo e del finanziamento<br />

delle agenzie decentrate, il varo di una programmazione finanziaria a medio termine e il<br />

finanziamento dell’UE solo attraverso risorse proprie.<br />

Quanto alla “procedura di discarico” il PE raccomandava la distinzione fra “il discarico propriamente<br />

detto” (di natura politica) e “la chiusura dei conti” (vernicia contabile finale).<br />

Quanto allo “spazio di sicurezza, libertà e giustizia” il PE proponeva:<br />

- la riconduzione della CPGMP nel quadro comunitario valido per l’intero SLSG;<br />

- la “piena giurisdizione della Corte di giustizia su tutte le misure connesse alla realizzazione dello SLSG”;<br />

- “la trasformazione […] della cooperazione cosiddetta “di Schengen” in una norma generale per i 15 Stati membri e la<br />

rinegoziazione degli status particolari di taluni Stati membri, al fine di ridurre allo stretto necessario le eccezioni al regime<br />

comune”; 315<br />

- la procedura di codecisione e la votazione a maggioranza per tutte le misure sullo SLSG;<br />

- l’integrazione nel quadro istituzionale dell’Unione di EUROPOL;<br />

- l’avvio di “una cooperazione strutturale (EUROJUST) con le autorità giudiziarie e di polizia degli Stati membri che<br />

intendono servirsene per indagini nazionali che non rientrerebbero nelle competenze dell’Unione”;<br />

Infine la risoluzione si pronunciava su “altre questioni” ossia: a) la creazione di “una giurisdizione<br />

comunitaria specializzata competente a dirimere le controversie relative sia alla validità del brevetto<br />

comunitario, sia alla sua contraffazione”, b) “una base giuridica adeguata per il coordinamento del<br />

settore del turismo”, c) “un nuovo capitolo consolidato nel trattato CE” volto a definire “una politica<br />

comune in materia energetica” e d) la “creazione di un sistema europeo unico di controllo del<br />

traffico aereo”.<br />

Quasi a rafforzare la proposta del PE “per un processo costituzionale in seno all’Unione”, interveniva<br />

poi la consegna al presidente della Commissione Prodi, il 15 maggio 2000, del documento del<br />

gruppo di ricerca del Centro di Sudi Avanzati “Robert Schuman” dell’IUE di Firenze, coordinato da<br />

Y. Mény e C.-D. Ehlermann, “Un trattato di base per l’Unione Europea. Uno studio per la riorganizzazione<br />

dei Trattati”. Il rapporto, sorprendentemente, aveva deciso di non accogliere la richiesta<br />

di affrontare il tema della riorganizzazione dei trattati nel contesto della differenziazione delle procedure<br />

di revisione per le disposizioni fondamentali e per quelle non fondamentali. Di conseguenza<br />

il documento presentato non affrontava che il tema della riorganizzazione dei trattati, a prescindere<br />

da quello delle procedure di revisione. A questo proposito il documento confermava la necessità di<br />

una semplificazione e di una modernizzazione dei testi dei trattati, di una semplificazione della stes-<br />

313<br />

Anche queste proposte, in realtà non proposte propriamente alla CIG, saranno puntualmente riprese nel TCE e perciò<br />

nel prossimo “trattato di riforma”.<br />

314<br />

Era evidente l’intenzione del PE di ricondurre tale importante settore nell’ambito della procedura comunitaria propriamente<br />

detta, superando la procedura della semplice cooperazione ed evitando pure l’avocazione di quest’ultima al<br />

Consiglio europeo in quanto tale.<br />

315<br />

Era dunque ancora ben viva nel PE la speranza di addivenire a una progressiva riduzione delle “deroghe” già concesse,<br />

almeno per quanto riguardava ciò che era connesso allo SLSG. In realtà queste ultime, lungi dal ridursi, ne avrebbero<br />

dato luogo ad altre ancora, parallelamente allo sviluppo del processo d’integrazione europea.


sa “architettura” di questi ultimi, di una loro codificazione, di una loro fusione (limitata ai due trattati<br />

CE e UE) e anzi di una distinzione fra un trattato di base o fondamentale e le altre disposizioni<br />

dei trattati. Il rapporto si concentrava quindi sulla struttura e sul contenuto del trattato fondamentale.<br />

E finalmente prendeva posizione in merito al problema dell’articolazione del trattato fondamentale<br />

con gli attuali trattati. A questo proposito esso sembrava assumere la scelta di presentare il trattato<br />

fondamentale nell’effettivo contesto di un riordino o di una semplificazione degli attuali trattati. In<br />

particolare sottolineava che il trattato fondamentale avrebbe dovuto sostituire il trattato UE anche<br />

nello stesso ruolo di trattato quadro o di “cappello” a tutte le più diverse politiche dell’Unione, incorporando<br />

le disposizioni essenziali sia del trattato UE, sia del trattato CE. Nell’eventuale permanenza<br />

della struttura a pilastri le disposizioni riguardanti il secondo e il terzo pilastro sarebbero state<br />

rifuse rispettivamente in due protocolli annessi allo stesso trattato fondamentale. Per quanto riguarda<br />

invece il trattato CE, si sarebbe dovuto conferire autenticazione e quindi validità giuridica alla<br />

versione consolidata di esso ossia codificarla, in una versione da cui sarebbero sparite le disposizioni<br />

essenziali trasferite nel trattato fondamentale. Il rapporto a questo punto precisava: “Indubbiamente<br />

è importante, anche solo per motivi simbolici, non abrogare il trattato di Roma.” E concludeva<br />

confermando che una piena ristrutturazione del diritto primario sarebbe stata più giustificata e<br />

più facilmente ottenuta “nel contesto di una fondamentale riforma sostanziale che in un progetto di<br />

consolidamento, che è obbligato al mantenimento della presente situazione giuridica.” In definitiva<br />

il rapporto era sostanzialmente fedele alla proposta del Comitato dei tre saggi di mantenere due testi<br />

distinti o separati per le disposizioni fondamentali e per quelle non fondamentali e lo faceva, prevedendo<br />

per le une un trattato fondamentale e per le altre da un lato due protocolli a quest’ultimo (sulla<br />

PESC e sulla CGMP) e dall’altro soprattutto un distinto e separato trattato CE (concepito come<br />

contenitore di tutte le disposizioni comunitarie non fondamentali).<br />

Pochi mesi dopo il gruppo di ricerca dell’IUE di Firenze consegnava alla Commissione, il 31 luglio<br />

2000, il secondo rapporto sulla riorganizzazione dei trattati dell’UE, dedicato al tema “Riformare le<br />

procedure di revisione dei trattati”. Dopo un’attenta considerazione delle varie tipologie di procedura<br />

di revisione esistenti sia nelle organizzazioni internazionali, sia negli Stati federali, sia nella<br />

stessa UE, il rapporto presentava una serie di proposte di miglioramento di queste ultime, che alla<br />

fine concludeva per una sostanziale conferma della differenziazione prospettata dal gruppo dei tre<br />

saggi tra procedura generale (con le ratifiche nazionali di tutti gli Stati membri) per le disposizioni<br />

del trattato fondamentale e procedura speciale di revisione autonoma (senza ratifiche nazionali) per<br />

le disposizioni non fondamentali, ma con questa decisiva riserva:<br />

“Ciò non toglie che la procedura generale di revisione del diritto primario […] continuerebbe a imporsi per esclusione,<br />

ogni volta e fintanto che non sia stata prevista una procedura speciale. Ciò accadrebbe perché il diritto primario non ripreso<br />

nel Trattato fondamentale comporta delle disposizioni, quali le basi giuridiche operative, che da una parte sono fin<br />

troppo numerose e troppo tecniche per figurare in un Trattato fondamentale, ma che d’altra parte riguardano da vicino i<br />

poteri degli Stati membri, e che a questo titolo si prestano meno a una procedura di revisione autonoma.”<br />

Con questa affermazione il rapporto faceva capire che, in pratica, a meno che si fosse realmente<br />

convenuto, in sede politica, di istituire una procedura di revisione autonoma per tutte le disposizioni<br />

non fondamentali (p.e. attraverso una loro trasformazione in una sorta di unica “legge organica” a<br />

metà strada fra il trattato e la legge ordinaria dell’UE), non era ipotizzabile una differenziazione delle<br />

procedure di ratifica a seconda dei due tipi di disposizioni, con la decisiva conseguenza, in tal caso,<br />

del venir meno di una delle due ragioni che presiedevano alla necessità di mantenere due testi<br />

distinti e separati per i due tipi di disposizioni.<br />

Poco tempo dopo si svolgeva il Consiglio europeo di Santa Maria da Feira del 19-20 giugno 2000.<br />

Esso prendeva atto in primo luogo “del nuovo dibattito pubblico sul futuro dell’Unione Europea e<br />

dell’interesse suscitato da quest’ultimo”. Confermava la sua volontà che la CIG pervenisse alla conclusione<br />

dei suoi lavori nel dicembre 2000 e invitava la Convenzione a presentare il suo progetto di<br />

Carta nell’ottobre 2000. Ma soprattutto precisava ulteriormente il quadro gerarchico della conduzione<br />

della politica economica comune. Alla base di essa dovevano essere sviluppati ulteriormente i


processi di Colonia, Cardiff e Lussemburgo a carico del Consiglio nelle formazioni specifiche più<br />

atte a realizzarli. La sinergia fra tali processi era assicurata dagli “indirizzi di massima per le politiche<br />

economiche”, formulati dallo stesso Consiglio nella sua formazione ECOFIN, ma anch’essi erano<br />

subordinati alla “strategia” complessiva di Lisbona, agente della quale doveva essere e restare<br />

direttamente e stabilmente il Consiglio europeo, con una riunione annuale in primavera dedicata alla<br />

politica e alla strategia in materia economica e sociale. La Commissione avrebbe continuato a lavorare<br />

di concerto, presentando semplici relazioni e non già vere e proprie proposte. La più importante<br />

novità della riunione era data peraltro dall’approvazione dell’ingresso della Grecia nell’area<br />

dell’euro per il 1° gennaio 2001.<br />

In compenso, qualche mese dopo, si svolgeva in Danimarca il 28 settembre 2000 un referendum<br />

sull’adesione del Paese alla moneta dell’Unione, con esito negativo. In tal modo il popolo danese<br />

confermava di gradire il particolare regime di “deroga” concesso al Paese anche rispetto<br />

all’adozione dell’euro, determinando con ciò il carattere sostanzialmente “definitivo” di tale “deroga”<br />

specifica.<br />

Nel frattempo la Convenzione concludeva i propri lavori, approvando il 2 ottobre 2000 il progetto<br />

della Carta. E il successivo Consiglio europeo di Biarritz del 13-14 ottobre 2000 lo approvava.<br />

A quel punto era arrivato, per il PE, il momento tanto atteso da decenni per lanciare, sia pure in modo<br />

“morbido”, la sfida “costituzionale”, con l’adozione, nello stesso giorno 25 ottobre 2000, di due<br />

risoluzioni, entrambe dirette alla CIG.<br />

La prima ovvero la risoluzione del 25 ottobre 2000 “sulla cooperazione rafforzata” (A5-0288/2000)<br />

ribadiva la posizione critica del PE verso simile istituto, pur riconoscendone la necessità in relazione<br />

alle “aspettative divergenti” fra loro, manifestate dagli Stati membri, al perdurante requisito<br />

dell’unanimità in molti casi in sede di Consiglio e alla prevedibile accentuazione, una volta avvenuto<br />

l’allargamento, della “presenza di elementi eterogenei in seno all’’Unione”. Pertanto occorreva<br />

prevedere la possibilità di una cooperazione rafforzata, ma alle seguenti condizioni: 1) ricondurla<br />

entro il quadro istituzionale dell’Unione, anzi entro un quadro istituzionale unico (con il PE e la<br />

Commissione) e perciò entro il sistema comunitario; 2) estenderla alla PESC (compresa la PESD);<br />

3) modulare la partecipazione del PE a seconda del “pilastro” interessato e garantire comunque il<br />

potere d’iniziativa della Commissione e il controllo giurisdizionale della Corte di giustizia; 4) escluderla<br />

per le materie oggetto di deliberazioni a maggioranza in sede di Consiglio e fissare, per le<br />

disposizioni da prendere all’unanimità, “termini adeguati, il cui superamento indicherebbe che è inutile<br />

attendere una decisione, date le divergenze in seno al Consiglio, e che occorre cercare di superare<br />

la situazione di stallo mediante una cooperazione rafforzata fra alcuni Stati membri”; 5) renderla<br />

possibile solo in presenza di almeno un terzo degli Stati membri interessati ad <strong>attiva</strong>rla; 6)<br />

sopprimere il potere di veto del singolo Stato membro all’<strong>attiva</strong>zione. La risoluzione concludeva,<br />

sostenendo che pure il corretto funzionamento di una cooperazione rafforzata esigeva il superamento<br />

della struttura a pilastri dell’UE. Questa risoluzione, in effetti, era in un certo senso funzionale<br />

alla successiva.<br />

La seconda risoluzione, molto più importante, era la risoluzione del 25 ottobre 2000 “sulla costituzionalizzazione<br />

dei trattati” (A5-0289/2000) (relatore: Olivier Duhamel). 316<br />

In essa il PE, sulla base delle suggestioni presenti nel rapporto dello studio di Firenze, partiva dalle<br />

seguenti premesse:<br />

- “la CIG del 1996 […] non ha però rafforzato le capacità decisionali del Consiglio e non ha potuto condurre a termine<br />

il lavoro che aveva intrapreso per rendere più efficaci le istituzioni”;<br />

- “l’adozione della Carta dei <strong>diritti</strong> fondamentali dell’Unione rafforzerà la legittimità e la pertinenza delle istituzioni agli<br />

occhi dell’opinione pubblica, a condizione tuttavia che ne sia garantita l’integrazione nei trattati”;<br />

- “qualsiasi ordine giuridico è consacrato da testi fondamentali che definiscono la natura e le competenze delle sue istituzioni”;<br />

- “l’appartenenza all’Unione implica l’adesione incondizionata agli ideali e ai valori democratici sui quali essa si fonda<br />

secondo gli articoli 6 e 7 del trattato sull’Unione Europea e la Carta dei <strong>diritti</strong> fondamentali”;<br />

316 Olivier Duhamel è stato membro francese del PE (nel gruppo del PSE) dal 1997 al 2004.


- “i trattati istitutivi organizzano già la forma di governo dell’Unione descrivendo la composizione delle sue istituzioni e<br />

stabilendo in quale misura e secondo quali modalità queste ultime esercitano le loro funzioni”;<br />

- “la Corte di giustizia ha stabilito che i trattati istitutivi delle Comunità rappresentano una “carta costituzionale””;<br />

- “i trattati prevedono che l’Unione rispetti l’identità nazionale degli Stati membri e che la <strong>cittadinanza</strong> dell’Unione costituisca<br />

un complemento della <strong>cittadinanza</strong> nazionale e non sostituisca quest’ultima”;<br />

- “deplorando che nel corso dell’attuale Conferenza intergovernativa non venga affrontata la riorganizzazione dei trattati<br />

e concordando con la Commissione sul fatto che al Consiglio europeo di Nizza dovranno essere decisi una procedura<br />

e un calendario concreto per realizzare tale lavoro”;<br />

- “l’adozione di una Costituzione Europea può essere solo il risultato di un ampio dibattito pubblico avviato secondo un<br />

processo democratico in seno all’Unione Europea e [..] la procedura non può quindi essere in alcun caso limitata ai soli<br />

negoziati intergovernativi”;<br />

In queste premesse il PE introduceva il tema della Costituzione, ponendo come tema dirimente<br />

l’inserimento della Carta dei <strong>diritti</strong> fondamentali nei trattati e attribuendo invece alla loro “riorganizzazione”<br />

ossia alla loro fusione in un testo unico un valore sostanzialmente simbolico, visto che<br />

già gli stessi trattati istitutivi erano la “carta costituzionale” europea.<br />

Con questa impostazione “morbida” la risoluzione passava poi a suggerire appunto la “necessità di<br />

una semplificazione e di una riorganizzazione dei trattati”, con queste argomentazioni:<br />

- “l’architettura dell’Unione non risponde alle domande di democrazia, trasparenza e semplificazione manifestata dai<br />

cittadini dell’Unione Europea e da quelli dei Paesi candidati”; perciò “solo un rimaneggiamento dei testi consentirebbe<br />

un approccio più razionale e più comprensibile per quanto concerne gli obiettivi e i mezzi della costruzione dell’Unione<br />

Europea”;<br />

- “ritiene che la forma assunta dai risultati delle varie CIG che si sono succedute, vale a dire un accumulo di trattati lunghi<br />

e complessi, sia divenuta difficilmente utilizzabile sia per gli addetti ai lavori, sia per i cittadini e che i trattati attuali<br />

vadano pertanto sostituiti da un “trattato quadro” unico, leggibile e breve, che preveda la fusione dell’Unione Europea<br />

e delle tre Comunità in un’unica entità; esso conterrebbe esclusivamente le disposizioni fondamentali di natura<br />

costituzionale, segnatamente gli obiettivi dell’Unione, la protezione dei <strong>diritti</strong> fondamentali, la <strong>cittadinanza</strong>,<br />

l’attribuzione e la ripartizione dei poteri e le questioni istituzionali, mentre tutte le altre disposizioni, in particolare quelle<br />

che disciplinano le politiche comuni, figurerebbero nei protocolli allegati al “trattato quadro””;<br />

- “[…] la ricomposizione dei trattati è perfettamente possibile sotto il profilo tecnico; si tratta dell’inizio di un processo<br />

di “costituzionalizzazione” a partire da una revisione “a diritto costante”, a prescindere dalle posizioni sulle riforme istituzionali<br />

necessarie”;<br />

Il PE dunque legava strettamente la parola “Costituzione” all’idea della sostituzione dei trattati esistenti<br />

con un “trattato quadro”, inteso soprattutto come un testo “unico, leggibile e breve”, alla portata<br />

dei cittadini, grazie al fatto che avrebbe contenuto solo le disposizioni di natura costituzionale,<br />

relegando tutte le disposizioni riguardanti le politiche e il funzionamento dell’Unione a una serie di<br />

protocolli allegati al trattato stesso. 317 Questa impostazione acc<strong>attiva</strong>nte tuttavia dava en passant per<br />

scontato che, proprio al servizio dell’unicità e snellezza del testo, esso avrebbe dovuto prevedere “la<br />

fusione dell’Unione Europea e delle tre Comunità in un’unica realtà” ossia una totale rivoluzione<br />

dell’assetto politico-istituzionale europeo. Perciò la semplice “ricomposizione dei trattati” era in realtà<br />

appunto questo: “si tratta dell’inizio di un processo di “costituzionalizzazione”” ovvero ce n’est<br />

qu’un début.<br />

Perciò la risoluzione entrava poi nel merito dei “motivi di una “costituzionalizzazione” dei trattati”,<br />

con queste argomentazioni:<br />

- “l’esistenza di una Costituzione europea presenterebbe il duplice vantaggio di offrire ai cittadini europei un testo di<br />

riferimento e di procedere all’imprescindibile semplificazione delle norme che regolano le istituzioni europee”;<br />

317 La riduzione dell’unico trattato alle sole disposizioni di natura costituzionale era un’ulteriore chance per un’efficace<br />

proposta di esso agli stessi cittadini europei. E tuttavia la previsione della riconduzione di tutte le “altre” disposizioni a<br />

una serie di “protocolli” allegati allo stesso trattato fondamentale andava in controtendenza rispetto sia al rapporto del<br />

gruppo dei tre saggi (testi distinti), sia al primo rapporto del gruppo di ricerca di Firenze, che prevedeva anche e soprattutto<br />

il mantenimento del trattato CE (come contenitore distinto e separato di tutte le disposizioni comunitarie non fondamentali).


- “la futura Costituzione deve sancire con chiarezza e vigore: a) i valori comuni dell’UE; b) i <strong>diritti</strong> fondamentali dei<br />

cittadini europei; c) il principio della separazione dei poteri e dello Stato di diritto; d) la composizione, il ruolo e il funzionamento<br />

delle istituzioni dell’Unione; e) la ripartizione delle competenze; f) il principio di sussidiarietà; g) il ruolo<br />

dei partiti politici europei; h) la finalità dell’integrazione europea”;<br />

- “auspica che il diritto autonomo dei cittadini europei di gestire le proprie attività a livello comunale diventi parte integrante<br />

del nuovo trattato e ritiene che tale aspetto debba essere garantito e promosso”;<br />

- “auspica che il dibattito che sarà lanciato nel dicembre 2000 a Nizza, al momento della conclusione della CIG, rappresenti<br />

l’inizio di un processo di gerarchizzazione dei testi, che deve condurre all’elaborazione di una Costituzione per<br />

l’Europa, prevedendo procedure differenziate di adeguamento di tali testi, senza rischi di blocco”. 318<br />

Anche da tali motivi emergeva un quadro sostanzialmente “rassicurante” del progetto complessivo,<br />

all’insegna dell’iniziale valore dominante della semplicità e della chiarezza a tutto beneficio dei cittadini.<br />

La risoluzione passava infine a illustrare il “metodo” atto a conseguire l’obiettivo.<br />

In una “prima tappa: la riorganizzazione dei trattati varata a Nizza”, secondo il PE si sarebbe dovuto:<br />

- “ritiene che un primo trattato possa essere elaborato nel rispetto della situazione giuridica e istituzionale attuale: propone<br />

quindi che il Consiglio europeo di Nizza dia mandato al Consiglio di adottare questo trattato riorganizzato, su<br />

proposta della Commissione, previa consultazione della Corte di giustizia e previo parere conforme del Parlamento Europeo,<br />

nonché previa approvazione da parte dei Parlamenti nazionali”;<br />

- “l’elaborazione della Carta dei <strong>diritti</strong> fondamentali offre elementi per una base costituzionale comune (la sua integrazione<br />

nel trattato potrebbe assumere la forma di un primo capitolo della Costituzione)”<br />

Risultava dunque confermato che questo semplice “trattato riorganizzato”, già in virtù<br />

dell’inserimento in esso della Carta, avrebbe posto le basi per l’avvio dell’elaborazione di una vera<br />

e propria “Costituzione per l’Europa”.<br />

Infatti era prevista pure una “seconda tappa: la Costituzione preparata da una “Convenzione””, nella<br />

quale secondo il PE si sarebbe dovuto:<br />

- “propone che il processo costituzionale venga lanciato in occasione del Consiglio europeo di Nizza nel dicembre 2000<br />

con l’adozione di una dichiarazione allegata al prossimo trattato che preveda mandato, procedure e calendario per<br />

l’apertura dei lavori di redazione di una Costituzione per l’Europa”;<br />

- “ritiene indispensabile che il Parlamento Europeo e la Commissione siano i motori di questo processo costituzionale e<br />

procedano ai necessari lavori preparatori e che si tenga largamente conto dei contributi dei Parlamenti nazionali e<br />

dell’opinione pubblica sia degli Stati membri, sia dei candidati all’adesione”;<br />

- “propone che, per redigere la futura Costituzione dell’Unione, si riprenda il modello di Convenzione, nel cui quadro è<br />

stato elaborato il progetto di Carta dei <strong>diritti</strong> fondamentali, tenuto conto dei lavori collegiali trasparenti e fruttuosi che<br />

sono stati realizzati in tale sede”;<br />

- “propone tuttavia che questo modello venga adeguato, prendendo in considerazione il complesso dei lavori preparatori,<br />

onde perfezionare le procedure di discussione e di decisione in sede di Convenzione”;<br />

- “la Convenzione dovrebbe disporre di un termine massimo di un anno per elaborare il progetto preliminare di Costituzione”;<br />

- “sostiene che il calendario dei lavori preparatori debba essere predisposto in modo tale che la Costituzione possa essere<br />

adottata prima delle elezioni europee del 2004”;<br />

- “in nessun caso tali lavori devono poter bloccare o ritardare il processo di adesione” dei Paesi candidati;<br />

- “auspica che, sia per la qualità del dibattito democratico, sia per i legami tra i popoli e la loro Costituzione, i cittadini<br />

dell’Unione siano consultati al momento opportuno mediante referendum”;<br />

- “chiede che detta consultazione popolare avvenga lo stesso giorno in tutti gli Stati membri”;<br />

- l’approvazione “del testo definitivo della Costituzione” doveva avvenire “previo parere conforme del Parlamento Europeo”<br />

Il PE, dunque, prevedeva sostanzialmente un veloce approntamento da parte dello stesso Consiglio<br />

del primo trattato “”neutrale” (con l’inserimento peraltro della Carta) già entro la metà del 2001; da<br />

quel momento sarebbero iniziati i “lavori preparatori” a cura del PE e della Commissione sino alla<br />

318 In questo passo il PE era senz’altro fedele all’intenzionalità sottesa al rapporto del gruppo dei tre saggi, ma non teneva<br />

conto della grossa riserva già espressa a tal proposito nel secondo rapporto del gruppo di ricerca di Firenze.


metà del 2002; a quel punto sarebbero iniziati i lavori della nuova Convenzione, che si sarebbero<br />

protratti sino alla metà del 2003, lasciando tutto il tempo necessario a una veloce approvazione del<br />

progetto da parte di una nuova CIG, al “parere conforme” del PE sui risultati di essa e alla conseguente<br />

adozione della Costituzione da parte dei governi degli Stati membri, prima delle elezioni europee<br />

del giugno 2004, che potevano costituire il “momento opportuno” per associare a esse un “referendum”<br />

paneuropeo, che sancisse nel modo più solenne e definitivo il varo, pienamente democratico,<br />

del testo fondativo di un’Unione pienamente democratica, prima ancora che avessero luogo<br />

le ratifiche, ormai solo parlamentari, nazionali. 319<br />

Il dispositivo complessivo, contenuto in tale risoluzione, conteneva, dunque, tutte le “precauzioni”<br />

procedurali, per garantire le migliori possibilità di successo democratico all’”avventura” costituzionale,<br />

che il PE aveva deciso risolutamente di intraprendere da quel momento.<br />

Nel frattempo la Carta riceveva l’approvazione del PE il 14 novembre 2000 e della Commissione il<br />

6 dicembre 2000. In questo stesso giorno la CIG concludeva i suoi lavori, diffondendo il suo progetto<br />

di nuovo trattato.<br />

Subito dopo si svolgeva il cruciale Consiglio europeo di Nizza del 7-10 dicembre 2000.<br />

Nel primo giorno, il 7 dicembre 2000, avveniva la proclamazione congiunta, da parte del Consiglio,<br />

del Parlamento Europeo e della Commissione (per mezzo della firma dei rispettivi presidenti Hubert<br />

Védrine, 320 Nicole Fontaine e Romano Prodi), della Carta dei <strong>diritti</strong> fondamentali dell’Unione Europea.<br />

La Carta, tuttora esistente, contiene il seguente, davvero solenne, “Preambolo”:<br />

“I popoli europei nel creare tra loro un'unione sempre più stretta hanno deciso di condividere un futuro di pace fondato<br />

su valori comuni.<br />

Consapevole del suo patrimonio spirituale e morale, l'Unione si fonda sui valori indivisibili e universali di dignità umana,<br />

di libertà, di uguaglianza e di solidarietà; l'Unione si basa sui principi di democrazia e dello Stato di diritto. Essa pone<br />

la persona al centro della sua azione istituendo la <strong>cittadinanza</strong> dell'Unione e creando uno spazio di libertà, sicurezza e<br />

giustizia.<br />

L'Unione contribuisce al mantenimento e allo sviluppo di questi valori comuni, nel rispetto della diversità delle culture<br />

e delle tradizioni dei popoli europei, dell'identità nazionale degli Stati membri e dell'ordinamento dei loro pubblici poteri<br />

a livello nazionale, regionale e locale; essa cerca di promuovere uno sviluppo equilibrato e sostenibile e assicura la<br />

libera circolazione delle persone, dei beni, dei servizi e dei capitali nonché la libertà di stabilimento.<br />

A tal fine è necessario, rendendoli più visibili in una Carta, rafforzare la tutela dei <strong>diritti</strong> fondamentali alla luce dell'evoluzione<br />

della società, del progresso sociale e degli sviluppi scientifici e tecnologici.<br />

La presente Carta riafferma, nel rispetto delle competenze e dei compiti della Comunità e dell'Unione e del principio di<br />

sussidiarietà, i <strong>diritti</strong> derivanti in particolare dalle tradizioni costituzionali e dagli obblighi internazionali comuni agli<br />

Stati membri, dal trattato sull'Unione europea e dai trattati comunitari, dalla convenzione europea per la salvaguardia<br />

dei <strong>diritti</strong> dell'uomo e delle libertà fondamentali, dalle carte sociali adottate dalla Comunità e dal Consiglio d'Europa,<br />

nonché i <strong>diritti</strong> riconosciuti dalla giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee e da quella della Corte<br />

europea dei <strong>diritti</strong> dell'uomo.<br />

Il godimento di questi <strong>diritti</strong> fa sorgere responsabilità e doveri nei confronti degli altri come pure della comunità umana<br />

e delle generazioni future.<br />

Pertanto, l'Unione riconosce i <strong>diritti</strong>, le libertà ed i principi enunciati qui di seguito.”<br />

319 La proposta di un referendum paneuropeo era effettivamente rischiosa. Infatti un eventuale esito negativo di esso avrebbe<br />

comportato il definitivo affossamento della Costituzione come tale. Invece l’eventuale esito positivo di tale referendum<br />

paneuropeo avrebbe comportato che, anche in presenza di qualche esito negativo nei risultati nazionali e dunque<br />

dell’impossibilità di una immediata ratifica parlamentare nazionale rispettiva, l’entrata in vigore della Costituzione<br />

difficilmente sarebbe stata rinviata e ancora più difficilmente sarebbe stata annullata, come invece avverrà.<br />

320 Hubert Védrine era il ministro degli esteri francese e come tale il presidente della formazione più importante del<br />

Consiglio dei ministri dell’Unione Europea. E’ significativo che fosse lui ovvero il Consiglio a partecipare a tale proclamazione,<br />

in quanto quest’ultima era riservata alle tre massime istituzioni propriamente comunitarie, mentre il Consiglio<br />

europeo, ancora una volta istituzione suprema dell’UE super partes, si limitava, nella persona del suo presidente<br />

Jacques Chirac, al ruolo di “osservatore”, nonostante si trattasse della Carta dei <strong>diritti</strong> fondamentali dell’Unione Europea.<br />

Il fatto è che essa era connessa a una “<strong>cittadinanza</strong> dell’Unione”, che di fatto continuava peraltro a essere iscritta<br />

nel solo trattato CE. Anche questo evento dimostrava quindi la perdurante ambiguità delle disposizioni presenti nei trattati<br />

e della stessa struttura a pilastri dell’UE.


Il soggetto della Carta sono dunque gli stessi “popoli europei” che decidono di “condividere un futuro<br />

di pace fondato su valori comuni”. Questi ultimi derivano dalla consapevolezza dell’esistenza<br />

di un “patrimonio spirituale e morale” europeo ovvero dall’origine storica specificamente europea<br />

di tali valori comuni, anche se essi si affermano, per la loro stessa natura intrinseca, come valori in<br />

realtà universali ossia validi per ogni essere umano. Infatti si riassumono nei “<strong>diritti</strong> indivisibili e<br />

universali di dignità umana, di libertà, di uguaglianza e di solidarietà”. La Carta, in cui questi <strong>diritti</strong><br />

vengono specificati, ha la funzione di legittimare un soggetto politico, l’Unione Europea, deputato a<br />

rispettarli e a farli rispettare e perciò basato a sua volta “sui principi della democrazia e dello Stato<br />

di diritto”. Come tale, l’Unione deve porre “la persona” al centro della sua azione e perciò istituire<br />

la “<strong>cittadinanza</strong> dell’Unione” (come pienezza di godimento dei <strong>diritti</strong>, anche politici, della persona)<br />

e creare uno “spazio di libertà, sicurezza e giustizia”, dove tale <strong>cittadinanza</strong> possa avere concreta<br />

realizzazione. La stessa esistenza di una specifica Carta viene peraltro giustificata con l’intento di<br />

rendere tali <strong>diritti</strong> “più visibili”, nonché con quello di aggiornarli “alla luce dell'evoluzione della società,<br />

del progresso sociale e degli sviluppi scientifici e tecnologici”. Infine il carattere impegnativo,<br />

universale e definitivo di essa è dato dalla solenne affermazione che il godimento di tali <strong>diritti</strong> fa<br />

sorgere “responsabilità e doveri nei confronti degli altri come pure della comunità umana e delle<br />

generazioni future”.<br />

Il testo propriamente detto della Carta si suddivide in sette “capi”: 1) dignità, 2) libertà, 3) uguaglianza,<br />

4) solidarietà, 5) <strong>cittadinanza</strong>, 6) giustizia e 7) disposizioni generali.<br />

La “dignità” sta a significare la “axìa” greca, da cui deriva il termine “assioma”, come ciò che ha<br />

tanto evidente valore intrinseco, da non poter essere messo in discussione e perciò da rivestire il<br />

ruolo di vero e proprio principio. Tale “assioma” è originariamente quello della “dignità umana”<br />

(art. 1) ovvero dell’essere umano in quanto tale come termine di riferimento assoluto di ogni diritto.<br />

Indissolubilmente connessi a questa fonte suprema sono gli altri “assiomi” costituiti dai <strong>diritti</strong> “alla<br />

vita” (art. 2) 321 e “all’integrità della persona” (art. 3) 322 e dalle proibizioni “della tortura e delle pene<br />

o trattamenti inumani o degradanti” (art. 4) e “della schiavitù e del lavoro forzato” (art. 5). 323 Di<br />

conseguenza, secondo la Carta, anche gli altri <strong>diritti</strong> scaturenti da questa originaria “dignità” complessiva<br />

valgono, a parte qualche eccezione, per qualunque persona soggiorni legalmente nel territorio<br />

dell’Unione.<br />

Sotto la voce “libertà” sono rubricati i seguenti <strong>diritti</strong>: “diritto alla libertà e alla sicurezza” (art. 6),<br />

“rispetto della vita privata e della vita familiare” (art. 7), “protezione dei dati di carattere personale”<br />

(art. 8), “diritto di sposarsi e di costituire una famiglia” (art. 9), 324 “libertà di pensiero, di coscienza<br />

e di religione” (art. 10), “libertà di espressione e d’informazione” (art. 11), “libertà di riunione e di<br />

associazione” (art. 12), 325 “libertà delle arti e delle scienze” (art. 13), “diritto all’istruzione” (art.<br />

14), 326 “libertà professionale e diritto di lavorare” (art. 15), 327 “libertà d’impresa” (art. 16), “diritto<br />

di proprietà” (art. 17), “diritto di asilo” (art. 18), “protezione in caso di allontanamento, di espulsione<br />

e di estradizione” (art. 19).<br />

321<br />

Esso comprende il divieto della pena di morte. In tal modo il diritto europeo acquista, fin in questa originaria fonte,<br />

una netta distinzione rispetto al diritto vigente tuttora persino in alcuni degli Stati Uniti d’America.<br />

322<br />

Esso comprende il divieto delle pratiche eugenetiche, in particolare di quelle aventi come scopo la selezione delle<br />

persone, il divieto di fare del corpo umano e delle sue parti in quanto tali una fonte di lucro, nonché il divieto della clonazione<br />

riproduttiva degli esseri umani.<br />

323<br />

Esso comprende la proibizione della “tratta degli esseri umani”.<br />

324<br />

Questo diritto vale “secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio”.<br />

325<br />

Questo articolo afferma anche: “I partiti politici a livello dell'Unione contribuiscono a esprimere la volontà politica<br />

dei cittadini dell'Unione”. In tal modo tale tipo di associazione è, secondo la Carta, rivolto essenzialmente ai veri e<br />

propri “cittadini dell’Unione”.<br />

326<br />

Questo articolo prevede: “Ogni individuo ha diritto all'istruzione e all'accesso alla formazione professionale e continua.”<br />

327<br />

Questo articolo precisa: “Ogni cittadino dell’Unione ha la libertà di cercare un lavoro, di lavorare, di stabilirsi o di<br />

prestare servizi in qualunque Stato membro”. In tal modo l’Unione garantisce tale diritto solo per i suoi cittadini propriamente<br />

detti.


Sotto la voce “uguaglianza” sono rubricati i seguenti <strong>diritti</strong>: “uguaglianza davanti alla legge” (art.<br />

20), “non discriminazione” (art. 21), “diversità culturale, religiosa e linguistica” (art. 22), “parità tra<br />

uomini e donne” (art. 23), “<strong>diritti</strong> del bambino” (art. 24), “<strong>diritti</strong> degli anziani” (art. 25), “inserimento<br />

dei disabili” (art. 26).<br />

Sotto la voce “solidarietà” 328 sono rubricati i seguenti <strong>diritti</strong>: “diritto dei lavoratori all’informazione<br />

e alla consultazione nell’ambito dell’impresa” (art. 27), “diritto di negoziazione e di azioni collettive”<br />

(art. 28), 329 “diritto di accesso ai servizi di collocamento” (art. 29), “tutela in caso di licenziamento<br />

ingiustificato” (art. 30), “condizioni di lavoro giuste ed eque” (art. 31), “divieto del lavoro<br />

minorile e protezione dei giovani sul luogo di lavoro (art. 32), “vita familiare e vita professionale”<br />

(art. 33), “sicurezza sociale e assistenza sociale” (art. 34), “protezione della salute” (art. 35), “accesso<br />

ai servizi d’interesse economico generale” (art. 36), “tutela dell’ambiente” (art. 37), “protezione<br />

dei consumatori” (art. 38).<br />

Sotto la voce “<strong>cittadinanza</strong>” sono rubricati i seguenti <strong>diritti</strong>, riservati (salvo qualche eccezione) ai<br />

veri e propri cittadini dell’Unione: “diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni del Parlamento Europeo”<br />

(art. 39), “diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni comunali” (art. 40), 330 “diritto ad una<br />

buona amministrazione” (art. 41), “diritto d’accesso ai documenti” (art. 42), “mediatore” (art. 43),<br />

“diritto di petizione” (art. 44), 331 “libertà di circolazione e di soggiorno” (art. 45), “tutela diplomatica<br />

e consolare “ (art. 46).<br />

Sotto la voce “giustizia” sono rubricati i seguenti <strong>diritti</strong>, anch’essi validi per qualsiasi persona soggiorni<br />

legalmente nel territorio dell’Unione: “diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale”<br />

(art. 47), “presunzione di innocenza e <strong>diritti</strong> della difesa” (art. 48), “principi della legalità e della<br />

proporzionalità dei reati e delle pene” (art. 49), “diritto di non essere giudicato o punito due volte<br />

per lo stesso reato” (art. 50).<br />

Sotto la voce “disposizioni generali”, infine, sono elencate le seguenti norme: “ambito di applicazione”<br />

(art. 51), 332 “portata dei <strong>diritti</strong> garantiti” (art. 52), “livello di protezione” (art. 53) e “divieto<br />

dell’abuso di diritto” (art. 54).<br />

La Carta era inoltre accompagnata dalle cosiddette “spiegazioni” allegate, che dovevano fungere da<br />

guida ineludibile all’interpretazione di essa da parte dei tribunali dell’UE e degli Stati membri.<br />

Con tutto ciò, il Consiglio europeo di Nizza, pur auspicando che “alla Carta sia data la più ampia<br />

diffusione possibile presso i cittadini dell’Unione”, precisava peraltro: “la questione della portata<br />

della Carta sarà esaminata in un secondo tempo”. In tal modo veniva vanificato il piano d’azione<br />

del PE per la “costituzionalizzazione” dei trattati, almeno per quanto riguardava la tabella di marcia<br />

prevista.<br />

Nelle sue conclusioni, il Consiglio europeo di Nizza prevedeva, invece, per l’allargamento, confermato<br />

come “la priorità politica” dell’UE, la possibilità “di accogliere, a partire dalla fine del 2002, i<br />

nuovi Stati membri che saranno pronti, con la speranza che possano partecipare alle prossime elezioni<br />

del Parlamento Europeo” del 2004.<br />

La maggiore decisione presa dal Consiglio europeo di Nizza era peraltro l’approvazione<br />

dell’”Agenda sociale europea” (ASE), che istituiva per i cinque anni successivi una politica sociale<br />

europea, tesa a creare “un legame indissociabile tra prestazione economica e progresso sociale” ovvero<br />

un saldo legame tra politica economica e politica sociale. Anche di questa il Consiglio europeo<br />

328 Sotto questa voce sono raggruppati i cosiddetti “<strong>diritti</strong> sociali” fondamentali, che costituiscono la parte della Carta<br />

meno gradita al governo di uno Stato membro ossia del Regno Unito.<br />

329 Questo articolo precisa: “compreso lo sciopero”.<br />

330 Entrambi gli artt. 39 e 40 precisano: “nello Stato membro in cui risiede” ovvero anche in uno Stato membro diverso<br />

da quello di appartenenza.<br />

331 Gli artt. 41, 42 , 43 e 44 valgono per qualsiasi persona soggiorni legalmente nel territorio dell’UE nei confronti<br />

delle istituzioni e degli organi dell’Unione.<br />

332 Questo articolo recita al paragrafo 1: “Le disposizioni della presente Carta si applicano alle istituzioni e agli organi<br />

dell'Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà come pure agli Stati membri esclusivamente nell'attuazione del diritto<br />

dell'Unione. Pertanto, i suddetti soggetti rispettano i <strong>diritti</strong>, osservano i principi e ne promuovono l'applicazione<br />

secondo le rispettive competenze.”


ivendicava perciò un diretto controllo, ma insieme invitava “le parti sociali a prendere pienamente<br />

parte all’attuazione ed al follow-up di quest’ultima, in particolare in occasione di un incontro annuale<br />

prima del Consiglio europeo di primavera”. Si confermava quindi la strategia generale del Consiglio<br />

europeo per un accentramento delle decisioni, compensato da un ricorso sistematico alla dimensione<br />

partecipativa della democrazia europea.<br />

L’ASE comprendeva sei orientamenti strategici. Il primo era il “miglioramento quantitativo e qualitativo<br />

dell’occupazione” (con un approccio più sociale alle linee del processo di Lussemburgo, in<br />

presenza di un migliorato tasso di disoccupazione (8,7%) e di occupazione (62,1%)). Il secondo era<br />

“anticipazione e sfruttamento dei cambiamenti dell’ambiente di lavoro mediante lo sviluppo di un<br />

nuovo equilibrio tra flessibilità e sicurezza”; con questa complicata espressione si intendeva porre<br />

l’accento essenzialmente su un preventivo “coinvolgimento dei lavoratori” nella gestione dei cambiamenti<br />

prevedibili, facendo leva ancora una volta sul motivo conduttore della democrazia partecipativa<br />

applicato al dialogo sociale in tutte le dimensioni (con un approccio “glocale” dall’UE alla<br />

singola impresa). 333 Il terzo orientamento era la “lotta contro tutte le forme di esclusione e di discriminazione<br />

per favorire l’integrazione sociale”. Il quarto orientamento era l’”ammodernamento<br />

della protezione sociale”, a proposito del quale veniva posta sempre più l’attenzione al tema<br />

dell’invecchiamento della popolazione e alla sostenibilità a lungo termine dei regimi pensionistici.<br />

Il quinto orientamento era la “promozione della parità tra donne e uomini”. Infine il sesto orientamento<br />

era il “rafforzamento del capitolo sociale nell’ambito dell’allargamento e delle relazioni esterne<br />

dell’Unione Europea”.<br />

Nell’ambito del processo di Cardiff (innovazione) e della più generale strategia di Lisbona (società<br />

dei saperi) veniva approvato pure un piano d’azione per la “mobilità degli studenti e degli insegnanti”<br />

nell’ambito dell’UE.<br />

Nell’ambito della politica monetaria veniva stabilita la tabella di marcia dell’introduzione delle monete<br />

e delle banconote in euro (da concludersi alla mezzanotte tra il 31 dicembre 2000 e il 1° gennaio<br />

2002).<br />

In generale il Consiglio europeo stabiliva, soprattutto, la creazione di un’unitaria politica economica<br />

e sociale comune, soggetta alla “strategia globale decisa a Lisbona” e quindi gestita direttamente<br />

nella propria riunione annuale di primavera.<br />

Soltanto l’11 dicembre 2000, “in coda” alla sua riunione, il Consiglio europeo di Nizza addiveniva,<br />

in extremis, a un accordo politico sul progetto di trattato licenziato dalla CIG.<br />

L’anno successivo si apriva con l’entrata, il 2 gennaio 2001, della Grecia nella zona euro, che comprendeva<br />

così dodici dei quindici Stati membri (tranne Danimarca, Regno Unito e Svezia), accrescendo<br />

così il ruolo simbolico dell’euro come moneta dell’Unione.<br />

Inoltre, ancora prima della stessa firma del trattato di Nizza, veniva data realizzazione a una delle<br />

sue disposizioni, che dava ancora più spessore, accanto alla bandiera e appunto all’euro, al senso<br />

d’identità europea, attraverso ben tre decisioni adottate dal Consiglio nello stesso giorno, 22 gennaio<br />

2001, sulla piena affermazione operativa della PESD. Con esse la UEO trasferiva le proprie<br />

capacità operative all’UE in quanto tale (a prescindere dall’appartenenza del singolo Stato membro<br />

dell’UE alla NATO).<br />

Con la prima decisione veniva istituito il “Comitato politico e di sicurezza” (PSC) (inserito nel trattato<br />

di Nizza, non ancora firmato), sottoposto a una catena gerarchica costituita dal Consiglio europeo,<br />

dal Consiglio (nella formazione “Affari generali e Relazioni esterne”, composto dai ministri<br />

degli esteri) e dal Comitato dei rappresentanti permanenti (COREPER, composto da ambasciatori e<br />

333 Il vertice della nuova dimensione “glocale” (coerentemente con l’origine aziendale del termine) si aveva nella progettata<br />

creazione di uno statuto della “società europea” ovvero delle norme di un nuovo tipo di impresa atto a permettere<br />

alle società costituite in Stati membri diversi di procedere ad una fusione o a costituire una società holding o un'affiliata<br />

comune, evitando i vincoli giuridici e pratici derivanti dall'esistenza degli ordinamenti giuridici diversi degli Stati<br />

membri. Questo statuto giuridico avrebbe dovuto prevedere appunto anche il coinvolgimento dei lavoratori nella società<br />

europea, riconoscendone la posizione e il ruolo nell'impresa. Le norme relative alla società europea (SE) saranno emanate<br />

effettivamente nel corso del 2001.


competente per le questioni comunitarie). Formato anch’esso da ambasciatori e competente per le<br />

questioni della sicurezza, il PSC avrà alle proprie dipendenze un “Comitato militare”, un “Comitato<br />

civile” (incaricato della gestione civile delle crisi), un “Gruppo per le relazioni esterne” (competente<br />

per le questioni legali e finanziarie) e un “Gruppo di politica e militare” (competente per le questioni<br />

politico-militari).<br />

Con la seconda decisione veniva altresì istituito il “Comitato militare” dell’UE (EUMC), composto<br />

dai capi di SM della difesa degli Stati membri e guidato da un presidente, con iniziale mandato<br />

triennale, scelto tra coloro che avevano già ricoperto la massima carica militare nazionale. 334<br />

Con la terza decisione, infine, veniva istituito pure lo “Stato maggiore militare ” dell’UE (EUMS),<br />

il massimo organo militare permanente dell’Unione, subordinato all’EUMC, guidato da un generale<br />

di corpo d’armata e operativo dall’11 giugno 2001. 335<br />

Tale struttura operativa verrà completata poco dopo con la creazione, il 20 luglio 2001, sia<br />

dell’Istituto di studi per la sicurezza dell’UE, sia del Centro satellitare dell’UE (a Torrejón). 336<br />

Con l’approntamento di questa struttura operativa, l’UE condurrà tra il 2003 e il 2007 ben 15 operazioni<br />

PESD civili e militari. 337 Nella relazione al PE (citata nella nota relativa alla “Cellula civilemilitare”)<br />

si affermerà: “Queste hanno sperimentato un approccio comprensivo civile/militare alla<br />

gestione delle crisi. La realizzazione di successo di questo approccio rappresenta il tratto distintivo,<br />

il valore strategico aggiunto, del contributo dell’UE alla gestione delle crisi. La PESD perciò richiede<br />

un approccio olistico, coerente, in tutte le fasi della pianificazione e della conduzione di opera-<br />

334 Il primo presidente sarà il generale finlandese Gustav Hägglund (9 aprile 2001-9 aprile 2004). La sua elezione a sorpresa<br />

desterà inquietudine, in quanto la Finlandia non è un Paese NATO, e lo stesso generale avrà a dire, pochi giorni<br />

dopo la sua nomina, al Daily Telegraph del 12 aprile 2001: “[La prevista Forza europea di reazione rapida è] una questione<br />

d’identità, allo stesso modo della bandiera e dell’euro. […] Non stiamo parlando di una forza ausiliaria della<br />

NATO. Questo è un corpo indipendente. Stiamo parlando di cooperazione con la NATO.” I successivi presidenti saranno<br />

i generali italiano Mosca-Moschini (2004-’06) e francese Bentégeat (dal 2006); quest’ultimo, da poco nominato, nella<br />

conferenza stampa del 16 gennaio 2007, dirà : “Il vantaggio principale dell’UE è la capacità d’agire simultaneamente,<br />

globalmente e in maniera coordinata negli ambiti civile e militare ad un tempo, con risorse finanziarie e con capacità<br />

d’intervento negli ambiti giudiziario, di polizia e amministrativo.”<br />

335 Una delle sue sei divisioni sarà costituita, con decisione del Consiglio del dicembre 2004 e con entrata in vigore nel<br />

giugno 2005, dalla “Cellula civile-militare”, presieduta da un generale di brigata e composta da due rami, lo “Stato<br />

maggiore permanente del centro operazioni” (8 militari) (operativo dal 1° gennaio 2007) e il “Ramo di pianificazione<br />

strategica” (civile-militare, 8 militari e 7 civili, di cui 2 funzionari della Commissione europea). Nelle sue osservazioni<br />

davanti alla Sottocommissione “Sicurezza e difesa” del PE del 1° marzo 2007, il generale di brigata tedesco Heinrich<br />

Brauss, direttore della “Cellula civile-militare” dell’EUMS dirà: “Mi si consenta di sottolineare che questa è una configurazione<br />

unica. Per la prima volta, abbiamo portato insieme ufficiali, diplomatici, esperti civili e funzionari del Consiglio<br />

e della Commissione in un’unica collocazione integrata. Questa ha lavorato con pieno successo, e coloro che<br />

all’inizio possono aver temuto uno “scontro di culture” si sono rivelati in torto. Siamo entrambi [il direttore (militare) e<br />

il vicedirettore (civile)] più che orgogliosi di guidare una simile squadra di personale dedicato e altamente qualificato,<br />

che concentra in sé uno spettro particolarmente esteso di competenze. Ciò mostra che la cooperazione civile/militare<br />

funziona, e prova che il combinare l’esperienza professionale, proveniente da così diversi retroterra, in una struttura integrata,<br />

può fornire attualmente valore aggiunto.”<br />

336 Il Centro satellitare UE di Torrejón è l’”occhio” della difesa comune europea. Se e quando sarà effettivamente realizzato<br />

il progetto R&D comune “Galileo”, l’UE potrà disporre di un sistema di rilevamento satellitare suo proprio anche<br />

per le esigenze della PESD. Successivamente verrà creata pure, il 12 luglio 2004, l’Agenzia europea della difesa.<br />

337 Per quanto riguarda le sole operazioni in Europa, l’UE ha condotto o sta conducendo: in Bosnia-Erzegovina<br />

l’operazione civile EUPM (missione UE di polizia) (dal gennaio 2003), a cui si è aggiunta l’operazione militare EU-<br />

FOR “Althea”, che ha rilevato la SFOR (a guida NATO) dal dicembre 2004, determinando da questa data la diretta responsabilità<br />

politico-militare dell’UE in tale Paese balcanico; in Macedonia la citata operazione militare “Concordia”<br />

(marzo-dicembre 2003), seguita dalle operazioni civili EUPOL “Proxima” (dicembre 2003-dicembre 2005) ed EUPAT<br />

(dicembre 2005-giugno 2006); tra Moldavia e Ucraina l’operazione civile EUBAM (missione UE di assistenza al confine)<br />

(dal 1° dicembre 2005); in Kossovo l’operazione civile EUPT (squadra UE di pianificazione) (dal maggio 2006),<br />

incaricata di preparare una prossima missione civile nella provincia separata della Serbia, per aiutare, nel caso di<br />

un’eventuale indipendenza del Kossovo, le nuove autorità a costruire il nuovo Stato come Stato di diritto.


zioni, per conseguire l’effetto strategico desiderato […]. Ciò è particolarmente rilevante per una risposta<br />

rapida, consistente ed effettiva.” 338<br />

II. Il Trattato di Nizza<br />

Un mese dopo aveva finalmente luogo la firma a Nizza il 26 febbraio 2001 del “Trattato che emenda<br />

il trattato sull’Unione Europea, i trattati che istituiscono le Comunità Europee e alcuni atti connessi”<br />

ovvero del Trattato di Nizza.<br />

Nel suo Preambolo i firmatari del trattato di Nizza si limitavano ad affermare: “desiderosi di completare<br />

il processo avviato dal trattato di Amsterdam, volto a preparare il funzionamento delle istituzioni<br />

dell’Unione Europea in un’Unione allargata”. In altri termini il trattato di Nizza doveva essere<br />

inteso come la necessaria integrazione del trattato di Amsterdam, sufficiente a garantire il funzionamento<br />

dell’UE in vista dell’allargamento, che a sua volta era l’obiettivo primario e in un certo<br />

senso ultimo dell’Unione. Non c’era altro.<br />

Il Trattato di suddivideva in due parti: la prima conteneva le “modifiche di merito” la seconda le<br />

“disposizioni transitorie e finali”.<br />

Le modifiche di merito riguardavano: 1) il TUE, 2) il trattato CE, 3) il trattato CEEA, 4) il trattato<br />

CECA, 5) il protocollo sullo statuto del SEBC e della BCE e 6) il protocollo sui privilegi e sulle<br />

immunità delle Comunità europee. In genere esse prevedevano, in diversi casi, un’estensione del<br />

voto a maggioranza qualificata in sede di Consiglio, con effetto immediato o a scadenza programmata.<br />

Le modifiche di merito al trattato sull’Unione Europea riguardavano:<br />

1) un procedimento di “primo avviso” sull’esistenza di “un evidente rischio di violazione grave da<br />

parte di uno Stato membro di uno o più principi” fondamentali dell’UE; la previsione, per tutti gli<br />

stadi della procedura, del parere conforme del PE;<br />

2) la trasformazione del “comitato politico” della PESD (gia previsto dal trattato di Amsterdam) nel<br />

“comitato politico e di sicurezza”, al quale venivano affidati, tra l’altro, i seguenti compiti:<br />

“Nel quadro del presente titolo il comitato, sotto la responsabilità del Consiglio, esercita il controllo politico e la direzione<br />

strategica delle operazioni di gestione delle crisi.<br />

Ai fini di un’operazione di gestione delle crisi e per la durata della stessa, quali sono determinate dal Consiglio,<br />

quest’ultimo può autorizzare il comitato a prendere le decisioni appropriate in merito al controllo politico e alla direzione<br />

strategica dell’operazione […]”;<br />

3) l’estensione della possibilità di “cooperazioni rafforzate” alla PESC (con autorizzazione votata<br />

all’unanimità e dunque con potere di veto), a eccezione delle “questioni aventi implicazioni militari<br />

o nel settore della difesa”;<br />

4) la creazione, nell’ambito della CPGMP, dell’”Unità europea di cooperazione giudiziaria (EURO-<br />

JUST)”, che sarebbe stata coinvolta nei seguenti modi:<br />

“a) mettendo EUROJUST in condizione di contribuire al buon coordinamento tra le autorità nazionali degli Stati membri<br />

responsabili dell’azione penale;<br />

b) favorendo il concorso di EUROJUST alle indagini riguardanti i casi di criminalità transnazionale grave, in particolare<br />

ove si tratti di criminalità organizzata, tenendo segnatamente conto delle analisi di EUROPOL;<br />

c) agevolando una stretta cooperazione fra EUROJUST e la Rete giudiziaria europea, in particolare allo scopo di facilitare<br />

l’esecuzione delle rogatorie e delle domande di estradizione”;<br />

338 Anche in questi primi passi della PESD, l’UE si è dunque mossa sinora con un atteggiamento ben diverso, non solo<br />

negli obiettivi, ma anche nei metodi, dalla presunzione di risolvere tutti i problemi con una massiccia e distruttiva operazione<br />

di conquista e di occupazione militare di un Paese, nella totale incapacità di garantire poi l’opera di costruzione<br />

di uno Stato di diritto, come è accaduto in Iraq dal 2003 a oggi.


5) l’abbassamento a otto Stati membri della soglia minima di <strong>attiva</strong>zione di una cooperazione rafforzata<br />

(prevista solo in casi estremi), nonché la soppressione del diritto di veto del singolo Stato<br />

membro per l’autorizzazione a crearne una.<br />

Le modifiche di merito del trattato istitutivo della CE riguardavano:<br />

1) l’estensione della procedura di codecisione a certi ulteriori casi;<br />

1) l’obbligo del parere conforme del PE per l’<strong>attiva</strong>zione di una cooperazione rafforzata nell’ambito<br />

della CE;<br />

2) l’esclusione, dalle azioni della CE (adottate con procedura di codecisione) intese a facilitare<br />

l’esercizio del diritto di ogni cittadino dell’Unione di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio<br />

degli Stati membri, dei seguenti settori: passaporti, carte d’identità, titoli di soggiorno, sicurezza<br />

sociale o protezione sociale;<br />

3) per quanto riguarda i settori della politica sociale, l’abrogazione del settore “contributi finanziari<br />

volti alla promozione dell’occupazione e alla creazione di posti di lavoro” e l’inserimento dei settori<br />

(non suscettibili di direttive comunitarie) “lotta contro l’esclusione sociale” e “modernizzazione dei<br />

regimi di protezione sociale”, nonché la possibilità di una “passerella” dal voto all’unanimità a<br />

quello a maggioranza qualificata per i settori “protezione dei lavoratori in caso di risoluzione del<br />

contratto di lavoro”, “rappresentanza e difesa collettiva degli interessi dei lavoratori e dei datori di<br />

lavoro” e “condizioni di impiego dei cittadini dei Paesi terzi che soggiornano legalmente nel territorio<br />

della Comunità”;<br />

4) la creazione di un Comitato per la protezione sociale;<br />

5) l’introduzione di un nuovo titolo (XXI) della parte terza (“Politiche della Comunità”), intestato<br />

“Cooperazione economica, finanziaria e tecnica con i Paesi terzi”; 339<br />

6) Per quanto riguarda le istituzioni, si stabiliva che il Parlamento Europeo avrebbe dovuto avere un<br />

numero massimo di membri pari a 732 e che il Consiglio avrebbe determinato, secondo la procedura<br />

di codecisione, “lo statuto dei partiti politici a livello europeo, in particolare le norme relative<br />

al loro finanziamento”;<br />

7) per il Consiglio, il voto a maggioranza qualificata per la nomina del segretario generale di esso e<br />

alto rappresentante per la PESC, nonché della nuova figura del segretario generale aggiunto di esso;<br />

8) per la Commissione, il voto a maggioranza qualificata, da parte del Consiglio riunito a livello di<br />

capi di Stato o di governo, per la designazione del presidente e dei membri della Commissione e per<br />

la nomina di tutti loro ed eventualmente di un membro sostitutivo; il rafforzamento del ruolo del<br />

presidente della Commissione nei seguenti termini:<br />

“1. La Commissione agisce nel quadro degli orientamenti politici del suo presidente, che ne decide l’organizzazione interna<br />

per garantire la coerenza, l’efficacia e la collegialità della sua azione.<br />

2. Le competenze che spettano alla Commissione sono strutturate e ripartite fra i membri dal presidente. Il presidente<br />

può modificare la ripartizione delle competenze nel corso del mandato. I membri della Commissione esercitano le funzioni<br />

loro attribuite dal presidente, sotto la sua autorità.<br />

3. Previa approvazione del collegio, il presidente nomina dei vicepresidenti tra i membri della Commissione.<br />

4. Un membro della Commissione rassegna le dimissioni se il presidente, previa approvazione del collegio, glielo chiede.”;<br />

9) per la Corte di giustizia, la sua riunione in sezioni, in grande sezione o in seduta plenaria, una<br />

dettagliata normativa sul Tribunale di primo grado, nonché la possibilità della creazione di Camere<br />

giurisdizionali, come nuova istanza di base; la piena possibilità anche per il PE di proporre ricorso<br />

alla Corte;<br />

10) la sostituzione della dicitura “Gazzetta ufficiale delle Comunità europee” con quella di “Gazzetta<br />

ufficiale dell’Unione europea”;<br />

339 Nel nuovo titolo è specificato: “La politica della Comunità in questo settore contribuisce all’obiettivo generale di<br />

sviluppo e consolidamento della democrazia e dello Stato di diritto, nonché al rispetto dei <strong>diritti</strong> dell’uomo e delle libertà<br />

fondamentali”.


11) la correzione della composizione del Comitato economico e sociale (CES), ora così definita: “Il<br />

Comitato è costituito da rappresentanti delle varie componenti di carattere economico e sociale della<br />

società civile organizzata, in particolare dei produttori, agricoltori, vettori, lavoratori, commercianti<br />

e artigiani, nonché delle libere professioni, dei consumatori e dell’interesse generale [anziché<br />

degli “interessi generali”]”; 340<br />

12) una nuova composizione del Comitato delle Regioni, riservato a “titolari di un mandato elettorale<br />

nell’ambito di una collettività regionale o locale oppure politicamente responsabili dinanzi a<br />

un’assemblea eletta”.<br />

Tra le invero poche novità introdotte dal trattato di Nizza spiccava senza dubbio la ridefinizione<br />

della composizione e quindi del ruolo del CES, che, nella menzione della “società civile organizzata”<br />

e in particolare dei rappresentanti “dell’interesse generale”, costituiva il maggiore riconoscimento,<br />

sino ad allora effettuato in un trattato europeo, della nuova dimensione partecipativa della democrazia<br />

europea.<br />

Le novità più importanti, soprattutto per gli Stati membri, apportate dal trattato di Nizza erano peraltro<br />

quelle presenti non già nel trattato stesso, bensì nei protocolli allegati a esso e soprattutto nel<br />

protocollo “sull’allargamento dell’Unione Europea”. In esso, infatti, erano contenute delle disposizioni<br />

riguardanti le tre massime istituzioni comunitarie, in vista appunto dell’allargamento<br />

dell’Unione.<br />

Per il PE si prevedeva una nuova ripartizione del numero dei rappresentanti eletti nei diversi Stati<br />

membri, per la legislatura 2004-’09. Essa assegnava alla Germania 99 seggi, al Regno Unito, alla<br />

Francia e all’Italia 72 seggi rispettivi e alla Spagna 50 seggi. che avrebbero dovuto regolare tale<br />

composizione, a seconda del numero di nuovi Stati membri entrati nel frattempo e della data della<br />

loro entrata. Oltre ai seggi previsti per i 15 Stati membri era stato calcolato pure il numero di seggi<br />

complessivo, 732 seggi, per i rappresentanti eletti in 27 Stati membri ossia nel numero massimo di<br />

Stati membri aderenti all’UE previsto per le elezioni europee del 2004. Nel caso in cui a quella data<br />

il numero di Stati effettivamente membri dell’UE fosse risultato inferiore, si sarebbe proceduto,<br />

mantenendo il numero massimo di 732 seggi, a una correzione proporzionale al rialzo per ciascuno<br />

Stato membro (esclusa per gli Stati membri con il massimo o con il minimo possibile di seggi). Nel<br />

caso, poi, in cui, nel corso di quella legislatura, fossero entrati nell’Unione anche altri Stati del<br />

gruppo a 27, questi ultimi avrebbero beneficiato di un’analoga correzione proporzionale al rialzo<br />

nella propria quota di seggi, con un conseguente numero complessivo di seggi superiore alla quota<br />

massima di 732 seggi prevista, per il restante periodo della legislatura 2004-’09. Per le elezioni del<br />

2009 si sarebbe dovuto ritornare effettivamente al numero massimo previsto di 732 seggi, secondo<br />

una nuova ridefinizione complessiva della ripartizione di seggi per Stato membro. 341<br />

Le disposizioni più “scottanti” erano peraltro quelle riguardanti il Consiglio. Infatti proprio la progressiva<br />

estensione del voto a maggioranza qualificata, previsto dal trattato di Nizza, rendeva quanto<br />

mai importante per gli Stati membri una nuova definizione di quest’ultima. La maggioranza qua-<br />

340 Questa correzione poneva l’accento sull’esistenza di un soggetto unitario di cui il CES in quanto tale doveva essere il<br />

“veicolo” ossia della “società civile organizzata”. Tale rivoluzionaria ridefinizione nel trattato era l’effetto finale dello<br />

stesso “storico” parere del CES, adottato il 22 settembre 1999, in merito a “Il ruolo e il contributo della società civile<br />

organizzata nella costruzione europea” (a sua volta sviluppo ultimo della relativa risoluzione del PE del 10 dicembre<br />

1996). Tale espressione trova la sua più corretta lettura nell’espressione rovesciata “organizzazioni di società civile”<br />

(OSC). Tra esse si sarebbero dovute comprendere anche quelle rappresentanti, rispettivamente, le due nuove categorie<br />

non più professionali e quindi settoriali, bensì finali e quindi generali, dei “consumatori”, nonché dell’”interesse generale”<br />

(al singolare). La distinzione tra queste ultime dovrebbe consistere nell’attenzione rispettivamente alla efficienza<br />

dell’offerta economica da parte del mercato (come il MUE) e alla efficacia dell’offerta civile (di civiltà) da parte delle<br />

istituzioni (come l’UE). In questo senso rientrano perfettamente in quest’ultimo settore le ONG, come espressioni del<br />

vertice della complessa “domanda” espressa dalla società civile organizzata.<br />

341 E difatti, poiché, al momento delle elezioni europee del giugno 2004, l’UE sarà a 25 Stati membri, la ripartizione<br />

cambierà nella seguente correzione proporzionale: Germania 99 seggi, Regno Unito, Francia e Italia 78 seggi ciascuno e<br />

Spagna 54 seggi, per un totale complessivo di 732 seggi. Al momento dell’entrata, il 1° gennaio 2007, dei due Stati<br />

membri mancanti all’appello, Romania e Bulgaria, essi avranno perciò rispettivamente 35 se18 seggi, per un totale<br />

complessivo di 785 seggi, quale c’è tuttora.


lificata “ordinaria”, che si aveva nel caso fosse stata a messa a votazione una proposta della Commissione,<br />

consisteva nella soglia minima di “169 voti che esprimano il voto favorevole della maggioranza<br />

dei membri”; altrimenti, nella soglia minima di “169 voti che esprimano il voto favorevole<br />

di almeno due terzi dei membri”. L’elemento più importante erano dunque i voti, ossia il perdurante<br />

sistema della votazione ponderata, nella quale ogni Stato disponeva di un certo “pacchetto” di voti<br />

(diverso da quello di un altro), in riconoscimento del suo rispettivo “peso specifico”. Per ogni Stato<br />

membro si trattava, allora, di fronte all’accresciuta importanza del voto a maggioranza qualificata e<br />

nella prospettiva di doverlo far valere nel contesto di un’Unione prevista persino a 27 Stati membri,<br />

di acquisire per sé una ridefinizione al rialzo del proprio “pacchetto” di voti. Dalle “trattative” scaturì<br />

una ripartizione dei voti, che prevedeva che, a partire dal 1° gennaio 2005, Germania, Regno<br />

Unito, Francia e Italia avrebbero disposto ciascuno di 29 voti e la Spagna di 27 voti. Tale risultato<br />

fu l’esito di un compromesso quanto mai incongruo, che vedeva una Germania sottovalutata e una<br />

Spagna sopravvalutata. Veniva stabilita perciò una clausola che prevedeva che uno Stato membro<br />

potesse chiedere la verifica dei voti, per appurare se la maggioranza qualificata ottenuta corrispondesse<br />

a un numero di Stati membri, la somma delle popolazioni dei quali raggiungesse almeno il<br />

62% della popolazione complessiva dell’Unione e che, in caso negativo, la decisione relativa non<br />

sarebbe stata adottata. 342<br />

Per quanto riguarda la Commissione, si stabiliva che dal 1° gennaio 2005 essa avrebbe compreso un<br />

solo cittadino per ogni Stato membro. Quando, però, l’Unione avesse compreso tutti e 27 gli Stati<br />

membri previsti, in occasione della formazione della Commissione successiva a tale entrata, si sarebbe<br />

adottata la seguente composizione: il numero dei membri della Commissione sarebbe stato<br />

inferiore al numero degli Stati membri ossia a 27, e perciò i membri della Commissione sarebbero<br />

stati scelti in base a una rotazione paritaria, nel rispetto di alcuni criteri di equità. 343<br />

Le decisioni forse più cariche di conseguenze furono peraltro quelle contenute nell’atto finale della<br />

conferenza intergovernativa, che era stato appunto siglato a Nizza il 26 febbraio 2001, e soprattutto<br />

nelle dichiarazioni a esso allegate, e precisamente nelle quattro dichiarazioni seguenti.<br />

Nella Dichiarazione n. 20 “relativa all’allargamento dell’Unione Europea”, infatti, venivano stabilite,<br />

per ognuno dei 27 Stati membri previsti, le disposizioni già riportate nell’analogo protocollo. Da<br />

tali disposizioni emergeva che uno dei previsti nuovi Stati membri ossia la Polonia (con una popolazione<br />

di più di 38 milioni di abitanti) era riuscita a condividere, per ragioni di quasi analogo peso<br />

demografico, le stesse posizioni ottenute dalla Spagna (con una popolazione di poco più di 45 milioni<br />

di abitanti) ossia 50 membri del PE e un “pacchetto” di 27 voti ponderati. Nel caso di un’UE a<br />

27 Stati membri, il numero dei voti necessario a raggiungere la maggioranza qualificata sarebbe stato<br />

pari a 258 voti, fatte salve le relative disposizioni presenti nel protocollo sull’allargamento<br />

dell’UE. 344<br />

342 Si introduceva così, di fatto, il principio della doppia maggioranza, di Stati e di popolazione, che, con la soppressione<br />

della votazione ponderata, si affermerà pienamente come la nuova definizione di maggioranza qualificata nel TCE.<br />

L’ostinata opposizione, nella CIG del 2003, del governo dello Stato membro che più aveva da perdere da tale cambiamento<br />

ossia della Spagna comporterà il rinvio della firma del TCE dal 2003 al 29 ottobre 2004, con grave ritardo sia<br />

rispetto all’allargamento del 1° maggio 2004, sia rispetto alle elezioni europee del giugno 2004, contribuendo a compromettere<br />

il buon esito del processo delle ratifiche e quindi l’entrata in vigore del TCE. Dopo il suo abbandono, il<br />

principio della doppia maggioranza è tuttavia conservato nel “trattato di riforma” ora in corso di approvazione da parte<br />

dell’attuale CIG. Nel frattempo continua peraltro a vigere il sistema di Nizza.<br />

343 Nel successivo TCE il numero “definitivo” dei membri della Commissione verrà stabilito come pari ai due terzi degli<br />

Stati membri. Con l’abbandono del TCE, tale disposizione è mantenuta ora nel “trattato di riforma” in corso<br />

d’approvazione nell’attuale CIG. Nel frattempo continua a vigere il sistema “un cittadino per ogni Stato membro”.<br />

344 Questa Dichiarazione fece sì che, una volta entrata anche la Polonia nell’UE il 1° maggio 2004 e avvenuta, anche da<br />

parte sua, la firma del TCE il 29 ottobre 2004, in presenza dell’esito negativo dei referendum francese e olandese del<br />

maggio-giugno 2005 sul trattato costituzionale, il nuovo governo di tale Stato membro rinviasse e anzi sospendesse la<br />

procedura di ratifica. Una volta abbandonato il TCE e approntato il progetto di “trattato di riforma” destinato a sostituirlo<br />

e insieme a mantenerne pressoché tutti i contenuti, la Polonia, nel corso dell’ultimo Consiglio europeo del giugno<br />

2007, è riuscita a ottenere il rinvio dell’entrata in vigore delle nuove norme relative alla maggioranza qualificata nel voto<br />

in sede di Consiglio al 2014, con la piena applicazione di esso solo nel 2017. Perciò, se tale clausola verrà inserita nel


La Dichiarazione n. 21 “relativa alla soglia della maggioranza qualificata e al numero di voti della<br />

minoranza di blocco in un’Unione allargata” prevedeva per quest’ultima, in un’Unione a 27 Stati<br />

membri, una somma pari a 91voti. Se dunque una minoranza di Stati membri fosse riuscita a mettere<br />

insieme tale cifra in un voto negativo contro un certo provvedimento, quest’ultimo non sarebbe<br />

stato adottato. 345<br />

La Dichiarazione n. 22 “relativa al luogo di riunione dei Consigli europei” stabiliva che dal 2002<br />

“una riunione del Consiglio europeo per ciascuna presidenza si terrà a Bruxelles”. Quando poi<br />

l’Unione avesse avuto almeno 18 Stati membri (perciò a partire dal 1° maggio 2004), “tutte le riunioni<br />

del Consiglio europeo avranno luogo a Bruxelles”. 346<br />

Ma la più importante dichiarazione, anzi la più importante novità dell’intero dispositivo del trattato<br />

di Nizza era quella contenuta nella Dichiarazione n. 23 “relativa al futuro dell’Unione”. In essa la<br />

CIG stabiliva:<br />

“1) A Nizza sono state varate importanti riforme. La Conferenza si compiace della positiva conclusione della Conferenza<br />

dei rappresentanti dei governi degli Stati membri e impegna gli Stati membri a adoperarsi per una rapida ratifica del<br />

trattato di Nizza.<br />

2) Essa conviene che, con la conclusione della Conferenza dei rappresentanti dei governi degli Stati membri, si apre la<br />

via all'allargamento dell'Unione europea e sottolinea che, una volta ratificato il trattato di Nizza, l'Unione avrà completato<br />

i cambiamenti istituzionali necessari per l'adesione di nuovi Stati membri.<br />

3) Essendo ora aperta la via all'allargamento, la Conferenza invita ad un dibattito più approfondito e più ampio sul<br />

futuro dell'Unione europea. Nel 2001 la Presidenza svedese e la Presidenza belga, in cooperazione con la Commissione<br />

e con la partecipazione del Parlamento europeo, promuoveranno un ampio dibattito con tutte le parti interessate: i<br />

rappresentanti dei parlamenti nazionali e i portavoce dell'opinione pubblica nelle sue varie componenti, ossia ambienti<br />

politici, economici e accademici, esponenti della società civile, ecc. I paesi candidati saranno associati a questo<br />

processo secondo modalità da definire.<br />

4) Dopo la presentazione di una relazione al Consiglio europeo di Göteborg del giugno 2001, il Consiglio europeo adotterà<br />

nella riunione di Laeken/Bruxelles del dicembre 2001 una dichiarazione contenente iniziative appropriate per il<br />

proseguimento di questo processo.<br />

5) Il processo dovrebbe affrontare, tra l'altro, le seguenti questioni:<br />

- le modalità per stabilire, e mantenere, una più precisa delimitazione delle competenze tra l'Unione europea e gli Stati<br />

membri, che rispecchi il principio di sussidiarietà;<br />

- lo status della Carta dei <strong>diritti</strong> fondamentali dell'Unione europea, proclamata a Nizza, conformemente alle conclusioni<br />

del Consiglio europeo di Colonia;<br />

- una semplificazione dei trattati al fine di renderli più chiari e meglio comprensibili senza modificarne la sostanza;<br />

- il ruolo dei Parlamenti nazionali nell'architettura europea.<br />

6) Nell'individuare questi temi di riflessione, la Conferenza riconosce la necessità di migliorare e garantire costantemente<br />

la legittimità democratica e la trasparenza dell'Unione e delle sue istituzioni, per avvicinarle ai cittadini degli Stati<br />

membri.<br />

7) La Conferenza conviene che, una volta concluse queste tappe preparatorie, nel 2004 sia convocata una nuova Conferenza<br />

dei rappresentanti dei governi degli Stati membri, al fine di trattare i temi summenzionati in vista delle corrispondenti<br />

modifiche dei trattati.<br />

8) La Conferenza dei rappresentanti dei governi degli Stati membri non costituirà in nessun caso un ostacolo o prerequisito<br />

al processo di allargamento. Inoltre, gli Stati candidati che avranno concluso i negoziati di adesione con l'Unione<br />

saranno invitati a partecipare alla Conferenza. Gli Stati candidati che non avranno concluso i negoziati di adesione saranno<br />

invitati in veste di osservatori.”<br />

nuovo “trattato di riforma” in corso di approvazione da parte dell’attuale CIG, continuerà a vigere sino al 2014 o a poter<br />

vigere sino al 2017 in questo ambito il sistema di Nizza.<br />

345 Con la nuova definizione di maggioranza qualificata, che sopprime la votazione ponderata e assume il principio della<br />

doppia maggioranza (di Stati e di popolazione), affermatasi nel TCE e poi nel nuovo “trattato di riforma” in discussione<br />

nell’attuale CIG, è stato stabilito perciò anche un nuovo tipo di minoranza di blocco. Esso scatterà, peraltro, in analogia<br />

con quanto vale a proposito della nuova maggioranza qualificata, solo nel 2014.<br />

346 Questa decisione aveva un certo valore simbolico. Stava infatti a significare che persino la massima istituzione<br />

dell’UE, che sino ad ora era stata la gelosa custode delle prerogative degli Stati membri e perciò aveva riservato a ciascuno<br />

di essi, nel periodo della rispettiva presidenza di turno, l’onore di ospitare le proprie riunioni in una o più città a<br />

sua scelta del suo territorio nazionale, avrebbe assunto, invece, la veste di stabile vertice unitario dell’Unione e, come<br />

tale, avente la propria “residenza” in una delle “capitali” dell’UE e precisamente in quella che vedeva la presenza, continua<br />

o alternata, delle tre massime istituzioni comunitarie (Consiglio, PE e Commissione) ossia Bruxelles.


In tal modo, sotto la nuova espressione, acc<strong>attiva</strong>nte quanto vaga, di “futuro dell’Unione”,<br />

all’insegna comunque della realizzazione di una nuova “legittimità democratica” dell’UE, era lanciato<br />

un “ampio dibattito”, che, a partire dallo stesso anno 2001, avrebbe dovuto coinvolgere “tutte<br />

le parti interessate”, compresi gli “esponenti della società civile”. Il modo di far confluire tale dibattito<br />

in una sede decisionale appropriata sarebbe stato deciso in base a una prevista “dichiarazione”<br />

del Consiglio europeo di Laeken nel dicembre 2001. In ogni caso i punti che avrebbero dovuto essere<br />

comunque presi in considerazione e decisi erano: a) la “delimitazione delle competenze” tra UE e<br />

Stati membri, b) lo “status della Carta dei <strong>diritti</strong> fondamentali” dell’UE, c) la “semplificazione dei<br />

trattati”, d) il “ruolo dei Parlamenti nazionali” nell’Unione. Al termine di tali “lavoratori preparatori”,<br />

si sarebbe svolta, nel 2004, una nuova CIG, che avrebbe condotto a un nuovo trattato emendativo.<br />

Con questa dichiarazione della CIG veniva così accolto, in gran parte, il piano d’azione del PE previsto<br />

nella sua risoluzione del 25 ottobre 2000, salvo una, peraltro decisiva, precisazione: “in vista<br />

delle corrispondenti modifiche dei trattati”. In altri termini: per quanto rivoluzionarie fossero tali<br />

modifiche, esse avrebbero dovuto venire recepite all’interno di un ennesimo trattato emendativo dei<br />

trattati istitutivi, che sarebbero perciò stati mantenuti nella loro pluralità.<br />

Complessivamente, dunque, l’intero dispositivo del trattato di Nizza si segnalava per la sua fondamentale<br />

ambiguità: da un alto vedeva scarse novità e anzi il trionfo di una logica spartitoria tra gli<br />

Stati membri presenti e futuri, e dall’altro lato apriva tuttavia la strada a un processo che avrebbe<br />

rivoluzionato, sia nella forma (l’”ampio dibattito”), sia nei contenuti (il processo di “costituzionalizzazione”),<br />

l’intera storia del processo d’integrazione europea. Ad aggravare tale ambiguità era<br />

inoltre la deliberata scelta di far avanzare il processo dell’enorme allargamento a 27 Stati membri<br />

indipendentemente dai tempi e dai risultati del dibattito “sul futuro dell’Unione Europea”.<br />

L’incrocio finale, in parte fortuito, fra questi tre elementi, ambizioni costituzionali, rivendicazioni<br />

nazionali e allargamento dell’UE, avrebbe comportato perciò il rischio di un infernale corto circuito,<br />

in cui avrebbe potuto smarrirsi il senso stesso della distinzione tra queste dimensioni nel sentimento,<br />

indistinto, ma profondo, della “eccessività” e dunque della “insostenibilità” della stessa<br />

nuova Unione.<br />

III. Verso la Convenzione sul futuro dell’Europa<br />

Subito dopo la firma del trattato di Nizza, veniva lanciato, il 7 marzo 2001, il dibattito sul futuro<br />

sviluppo dell’Unione Europea.<br />

Un mese dopo la firma del trattato di Nizza, si svolgeva poi il Consiglio europeo di Stoccolma del<br />

23-24 marzo 2001. Si trattava della “prima riunione annuale di primavera dedicata ai problemi economici<br />

e sociali”. Il tema principale di essa era la “sfida demografica”, rappresentata<br />

“dall’invecchiamento della popolazione con una quota sempre più ridotta di persone in età lavorativa”,<br />

almeno entro il 2010. Si prevedeva perciò che, a partire da tale data, ciò avrebbe creato “pressioni<br />

considerevoli sui sistemi previdenziali, in particolare sulle pensioni e sui sistemi di assistenza<br />

sanitaria e di assistenza agli anziani.” Pertanto, entro tale data, occorreva intervenire risolutamente,<br />

“aumentando i tassi di occupazione, riducendo il debito pubblico e adeguando i sistemi di protezione<br />

sociale, inclusi i regimi pensionistici.” Per quanto riguarda la prima modalità, si stabiliva<br />

l’obiettivo intermedio di raggiungere per il gennaio 2005 un tasso di occupazione del 67% in generale<br />

e l’obiettivo finale di raggiungere entro il 2010 un tasso medio di occupazione degli anziani<br />

(dai 55 ai 64 anni) del 50%. L’intera strategia di Lisbona (comprensiva degli indirizzi di massima<br />

per le politiche economiche e dei processi di Lussemburgo, Cardiff e Colonia) veniva dunque posta<br />

di fronte a questa nuova sfida: allargare la base lavorativa, compresa quella in età più avanzata, in<br />

misura sufficiente a impedire il collasso dei sistemi previdenziali, che, in ogni caso, avrebbero dovuto<br />

comunque essere rivisti in rapporto ai risultati conseguiti dalla strategia di Lisbona. A questo<br />

scopo il Consiglio europeo dava particolare risalto al processo di Cardiff ossia dell’innovazione,<br />

con contenuti, che, tuttora, mantengono un sapore “futuribile” di sconvolgente attualità. La riunione


di Stoccarda decideva pure che l’appuntamento seguente nella primavera 2002 sarebbe stato dominato<br />

dal tema dello “sviluppo sostenibile” e della “tecnologia ambientale”, in considerazione del<br />

nuovo grande allarme recepito dal Consiglio europeo ovvero dei “cambiamenti climatici”.<br />

L’UE era nel frattempo molto <strong>attiva</strong> anche sul piano delle relazioni esterne. Le drammatiche conseguenze<br />

della disgregazione della Jugoslavia ossia le sanguinose guerre tra i nuovi Stati balcanici occidentali<br />

e le brutali guerre civili prima in Bosnia-Erzegovina e poi in Kossovo avevano infine convinto<br />

la PESC ad approntare un nuovo quadro di riferimento unitario per tutti gli Stati dei Balcani<br />

occidentali, nel quale assicurare la pace nella regione attraverso la conclusione di specifici “accordi<br />

di stabilizzazione e di associazione” (SAA) con i singoli nuovi Stati. Tali accordi prevedevano che,<br />

in cambio di garanzie per la “stabilizzazione” del singolo Stato membro in un regime di Stato di diritto,<br />

di garanzia dei <strong>diritti</strong> umani quali effettivi <strong>diritti</strong> civili per tutti i suoi cittadini, comprese le<br />

proprie minoranze etniche, e di democrazia effettiva, comprensiva del consenso di tutti i gruppi etnici<br />

presenti nel territorio, veniva accordato al singolo Paese l’ambìto status dell’”associazione” alle<br />

Comunità Europee, aperto a una candidatura e a un’eventuale adesione di esso all’UE. Il primo accordo<br />

di stabilizzazione e di associazione veniva concluso il 9 aprile 2001 con la Macedonia (entrato<br />

poi in vigore il 1° aprile 2004), a cui sarebbe seguito il 29 ottobre 2001 un secondo accordo di tipo<br />

SAA con la Croazia (entrato poi in vigore il 1° febbraio 2005), nonché il 12 giugno 2006 un terzo<br />

accordo SAA con l’Albania (non ancora entrato in vigore) e infine il 15 ottobre 2007 un quarto<br />

accordo SAA con il Montenegro (non ancora entrato in vigore). 347<br />

Dal canto suo, il PE provvedeva invece ad <strong>attiva</strong>re il dibattito sul “futuro dell’UE”, adottando la<br />

risoluzione del 31 maggio 2001 “sul trattato di Nizza e il futuro dell’Unione Europea” (relatori: Iñigo<br />

Méndez de Vigo e António José Seguro 348 ).<br />

Nelle sue premesse, la risoluzione affermava tra l’altro:<br />

- “il successo dell’ampliamento, che aumenterà l’eterogeneità degli interessi nazionali, esige istituzioni e meccanismi<br />

decisionali efficaci che evitino il rischio di paralisi nell’integrazione europea;<br />

- “il completamento dell’unione monetaria renderà imprescindibile la contropartita dell’unione politica”;<br />

- “il trattato di Nizza non ha concluso il processo di unione politica avviato con il trattato di Maastricht”.<br />

Poste queste premesse, il PE si pronunciava criticamente sui seguenti punti:<br />

- “”reputa che un’Unione con 27 e più Stati membri necessiti di riforme più profonde per garantire la democrazia,<br />

l’efficacia, la trasparenza, la chiarezza e la governabilità”;<br />

- “deplora vivamente che il trattato di Nizza abbia dato una risposta timida e in alcuni casi insufficiente alle questioni<br />

all’ordine del giorno – di per sé già ridotto – della Conferenza intergovernativa”;<br />

- “sottolinea che questo Parlamento ha sempre stabilito due parametri per la misurazione del successo della Conferenza<br />

intergovernativa sulle riforme istituzionali, vale a dire l’assoluta garanzia della capacità di funzionamento di un’Unione<br />

allargata e una significativa riduzione del deficit democratico, e che entrambi gli obiettivi sono stati mancati a Nizza”;<br />

- “indica, tra gli aspetti più negativi della Conferenza intergovernativa, il fatto che il processo decisionale all’interno<br />

dell’Unione sia reso più confuso e più opaco, il mancato rispetto del principio di estendere la codecisione a tutte le materie<br />

decise a maggioranza qualificata e la mancata integrazione nei trattati della Carta dei <strong>diritti</strong> fondamentali”;<br />

347 Macedonia e Croazia effettivamente avvieranno ben presto, ma con ben diversa velocità, la procedura d’adesione<br />

all’UE. La domanda d’ingresso verrà presentata dalla Croazia già nel 2003 e dalla Macedonia nel gennaio 2004. La<br />

Croazia verrà riconosciuta come Paese candidato il 18 giugno 2004 e i relativi negoziati d’adesione saranno aperti il 3<br />

ottobre 2005. La Macedonia otterrà il riconoscimento di Paese candidato solo nel dicembre 2005. La Croazia diventerà<br />

il 28° Stato membro dell’UE in un futuro prossimo, determinato soprattutto dall’effettiva entrata in vigore del futuro<br />

“trattato di riforma” dell’UE. L’avvio di negoziati d’adesione con la Macedonia dipenderà dall’accordo tra essa e la<br />

Grecia in merito ai rapporti tra la regione greca della Macedonia e uno Stato che, al fine di differenziarsi da<br />

quest’ultima, è stato costretto ad assumere l’insolita denominazione ufficiale di Ex-Repubblica jugoslava di Macedonia<br />

(FYROM). Molto più problematica rimane, tuttora, la situazione degli altri Stati balcanici occidentali: Albania e Montenegro,<br />

ma soprattutto Bosnia-Erzegovina e Serbia, compresa la sua provincia separata del Kossovo.<br />

348 António José Seguro è stato membro portoghese del PE (nel gruppo del PSE) dal 1999 al 2 luglio 2001, quando divenne<br />

“ministro aggiunto del primo ministro” portoghese sino al 6 aprile 2002. Da allora è membro dell’Assemblea della<br />

Repubblica portoghese (nel gruppo del PS).


- “è dell’avviso che l’approntamento del trattato di Nizza e i negoziati condotti in materia, analogamente a quanto già<br />

avvenuto in precedenza con il trattato di Amsterdam, abbiano evidenziato tutti i limiti del metodo puramente intergovernativo<br />

per la revisione dei trattati, come implicitamente hanno finito per riconoscere i governi stessi nell’approvare<br />

la dichiarazione n. 23 (allegata all’Atto finale del trattato)”;<br />

- “esige che la convocazione di una nuova CIG […] apra un ciclo costituente”;<br />

- “il trattato di Nizza conclude un ciclo iniziato a Maastricht e proseguito ad Amsterdam ed esige l’avvio di un processo<br />

costituzionale che sia coronato dall’adozione di una Costituzione dell’Unione Europa”.<br />

Per quanto riguarda il vero e proprio “trattato di Nizza” il PE affrontava in primo luogo il problema<br />

dei “<strong>diritti</strong> fondamentali”, a proposito dei quali ribadiva la propria richiesta che “la Carta sia integrata<br />

in modo giuridicamente vincolante nei trattati al fine di garantire pienamente i <strong>diritti</strong> di ogni<br />

persona”.<br />

Quanto alla “riforma istituzionale”, il PE notava:<br />

- “”il nuovo sistema di voto a maggioranza qualificata in seno al Consiglio è il risultato di un accordo sulla ripartizione<br />

dei poteri tra i Quindici, che apre formalmente la porta all’ampliamento, ma che, per quanto riguarda l’efficacia e la trasparenza<br />

del processo decisionale, non apporta alcun miglioramento a quello attuale e solleva serie preoccupazioni riguardo<br />

al suo funzionamento in un’Unione con 27 Stati membri”;<br />

- “deplora che non sia stata adottata nessuna disposizione volta a migliorare la trasparenza dei lavori del Consiglio, in<br />

particolare quando esso agisce in qualità di organo legislativo”;<br />

- “deplora che la composizione del Parlamento Europeo non sia disciplinata da principi chiari; esprime il proprio stupore<br />

per la decisione di superare il tetto di 700 membri fissato ad Amsterdam; mette in guardia dai rischi che potrebbero<br />

derivare da un eccessivo aumento dei suoi membri nella fase di transizione e chiede al Consiglio di tener conto di tali<br />

rischi nel fissare il calendario delle adesioni”;<br />

- “esige che, in occasione dei negoziati sui rispettivi trattati di adesione, il numero dei rappresentanti dell’Ungheria e<br />

della Repubblica Ceca al Parlamento Europeo venga rettificato e allineato al numero di seggi (22) attribuiti al Belgio e<br />

al Portogallo (Paesi aventi più o meno la stessa popolazione)”; 349<br />

- “deplora che la struttura a pilastri del trattato persista e che, soprattutto nel settore della PESC, negano introdotti inutili<br />

doppie strutture; chiede che i compiti del commissario competente in materia di relazioni esterne e dell’alto rappresentante<br />

per la PESC vengano affidati a un vicepresidente della Commissione con particolari obblighi nei confronti del<br />

Consiglio”;<br />

- “deplora che i membri della Corte e del Tribunale continuino a essere nominati di comune accordo dagli Stati membri”;<br />

- “ribadisce la sua posizione a favore della creazione di un procuratore pubblico europeo incaricato della lotta alle<br />

frodi contro gli interessi finanziari dell’Unione”.<br />

Quanto al “processo decisionale” il PE notava:<br />

- “deplora che molte questioni fondamentali continueranno a essere soggette alla norma dell’unanimità”, il che pregiudicherà<br />

l’approfondimento dell’Unione allargata”;<br />

- “segnala al riguardo l’assoluta necessità di essere associato più strettamente – quale elemento di partecipazione democratica<br />

– alla politica commerciale e delle relazioni economiche esterne comune […]; reputa che la sua propria partecipazione<br />

sia indispensabile, dacché hanno cessato di esistere le competenze dei Parlamenti nazionali in materia di politica<br />

commerciale comunitaria”;<br />

- “ribadisce che l’estensione del voto a maggioranza qualificata, accompagnata dalla codecisione, costituisce la chiave<br />

per un genuino equilibrio interistituzionale e per il successo dell’ampliamento, motivo per cui è dell’avviso che le modifiche<br />

introdotte dal trattato di Nizza siano del tutto insufficienti; ribadisce che il voto a maggioranza qualificata deve<br />

essere accompagnato, per quanto riguarda la legislazione, dalla codecisione del Parlamento Europeo quale garanzia democratica<br />

indispensabile del processo legislativo”;<br />

- “deplora che la Conferenza intergovernativa non abbia esteso la procedura di codecisione alle basi giuridiche che prevedono<br />

già da prima di Nizza e dopo Nizza il voto a maggioranza qualificata per l’approvazione della legislazione; ri-<br />

349 E difatti, per le elezioni del giugno 2009, il numero complessivo di seggi previsto è stato, dapprima, di 736 seggi<br />

(con 2 seggi in più sia per la Repubblica Ceca, sia per l’Ungheria), anche se, ora (in base al nuovo “trattato di riforma”,<br />

in discussione nell’attuale CIG), è addirittura di 750 seggi. Per quanto riguarda la ripartizione dei seggi per Stato membro,<br />

in base alla proposta della Commissione “Affari costituzionali” del PE dell’11 settembre 2007 (che sarà votata dal<br />

PE nella seduta plenaria del 10-11 ottobre 2007, per essere approvata dal Consiglio nello stesso mese e venire quindi<br />

inserita nel nuovo “trattato di riforma” entro l’anno), per le elezioni europee del 2009 la Germania avrebbe 96 seggi, il<br />

Regno Unito 73, la Francia 74, l’Italia 72 e la Spagna 54.


tiene che il nuovo trattato non riconosca sufficientemente la, procedura di codecisione, prevista all’articolo 251 del<br />

TCE, quale regola generale per la presa di decisioni nell’Unione”;<br />

- “è preoccupato per la complessità che il trattato di Nizza introduce in molte basi giuridiche alle quali estende il voto a<br />

maggioranza qualificata”.<br />

Quanto alle “cooperazioni rafforzate”, il PE notava:<br />

- “è dell’avviso che il ruolo riservatogli per l’autorizzazione delle cooperazioni rafforzate sia insufficiente e antidemocratico,<br />

segnatamente nei settori vitali del primo pilastro per i quali nel Consiglio viene mantenuta l’unanimità”;<br />

- “deplora che il metodo intergovernativo, caratteristico del secondo pilastro, sia stato applicato anche alle cooperazioni<br />

rafforzate in materia di politica estera e di sicurezza – il che rende pertanto possibile il veto di uno Stato -, e che il suo<br />

ruolo sia stato ridotto a un semplice diritto di essere informato e che la Commissione si limiti a formulare un parere”;<br />

“ deplora che le strategie comuni e la politica di difesa siano state escluse dal campo di applicazione delle cooperazioni<br />

rafforzate”.<br />

Concluso così il bilancio del trattato di Nizza, il PE emetteva una “dichiarazione sul futuro<br />

dell’Europa”, nei seguenti termini:<br />

- “ritiene che il dibattito debba avvenire tanto a livello europeo, quanto a livello nazionale; è dell’avviso che<br />

l’organizzazione del dibattito e la valutazione dei suoi risultati, soprattutto in ambito nazionale, siano responsabilità dei<br />

governi e dei Parlamenti nazionali; consiglia la creazione, tanto negli Stati membri, quanto nei Paesi candidati, di un<br />

comitato, composto da rappresentanti del governo e del Parlamento e di deputati europei, incaricato di orientare e incoraggiare<br />

il dibattito pubblico”;<br />

- “è dell’avviso che il risultato finale della prossima riforma dei trattati dipenda sostanzialmente dalla sua preparazione;<br />

per tale motivo raccomanda la creazione di una Convenzione ( i cui lavori dovrebbero essere avviati all’inizio del<br />

2002), formata da membri dei Parlamenti nazionali, del Parlamento Europeo, della Commissione e dei governi, secondo<br />

il modello e la composizione della Convenzione sui <strong>diritti</strong> fondamentali, e incaricata di presentare alla CIG una proposta<br />

costituzionale, fondata sui risultati di un vasto dibattito pubblico e che funga da base per i lavori della CIG”;<br />

- “prende atto del fatto che i quattro temi esplicitati nella dichiarazione 23 non sono esclusivi e afferma che un dibattito<br />

sul futuro dell’Europa non può essere limitato, motivo per cui presenterà proposte concrete in vista del Consiglio europeo<br />

di Laeken”;<br />

- “si pronuncia favorevolmente sulla convocazione della CIG per il secondo semestre del 2003, di modo che il nuovo<br />

trattato possa essere approvato a dicembre dello stesso anno, facendo in modo che le elezioni europee del 2004 possano<br />

dare un impulso democratico al processo di integrazione europea e in modo da poter partecipare a tale processo, insieme<br />

alla Commissione, nelle migliori condizioni possibili”;<br />

- “ritiene che il futuro funzionamento dell’Unione dipenderà dai risultati della prossima riforma, risultati di cui terrà<br />

conto al momento di esprimere il proprio parere conforme sui trattati di adesione”.<br />

Complessivamente la risoluzione, già nelle sue premesse, segnalava dunque l’intenzione del PE di<br />

dare un respiro “costituzionale” al previsto dibattito sul “futuro dell’UE” e di concludere i lavori<br />

della nuova CIG con l’”adozione di una Costituzione dell’Unione Europea”. Essa avrebbe dovuto<br />

integrare i provvedimenti mancati a Nizza (inserimento della Carta, riduzione dei tre pilastri alla<br />

struttura comunitaria, generalizzazione della procedura di codecisione con voto a maggioranza qualificata<br />

ecc.). E tuttavia l’accento principale veniva posto sulla procedura del nuovo processo di riforma:<br />

la qualità del dibattito pubblico (dipendente dal grado di <strong>attiva</strong>zione dei governi nazionali),<br />

la scelta del modello della Convenzione per approntare il progetto di trattato, i tempi della sua convocazione<br />

(inizio del 2002) e di quella della CIG (seconda metà del 2003) e della firma del trattato<br />

(dicembre 2003), con un calendario del tutto funzionale alle elezioni del 2004, concepite come una<br />

sorta di “plebiscito paneuropeo” sulla futura Costituzione. E ancora una volta tutte queste richieste<br />

del PE saranno puntualmente accolte, sino all’intoppo che si verificherà nel corso della CIG del<br />

2003 e che farà saltare proprio alla fine la tabella di marcia e il piano d’azione del PE.<br />

Nel frattempo era iniziato il processo delle ratifiche del trattato di Nizza e persino rispetto a<br />

quest’ultimo si verificava, ancora una volta, il caso di un referendum nazionale con esito negativo<br />

ossia del referendum irlandese del 7 giugno 2001 sulla ratifica del trattato di Nizza. Il suo risultato<br />

negativo, determinato soprattutto dal rifiuto della PESD, poneva ormai inquietanti interrogativi sul<br />

grado di consenso esistente, almeno in alcuni Stati membri, sull’UE. E tutto sembrava, ancora una


volta, rimesso bruscamente in discussione (compreso lo stesso allargamento), proprio alla vigilia<br />

della nuova riunione del Consiglio europeo.<br />

Infatti, una settimana dopo, si svolgeva il Consiglio europeo di Göteborg del 15-16 giugno 2001.<br />

Il primo tema affrontato era “il futuro dell’Europa”. Confermati il dibattito pubblico su di esso e i<br />

preparativi per una CIG nel 2004, si affermava risolutamente: “Il processo di ratifica del trattato di<br />

Nizza proseguirà per mettere l’Unione in condizione di accogliere nuovi Stati membri a partire<br />

dalla fine del 2002. Per quanto concerne il referendum irlandese, il Consiglio europeo conferma<br />

[…] la disponibilità a contribuire in tutti i modi ad aiutare il governo irlandese a trovare una via<br />

d’uscita.” 350<br />

Quanto all’allargamento, che risultava ancora una volta la vera priorità del Consiglio europeo, si<br />

andava tanto oltre da affermare: “L’Unione riconosce le aspirazioni europee dell’Ucraina”. 351<br />

Quanto al dibattito pubblico, già in corso, sul futuro dell’Europa, il Consiglio europeo dava preciso<br />

incarico agli Stati membri e ai Paesi candidati di presentare una sintesi dei risultati di esso a livello<br />

nazionale, in vista della “fase preparatoria” della CIG, confermando che le modalità di tale fase sarebbero<br />

state decise nella sua riunione di Laeken.<br />

La vera novità del Consiglio europeo di Göteborg era piuttosto la nuova “strategia per lo sviluppo<br />

sostenibile”, definito in questi termini: “soddisfare i bisogni dell’attuale generazione senza compromettere<br />

quelli delle generazioni future”. In relazione a questo obiettivo, venivano definiti quattro<br />

settori d’intervento: cambiamenti climatici, trasporti, sanità pubblica e risorse naturali. Con<br />

l’ammonimento: “La mancata inversione delle tendenze che minacciano la qualità futura della vita<br />

provocherà un vertiginoso aumento dei costi per la società o renderà tali tendenze irreversibili”. Di<br />

conseguenza, a motivo dell’importanza capitale e della vastità dei compiti di tale nuova politica, si<br />

affermava che essa “integra l’impegno politico dell’Unione per il rinnovamento economico e sociale,<br />

aggiunge alla strategia di Lisbona una terza dimensione, quella ambientale, e stabilisce un nuovo<br />

approccio alla definizione delle politiche”. In altri termini: da allora avrebbe dovuto esserci<br />

un’unica politica integrata (economica, sociale e ambientale) dell’Unione, posta sempre sotto<br />

l’egida della strategia di Lisbona.<br />

A sconvolgere bruscamente le coordinate generali internazionali di tale processo di sviluppo<br />

dell’UE intervenivano, poco dopo, gli attentati negli Stati Uniti dell’11 settembre 2001. Il crollo<br />

delle torri gemelle del World trade center a Manhattan, nel cuore di New York, la distruzione di<br />

un’ala del Pentagono a Washington, nonché la possibilità, sventata per un soffio, di un altro attentato<br />

in altri siti sensibili della capitale americana, compresa la Casa bianca, con le migliaia di morti<br />

registratisi complessivamente, ponevano bruscamente il mondo intero di fronte all’esistenza di un<br />

nuovo tipo di terrorismo internazionale, di matrice religiosa fondamentalista islamica e dai tratti estremamente<br />

risoluti e micidiali quanto alla negazione totale della civiltà globale (compresi i <strong>diritti</strong><br />

umani), al disprezzo completo della vita umana (compresa quella propria, degli attentatori suicidi),<br />

all’intento di destabilizzare il quadro di riferimento internazionale e soprattutto i regimi politici dei<br />

diversi Paesi arabi, verso la creazione di una vasta comunità politico-religiosa dell’intero mondo islamico,<br />

sotto la guida di un nuovo Califfato.<br />

La reazione americana fu la dichiarazione di guerra globale contro il terrorismo, che avrebbe comportato<br />

un deciso mutamento delle disposizioni riguardanti i <strong>diritti</strong> civili all’interno del Paese,<br />

l’applicazione di una sorta di extraterritorialità giuridica nell’applicazione dei <strong>diritti</strong> umani per i<br />

350 Tale risolutezza del Consiglio europeo non si ripeterà quattro anni dopo, in seguito ai referendum francese e olandese<br />

sul trattato costituzionale. In ogni caso il calendario stabilito dal Consiglio europeo era chiaro: nel corso del dibattito<br />

pubblico sul futuro dell’Europa e dei “lavori preparatori” della CIG sarebbe proseguito il processo di ratifica del trattato<br />

di Nizza, da completare entro il 2002, per permettere nel 2003 la firma dei trattati di adesione dei nuovi Stati membri e<br />

la loro entrata nell’UE in tempo per la loro partecipazione alle elezioni europee del 2004. Solo nel 2004 ci sarebbe stata,<br />

infine, la CIG per il nuovo trattato.<br />

351 Tale impegnativa affermazione aprirà un nuovo capitolo nella storia dell’allargamento ossia quello dei rapporti tra<br />

l’UE e gli Stati della CSI. Anche se attualmente “congelata”, la prospettiva di un ingresso, alle condizioni valide per tutti<br />

gli Stati membri, dell’Ucraina, della Moldavia e della Bielorussia nell’UE prima o poi tornerà a dominare lo scenario<br />

politico dell’UE, assieme al tema dei rapporti, per ora irrequieti, tra l’UE e la Russia.


“prigionieri di guerra” (Guantànamo), l’erezione di pesanti barriere nel rilascio dei visti d’ingresso<br />

negli Stati Uniti persino ai cittadini dell’Unione, sottoposti anch’essi, in tal caso, a pesanti limitazioni<br />

del diritto alla protezione dei dati personali, e lo sfruttamento dello spazio aereo UE, compreso<br />

l’uso di aeroporti europei, per i voli di trasferimento di “prigionieri di guerra”, catturati persino<br />

in territorio europeo, verso Paesi dove fosse ancora permessa di fatto la pratica della tortura per gli<br />

interrogatori.<br />

All’inizio, peraltro, prevalse anche nell’UE il senso della minaccia mortale alla civiltà globale dei<br />

<strong>diritti</strong> umani, costituita dal terrorismo islamico, e dunque la profonda solidarietà con gli Stati Uniti.<br />

Infatti, per l’occasione, fu subito convocata d’urgenza la riunione informale straordinaria del Consiglio<br />

europeo di Bruxelles del 21 settembre 2001. Quasi anticipando tutti i possibili risvolti della situazione,<br />

il Consiglio europeo affermava:<br />

“Il terrorismo rappresenta una vera sfida per il mondo e per l’Europa. Il Consiglio europeo ha deciso che la lotta al terrorismo<br />

costituirà più che mai un obiettivo prioritario per l’Unione Europea.<br />

Peraltro l’Unione Europea respinge solennemente qualsiasi identificazione tra i gruppi di terroristi fanatici e il mondo<br />

arabo e musulmano.”<br />

Stabilita questa importante premessa, l’UE emetteva la propria dichiarazione di guerra globale al<br />

terrorismo nei seguenti termini:<br />

“Il Consiglio europeo è pienamente solidale con il popolo americano di fronte agli attentati terroristici sanguinosi. Questi<br />

atti costituiscono un attacco inferto alle nostre società aperte, democratiche, tolleranti e pluriculturali. Toccano la coscienza<br />

di ciascun essere umano. L’Unione Europea coopererà con gli Stati Uniti per consegnare alla giustizia e punire<br />

gli autori, i responsabili e i complici di questi atti inumani. In base alla risoluzione 1368 del Consiglio di sicurezza una<br />

reazione americana è legittima. Gli Stati membri dell’Unione sono disposti, ciascuno secondo i propri mezzi, ad impegnarsi<br />

in siffatte azioni. Dette azioni devono essere mirate e possono anche essere dirette contro gli Stati che aiutassero,<br />

sostenessero od ospitassero terroristi. […] 352<br />

Inoltre l’Unione Europea invita a costituire una coalizione globale quanto più ampia possibile contro il terrorismo, sotto<br />

l’egida delle Nazioni Unite. Oltre all’Unione Europea e agli Stati Uniti la coalizione dovrà comprendere almeno i Paesi<br />

candidati all’adesione, la Federazione russa, i nostri partner arabi e musulmani, nonché qualsiasi altro Paese disposto a<br />

difendere i nostri valori comuni. L’Unione Europea intensificherà il suo impegno contro il terrorismo mediante un approccio<br />

coordinato e interdisciplinare che abbracci tutte le politiche dell’Unione. Si adopererà affinché l’approccio sia<br />

conforme al rispetto delle libertà fondamentali su cui si fonda la nostra civiltà.”<br />

Le condizioni poste dall’UE erano, dunque chiare: incondizionato appoggio anche alla partecipazione<br />

ad interventi militari, ma a) diretti contro Stati che ospitassero effettivamente terroristi, b)<br />

condotti sotto l’egida delle Nazioni Unite, c) appoggiati da una coalizione davvero globale (USA,<br />

UE, Russia e Paesi arabi) e soprattutto d) con la partecipazione di un’Unione, che avrebbe badato<br />

comunque a rispettare “le libertà fondamentali su cui si fonda la nostra civiltà”. Il Consiglio europeo<br />

aveva dunque compreso e concordato fin dall’inizio le condizioni fondamentali della vittoria<br />

nella guerra contro il terrorismo, il mancato rispetto delle quali avrebbe comportato viceversa<br />

l’aggravamento e la persistenza indefinita di tale conflitto.<br />

Nel quadro della “politica europea di lotta al terrorismo” veniva stabilito, fra l’altro:<br />

1) l’istituzione dell’ordine d’arresto europeo (insieme a una “definizione comune di terrorismo”),<br />

come sostitutivo dell’”attuale sistema di estradizione tra Stati membri”; pertanto esso “consentirà la<br />

consegna diretta delle persone ricercate, da autorità giudiziaria ad autorità giudiziaria, garantendo al<br />

tempo stesso i <strong>diritti</strong> e le libertà fondamentali”;<br />

2) l’”identificazione dei presunti terroristi in Europa, nonché delle organizzazioni che li sostengono,<br />

per compilare un elenco comune delle organizzazioni terroristiche” e la creazione, a tal fine, di<br />

“squadre investigative comuni”;<br />

352 In tal modo l’UE dichiarava di fatto il proprio attivo sostegno alla successiva guerra in Afghanistan contro il regime<br />

fondamentalista, che ospitava appunto la direzione strategica dell’organizzazione terroristica responsabile degli attentati<br />

dell’11 settembre.


3) il completo accesso di EUROPOL a “tutti i dati utili in materia di terrorismo” e la creazione in<br />

EUROPOL di una “squadra di specialisti nella lotta al terrorismo”, che avrebbe dovuto collaborare<br />

con “i colleghi americani”;<br />

4) l’ampliamento della direttiva sul riciclaggio del denaro e una decisione quadro sul sequestro dei<br />

beni, nonché “misure nei confronti delle giurisdizioni e dei territori che non cooperano” con la convenzione<br />

delle Nazioni Unite sulla repressione del finanziamento del terrorismo;<br />

5) il rafforzamento della sicurezza dei trasporti aerei, con misure quali: classificazione delle armi,<br />

formazione tecnica degli equipaggi, controllo dei bagagli alla registrazione e in seguito, protezione<br />

dell’accessibilità alla cabina di pilotaggio e controllo qualitativo delle misure di sicurezza nazionali.<br />

La condizione fondamentale della vittoria, a lungo periodo, nella guerra contro il terrorismo era individuata,<br />

tuttavia, dal Consiglio europeo, in ultima analisi, in queste azioni:<br />

1) “prevenire e stabilizzare i conflitti regionali” ossia il conflitto in Medio Oriente;<br />

2) “un dialogo politico approfondito con i Paesi e le regioni del mondo che sono la culla del terrorismo”<br />

ossia con i Paesi arabi e in genere islamici;<br />

3) “l’integrazione di tutti i Paesi in un sistema mondiale equo, che offra sicurezza, prosperità e uno<br />

sviluppo migliore”.<br />

In tal modo l’UE delineava una efficace strategia globale di lotta al terrorismo, che sarà peraltro alquanto<br />

disattesa negli anni successivi dalla guida della coalizione internazionale contro di esso.<br />

Il Consiglio europeo, infine, prevedeva pure le conseguenze economiche della nuova situazione politico-militare<br />

internazionale: “Gli avvenimenti dell’11 settembre renderanno più grave di quanto<br />

previsto il rallentamento dell’economia”, confidando, tuttavia, nella imminente introduzione<br />

dell’euro come “riparo dagli shock connessi alle fluttuazioni monetarie”.<br />

Un mese dopo si svolgeva la riunione ordinaria del Consiglio europeo di Gand del 19 ottobre 2001.<br />

In essa veniva appunto dato spazio in primo luogo alla “preparazione dell’introduzione dell’euro”.<br />

A questo proposito si affermava: “L’immissione in circolazione dell’euro è di importanza storica. Il<br />

cittadino beneficerà nella sua realtà quotidiana di un risultato concreto e tangibile dell’integrazione<br />

europea. L’Europa ne risulterà rafforzata in termini di visibilità e di vicinanza al cittadino”. Ma veniva<br />

anche precisato “l’impegno in materia di stabilità dei prezzi assunto dagli attori economici:<br />

siamo fiduciosi che sapranno assumersi le responsabilità che loro incombono. Eventuali abusi saranno<br />

denunciati”. 353<br />

Per quanto riguarda l’”esame della situazione economica”, il Consiglio europeo confermava che “il<br />

rallentamento economico è stato accentuato” dagli avvenimenti dell’11 settembre”. E tuttavia ribadiva<br />

il suo impegno “ad attenersi al patto di stabilità e di crescita e ad accelerare il processo di Lisbona<br />

per far sì che aumenti il potenziale di crescita a lungo termine dell’Europa”.<br />

Per quanto riguarda, invece, “il seguito degli attentati dell’11 settembre e la lotta contro il terrorismo”,<br />

il Consiglio europeo confermava esplicitamente “il suo più fermo sostegno alle operazioni<br />

militari, che hanno preso inizio il 7 ottobre e che sono legittime ai termini della Carta delle Nazioni<br />

Unite e ai sensi della risoluzione n. 1368 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.” Precisava<br />

pure che “in Afghanistan, l’obiettivo resta l’eliminazione dell’organizzazione terrorista Al Qaeda<br />

che è all’origine degli attentati dell’11 settembre e i cui dirigenti non sono stati consegnati dal regime<br />

dei talebani.” Ma stabiliva pure dei chiari obiettivi a tali operazioni militari:<br />

1) “Occorre sin d’ora operare, sotto l’egida delle Nazioni Unite, per favorire l’emergere di un governo stabile, legittimo<br />

e rappresentativo dell’insieme della popolazione afgana, rispettoso dei <strong>diritti</strong> dell’uomo e desideroso di sviluppare buone<br />

relazioni con tutti i Paesi limitrofi”;<br />

2) “Non appena questo obiettivo sarà conseguito, l’Unione Europea si impegnerà con la comunità internazionale in un<br />

vasto e ambizioso programma, allo stesso tempo politico e umanitario, di aiuti alla ricostruzione dell’Afghanistan, in<br />

vista della stabilizzazione della regione”.<br />

Infine il Consiglio europeo recepiva il nuovo allarme sulle “minacce di commettere atti terroristici<br />

impiegando armi chimiche o biologiche”. Di conseguenza stabiliva misure atte rafforzare la vigi-<br />

353 Questo monito sarà scarsamente ascoltato, almeno in Italia.


lanza e gli interventi di protezione civile contro eventuali aggressioni chimiche e biologiche. Ma<br />

anche affermava con forza: “Gli Stati membri reagiranno con fermezza nei confronti degli irresponsabili<br />

che approfittano dell’attuale situazione per lanciare falsi allarmi, in particolare erogando severe<br />

sanzioni penali per tali reati” 354 .<br />

Dal canto suo, invece, l’UE proponeva un ben altro tipo d’intervento nella guerra globale contro il<br />

terrorismo:<br />

“Al fine di evitare un amalgama tra il terrorismo e il mondo arabo e musulmano, il Consiglio europeo ritiene indispensabile<br />

favorire il dialogo da pari a pari tra le nostre civiltà, segnatamente nel quadro del processo di Barcellona, ma<br />

anche attraverso una politica <strong>attiva</strong> di scambi culturali. L’Unione invita i responsabili negli Stati membri ad attribuire<br />

una priorità concreta al dialogo tra le culture, tanto in ambito internazionale, quanto in seno alla loro società.”<br />

Con questa frase finale delle sue conclusioni, il Consiglio europeo lanciava dunque la vera strategia<br />

di lungo respiro nella lotta contro il terrorismo, una strategia basata non soltanto sul “dialogo”, anziché<br />

sullo scontro, “tra le civiltà”, e come tale condotto tra l’UE e gli Stati terzi “da pari a pari”,<br />

ma anche sul coinvolgimento dei cittadini, attraverso “scambi culturali” che permettessero, nella<br />

mobilità, di conoscere direttamente altri Paesi e altri popoli, nella prospettiva del superamento dei<br />

rispettivi pregiudizi comuni. E soprattutto l’UE invitava i governi nazionali, riconoscendo la loro<br />

assoluta prerogativa in campo culturale, ad <strong>attiva</strong>re entro la rispettiva società nazionale un “dialogo<br />

tra le culture” ovvero quel dialogo interculturale tra cittadini appartenenti a diverse culture, che sarebbe<br />

divenuto da allora uno degli imperativi più pressanti ai fini della creazione di una società civile<br />

effettivamente integrata negli Stati membri europei. In assenza di essa ossia in presenza di società<br />

disgregate, non sarebbe mancato in effetti l’emergere di un nuovo tipo di terrorismo islamico ossia<br />

di quello endogeno, costituito da cittadini nati e vissuti in uno Stato membro dell’UE.<br />

In questa nuova e inquietante situazione internazionale, il PE non perdeva peraltro di vista<br />

l’obiettivo strategico di un certo “futuro dell’UE”. In previsione del vertice di Laeken, di capitale<br />

importanza in questo senso, il PE provvedeva allora ad adottare, nello stesso giorno, 29 novembre<br />

2001, due risoluzioni convergenti fra loro.<br />

La prima risoluzione, “sul Libro bianco della Commissione “La governance europea”” (A5-<br />

0399/2001) (relatrice: Sylvia-Yvonne Kaufmann), 355 costituiva una vero colpo di freno rispetto alla<br />

vivace accelerazione impressa alla democrazia partecipativa europea proprio dalla Commissione<br />

Prodi, - colpo di freno tanto più significativo, considerata l’appartenenza politica della relatrice. Infatti<br />

la risoluzione affermava: “occorre molta prudenza nell’introdurre elementi di democrazia partecipativa<br />

nel sistema politico dell’Unione” e “nel farlo non si devono perdere di vista principi riconosciuti<br />

ed elementi strutturali della democrazia rappresentativa e dello Stato di diritto”; invece “i<br />

cittadini/le cittadine si aspettano giustamente dall’Unione soprattutto trasparenza dei processi decisionali<br />

e nel contempo chiarezza per quanto riguarda la responsabilità politica delle decisioni”. Di<br />

qui la proposta minimale della risoluzione: “si compirebbero progressi nel senso della trasparenza,<br />

facili da realizzare, ma importanti, se la Commissione si impegnasse ad accludere in futuro ad ogni<br />

proposta legislativa un elenco di tutti i comitati, gli esperti, le associazioni, le organizzazioni e gli<br />

enti che sono stati consultati ai fini dell’elaborazione della proposta stessa”. Tuttavia, in generale,<br />

“in relazione ai temi della “partecipazione” e della “consultazione””, il PE osservava:<br />

- “la “società civile organizzata”, definita come “l’insieme di tutte le strutture organizzative, i cui membri, attraverso un<br />

processo democratico, basato sul discorso e sul consenso, sono al servizio dell’interesse generale e agiscono da tramite<br />

tra i pubblici poteri e i cittadini” [citazione dal parere del CES del 22 settembre 1999 su “Il ruolo e il contributo della<br />

società civile organizzata nella costruzione europea”], sebbene importante, è inevitabilmente settoriale e non può es-<br />

354 L’ironia amara, che questa affermazione suscita a posteriori, deriva dal fatto che purtroppo saranno proprio i governi<br />

di alcuni Stati membri (e non) che si renderanno “irresponsabili” in tal senso, lanciando “falsi allarmi” su “armi chimiche<br />

o biologiche” in possesso di un certo Paese, tali da condurre al conflitto forse più grave intervenuto nel mondo dopo<br />

il 1945. Le “severe sanzioni penali per tali reati” naturalmente non ci sono state.<br />

355 Sylvia-Yvonne Kaufmann è membro tedesco del PE (nel gruppo della SUE) dal 1999.


sere portatrice autonoma di legittimazione democratica […], il che si deduce già dal fatto che i suoi rappresentanti<br />

non sono eletti dal popolo, né possono da esso essere rimossi”;<br />

- “la consultazione degli ambienti interessati, al fine di migliorare i progetti legislativi, può sempre costituire solo un<br />

complemento e non può sostituire le procedure e le decisioni di organi legislativi democraticamente legittimati; a livello<br />

di procedura legislativa possono decidere responsabilmente solo il Consiglio e il Parlamento, in quanto legislatori,<br />

tenendo conto dei pareri delle istituzioni previste dai trattati UE, in particolare il CES e il Comitato delle Regioni”;<br />

- “un importante portavoce della società civile è, per definizione e secondo la sua missione riformulata dal trattato di<br />

Nizza (articolo 257), il Comitato economico e sociale, che ha funzioni consultive e che, già in base alle norme vigenti,<br />

può essere consultato anche anticipatamente dal Consiglio e dalla Commissione “in tutti i casi in cui [tali istituzioni] lo<br />

ritengano opportuno”; la sua tempestiva consultazione da parte della Commissione può essere considerata un elemento<br />

di rafforzamento della democrazia partecipativa a livello di Unione”;<br />

- “non sarebbe in armonia con una buona governance il fatto che la Commissione costituisca gruppi di esperti per affidare<br />

loro compiti che potrebbero essere assolti meglio, perché in modo indipendente dalla Commissione, dal Comitato<br />

economico e sociale”;<br />

- “la consultazione degli interessati e degli esperti, per quanto indispensabile, in particolare per la preparazione di proposte<br />

legislative, non deve avere come risultato quello di aggiungere alle gerarchie burocratiche un’ulteriore gerarchia,<br />

ad esempio sotto forma di “organizzazioni accreditate” o di “organizzazioni con accordi di partenariato””;<br />

- “d’intesa con il Comitato economico e sociale, la Commissione deve reperire strutture organizzative che consentano<br />

una congrua ed efficiente procedura di consultazione delle parti interessate; tutte le consultazioni in corso dovrebbero<br />

figurare in un registro accessibile tramite Internet”.<br />

Di qui la duplice proposta del PE:<br />

1) proponeva perciò di “concludere un accordo interistituzionale sulla consultazione democratica, che obblighi tutte e<br />

tre le istituzioni a conformarsi a norme e pratiche di consultazione a livello di Unione stabiliti di comune accordo”, facendo<br />

tuttavia presente, “in considerazione del ruolo indipendente delle numerose organizzazioni non governative, che<br />

la fissazione di norme di consultazione non deve comportare “contropartite” da parte delle organizzazioni della società<br />

civile, poiché una democrazia vitale non può rinunciare ad un’opinione pubblica indipendente e critica”; tuttavia restava<br />

“l’obbligo per dette organizzazioni di sottostare alle esigenze democratiche in ordine al processo normativo comunitario<br />

in materia di responsabilità e di trasparenza”;<br />

2) “l’accesso alla legislazione costituisce un elemento di rilievo per un’effettiva partecipazione e consultazione” e pertanto<br />

occorrono “una legislazione coerente e chiara, cui si possa accedere agevolmente, nonché una migliore comprensione<br />

delle leggi da parte degli interessati”;<br />

- ciò avrebbe richiesto “una pubblicità efficace e metodologie ottimali di comunicazione diretta (nei confronti<br />

dell’opinione pubblica) e indiretta (nei confronti della stampa), per suscitare l’interesse e coinvolgere i cittadini/le cittadine<br />

nella sua azione”;<br />

- l’”opportunità offerta dalle nuove tecnologie per far fronte alle sfide in materia di comunicazione, consultazione e partecipazione<br />

diretta della società civile”.<br />

La risoluzione, che coinvolgeva nelle sue critiche pure la partecipazione diretta delle Regioni e degli<br />

enti locali (al posto del CR) e delle varie Agenzie indipendenti nelle attività della Commissione,<br />

era mossa dalla preoccupazione generale che tale dimensione nuova della democrazia partecipativa<br />

europea (assolutamente riconosciuta, per il resto, nel suo specifico valore e ruolo) non producesse,<br />

anche a prescindere dalla molteplicità delle istanze e dalla opacità dei modi di convocazione e di<br />

consultazione, l’inaccettabile effetto di porsi come dimensione sostitutiva della democrazia rappresentativa,<br />

rafforzando così, paradossalmente, le istituzioni non direttamente rappresentative ossia<br />

Commissione e Consiglio e perciò l’ulteriore scollamento tra i cittadini in generale e le istituzioni.<br />

Se il fine comune a tutti era davvero quello dell’avvicinamento tra gli uni e le altre, il mezzo privilegiato<br />

avrebbe dunque dovuto essere quello del coinvolgimento diretto dei cittadini in quanto tali<br />

all’UE in quanto tale, attraverso una precisa strategia della comunicazione, fondata sugli elementi<br />

della semplificazione, della trasparenza, dell’accessibilità informativa, ma anche della “persuasione”<br />

ossia della capacità di destare interesse e curiosità, con un approccio che avrebbe dovuto coinvolgere<br />

tutti i mezzi di comunicazione di massa, dai più recenti (Internet) ai più classici (la stampa).<br />

In definitiva per il PE era finita la fase in cui la dimensione partecipativa doveva rappresentare (secondo<br />

la risoluzione del 10 dicembre 1996) l’esclusivo volano di produzione di un’effettiva “coscienza<br />

europea”. Da quel momento in poi tale funzione doveva essere svolta piuttosto dalla capacità<br />

delle istituzioni e segnatamente della Commissione di coinvolgere i mezzi di comunicazione di


massa esistenti nello spazio pubblico europeo sui temi dell’Unione: impresa titanica, dato che questi<br />

ultimi (soprattutto la stampa) erano e sono essenzialmente nazionali e interessati quindi ai temi, anche<br />

i più banali, della vita politico-parlamentare statale. Inoltre tale strategia della comunicazione<br />

aveva senso solo in funzione della vera sfida a cui il PE si era posto esso stesso di fronte, con tale<br />

ridimensionamento della dimensione partecipativa, ossia un decisivo sviluppo della democrazia<br />

rappresentativa attraverso il conferimento al PE del potere di scelta del presidente della Commissione<br />

e lo sviluppo di un effettivo sistema di partiti politici europei che concorressero, all’atto delle<br />

elezioni europee, nella proposizione di un proprio candidato alla guida del “governo” dell’Unione,<br />

conferendo perciò ai cittadini il potere di determinare, con il loro voto, la scelta di colui al quale affidarlo.<br />

Ma questa sfida faceva ormai parte del tema affrontato dalla seconda risoluzione del PE, “sul processo<br />

costituzionale e il futuro dell’Unione” (A5-0368/2001) (relatori: Jo Leinen e Iñigo Méndez<br />

de Vigo). In essa il PE ribadiva: “l’obiettivo della Conferenza intergovernativa del 2003 deve essere<br />

una Costituzione per l’Unione Europea”. I “lavori preparatori” avrebbero dunque dovuto affrontare,<br />

oltre ai quattro temi già previsti dal trattato di Nizza, anche i seguenti temi generali:<br />

1) la creazione di una PESC e di una PESD con la chiara “definizione dei principi e degli orientamenti generali” e con<br />

l’inclusione tra i suoi obiettivi della “lotta contro il terrorismo”;<br />

2) l’inserimento della PESC nel pilastro comunitario, con la riunione in un unico capitolo di tutte le disposizioni sui<br />

“vari aspetti della politica estera”;<br />

3) il “riconoscimento della personalità giuridica dell’Unione”;<br />

4) il “consolidamento nel trattato dei <strong>diritti</strong> fondamentali, dei <strong>diritti</strong> dei cittadini e di tutte le altre disposizioni direttamente<br />

o indirettamente connesse con l’azione delle istituzioni europee a favore delle persone in quanto titolari di un diritto<br />

fondamentale”;<br />

5) “l’eliminazione del deficit democratico che caratterizza attualmente l’UEM e l’istituzione di un sistema economico e<br />

monetario equilibrato, attraverso il consolidamento della politica di coesione economica e sociale e un maggiore coordinamento<br />

delle politiche economiche degli Stati membri”;<br />

6) l’effettiva realizzazione dello SLSG attraverso:<br />

- la fusione, nel quadro comunitario, della CPGMP con gli altri settori dello SLSG;<br />

- la piena competenza della Corte di giustizia per tutte le misure adottate per realizzare lo SLSG;<br />

- l’integrazione di EUROJUST e di EUROPOL nel quadro istituzionale dell’Unione;<br />

- la creazione di un “pubblico ministero responsabile dinanzi alla Corte di giustizia”;<br />

Inoltre avrebbe dovuto essere riaperto il capitolo sulle “riforme istituzionali”, con le seguenti proposte<br />

davvero “rivoluzionarie”:<br />

1) la ridefinizione delle funzioni del Consiglio europeo, del Consiglio “Affari generali” e delle formazioni settoriali del<br />

Consiglio;<br />

2) un nuovo sistema di designazione delle presidenze del Consiglio europeo, del Consiglio “Affari generali” e delle<br />

formazioni settoriali del Consiglio;<br />

3) la “semplificazione delle procedure legislative”, sia nel senso della trasparenza, sia nel senso del loro affidamento al<br />

voto a maggioranza qualificata in Consiglio e alla codecisione con il PE, sia nel senso della pubblicità delle deliberazioni<br />

e delle decisioni del Consiglio in materia di normativa europea;<br />

4) le proposte già avanzate in materia di bilancio;<br />

5) la creazione di “un procuratore europeo indipendente, il quale eserciti le funzioni di pubblico ministero presso le<br />

giurisdizioni competenti degli Stati membri nell’ambito della protezione degli interessi finanziari comunitari”;<br />

6) l’introduzione di una “gerarchia di norme” ossia dei tipi di atti giuridici dell’UE;<br />

7) la piena partecipazione del PE alla politica commerciale comune, alle relazioni economiche esterne e allo sviluppo<br />

delle cooperazioni rafforzate;<br />

8) “l’elezione del presidente della Commissione da parte del Parlamento Europeo”;<br />

9) la nomina dei membri della Corte di giustizia e del Tribunale di primo grado a maggioranza qualificata e previo parere<br />

conforme del PE.<br />

Per quanto riguarda le modalità di esecuzione dei “lavori preparatori” il PE confermava la sua volontà<br />

che “venga creata una Convenzione”, che riflettesse “il pluralismo politico europeo” e in cui<br />

perciò “la componente parlamentare nazionale ed europea dovrà essere largamente rappresentata”,<br />

precisando che il PE “deve esservi rappresentato nella stessa proporzione rispetto agli altri compo-


nenti”. Tale Convenzione avrebbe dovuto essere guidata da un “Praesidium”, composto dal presidente,<br />

dal rappresentante della Commissione, da due membri scelti dai Parlamenti nazionali, da due<br />

rappresentanti del PE e dai rappresentanti della presidenza in carica e della presidenza successiva<br />

del Consiglio. Il presidente della Convenzione avrebbe dovuto essere “una personalità politica di<br />

fama e di prestigio europeo, dotata di esperienza parlamentare” e venire eletto dalla stessa Convenzione.<br />

Inoltre il Praesidium della Convenzione avrebbe dovuto poter “partecipare pienamente e <strong>attiva</strong>mente<br />

in tutte le fasi e a tutti i livelli alla CIG” successiva.<br />

La Convenzione avrebbe dovuto decidere in piena autonomia l’organizzazione dei propri lavori, da<br />

condurre “in piena trasparenza”, istituendo “un dialogo attivo con i cittadini” e anzi un “forum della<br />

società civile”, che le consentisse di “tenere uno stretto contatto con i cittadini”.<br />

La Convenzione, inoltre, doveva essere dotata di una procedura decisionale, che le permettesse di<br />

“elaborare per consenso una proposta unica e coerente”, da presentare alla CIG come “unica base<br />

negoziale e decisionale”. Infine la tabella di marcia avrebbe dovuto essere, a differenza di quella del<br />

Consiglio europeo, la seguente: inizio dei lavori della Convenzione nella prima metà del 2002, loro<br />

conclusione per la metà del 2003, svolgimento della CIG nell’autunno 2003 e firma del “nuovo trattato”<br />

nel dicembre 2003, in modo da consentire alle elezioni europee del giugno 2004 di costituire,<br />

in termini di affluenza alle urne, una sorta di plebiscito a esso, esteso ai nuovi Stati membri nel frattempo<br />

entrati nell’UE.<br />

E finalmente si perveniva alla riunione, tanto attesa, del Consiglio europeo di Laeken del 14-15 dicembre<br />

2001. La sua apertura era allietata dall’inizio della distribuzione, il 14 dicembre 2001, degli<br />

“euro-kits” e quindi della possibilità per i cittadini di acquistare le monete in euro in vista del passaggio<br />

alla moneta unica.<br />

Il primo tema discusso in tale riunione fu naturalmente “il futuro dell’Unione” e in primo luogo il<br />

Consiglio europeo adottava la “Dichiarazione di Laeken sul futuro dell’Unione Europea”.<br />

In essa, con un linguaggio quanto mai piano e aperto, si riassumeva il percorso del processo<br />

d’integrazione europea e le sfide di fronte alle quali era allora posta l’Unione. Quasi come se si esponessero<br />

i risultati di un sondaggio d’opinione fra i cittadini, si descrivevano le loro aspettative e i<br />

loro timori rispetto all’UE. E, partendo da essi, si elencavano poi tutte le questioni avanzate dal PE,<br />

senza eccezione alcuna (compresa l’idea di una Costituzione), esprimendole in forma problematica<br />

con una serie di domande o di punti interrogativi. Le ultime domande ossia le più impegnative riguardavano<br />

“la via verso una Costituzione per i cittadini europei” ed erano le seguenti:<br />

“Attualmente l’Unione europea conta quattro trattati. Gli obiettivi, le competenze e gli strumenti politici dell’Unione<br />

sono sparsi in questi trattati. In un’ottica di maggiore trasparenza, una semplificazione è imprescindibile.<br />

Si possono quindi formulare quattro serie di domande. La prima riguarda la semplificazione degli attuali trattati senza<br />

modificarne il contenuto. Deve essere riveduta la distinzione fra Unione e Comunità? E la suddivisione in tre pilastri?<br />

Seguono poi le domande relative ad una possibile riorganizzazione dei trattati. È necessario operare una distinzione fra<br />

un trattato di base e le altre disposizioni del trattato? Questa distinzione dovrebbe comportare una separazione dei testi?<br />

Ne può derivare una distinzione fra le procedure di modifica e di ratifica per il trattato di base e per le altre<br />

disposizioni del trattato?<br />

Occorre inoltre riflettere sull’opportunità di inserire la Carta dei <strong>diritti</strong> fondamentali nel trattato di base e porre il quesito<br />

dell’adesione della Comunità europea alla Convenzione europea dei <strong>diritti</strong> dell’uomo.<br />

Infine, si pone il quesito se questa semplificazione e questo riordino non debbano portare, a lungo andare, all’adozione<br />

nell’Unione di un testo costituzionale. Quali dovrebbero essere gli elementi di base di tale legge fondamentale? I valori<br />

che l’Unione coltiva, i <strong>diritti</strong> e i doveri fondamentali del cittadino, i rapporti fra gli Stati membri all’interno<br />

dell’Unione?” 356<br />

356 Questo passo cruciale della Dichiarazione di Laeken era stato preceduto dalla Dichiarazione franco-tedesca di Nantes<br />

del novembre 2001, in cui si auspicava “una divisione dei trattati in una parte costituzionale e una parte infracostituzionale<br />

più facile da far evolvere”, ovvero una netta suddivisione funzionale a far sì che la seconda parte, appunto<br />

in quanto non fondamentale, fosse soggetta a un nuovo tipo di procedura di revisione, non più attraverso CIG, ratifiche<br />

nazionali e unanimità, bensì attraverso una decisione istituzionale comunitaria a maggioranza (Commissione, Consiglio<br />

e PE). La Dichiarazione di Laeken aggiungeva poi l’ipotesi di una differenziazione delle procedure della stessa<br />

ratifica per il trattato di base e per le altre disposizioni del trattato.


Tutti gli interrogativi erano consegnati all’assemblea che avrebbe dovuto rispondervi ossia alla<br />

Convenzione (proposta dal PE), alla quale pertanto veniva affidato un larghissimo mandato, praticamente<br />

senza restrizione alcuna. La stessa sua composizione veniva incontro alle richieste del PE,<br />

prevedendo: i 15 rappresentanti dei capi di Stato o di governo degli Stati membri, 2 membri per ogni<br />

Parlamento nazionale (30 membri), 16 membri del PE e 2 rappresentanti della Commissione.<br />

Veniva accolta anche la proposta di un Praesidium, composto dal presidente della Convenzione, da<br />

2 vicepresidenti e da 9 membri della Convenzione (i rappresentanti dei governi degli Stati membri<br />

che avrebbero avuto la presidenza del Consiglio durante i lavori della Convenzione, 2 rappresentanti<br />

dei Parlamenti nazionali, 2 rappresentanti dei parlamentari europei e i 2 rappresentanti della<br />

Commissione). Venivano accolte anche le proposte del PE sul metodo di lavoro della Convenzione,<br />

sul ruolo d’iniziativa del presidente, sul ruolo propulsore del Praesidium, sulla suddivisione per<br />

gruppi di lavoro, sulla sede dei lavori a Bruxelles, sulla loro pubblicità e diffusione in undici lingue,<br />

sull’apertura di “un forum per le organizzazioni che rappresentano la società civile (parti sociali,<br />

settore privato, organizzazioni non governative, ambienti accademici ecc.)”, sull’inserimento dei loro<br />

contributi nel dibattito, sulla loro audizione su argomenti specifici, sulla possibilità dell’adozione<br />

per consenso del documento finale, “che costituirà il punto di partenza per i lavori della Conferenza<br />

intergovernativa che prenderà le decisioni finali”. Veniva infine accolto anche il calendario proposto<br />

dal PE: infatti si fissava la seduta inaugurale della Convenzione per il 1° marzo 2002 e si stabiliva<br />

che il documento finale sarebbe stato consegnato al Consiglio europeo del giugno 2003.<br />

L’unica eccezione era costituita dal fatto che il Consiglio europeo riservava a se stesso la nomina<br />

del presidente e dei due vicepresidenti, individuati rispettivamente nelle persone di Valéry Giscard<br />

d’Estaing (ex-presidente della Repubblica francese), nonché di Giuliano Amato (ex-capo del governo<br />

italiano) e di Jean-Luc Dehaene (ex-capo del governo belga). 357<br />

Sempre nell’ambito del “futuro dell’Europa”, il Consiglio europeo di Laeken dedicava una forte attenzione<br />

anche alla PESD. Pure a questo proposito veniva emessa una apposita dichiarazione, la<br />

“Dichiarazione relativa all’operatività della politica europea comune di sicurezza e di difesa”. Con<br />

questa dichiarazione il Consiglio europeo annunciava: “l’Unione è ormai capace di condurre operazioni<br />

di gestione delle crisi.” Tale operatività era basata sulle ormai conseguite capacità, strutture<br />

e procedure, intese tra l’UE e la NATO e accordi con i partner (Stati membri della NATO non<br />

appartenenti all’UE, Paesi candidati all’adesione all’UE, la Russia e l’Ucraina). Tuttavia, per il futuro,<br />

avrebbero dovuto essere ulteriormente potenziati uno sviluppo equilibrato delle capacità militari<br />

e civili e una messa a punto sia delle intese con la NATO, sia degli accordi con i partner.<br />

Il secondo tema discusso dal Consiglio europeo di Laeken fu quello, nell’ambito della PESC, sulle<br />

“azioni dell’Unione in seguito agli attentati dell’11 settembre negli Stati Uniti”, in particolare<br />

sull’”azione dell’Unione in Afghanistan”. In merito si affermava che il Consiglio europeo “incoraggia<br />

lo spiegamento di una forza internazionale di sicurezza con il mandato, in base ad una risoluzione<br />

del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, di contribuire alla sicurezza delle amministrazioni<br />

afgane e internazionali installate a Kabul e dintorni, nonché all’istituzione e all’addestramento delle<br />

nuove forze di sicurezza e delle forze armate afgane. […] La partecipazione degli Stati membri<br />

dell’Unione a tale forza internazionale sarà un forte segnale della loro volontà di assumere al meglio<br />

le loro responsabilità in materia di gestione delle crisi, contribuendo in tal modo alla stabilizzazione<br />

dell’Afghanistan.”<br />

Il terzo tema discusso al Consiglio europeo di Laeken fu l’”evoluzione economica, sociale e di sviluppo<br />

sostenibile”. A questo proposito si sottolineava come le parti sociali avessero “insistito sulla<br />

357 La scelta di Giscard d’Estaing era dovuta proprio al fatto che, mentre era presidente della Repubblica francese dal<br />

1974 al 1981, egli volle e fu in grado di dare un contributo decisivo alla svolta radicale delle Comunità europee con la<br />

creazione del Consiglio europeo e di un Parlamento Europeo eletto direttamente a suffragio universale e l’adozione della<br />

“Dichiarazione sull’Unione Europea”, con cui si apriva la “lunga marcia” verso il trattato di Maastricht. Le scelte di<br />

Amato e di Dehaene erano invece dovute soprattutto al ruolo da essi svolto rispettivamente nel rapporto del gruppo di<br />

ricerca dell’IUE di Firenze “Quale Carta costituzionale per l’Unione Europea?” e in quello del comitato dei tre saggi<br />

“Implicazioni istituzionali dell’allargamento”.


necessità di sviluppare e meglio articolare la concertazione trilaterale sui diversi aspetti della strategia<br />

di Lisbona. E’ stato convenuto che d’ora in avanti un “vertice” sociale si svolgerà prima di ciascun<br />

Consiglio europeo di primavera”.<br />

Il quarto tema discusso dal Consiglio europeo di Laeken fu il “rafforzamento dello spazio di libertà,<br />

sicurezza e giustizia”. Venne sollecitata in primo luogo la costruzione di “una vera politica comune<br />

di asilo e di immigrazione”, fondata sui seguenti elementi: 1) l’integrazione della politica dei flussi<br />

migratori nella PESD (con accordi europei di riammissione con i Paesi interessati); 2) lo sviluppo di<br />

un sistema europeo di scambio di informazioni, l’attuazione di EURODAC e un’applicazione più<br />

efficace della Convenzione di Dublino; 3) norme comuni in materia di procedura d’asilo, accoglienza<br />

e ricongiungimento familiare; 4) programmi specifici in materia di lotta contro la discriminazione<br />

e il razzismo. In secondo luogo si propose “la creazione di un meccanismo o di servizi comuni<br />

di controllo delle frontiere esterne”, nonché di “un sistema comune di identificazione dei visti” e<br />

persino “di istituire uffici consolari comuni”. In terzo luogo, per quanto riguarda la CPGMP, si<br />

sollecitava l’attuazione di una “rete europea per incoraggiare la formazione dei magistrati”.<br />

Con questa larga apertura del Consiglio europeo di Laeken sul futuro dell’Europa, l’UE lo iniziava<br />

già di fatto, quando, il 1° gennaio 2002, entravano in circolazione le banconote e le monete in euro<br />

nei 12 Stati membri aderenti alla moneta dell’Unione. 358<br />

IV. L’epoca della Convenzione sull’avvenire dell’Europa<br />

Infine, nello stesso giorno, il 28 febbraio 2002, in cui l’euro diventava l’unica moneta a corso legale<br />

nei 12 Stati predetti, si teneva a Bruxelles la seduta inaugurale della Convenzione sull’avvenire<br />

dell’Europa. Iniziava così l’avventura della Costituzione Europea, un’avventura, che, anche se<br />

conclusasi in modo negativo quanto alla forma, continua tuttora, nel varo, ormai prossimo, del nuovo<br />

“trattato di riforma”, che salva sostanzialmente tutti i principali risultati del lavoro della Convenzione,<br />

facendoli diventare, finalmente, fonte primaria del diritto europeo. 359<br />

Il Parlamento Europeo, dal canto suo, non mancava di seguire passo dopo passo i lavori della Convenzione<br />

per quanto riguarda i temi ritenuti più importanti, a cominciare da quello considerato nella<br />

risoluzione del PE del 14 marzo 2002 “sulla personalità giuridica dell’Unione Europea”, in cui raffermava<br />

che “occorre porre fine allo smembramento del sistema istituzionale e istituire una struttura<br />

semplice, trasparente e comprensibile, riunendo le Comunità e i pilastri esistenti in una sola Unione<br />

dotata essa sola di personalità giuridica”. In tal modo il PE indicava la prima mossa fondamentale<br />

che la Convenzione avrebbe dovuto compiere sulla via della Costituzione Europea.<br />

Subito dopo si riuniva il Consiglio europeo di Barcellona del 15-16 marzo 2002. Come ormai di<br />

consueto per ogni riunione primaverile, esso era dedicato all’esame della strategia di Lisbona, focalizzando<br />

in particolare la propria attenzione sul nuovo aspetto della politica integrata dell’Unione,<br />

ovvero sulla politica ambientale, altrimenti detta dello sviluppo sostenibile. Il primo grande risultato<br />

di essa fu la ratifica, da parte dell’UE, del protocollo di Kyoto il 31 maggio 2002.<br />

Nel frattempo il PE aveva adottato, il 16 maggio 2002, due risoluzioni, condotte entrambe nella<br />

strategia di attenzione verso i lavori della Convenzione. Nella prima risoluzione “sulla riforma del<br />

358 In realtà l’euro sarà anche la valuta di fatto usata dalla provincia separatista serba del Kossovo (in sostituzione del<br />

marco tedesco), nonché la valuta adottata unilateralmente dal nuovo Stato indipendente del Montenegro (nato il 3 giugno<br />

2006). Successivamente la zona euro si sarebbe allargata, il 1° gennaio 2007, alla Slovenia (tredicesimo Stato<br />

membro). Il 1° gennaio 2008 entreranno nella zona euro anche Cipro e Malta. In seguito dovrebbero entrarvi, in base<br />

agli obblighi derivanti dai trattati d’adesione, tutti gli altri Stati membri dell’UE, tranne Danimarca e Regno Unito.<br />

359 Della Convenzione facevano parte i 16 membri del PE seguenti: Klaus Hänsch (D, PSE) e Iñigo Méndez de Vigo (E,<br />

PPE), entrambi membri del Praesidium, nonché Jens-Peter Bonde (DK, EDD), Elmar Brok (D, PPE), Andrew Duff<br />

(UK, PELDR), Olivier Duhamel (F, PSE), Sylvia-Yvonne Kaufmann (D, SUE), Timothy Kirkhope (UK, PPE), Alain<br />

Lamassoure (F, PPE), Linda Mc Avan (UK, PSE), Hanja Maij-Weggen (NL, PPE), Luís Marinho (P, PSE), Cristiana<br />

Muscardini (I, UEN), Antonio Tajani (I, PPE), Anne Van Lancker (B, PSE) e Johannes Voggenhuber (A, Verdi). Cristiana<br />

Muscardini, esponente del MSI-DN e poi di AN, era stata deputata dal 1983 al 1987 ed è membro del PE dal<br />

1989. Antonio Tajani, esponente di FI, è membro del PE dal 1994.


Consiglio e la trasparenza” il PE ribadiva che la nuova UE unificata doveva “privilegiare il metodo<br />

comunitario, rispetto a quello intergovernativo, nell’ambito delle procedure decisionali in tutti i<br />

campi d’azione dell’Unione”, insistendo perciò sull’obiettivo di “riequilibrio dei poteri delle istituzioni<br />

dell’Unione, mirante a conferire al Consiglio e al Parlamento il potere legislativo e alla Commissione<br />

il potere esecutivo” ed esigendo che di conseguenza “il Consiglio operi in modo trasparente<br />

quando esercita le funzioni di legislatore”. In tal modo il PE faceva presente alla Convenzione<br />

che la posizione del metodo comunitario come il metodo “regolare” della nuova UE unica rappresentava<br />

il secondo grande passo verso la Costituzione Europea. Nella seconda risoluzione “sulla delimitazione<br />

delle competenze tra l’Unione Europea e gli Stati membri”, il PE raccomandava di<br />

“procedere all’aggiornamento della ripartizione delle competenze tra l’Unione e i suoi Stati membri<br />

basata sui principi della sussidiarietà e della proporzionalità” nell’ambito di un quadro costituzionale,<br />

insistendo che, ai fini dell’attuazione delle competenze, venisse attuata pure “una efficace gerarchia<br />

delle norme” dell’UE con la distinzione tra “la norma legislativa” e “la norma di applicazione”<br />

e con la creazione di “un catalogo degli atti giuridici e degli altri strumenti d’intervento<br />

dell’Unione”. Per quanto riguarda il quadro generale delle competenze il PE proponeva di distinguere<br />

tre tipi di competenze: “la competenza di principio degli Stati”, “le competenze proprie attribuite<br />

all’Unione” e “le competenze comuni”. Per il primo tipo Il PE non riteneva necessario redigerne<br />

un elenco, mentre per il secondo tipo suggeriva di aggiungere alle competenze esistenti (politica<br />

doganale, relazioni economiche esterne, mercato interno, le “quattro libertà”, i servizi finanziari,<br />

politica della concorrenza, politiche strutturali e di coesione, accordi di associazione, politica<br />

monetaria per la zona euro) le seguenti tre nuove competenze: definizione e conduzione della PESC<br />

e della PESD, fondamento giuridico dello spazio comune di libertà e sicurezza e finanziamento del<br />

bilancio dell’Unione. Per il terzo tipo, più diffuso, di competenze ossia per le competenze comuni il<br />

PE le considerava suddivisibili in “tre tipi di settori: quelli in cui l’Unione fissa le regole generali,<br />

quelli in cui interviene solo in modo complementare e quelli in cui coordina le politiche nazionali. Il<br />

primo settore avrebbe dovuto riguardare due “categorie di materie”: “ quelle che costituiscono le<br />

politiche complementari o di accompagnamento dello spazio unico” (tutela dei consumatori, agricoltura,<br />

pesca, trasporti, reti trans europee, ambiente, ricerca e sviluppo tecnologico, energia, politica<br />

sociale e occupazionale, politica di immigrazione e altre politiche legate alla libera circolazione<br />

delle persone, promozione della parità tra uomini e donne, associazione dei Paesi e territori<br />

d’oltremare, cooperazione allo sviluppo e fiscalità legata al mercato unico), nonché “quelle relative<br />

all’attuazione della politica estera così come della politica di difesa e sicurezza, interna ed esterna,<br />

nella loro dimensione transnazionale”. Nel primo tipo di settore il PE riteneva che “la norma comunitaria<br />

sia giustificata qualora sia in gioco un interesse europeo”, ma anche che “gli Stati debbano<br />

mantenere la capacità di legiferare quando l’Unione non abbia ancora esercitato le sue prerogative”.<br />

Nel secondo tipo di settore l’UE avrebbe potuto agire invece “unicamente per completare l’azione<br />

degli Stati membri, che mantengono pertanto la competenza di diritto comune” nei seguenti campi:<br />

istruzione, formazione e gioventù, protezione civile, cultura, mezzi d’informazione, sport, sanità,<br />

industria e turismo, ma anche, secondo il PE, contratti civili e commerciali. Per il terzo tipo di settore<br />

il PE riteneva che “l’Unione abbia anche dei poteri e talvolta dei doveri giuridici in materia di<br />

coordinamento di politiche che rimangono fondamentalmente di competenza nazionale” ossia delle<br />

“politiche di bilancio e fiscali” nel quadro dell’UEM e delle “politiche dell’occupazione”. A questo<br />

proposito il PE era quanto mai critico sul fatto che “il “coordinamento aperto” delle politiche nazionali<br />

porta nuovamente confusione a livello di responsabilità politica” e insisteva affinché “questa<br />

procedura si affianchi a un autentico controllo parlamentare”. Infine il PE raccomandava di “prevedere<br />

una clausola evolutiva per evitare di fissare in modo rigido il sistema di ripartizione delle competenze”,<br />

permettendo la possibilità di “trasferimenti di competenze” nei due sensi ovvero sia verso<br />

l’UE, sia verso gli Stati membri, a seconda dell’esistenza o della cessata esistenza del “bisogno di<br />

un intervento comunitario” e proponendo comunque un “riesame generale” del sistema dieci anni<br />

dopo la sua applicazione. In tal modo il PE indicava alla Convenzione la terza mossa fondamentale<br />

verso la Costituzione Europea.


Il giorno dopo, la Convenzione entrava nel vivo dei suoi lavori con la creazione, il 17 maggio 2002,<br />

dei “gruppi di lavoro” della Convenzione. Il Praesidium istituiva sei gruppi di lavoro, tra i quali il<br />

gruppo III “Personalità giuridica” riceveva un mandato a rispondere alle seguenti domande: “Quali<br />

sarebbero le conseguenze del riconoscimento esplicito della personalità giuridica dell’UE? E quelle<br />

di una fusione della personalità giuridica dell’Unione con quella della Comunità europea? Possono<br />

contribuire alla semplificazione dei trattati?” La presidenza del gruppo di lavoro III venne affidata a<br />

uno dei due vicepresidenti della Convenzione ossia a Giuliano Amato e il termine del mandato fu<br />

fissato per il successivo novembre. Il 5 giugno 2002 veniva comunicata la composizione del gruppo<br />

di lavoro III: gli unici membri del PE erano Cristiana Muscardini (UEN), Antonio Tajani (PPE) e<br />

Johannes Voggenhuber (Verdi).<br />

Poco tempo dopo il PE adottava invece la risoluzione del 12 giugno 2002 sulle elezioni dei deputati<br />

al Parlamento Europeo. Con essa il PE dava il proprio parere conforme al progetto di decisione del<br />

Consiglio che modificava le elezioni europee. Quest’ultimo adottava quindi il 25 giugno 2002 e il<br />

23 settembre 2002 la decisione con cui veniva modificata l’elezione del PE secondo le seguenti regole:<br />

la sostituzione della dizione “rappresentante” del PE con quella di “membro del PE”;<br />

l’introduzione di un sistema uniforme in base al quale “i membri del Parlamento Europeo sono eletti<br />

a scrutinio di lista o uninominale preferenziale con riporto di voti di tipo proporzionale” ossia di<br />

un universale sistema elettorale proporzionale (valido anche nel Regno Unito); la possibilità di<br />

consentire il voto di preferenza, di costituire circoscrizioni elettorali, di prevedere la fissazione di<br />

una soglia minima non oltre il 5% dei suffragi espressi e di fissare un massimale per le spese dei<br />

candidati relative alla campagna elettorale; l’incompatibilità della carica di membro del PE con<br />

quella di membro del Parlamento nazionale. Si trattava di una svolta effettivamente chiarificatrice<br />

nel concetto stesso di <strong>cittadinanza</strong> europea quanto all’effettiva omogeneità dei <strong>diritti</strong> politici: infatti<br />

essa andava in direzione di un PE visto davvero come la rappresentanza dei cittadini europei in<br />

quanto tali, che perciò avrebbero potuto da allora in poi eleggere i propri rappresentanti, senza che<br />

questi ultimi fossero insieme i rappresentanti dei loro rispettivi popoli, e anzi in base a un unico sistema<br />

elettorale, a prescindere dalle loro diverse realtà nazionali.<br />

Nel frattempo si era svolto il Consiglio europeo di Siviglia del 21-22 giugno 2002.<br />

Il primo punto all’ordine del giorno era naturalmente “il futuro dell’Unione”, e in primo luogo si<br />

approvava una “riforma del Consiglio”, da attuare senza modifiche dei trattati. Essa era comprensiva<br />

sia del Consiglio europeo, sia del Consiglio.<br />

Per il Consiglio europeo, si stabiliva: 1) le quattro riunioni ordinarie annuali (due per semestre); 2)<br />

la seguente tabella di marcia preliminare alla riunione del Consiglio europeo: a) quattro settimane<br />

prima il Consiglio “Affari generali” avrebbe stabilito un progetto di ordine del giorno (distinto per<br />

punti: destinati a essere approvati senza discussione o sottoposti a discussione o in vista o di definire<br />

orientamenti politici generali o di approvare una decisione o senza essere destinati a essere oggetto<br />

di conclusioni), b) due settimane prima le varie formazioni del Consiglio avrebbero trasmesso i<br />

rispettivi contributi al Consiglio “Affari generali”, c) alla vigilia il Consiglio “Affari generali” avrebbe<br />

adottato l’ordine del giorno definitivo; 3) la riunione del Consiglio europeo avrebbe dovuto<br />

svolgersi in due giornate: nella prima con la distribuzione di uno schema delle conclusioni (con una<br />

distinzione tra le parti su cui vi è già accordo e quelle su cui si deve discutere in vista di conclusioni)<br />

e una riunione limitata pomeridiana, nella seconda con una riunione per tutta la giornata, preceduta<br />

dall’intervento del presidente del PE e seguita da conclusioni “il più concise possibile”. Inoltre<br />

si affermava la disponibilità generale ad approfondire la questione della Presidenza dell’Unione<br />

ossia a considerare una possibile alternativa al sistema di rotazione semestrale della Presidenza del<br />

Consiglio europeo tra gli Stati membri.<br />

Per il Consiglio, si stabiliva che entro il 31 luglio 2002 si sarebbe dovuto creare: 1) il Consiglio<br />

“Affari generali e relazioni esterne” (composto dai ministri degli esteri), che avrebbe dovuto trattare<br />

in sessioni distinte (con ordini del giorno separati e a date diverse): a) preparazione e seguito del<br />

Consiglio europeo, questioni istituzionali e amministrative, fascicoli trasversali a diverse politiche;<br />

b) condotta dell’insieme dell’azione esterna dell’UE ossia PESC, PESD, commercio esterno, coope-


azione allo sviluppo e aiuto umanitario; 2) l’elenco delle formazioni del Consiglio: a) “Affari generali<br />

e relazioni esterne” (con il ministro o un sottosegretario), b) “Economia e finanza”, c) “Giustizia<br />

e affari interni”, d) “Occupazione, politica sociale, salute e consumatori”, e) “Competitività<br />

(mercato interno, industria e ricerca)”, f) “Trasporti, telecomunicazioni ed energia”, g) “Agricoltura<br />

e pesca”, h) “Ambiente”, i) “Istruzione, gioventù e cultura”; 3) l’adozione da parte del Consiglio europeo,<br />

a partire dal dicembre 2003, di un programma strategico pluriennale per i tre anni successivi,<br />

nonché l’adozione da parte del Consiglio “Affari generali”, a partire dal dicembre 2002, di un programma<br />

operativo annuale delle attività del Consiglio, con l’elenco degli ordini del giorno per le diverse<br />

formazioni del Consiglio nel primo semestre, seguito, in giugno, da quello relativo al secondo<br />

semestre; 4) la cooperazione tra le due Presidenze annuali; 5) cinque gruppi all’interno del Segretariato<br />

generale del Consiglio (“comunicazioni elettroniche”, “informatica giuridica”, “codificazione<br />

legislativa”, “informazione”, “nuovi edifici”); 6) l’apertura al pubblico delle sessioni del Consiglio<br />

quando esso agisce in codecisione con il PE (presentazione da parte della Commissione delle sue<br />

principali proposte legislative in codecisione semestrali e dibattito seguente; votazione e dichiarazioni<br />

di voto) tramite sala di ascolto con trasmissioni in diretta e sito Internet del Consiglio per le<br />

trasmissioni in differita.<br />

In secondo luogo si prendeva posizione sul “trattato di Nizza” ossia sul processo di ratifica di esso e<br />

dunque sul problema dell’esito negativo del referendum irlandese. A questo proposito il Consiglio<br />

europeo prendeva atto dell’annuncio del primo ministro irlandese della volontà del suo governo di<br />

indire un nuovo referendum nell’autunno 2002 “per permettere all’Irlanda di ratificare il trattato di<br />

Nizza”. Questo richiamo alle urne veniva giustificato da una “Dichiarazione nazionale<br />

dell’Irlanda”, presentata al Consiglio europeo. Essa, in realtà, era rivolta piuttosto allo stesso popolo<br />

irlandese, allo scopo di rassicurarlo sul fatto che, già in base agli stessi trattati europei (compreso<br />

quello di Nizza), la PESD era condizionata al rispetto della Carta delle Nazioni Unite e quindi al riconoscimento<br />

del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite come unico organismo atto a mantenere<br />

la pace e la sicurezza internazionali, non pregiudicava il carattere specifico della politica di sicurezza<br />

e di difesa di taluni Stati membri (militarmente neutrali, come l’Irlanda), compreso il disimpegno<br />

a una difesa reciproca, e non implicava la creazione di un esercito europeo o di una difesa<br />

comune (a meno di un’adozione all’unanimità del Consiglio europeo), nonché che la partecipazione<br />

di contingenti irlandesi ad operazioni d’oltremare dell’UE avrebbe richiesto l’accordo del governo e<br />

l’approvazione del Parlamento irlandesi. Infine il governo irlandese comunicava che tale dichiarazione,<br />

nel caso di un esito positivo del secondo referendum in Irlanda, sarebbe stata acclusa allo<br />

strumento irlandese di ratifica del trattato di Nizza. A tale dichiarazione irlandese il Consiglio europeo<br />

rispondeva con una propria “Dichiarazione”, nella quale riconosceva l’esattezza e la legittimità<br />

delle affermazioni irlandesi nell’interpretazione e nell’applicazione dei trattati europei, confermando<br />

che la ratifica irlandese del trattato di Nizza non avrebbe minimamente modificato la situazione<br />

dell’Irlanda in rapporto alla PESD. 360<br />

In terzo luogo il Consiglio europeo di Siviglia si pronunciava proprio sulla stessa “PESD”, innanzi<br />

tutto adottando una “Dichiarazione del Consiglio europeo sul contributo della PESC, compresa la<br />

PESD, alla lotta contro il terrorismo”. A proposito della PESC, il Consiglio europeo comunicava<br />

che<br />

360 La “Dichiarazione nazionale dell’Irlanda” è un modello esemplare di come si dovrebbe affrontare, da parte di un governo,<br />

l’esito negativo di un referendum su un trattato europeo. Lungi dal ricorrere a sempre più numerose e impegnative<br />

“deroghe” (come avevano fatto e faranno, già in via preventiva, la Danimarca e soprattutto il Regno Unito) - che, nel<br />

caso irlandese, sarebbero state molto più giustificate di fronte all’esito negativo di un referendum effettivamente svolto -<br />

, il governo irlandese agiva anzi in senso inverso, dimostrando al proprio popolo, con poche e chiare argomentazioni<br />

giuridiche e con l’autorevole conferma del Consiglio europeo, che i timori erano assolutamente infondati. Solo tre anni<br />

dopo, tale modello esemplare non sarà purtroppo fatto proprio dai governi francese e olandese, che preferiranno, di<br />

fronte all’esito negativo dei rispettivi referendum del 2005 sul trattato costituzionale, trincerarsi anzi in una posizione<br />

sostanzialmente ignava, intrinsecamente contraddittoria e complessivamente irresponsabile sia verso l’UE, sia verso il<br />

rispettivo Stato.


“l’Unione attualmente:<br />

- rafforza gli strumenti dell’UE per la prevenzione a lungo termine dei conflitti;<br />

- incentra il dialogo politico con i Paesi terzi sulla lotta contro il terrorismo e anche sulla non proliferazione e il controllo<br />

degli armamenti;<br />

- fornisce assistenza ai Paesi terzi al fine di rafforzarne la capacità di reagire efficacemente alla minaccia internazionale<br />

del terrorismo;<br />

- include clausole antiterrorismo negli accordi dell’UE con i Paesi terzi;<br />

- procede a una nuova valutazione delle relazioni con i Paesi terzi alla luce del loro atteggiamento nei confronti del terrorismo<br />

e adotta di conseguenza le misure appropriate;<br />

- attua misure specifiche nell’ambito della lotta contro il terrorismo conformemente alla risoluzione 1373 del Consiglio<br />

di sicurezza delle Nazioni Unite, che ha definito un’ampia gamma di misure e di strategie globali per combattere il terrorismo,<br />

comprese misure finanziarie.”<br />

A proposito della PESD, il Consiglio europeo annunciava<br />

“la sua prima decisione intesa a porre in essere un’operazione di gestione delle crisi condotta dall’Ue: la missione di<br />

polizia dell’Unione Europea in Bosnia-Erzegovina (EUPM) [in sostituzione della missione dell’ONU, a decorrere<br />

dal 1° gennaio 2003], un esempio dell’impegno dell’Unione Europea a stabilizzare le regioni che escono da un conflitto<br />

e a concorrere al ripristino dello Stato di diritto. Promuovendo la stabilità, e segnatamente rafforzando le capacità, le<br />

norme e gli standard locali in materia di applicazione della legge, l’Unione Europea contribuisce a impedire alle organizzazioni<br />

terroristiche di radicarsi. […] grazie alle capacità militari e civili 361 sviluppate dall’Unione Europea per la<br />

gestione delle crisi, la PESC sarà rafforzata e contribuirà più efficacemente alla lotta contro il terrorismo, nell’interesse<br />

delle popolazioni coinvolte.”<br />

Per il futuro prossimo le priorità dell’azione congiunta della PESC e della PESD avrebbero dovuto<br />

essere:<br />

“- consacrare maggiori sforzi alla prevenzione dei conflitti;<br />

- approfondire il dialogo politico con i Paesi terzi per incentivare la lotta contro il terrorismo, segnatamente promuovendo<br />

i <strong>diritti</strong> umani e la democrazia e anche la non proliferazione e il controllo degli armamenti e fornendo a tali Paesi<br />

l’assistenza internazionale appropriata;<br />

- rafforzare gli accordi in materia di scambio di intelligence e sviluppare la produzione delle valutazioni della situazione<br />

e dei rapporti di tempestivo allarme, attingendo alla più ampia gamma di fonti;<br />

- sviluppare una valutazione comune della minaccia terroristica che grava sugli Stati membri o sulle forze schierate al di<br />

fuori dell’Unione, nell’ambito della PESC, per operazioni di gestione delle crisi, ivi compresa la minaccia di un uso terroristico<br />

delle armi di distruzione di massa;<br />

- determinare le capacità militari necessarie per proteggere contro attentati terroristici le forze schierate nel quadro di<br />

operazioni di gestione delle crisi da parte dell’Unione Europea;<br />

- esaminare più approfonditamente come le capacità militari o civili possano essere utilizzate per contribuire a proteggere<br />

le popolazioni civili dagli effetti degli attentati terroristici.”<br />

Nelle sue conclusioni, il Consiglio europeo comunicava pure “la volontà dell’Unione Europea di<br />

subentrare alla NATO nell’ex Repubblica jugoslava di Macedonia” ossia di attuare quella che sarebbe<br />

stata la prima operazione militare di gestione delle crisi condotta dall’UE.<br />

Il secondo punto all’ordine del giorno del Consiglio europeo di Siviglia era l’”allargamento”. A<br />

questo proposito si annunciava la previsione che “il trattato di adesione possa essere firmato nella<br />

primavera del 2003”.<br />

Il terzo punto all’ordine del giorno del Consiglio europeo era dedicato ad “asilo e immigrazione”.<br />

Venivano previste “misure di lotta all’immigrazione clandestina”, ma anche l’”attuazione progressiva<br />

di una gestione coordinata e integrata delle frontiere esterne”, nell’ambito della quale di ipotizzava<br />

persino “la creazione di una polizia europea delle frontiere”. Infine si stabiliva pure<br />

l’”integrazione della politica di immigrazione nelle relazioni dell’Unione con i Paesi terzi” ovvero<br />

che “in qualsiasi futuro accordo di cooperazione, accordo di associazione o accordo equivalente che<br />

l’Unione Europea o la Comunità europea concluderà con qualsiasi Paese sia inserita una clausola<br />

361 Nel settore civile il Consiglio europeo comunicava, nelle sue conclusioni, i progressi attuati sui temi prioritari della<br />

polizia, dello Stato di diritto, dell’amministrazione civile e della protezione civile.


sulla gestione comune dei flussi migratori, nonché sulla riammissione obbligatoria in caso di immigrazione<br />

clandestina”.<br />

a) Il “peccato originale” della Convenzione<br />

Nel frattempo la Convenzione si accingeva ad affrontare il più importante problema, connesso al<br />

mandato che le era stato affidato. Prima che il gruppo di lavoro III arrivasse a pronunciarsi<br />

sull’ultimo dei quesiti a esso sottoposti ovvero sulle conseguenze della personalità giuridica unica<br />

dell’UE sulla semplificazione dei trattati, il Segretariato trasmetteva il 10 luglio 2002 alla Convenzione<br />

una proposta di decisione sulla redazione di un trattato costituzionale, avanzata, tra gli altri,<br />

dai membri del PE Olivier Duhamel, Sylvia-Yvonne Kaufmann e Anne van Lancker, nella quale si<br />

richiedeva al Praesidium di predisporre una decisione della Convenzione, da adottare nella sessione<br />

di luglio, così formulata:<br />

“La Convenzione invita la Commissione europea a redigere, per il mese di ottobre, un progetto di trattato costituzionale.<br />

Una prima versione potrebbe essere discussa dalla Convenzione nella sessione di fine ottobre.<br />

Tale progetto dovrebbe basarsi sulle proposte dell’Istituto universitario di studi europei di Firenze e sui risultati dei dibattiti<br />

finora svoltisi nell’ambito della Convenzione, concernenti in particolare […] la semplificazione del trattato stesso<br />

e dei relativi strumenti politici, incluse l’abolizione del concetto dei tre pilastri e la fusione dei trattati esistenti.<br />

[…] Il progetto di trattato dovrebbe inoltre essere suddiviso in due parti (disposizioni fondamentali/ non fondamentali).”<br />

Nella sessione plenaria dell’11-12 luglio 2002 il Praesidium comunicava di aver respinto tale proposta<br />

per il semplice fatto che la redazione stessa del progetto di trattato costituzionale sarebbe stata<br />

responsabilità della stessa Convenzione e chi aveva presentato la proposta, dichiaratosi del tutto<br />

soddisfatto di tale impegno, la ritirava. Pochi giorni dopo, il Segretariato trasmetteva, il 16 luglio<br />

2002, al gruppo di lavoro III il documento di lavoro 6 su “Personalità giuridica e semplificazione<br />

dei trattati”, nel quale si prospettava che conseguenza della fusione delle personalità giuridiche<br />

dell’Unione e della Comunità ossia di una personalità giuridica unica per l’UE avrebbe potuto essere<br />

la “fusione dei trattati” e precisamente di quello UE e di quello CE e che il risultato finale di tale<br />

fusione avrebbe potuto assumere la forma di<br />

“un nuovo strumento unico, rimaneggiato in due parti. La parte fondamentale sarebbe composta di disposizioni di natura<br />

costituzionale nuove o provenienti dai trattati attuali. La seconda parte fonderebbe e consoliderebbe tutte le altre disposizioni<br />

in vigore del TUE e del TCE (almeno quelle che non sono riprese e regolate nella parte fondamentale). Questa<br />

seconda parte potrebbe essere composta di statuti (per le istituzioni) o di protocolli speciali (per i blocchi di politiche:<br />

mercato interno, UEM, GAI, PESC, politiche comuni ecc.).”<br />

Questa ipotesi venne fatta propria dal gruppo di lavoro III nella sua riunione del 18 luglio 2002.<br />

Un mese dopo il Consiglio europeo di Siviglia, veniva a scadere, il 23 luglio 2002, il Trattato CE-<br />

CA (di durata cinquantennale) e con esso finiva la prima Comunità europea, che era stata all’origine<br />

del processo d’integrazione europea. Rimaneva dunque l’UE e, all’interno di essa, le due Comunità<br />

europee “superstiti” ossia la CE e la CEEA (o EURATOM), nonché la PESC (con la PESD) e la<br />

CPGMP: ancora troppi soggetti distinti, differenziati o persino irrelati tra loro, perché la Convenzione<br />

non cercasse di provvedere alla loro massima unificazione.<br />

Dopo la pausa estiva, il PE adottava la risoluzione del 5 settembre 2002 “sulla terza relazione della<br />

Commissione sulla <strong>cittadinanza</strong> europea”. In essa rammentava come la <strong>cittadinanza</strong> europea, in presenza<br />

già della Carta dei <strong>diritti</strong> fondamentali dell’Unione, fosse ormai “al cuore delle attività<br />

dell’UE” ed esigeva perciò fosse data risoluta attuazione al concetto di <strong>cittadinanza</strong> europea nella<br />

pienezza delle sue dimensioni politica, amministrativa, giudiziaria ed economica. Per la “dimensione<br />

politica” il PE invitava gli Stati membri a “concordare una data per lo svolgimento delle prossime<br />

elezioni europee” ossia un unico giorno in cui svolgerle contemporaneamente in tutta l’Unione,<br />

“in modo da ottimizzare le condizioni della partecipazione elettorale”, contrastando “il costante declino<br />

del tasso di partecipazione alle elezioni europee”. Per la “dimensione giudiziaria” raccoman-


dava al Consiglio di adottare “la proposta di direttiva relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e<br />

dei loro familiari di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, che, attraverso<br />

il riordino dei testi esistenti, apporta le semplificazioni indispensabili e sancisce in particolare<br />

il diritto al soggiorno permanente dopo 4 anni ininterrotti di residenza”, nonché “limitando rigorosamente<br />

le condizioni in cui uno Stato membro può procedere a misure di espulsione e vietando<br />

qualsiasi provvedimento di tale tipo per i cittadini che hanno acquisito un diritto di soggiorno permanente”;<br />

inoltre il PE chiedeva al Consiglio di esaminare pure la “proposta di direttiva relativa allo<br />

status dei cittadini di Paesi terzi che siano residenti di lungo periodo, che garantisce uno status di<br />

lunga durata agli immigrati legali”. Infine il PE riteneva indispensabile attuare una strategia di<br />

“promozione della <strong>cittadinanza</strong> europea”, attraverso le seguenti misure:<br />

- un duplice invito alla Convenzione a:<br />

- “stabilire quale valore giuridico vincolante deve essere conferito alla Carta dei <strong>diritti</strong> fondamentali dell’UE, a integrare<br />

nel quadro comunitario le materie proprie del terzo pilastro e a cercare di garantire che i testi che sanciscono le politiche<br />

dell’Unione Europea siano più accessibili per l’insieme dei cittadini”;<br />

- “migliorare la relazione diretta tra i singoli cittadini e le istituzioni UE, semplificando le procedure e il linguaggio e<br />

concedendo a ciascuno il diritto di ricorso dinanzi alla Corte di giustizia”;<br />

- un triplice invito al Consiglio a:<br />

- “sormontare le numerose divergenze legislative ancora sussistenti e che ostacolano la piena espressione della <strong>cittadinanza</strong><br />

europea nell’ambito dello status dei singoli (condizione di ottenimento dei titoli di soggiorno, attuazione del diritto<br />

al ricongiungimento familiare), della giustizia (norme minime procedurali) e anche delle condizioni di movimento e<br />

di soggiorno dei lavoratori migranti (regime di sicurezza sociale, trasferimento dei <strong>diritti</strong> pensionistici)”;<br />

- “incrementare, nell’ambito dei loro [degli Stati membri] programmi educativi, una migliore conoscenza dell’Europa,<br />

in particolare mediante l’insegnamento della storia e delle lingue”;<br />

- un quadruplice invito alla Commissione europea a:<br />

- “rafforzare i programmi di scambi di giovani già esistenti, ma ancora assai insufficienti, come SOCRATES e LEO-<br />

NARDO DA VINCI, che contribuiscono a promuovere una migliore conoscenza reciproca, uno spirito di tolleranza e<br />

l’emergere di una coscienza europea”;<br />

- adottare subito “un piano d’azione per la mobilità (PAM), onde facilitare e accrescere la mobilità degli studenti, dei<br />

volontari, degli insegnanti e dei docenti”;<br />

- “rafforzare con ogni mezzo una politica d’informazione e di comunicazione dell’UE, che sia quanto più mirata e adeguata<br />

possibile” e “rendere accessibile al pubblico, nelle varie lingue ufficiali e in modo gratuito, la base documentaria<br />

dell’UE, favorendo altresì lo sviluppo di portali interattivi”;<br />

- “consentire ai cittadini dell’Unione di accedere all’informazione sui loro <strong>diritti</strong> nell’ambito di un dialogo permanente,<br />

in particolare con il lancio del programma Europe Direct”.<br />

In tal modo il PE investiva del tema fondamentale della <strong>cittadinanza</strong> dell’Unione tutte le istituzioni<br />

europee, ordinarie e straordinarie, compresa dunque la Convenzione, quale criterio supremo di significanza<br />

delle loro rispettive attività. Un monito destinato, purtroppo, a restare in larga parte disatteso.<br />

La Convenzione, nel frattempo, riprendeva anch’essa le proprie attività, in particolare con la riunione<br />

del gruppo di lavoro III dell’11 settembre 2002, in cui, a proposito della semplificazione dei<br />

trattati, si tennero le audizioni di due esperti, Peter-Christian Müller-Graf (università di Heidelberg)<br />

e Bruno de Witte (IUE di Firenze). Müller-Graf appoggiava l’ipotesi prospettata dal gruppo di lavoro<br />

III, ma avvertiva pure, quasi profeticamente, che “questa opzione comporta in compenso alcune<br />

“sfide”, in particolare nell’ipotesi in cui essa implicasse di sottoporre alla ratifica degli Stati<br />

membri anche la seconda parte consolidata.” De Witte, che era stato membro del gruppo di ricerca<br />

di Firenze, presentò un intervento poi pubblicato il 19 settembre 2002 dal Segretariato sotto forma<br />

di documento di lavoro 27 del gruppo di lavoro III. Esso era della massima importanza in ordine a<br />

un’interpretazione autorevolmente corretta del tanto lodato progetto di Firenze. De Witte, infatti,<br />

appoggiando lui pure l’ipotesi ormai affermatasi nel gruppo di lavoro III, stabiliva delle importanti<br />

precisazioni in merito al tema “riorganizzazione: come fare per articolare un tratto di base con il<br />

“resto” del diritto primario?”. Infatti egli poneva ben tre alternative al proposito, dotate di crescente<br />

spessore. La prima, più “morbida”, era quella di dividere lo stesso trattato unificato, risultante dalla


fusione dei due trattati UE e CE, in una prima parte (con le disposizioni di base) e una seconda parte<br />

(con tutto il resto); questa opzione avrebbe avuto il vantaggio di<br />

“conseguire l’obiettivo di una maggiore visibilità (la prima parte, di base, può essere distribuita, letta o studiata separatamente<br />

come un documento coerente e largamente autocontenuto) senza incidere sul formale statuto legale esistente<br />

del resto delle disposizioni del Trattato. Il trattato UE completamente rifuso sarebbe molto lungo, ammontante a qualcosa<br />

come 350 articoli forse, ma ciò non avrebbe avuto importanza nella misura in cui la sua parte di base “orientata al<br />

cittadino” può essere contenuta entro ragionevoli limiti.” 362<br />

La seconda alternativa, definita dallo stesso de Witte “di più vasta portata”, era<br />

”l’adozione di due o più testi di trattato separati: a parte il “trattato di base”, ci sarebbero uno o più “trattati complementari”<br />

o protocolli allegati al trattato di base, contenenti le altre disposizioni del diritto primario. Il “progetto di<br />

trattato di base” di Firenze (elaborato dall’Istituto Universitario Europeo nel maggio 2000) assume questo approccio.”<br />

Tale autorevole conferma della vera natura del progetto di Firenze era peraltro sminuita dalla propensione<br />

dello stesso de Witte alla forma dei protocolli allegati al trattato di base, piuttosto che a<br />

quella di un singolo o di più “trattati complementari”, proprio perché tali protocolli non avrebbero<br />

dovuto necessariamente corrispondere ai “presenti trattati” (soprattutto al trattato CE) e avrebbero<br />

permesso, viceversa, di distribuire le varie materie secondo un criterio di intrinseca omogeneità. Inoltre,<br />

anziché sottolineare i maggiori vantaggi di tale opzione complessiva, si citava invece solo lo<br />

svantaggio, costituito dal fatto che “essa renderebbe l’insieme leggermente meno leggibile di quanto<br />

lo sarebbe se tutte le disposizioni del diritto primario fossero contenute entro un unico documento.”<br />

363<br />

La terza opzione, definita da de Witte “la più radicale”, consisteva nel<br />

“trasformare la seconda parte in diritto secondario, incorporando il testo di disposizioni che ora devono essere trovate<br />

nei Trattati in un atto di legge dell’UE. Questo dovrebbe essere uno strumento non ancora esistente, che si potrebbe<br />

chiamare “legge organica”, che avrebbe il rango supremo nel sistema di fonti del diritto dell’UE (introducendo perciò<br />

una gerarchia formale nel sistema delle fonti secondarie del diritto dell’UE, che ora non c’è). Il trattato di base rimarrebbe<br />

la sola fonte scritta di diritto primario. In ogni caso deve essere notato che né la Convenzione, né la CIG del 2004<br />

hanno il potere di adottare tali leggi organiche. Un trattato di base può creare solo una competenza e una procedura per<br />

compiere una simile trasformazione del diritto primario in diritto secondario.”<br />

362 Pur presentandola come l’ipotesi di minore spessore, de Witte la caricava quindi di attrattive di così seducente semplicità<br />

che essa finì per prevalere: la maggiore “visibilità” del testo unitario e la possibilità di lasciare intatto lo statuto<br />

legale anche delle disposizioni della seconda parte. Lo svantaggio, pur sottolineato da de Witte, ovvero che ne sarebbe<br />

sortito in tal modo un gigantesco trattato unico di almeno 350 articoli (alla fine sarebbero stati 448 articoli!), era per lui,<br />

e poi purtroppo per l’intera Convenzione, compensato dalla fallace presunzione che ai cittadini, al consenso dei quali<br />

era finalizzato tutto il lavoro di riorganizzazione dei trattati, sarebbe stata “distribuita” solo la prima parte, contenuta, di<br />

esso, per venire “letta o studiata”. E’ davvero incredibile l’ottica puramente “pedagogica” nella quale si pensava allora<br />

ai cittadini, dando per scontata la ratifica del gigantesco trattato unitario e senza minimamente rendersi conto che potevano<br />

essere proprio i cittadini a venire chiamati alla ratifica di ciò che lo stesso de Witte riteneva impossibile proporre<br />

loro anche per una semplice lettura. Inoltre de Witte taceva dell’altro svantaggio in realtà insito in questa prima opzione<br />

ossia del fatto che l’omogeneità del testo unico e quindi dello statuto legale di entrambe le sue parti implicava il semplice<br />

loro coordinamento, rendendo quanto mai difficile la “gerarchia” fra esse e perciò la differenziazione tra le rispettive<br />

procedure di ratifica e comunque di revisione. In una parola: era l’opzione più lontana sia dal progetto di Firenze, sia<br />

dalla Dichiarazione di Laeken.<br />

363 I ben più consistenti vantaggi di questa “seconda via” di “più vasta portata”, paradossalmente taciuti da de Witte,<br />

consistevano in primo luogo in questo: proprio perché il trattato di base sarebbe stato comunque un testo separato, soprattutto<br />

nel caso in cui la seconda parte avesse previsto un secondo trattato, separato, coincidente con il trattato CE depurato<br />

dei suoi elementi fondamentali (come contemplato dal progetto di Firenze), il trattato di base avrebbe dovuto sottostare<br />

a un altrettanto separato processo di ratifica, in cui, nel caso dei referendum nazionali, i cittadini si sarebbero<br />

trovati realmente di fronte al solo trattato fondamentale o costituzionale, di dimensioni contenute e leggibile, e non viceversa<br />

a un gigantesco trattato incomprensibile che verrà persino spacciato in quanto tale come la “Costituzione Europea”.<br />

In secondo luogo il carattere separato dei due trattati avrebbe offerto pure ben maggiori possibilità di stabilire una<br />

“gerarchia” legale tra i due e perciò distinte procedure di ratifica o almeno di revisione. In una parola: questa era<br />

l’opzione più fedele al progetto di Firenze e alla Dichiarazione di Laeken.


Perciò de Witte si dichiarava “non convinto degli intrinseci vantaggi di questa radicale terza opzione,<br />

paragonata alle altre due”, e anzi riteneva che “l’obiettivo di facilitare ulteriori evoluzioni [come<br />

richiesto dalla Dichiarazione di Laeken] può essere conseguito facilmente tanto con la prima, quanto<br />

con la seconda opzione”, sino al punto da poter “esser esteso nel futuro, in termini più generali,<br />

all’intera parte non di base dei trattati”.<br />

Con questa ottimistica considerazione, che in realtà finiva per sminuire anche la seconda opzione,<br />

de Witte entrava poi nel merito del tema, previsto dalla Dichiarazione di Laeken, ”entrata in vigore<br />

e successiva revisione di un trattato di base”. A proposito dell’entrata in vigore de Witte era quanto<br />

mai chiaro: il futuro trattato, fosse denominato “trattato costituzionale” o no, nonché, anche se non<br />

precisato, un eventuale secondo trattato distinto, avrebbe comunque dovuto essere sottoposto a<br />

un’approvazione unanime dei governi e a una ratifica unanime degli Stati membri; anche se uno solo<br />

dei governi non l’avesse approvato o anche se in un solo Stato membro vi fosse stato un esito negativo<br />

di un referendum popolare, il trattato costituzionale sarebbe stato bloccato. In tal caso<br />

“l’unica soluzione legalmente possibile è che la maggioranza faccia pressione sulla minoranza per<br />

negoziare un ulteriore trattato complementare per organizzare (su una base consensuale)<br />

l’”accettazione passiva” del nuovo regime di trattato da parte degli Stati riluttanti.” 364 De Witte<br />

concludeva poi sostenendo che nulla ostava all’aggiunta di “requisiti addizionali” per l’entrata in<br />

vigore di un trattato costituzionale, come l’approvazione di esso anche da parte del PE o “da parte<br />

di un referendum popolare paneuropeo”.<br />

Per quanto riguarda la “revisione successiva di un trattato di base”, de Witte confermava, in linea di<br />

principio, la possibilità di una differenziazione delle procedure di ratifica tra il trattato di base e le<br />

altre disposizioni di trattato, ma, di fatto, la negava, confermando che “alcune disposizioni di trattato<br />

non di base, a causa della loro particolare sensitività politica, rimarrebbero soggette a una più rigida<br />

procedura di emendamento rispetto ad altre.” Unicamente<br />

“in linea di principio l’emendamento delle disposizioni non di base dovrebbe essere fatto in modo meno rigido di oggi.<br />

Ciò può essere fatto in due modi differenti (e possibilmente in entrambi i modi allo stesso tempo): eliminando la necessità<br />

di una ratifica degli emendamenti da parte dei singoli Parlamenti nazionali) (ma ciò dovrebbe venire presumibilmente<br />

compensato dal coinvolgimento dei parlamentari nazionali nel primo stadio ossia nell’adozione delle modifiche<br />

del trattato) o abbandonando il requisito che tutti gli Stati debbano approvare le modifiche e sostituirlo con una qualche<br />

sorta di “maggioranza super qualificata” ancora da inventare.”<br />

Per quanto riguarda invece la revisione del trattato fondamentale de Witte proponeva la creazione di<br />

una nuova Convenzione e prospettava persino che “presto o tardi” si sarebbe dovuto eliminare”la<br />

questione taboo del comune accordo e il requisito della ratifica unanime per le modifiche del trattato<br />

– anche per modifiche di un futuro trattato costituzionale. In una futura Unione di 25 o più Stati<br />

la rigidità di questa norma può ben divenire insostenibile.”<br />

Nonostante tutte queste mirabili e ottimistiche considerazioni per il futuro, restava peraltro il fatto<br />

che per lo stesso de Witte nell’immediato presente non era possibile né la trasformazione delle disposizioni<br />

non fondamentali in una “legge organica”, né una chiara gerarchia delle norme fondamentali<br />

e non, né una generale applicazione della procedura speciale di revisione autonoma a tutte<br />

le disposizioni non fondamentali. A maggior ragione non esisteva la possibilità di evitare una ratifica<br />

all’unanimità né per il trattato fondamentale, né per un eventuale trattato complementare. Infine<br />

l’offerta di un trattato fondamentale separato dalle disposizioni non di base ai cittadini avrebbe po-<br />

364 De Witte indicava dunque in modo chiaro la possibilità che il trattato fosse bloccato dall’esito negativo anche di un<br />

solo referendum nazionale, nonché la strategia da adottare in tal caso: un nuovo trattato “complementare” per mezzo del<br />

quale far passare l’”accettazione passiva” dei nuovi contenuti da parte degli Stati “riluttanti” ossia precisamente il futuro<br />

“trattato di riforma” all’esame dell’attuale CIG. Tuttavia: se esisteva fin dall’inizio tale lucida consapevolezza di<br />

un’eventualità del genere, con un esito così poco lusinghiero dal punto di vista della legittimità democratica, perché non<br />

cercare di evitare tutto questo attraverso un’energica sottolineatura della seconda opzione e precisamente della redazione<br />

di un trattato fondamentale realmente separato da un altro trattato non fondamentale, offrendo solo il primo come<br />

“trattato costituzionale” all’approvazione referendaria dei cittadini?


tuto essere effettuato dopo l’entrata in vigore del dispositivo complessivo. Insomma: l’intera logica<br />

dell’intervento di de Witte andava verso l’esclusione sia della terza opzione (sostenuta p.e. dal rappresentante<br />

del governo tedesco Gunter Pleuger nel documento di lavoro 11 del 6 settembre 2002,<br />

che prevedeva una “Costituzione dell’Unione”, suddivisa in un “Trattato costituzionale” e in una<br />

“Legge costituzionale”), sia della stessa seconda opzione nella forma di due trattati separati (trattato<br />

fondamentale, sostitutivo del TUE, e trattato CE, depurato delle norme non fondamentali), e, in positivo,<br />

nella raccomandazione della seconda opzione nella forma di un trattato di base con protocolli<br />

allegati a esso (distinti per “materie”) o persino della prima opzione (un unico testo diviso in due<br />

parti coordinate tra loro, fondamentale e non). Veniva così indicata la via del trattato comunque gigantesco<br />

e quindi incomprensibile per cittadini che, in sede di referendum nazionali, avrebbero dovuto<br />

decidere sull’indecidibile e quindi avrebbero potuto respingerlo e con ciò affossarlo.<br />

Il problema della semplificazione dei trattati era peraltro troppo importante per non costituire oggetto<br />

di decisione da parte della Convenzione in quanto tale e perciò, già il giorno prima dell’audizione<br />

di de Witte presso il gruppo di lavoro III, il Segretariato aveva provveduto a diffondere il 10 settembre<br />

2002 ai membri della Convenzione la nota di riflessione su “semplificazione dei trattati ed<br />

elaborazione di un trattato costituzionale” elaborata dal Segretariato stesso (diretto dal segretario<br />

generale, il britannico sir John Kerr) 365 per il Praesidium.<br />

In essa si partiva dalla necessità della semplificazione e anzi della modernizzazione dei testi dei<br />

trattati, per giungere alla conclusione che occorreva la semplificazione della stessa ”architettura”<br />

dei trattati. Il primo aspetto di quest’ultimo tipo di semplificazione consisteva nella codificazione<br />

dei trattati ovvero nella necessità di conferire valore giuridico alle versioni consolidate dei trattati, il<br />

che avrebbe permesso di abrogare tutti i trattati, sia originari, sia di revisione successivi. Tuttavia, si<br />

faceva notare, ciò avrebbe imposto di sottoporre i trattati consolidati a una nuova ratifica da parte<br />

degli Stati membri. Inoltre sarebbero pur rimasti comunque ben tre trattati (CEEA, CE e UE). Di<br />

qui la necessità di procedere a una vera e propria fusione dei trattati. Tuttavia vi erano già state notevoli<br />

resistenze alla fusione del trattato CEEA in un unico trattato e infatti esso non sarebbe stato<br />

coinvolto mai in tale processo di fusione e anche tuttora pare non lo sarà. Restava comunque la possibilità<br />

di una fusione dei due principali trattati, quello UE e quello CE; tuttavia il nuovo trattato di<br />

fusione di questi ultimi avrebbe comportato anch’esso la necessità di essere sottoposto alla ratifica<br />

degli Stati membri ovvero di una procedura sproporzionata per un semplice riassestamento formale<br />

delle medesime disposizioni. E allora, si concludeva, tanto valeva puntare più in alto ovvero a quella<br />

che era stata già l’intuizione di Spinelli con il suo progetto di “trattato che istituisce l’Unione Europea”<br />

del 1984, nonché di Herman con il suo progetto di “Costituzione dell’Unione Europea” del<br />

1994, ovvero alla possibilità, avanzata, in forma d’interrogativo, dalla stessa Dichiarazione di Laeken,<br />

di “operare una distinzione fra un trattato di base e le altre disposizioni del trattato”. Il valore<br />

aggiunto dell’operazione, tale da giustificare il ricorso alla ratifica da parte degli Stati membri, sarebbe<br />

stato dato dal fatto che tale trattato “fondamentale” o “costituzionale” o tale Costituzione si<br />

sarebbe raccomandata sia per la sua quantità (la brevità), sia per la sua qualità (norme generali) per<br />

stabilire quel diretto rapporto tra cittadini e istituzioni dell’UE, in termini di comprensibilità e di attendibilità,<br />

che costituiva la prima preoccupazione della stessa Dichiarazione di Laeken, nonché<br />

della Convenzione. Il primo problema, a questo proposito, era rappresentato dal tema “struttura e<br />

contenuto del trattato fondamentale”. In merito si proponeva la seguente scansione: a) preambolo<br />

(p.e. quello della Carta), b) natura, architettura, valori dell’Unione (con la possibile immissione della<br />

personalità giuridica unica dell’UE), c) <strong>cittadinanza</strong> e <strong>diritti</strong> dei cittadini dell’Unione (con la possibile<br />

integrazione della Carta), d) obiettivi generali dell’Unione, e) istituzioni dell’Unione, proce-<br />

365 John Olav Kerr aveva fatto parte dal 1966 del Servizio diplomatico britannico: ambasciatore e rappresentante permanente<br />

del Regno Unito presso le Comunità Europee e l’Unione Europea dal 1990 al 1995, ambasciatore negli Stati<br />

Uniti dal 1995 al 1997, sottosegretario permanente al “Foreign Office” e capo del Servizio diplomatico dal 1997 al<br />

2002, Kerr aveva lasciato quest’ultimo per assumere la carica di segretario generale della Convenzione sul futuro<br />

dell’Europa, diventando nel frattempo uno dei direttori della “Shell Transport and Trading”, nonché della “Scottish<br />

American Investment Trust”.


dure decisionali e tipologia degli strumenti d’azione (con le possibili decisioni sulle istituzioni e sulla<br />

semplificazione di procedure e strumenti), f) politiche e competenze dell’Unione (tranne le basi<br />

giuridiche di competenza propriamente dette, perché “l’idea di riprendere nel trattato fondamentale<br />

tutte le basi giuridiche sembra contraddire il concetto stesso di trattato fondamentale”) e g) disposizioni<br />

finali. Il secondo problema, più complesso, era peraltro quello dell’”articolazione del trattato<br />

fondamentale con gli attuali trattati”. Qui venivano proposti due “approcci”. Uno di essi era quello<br />

della proposta di un trattato fondamentale “che si sovrapponga agli attuali trattati” e corrispondeva<br />

precisamente ai progetti di Spinelli e di Herman: aveva il pregio di prevedere la ratifica degli Stati<br />

membri solo per il trattato fondamentale, ma un grave limite nel fatto che “la sovrapposizione di un<br />

nuovo trattato fondamentale” ai due trattati principali e in particolare “all’attuale trattato<br />

sull’Unione, o almeno a quanto ne rimarrebbe, avrebbe pur sempre l’effetto di complicare<br />

l’architettura dei trattati, anziché semplificarla.” L’altro approccio era quello della proposta di un<br />

trattato fondamentale “nel contesto di un riordino e di una semplificazione degli attuali trattati”, ovvero<br />

della fusione e della ristrutturazione degli attuali trattati UE e CE. Il trattato fondamentale avrebbe<br />

dovuto prendere il posto del trattato UE, proprio perché avrebbe dovuto assolvere alla stessa<br />

funzione, propria di quest’ultimo, di “trattato quadro” o di “cappello” a tutte le diverse politiche<br />

dell’UE e ai loro diversi tipi di funzionamento. In tal modo nel trattato fondamentale sarebbero state<br />

presenti tutte le norme fondamentali (presenti in entrambi i trattati UE e CE), mentre la “seconda<br />

parte” dell’operazione avrebbe dovuto consistere nella rifusione di tutte le disposizioni “particolari”<br />

presenti in entrambi i trattati. La fusione dei trattati era dunque presente in entrambe le operazioni e<br />

la vera differenza tra queste era data dalla distinzione fra il trattato fondamentale e le norme specifiche<br />

applicative, secondo gli interrogativi posti dalla stessa Dichiarazione di Laeken.<br />

Si trattava allora di definire quale tipo di collegamento redazionale istituire fra il trattato fondamentale<br />

e le norme specifiche applicative ovvero quale forma redazionale assegnare ai testi riguardanti<br />

queste ultime. A questo proposito si prospettavano le seguenti opzioni: a) un secondo trattato distinto,<br />

b) una seconda parte di un trattato unico (di cui il trattato fondamentale avrebbe costituito la<br />

prima parte) o c) un insieme di protocolli “speciali” allegati al trattato fondamentale. Tale rosa di<br />

opzioni era in realtà profondamente scorretta, perché, introducendo l’opzione b) (scorrettamente attribuita<br />

in nota allo “studio” dell’IUE di Firenze, che in realtà prospettava l’opzione c)), prevedeva<br />

la possibilità di annullare l’ipotesi, prospettata chiaramente dalla stessa Dichiarazione di Laeken, di<br />

un “trattato di base”, che, in quel caso, evidentemente non sarebbe stato più né un “trattato”, una<br />

volta fosse divenuto semplicemente la prima parte di un trattato unico, né (e questo valeva pure per<br />

l’opzione c)) “di base” ossia “fondamentale” e tanto meno “costituzionale” (come pure prospettato<br />

dalla Dichiarazione di Laeken), dato che una Costituzione comporta, in ragione della sua natura di<br />

vertice unico e assoluto della gerarchia degli atti giuridici, la sua redazione in un unico testo separato<br />

da qualsiasi altro testo giuridico. Che l’inserimento dell’opzione b) non fosse peraltro casuale<br />

emergeva dalla seguente risposta del documento del Segretariato all’ultima domanda presente nella<br />

Dichiarazione di Laeken ovvero a quella relativa alla distinzione fra le procedure di ratifica per il<br />

trattato di base e per le altre disposizioni del trattato:<br />

“Dal momento che il nuovo prodotto [ossia la somma delle due operazioni] sostituirebbe i trattati originari e i trattati di<br />

revisione successivi (almeno per quanto concerne il TUE e il TCE), l’insieme dovrebbe essere soggetto a una procedura<br />

di ratifica. Per tale motivo, prima di avviarsi in questa direzione, occorre tenere presenti le preoccupazioni di quanti sono<br />

restii a sottoporre a una nuova ratifica testi eventualmente già acquisiti. Tuttavia, tenuto conto del nuovo contesto e<br />

dell’importanza delle riforme previste, l’approccio comportante una nuova procedura di ratifica per l’insieme delle due<br />

“parti” avrebbe l’effetto di sollecitare l’adesione degli Stati membri e dei loro cittadini al futuro progetto europeo. Esso<br />

permetterebbe inoltre di rendere i trattati più leggibili per i cittadini, il che costituisce uno degli obiettivi principali dei<br />

lavori della Convenzione.”<br />

In altre parole: dal momento che comunque ci si sarebbe dovuto attenere a un unico tipo di procedura<br />

di ratifica (all’unanimità) di entrambi i testi separati, prospettati dalla Dichiarazione di Laeken,<br />

ovvero di entrambi i trattati distinti, previsti dall’opzione a), e che la ratifica del “secondo trattato<br />

distinto”, in quanto somma di “testi eventualmente già acquisiti”, avrebbe destato “le preoccupazio-


ni di quanti sono restii a sottoporre a una nuova ratifica” tale tipo di testi, tanto valeva procedere a<br />

un’unica ratifica dell’”insieme delle “due parti”” ovvero di adottare o l’ipotesi b) o l’ipotesi c). Di<br />

fronte al carattere mastodontico e perciò inevitabilmente incomprensibile per i cittadini che tale testo<br />

unico avrebbe in tal modo assunto, aveva veramente del ridicolo l’affermazione che esso “avrebbe<br />

l’effetto di sollecitare l’adesione degli Stati membri e dei loro cittadini al futuro progetto europeo”,<br />

nonché “di rendere i trattati più leggibili per i cittadini”. Questa affermazione, infedele alla<br />

lettera e allo spirito della Dichiarazione di Laeken, scorretta sotto il profilo costituzionale, insensibile<br />

sotto quello democratico e cieca sotto quello politico, sarebbe stata all’origine della scelta fatale<br />

che avrebbe portato all’affossamento della Costituzione Europea.<br />

Come se ciò non bastasse, il documento del Segretariato giungeva anzi a chiedersi “se la Convenzione<br />

costituisca la sede appropriata per portare a termine tutta l’operazione”, dato “il carattere tecnico<br />

della “seconda parte”” ossia della fusione delle norme specifiche applicative. Perciò si proponeva<br />

che la Convenzione facesse riferimento, quanto all’elaborazione della “seconda parte”, a “un<br />

gruppo di esperti (composto dei servizi giuridici delle istituzioni e del Segretariato della Convenzione?)”.<br />

Si prospettarono inoltre due opzioni: una era quella in base alla quale la Convenzione “potrebbe<br />

concentrarsi unicamente sull’elaborazione del trattato fondamentale e, per quanto riguarda la<br />

“seconda parte”, potrebbe rinviarla a una fase successiva”, l’altra era quella in base alla quale essa<br />

“potrebbe elaborare il trattato fondamentale e anche la “seconda parte””. In base all’ipotesi sopra<br />

prospettata della ratifica “per l’insieme delle due parti”, nonché alla necessità di sottoporre preliminarmente<br />

tale “insieme” a una CIG da svolgersi nella seconda metà del 2003, la scelta obbligata non<br />

avrebbe potuto essere peraltro che quella per la seconda opzione.<br />

Un’ulteriore conferma dell’orientamento a favore di un testo unico veniva dalla discussione della<br />

“questione dell’eventuale gerarchizzazione del trattato fondamentale” ossia “se i trattati esistenti (o,<br />

nel caso di un riordino, i testi ristrutturati nella “seconda parte”) siano subordinati o meno al nuovo<br />

trattato fondamentale.” A questo proposito il documento sottolineava che “pare difficile stabilire<br />

una gerarchizzazione dei trattati che non vada di pari passo con una corrispondente differenziazione<br />

delle procedure decisionali per la modifica dei medesimi.”<br />

Rinviando a questo tema ossia alla possibilità, prospettata dalla stessa Dichiarazione di Laeken, di<br />

“rivedere e differenziare le procedure di emendamento dei trattati”, il documento, in sede di discussione<br />

di questo punto, faceva capire che assai più importante della differenziazione delle procedure<br />

di emendamento a seconda del tipo di disposizioni (fondamentali o non) era “la questione della riforma<br />

della procedura di revisione dei trattati” in quanto tale, che “può porsi altresì indipendentemente<br />

da quella del riordino dei trattati o da quella dell’adozione di un trattato fondamentale.” Essa<br />

si imponeva infatti già in considerazione del fatto che “in un’Unione allargata il principio di unanimità<br />

e le lunghe procedure nazionali connesse alla ratifica dei trattati di revisione rischiano di paralizzare<br />

l’Unione e di impedire i necessari adeguamenti successivi.” Perciò il documento condivideva<br />

l’esigenza di “sostituire progressivamente le revisioni “di comune accordo” con un voto a maggioranza<br />

superqualificata” su un progetto di revisione formulato da una nuova Convenzione.<br />

Perciò, sembrava far intendere il documento, se si voleva assicurare che tale nuova procedura fosse<br />

estesa, come avrebbe dovuto, all’intero prodotto dei lavori della Convenzione, occorreva che non vi<br />

fosse differenziazione nelle procedure di emendamento tra il “trattato fondamentale” e la “seconda<br />

parte” e quindi che non vi fosse una gerarchizzazione tra l’uno e l’altra, bensì un coordinamento:<br />

“Se, per contro, al termine delle riforme, i testi del trattato fondamentale e degli altri trattati saranno<br />

coordinati tra di loro in modo esplicito, il rapporto di subordinazione tra i trattati non si imporrà necessariamente.”<br />

Ma tale coordinamento sarebbe stato appunto assicurato soltanto dalle opzioni b) o<br />

c) ossia a favore comunque di un testo unico (mastodontico e perciò incomprensibile).<br />

Tale documento del Segretariato, nonché l’intervento di de Witte, furono fatti letteralmente propri e<br />

anzi ulteriormente radicalizzati dal Praesidium e dallo stesso presidente della Convenzione. Infatti,<br />

già nella successiva sessione plenaria della Convenzione del 12 e 13 settembre 2002, il suo presidente<br />

esordiva sottolineando “l’importanza di semplificare il sistema per renderlo più chiaro, più<br />

leggibile e quindi anche più accettabile. Occorre far sì che la Costituzione Europea possa essere


presentata in modo comprensibile ai liceali d’Europa durante le lezioni di formazione civica”, dando<br />

per scontato che, in nome della semplificazione del sistema, il risultato dei lavori della Convenzione<br />

dovesse essere appunto una Costituzione per l’Europa, intendendo per essa, in questo contesto,<br />

il “trattato di base” ossia “fondamentale” e quindi la “prima parte” di cui parlava de Witte. Giscard<br />

d’Estaing ammoniva pure, peraltro, che “tale semplificazione costituisce di per sé un esercizio<br />

molto complesso, implicante non solo scelte politiche, ma anche la risoluzione di numerose questioni<br />

giuridiche. A tal fine occorre operare parallelamente su due fronti: la semplificazione degli<br />

strumenti e delle procedure ossia l’architettura operativa e istituzionale, e la semplificazione dei testi<br />

e dei trattati stessi ossia l’architettura costituzionale.” A proposito di quest’ultima il presidente<br />

della Convenzione precisava:<br />

“Parallelamente ai gruppi, la Convenzione proseguirà la riflessione sulla forma del prodotto finale ossia sul progetto di<br />

trattato costituzionale per l’Europa. Il Praesidium intende presentare alla Convenzione, nella seconda sessione di ottobre,<br />

un progetto di “struttura” del nuovo trattato. In tale ottica, ha avviato, senza concluderla, una riflessione<br />

sull’architettura del trattato da raccomandare alla Convenzione. Il presidente ha citato un documento di riflessione del<br />

Segretariato sulla semplificazione dei trattati, distribuito per illustrare la problematica estremamente complessa del se<br />

occorra consolidare, codificare oppure fondere i trattati esistenti. Tale questione è connessa a quella della personalità<br />

giuridica.” Se si fosse accolta la raccomandazione dell’attribuzione di una personalità giuridica all’UE, allora “si potrebbe<br />

prevedere una fusione dei due trattati attuali, il trattato CE e il trattato sul ‘Unione Europea (questione che sarà<br />

dibattuta nella prima sessione plenaria di ottobre). Il Praesidium si pronuncerà, nel documento relativo alla struttura del<br />

nuovo trattato, sulla questione del se, in seguito alla fusione, si debba mantenere un trattato unico o se si debba eventualmente<br />

operare una nuova suddivisione verticale con una parte costituzionale e una parte relativa al contenuto delle<br />

politiche (questione che sarà dibattuta nella seconda sessione di ottobre).”<br />

Dato quindi per scontato che il prodotto finale della Convenzione sarebbe stato un trattato costituzionale,<br />

si rinviava all’effettivo accoglimento della proposta di attribuzione di una personalità giuridica<br />

all’UE la decisione di come procedere alla fusione dei due trattati CE e UE. Ma insieme si faceva<br />

presente che il risultato sarebbe stato comunque un testo comprensivo dell’intero contenuto di<br />

entrambi i trattati CE e UE. La scelta fra il trattato unico o la “suddivisione verticale” ossia la gerarchizzazione<br />

fra “due parti” era ancora lasciata ufficialmente aperta, ma in realtà era solo appesa a<br />

un tenue filo.<br />

Nella successiva riunione del 19 settembre 2002 il gruppo di lavoro III dava la sua formale approvazione<br />

al documento di lavoro 16 del 18 settembre 2002 su “Incidenza della personalità giuridica<br />

unica dell’Unione sulla semplificazione dei trattati – Rapporto finale”. In esso il gruppo si pronunciava<br />

per la fusione dei due trattati principali, il TUE e il TCE, nonché per la riorganizzazione del<br />

nuovo trattato unico in due parti: una fondamentale e l’altra no, che “potrebbe essere composta di<br />

statuti (per le istituzioni) o di protocolli speciali (per i blocchi di politiche: mercato interno, UEM,<br />

GAI, PESC, politiche comuni ecc.)” ossia per la forma “debole” della seconda opzione di de Witte.<br />

Per il resto il gruppo così concludeva:<br />

“La semplificazione dei trattati solleva naturalmente una serie di altre questioni che non sono direttamente legate alla<br />

personalità giuridica unica, e che saranno discusse più tardi nel quadro della Convenzione. Queste questioni riguardano<br />

principalmente l’architettura e il contenuto della parte fondamentale, la forma e la struttura della seconda parte, così<br />

come l’articolazione tra le due parti. Un’altra questione riguarda la modifica o la differenziazione delle procedure di revisione<br />

dei trattati, così come un’eventuale corrispondenza tra le due parti del nuovo trattato unico e delle procedure di<br />

revisione distinte.”<br />

In altri termini il gruppo di lavoro III rinviava alla stessa Convenzione la decisione su tutto<br />

l’insieme del problema. Nella successiva riunione del 30 settembre 2002, il gruppo di lavoro III approvava<br />

il documento di lavoro 29 del 24 settembre 2002 “Progetto di rapporto finale”, contenente<br />

le medesime conclusioni sopra riportate. E finalmente il Segretariato provvedeva a diffondere il 1°<br />

ottobre 2002 ai membri della Convenzione la “Relazione finale del Gruppo III “Personalità giuridica””,<br />

contenente le considerazioni sopra elencate.


Il giorno dopo aveva luogo l’intervento del presidente della Convenzione europea in occasione<br />

dell’apertura del 53° anno accademico del Collegio d’Europa a Bruges il 2 ottobre 2002. Nel suo<br />

discorso Giscard d’Estaing affermava:<br />

1) “Il Signor Amato sta per presentarci un rapporto sulle raccomandazioni del gruppo sulla personalità giuridica. Se<br />

questo gruppo – ciò che sembra essere il suo orientamento – ci raccomanda d’andare verso una personalità giuridica unica,<br />

ciò renderà possibile:<br />

- di considerare una fusione dei due trattati attuali, il Trattato CE e il Trattato sull’Unione Europea, e<br />

- di ravvicinare e razionalizzare i diversi strumenti giuridici dell’Unione dei differenti pilastri aventi una portata simile.<br />

Ciò apre dunque la via a una semplificazione dei trattati, permettendoci così d’andare verso una razionalizzazione del<br />

sistema, domandata dall’opinione pubblica. Ciò ci condurrebbe verso un nuovo documento unico cancellante inevitabilmente<br />

i testi anteriori, e richiedendo la sua ratifica nel suo insieme.”<br />

2) “Dopo il dibattito da parte della Convenzione del rapporto del Signor Amato, ci siamo impegnati a fare una presentazione<br />

preliminare, a fine ottobre, di un’architettura per il futuro trattato costituzionale. La mia preferenza – come l’ho<br />

già indicato davanti alla Convenzione – va verso un testo unico raggruppante una parte di natura costituzionale e una<br />

parte riguardante le politiche, completata eventualmente da dei protocolli, e comportante certi dettagli d’applicazione.<br />

Questa parte costituzionale deve presentare in maniera comprensibile le basi stesse della nostra Unione. E’ una questione<br />

molto importante, e occorre avere un dibattito approfondito su questo punto.”<br />

In altri termini la proposta del gruppo presieduto dal vicepresidente Amato di attribuire una personalità<br />

giuridica all’UE e anzi soltanto all’UE avrebbe comportato, secondo Giscard d’Estaing, la<br />

possibilità non solo di procedere a una completa fusione dei due trattati CE e UE, andando persino<br />

oltre l’opzione a) (due trattati distinti) in direzione di un testo unico da sottoporre a una ratifica<br />

complessiva, ma anche la formale soppressione della struttura a tre pilastri dell’UE e con ciò la possibilità<br />

di andare oltre la stessa opzione c), propria dello “studio di Firenze” e relativa a un trattato<br />

fondamentale con annessi una serie di protocolli speciali distinti per pilastri, verso l’opzione b) ossia<br />

quella del vero e proprio trattato unico, di cui il trattato fondamentale non sarebbe stato che la<br />

prima parte. In tal modo, già allora, Giscard d’Estaing prefigurava un trattato unico, che avrebbe<br />

dovuto portare in quanto tale il titolo di “trattato costituzionale”, anche se, in realtà, la vera “Costituzione”,<br />

quella che avrebbe dovuto venire insegnata al liceo, non era che la prima parte, “di natura<br />

costituzionale”. Il presidente della Convenzione aveva pertanto un bel dire che tale prima parte avrebbe<br />

dovuto essere quanto mai comprensibile per i cittadini. In realtà, in tal modo erano poste tutte<br />

le premesse per ottenere non solo un unico testo mastodontico e perciò incomprensibile, ma anche<br />

un unico trattato, che, pretendendo per giunta di chiamarsi in quanto tale “trattato costituzionale”,<br />

omologava in realtà tutto il suo sterminato contenuto come appunto “costituzionale”, proprio<br />

agli occhi dei cittadini già all’atto dei referendum nazionali di ratifica.<br />

Le previsioni di Giscard d’Estaing trovarono la loro puntuale conferma poche ore dopo, nella<br />

sessione plenaria della Convenzione del 3-4 ottobre 2002. In essa Amato presentava la relazione finale<br />

del suo gruppo di lavoro III, sulla quale si apriva un dibattito generale, nel quale veniva “generalmente<br />

riconosciuto che la fusione delle personalità giuridiche apre la via alla fusione dei trattati<br />

in un testo unico, contribuendo così alla loro futura semplificazione. Il testo unico potrebbe essere<br />

composto di due parti: la prima corrisponderebbe alla parte fondamentale comprendente disposizioni<br />

di carattere costituzionale, mentre la seconda conterrebbe essenzialmente le politiche”. Inoltre “la<br />

maggioranza dei Convenzionali riconosce che […] mantenere l’attuale presentazione della struttura<br />

in “pilastri” sarebbe anacronistico, mentre sopprimerla consentirebbe di riorganizzare più sistematicamente<br />

i trattati” ossia andare verso la prima opzione di de Witte, preferita da Giscard d’Estaing.<br />

A dare comunque nuovo slancio all’”avvenire dell’Europa” per il successivo cinquantennio era poi<br />

l’esito positivo del secondo referendum irlandese sulla ratifica del trattato di Nizza, svoltosi il 19<br />

ottobre 2002, che vedeva un popolo che, sulla base delle chiare e solide rassicurazioni del proprio<br />

governo e del Consiglio europeo, accettava di ritornare alle urne una seconda volta sullo stesso tema


e di rivedere liberamente la propria posizione, salvando così il trattato di Nizza, l’allargamento e la<br />

stessa Convenzione. 366<br />

Proprio ai fini della sua strategia di attenzione verso la Convenzione il PE adottava, pochi giorni<br />

dopo, la sua risoluzione del 23 ottobre 2002 “sull’impatto della Carta dei <strong>diritti</strong> fondamentali<br />

dell’Unione Europea e il suo status futuro”. In essa il PE affermava:<br />

- “l’efficacia della Carta sarebbe notevolmente rafforzata se i <strong>diritti</strong> in essa enunciati potessero essere rivendicati davanti<br />

ai tribunali nel quadro del diritto UE”;<br />

- “invita la Convenzione a potenziare la certezza del diritto e a porre fine alla confusione politica riguardante la portata<br />

e il livello di tutela della Carta, conferendole lo status di diritto primario e rendendola così un elemento fondamentale di<br />

riferimento per la Corte di giustizia e i tribunali nazionali; sottolinea a tale fine la necessità che la Carta sia inserita nel<br />

diritto costituzionale dell’Unione Europea”;<br />

- “uno status più forte della Carta è estremamente auspicabile nel contesto dell’allargamento, in quanto servirà a inserire<br />

un regime di di <strong>diritti</strong> fondamentali nel nucleo centrale del processo d’integrazione europea, rassicurando così gli Stati<br />

membri, siano essi di vecchia data, nuovi o potenziali”;<br />

- “rendendo la Carta vincolante, si aprirà una nuova fase nello sviluppo della <strong>cittadinanza</strong> dell’UE” e “per tutelare il cittadino<br />

da qualsiasi abuso che l’Unione Europea potrebbe fare dei suoi poteri ampliati, occorrerà mettere a punto possibilità<br />

di ricorso in sede giudiziaria”;<br />

- “la Convenzione, in stretta cooperazione con i tribunali, elabori misure per migliorare l’accesso diretto al tribunale di<br />

primo grado (con diritto di appello alla Corte di giustizia), così da potenziare la tutela giuridica degli individui”; inoltre<br />

“i tribunali nazionali degli Stati membri e dei Paesi candidati debbano essere resi più pienamente consapevoli del loro<br />

obbligo di applicare la Carta per conto dei cittadini”;<br />

- “l’inserimento della Carta nel nuovo trattato costituzionale debba avvenire senza che si apportino modifiche alle sue<br />

norme”;<br />

- “una volta inglobata, la Carta dovrebbe essere modificabile solo in base alle più solenni disposizioni costituzionali” e<br />

quindi “qualsiasi sviluppo successivo della Carta deve essere elaborato da una nuova speciale Convenzione, da istituire<br />

in una fase successiva”;<br />

- l’”avvio di negoziati di adesione da parte dell’Unione per diventare un’alta parte contraente della CEDU e di altri<br />

strumenti internazionali in materia di <strong>diritti</strong> dell’uomo”;<br />

- “l’adesione dell’UE alla CEDU è un fattore che integra e non sostituisce l’attribuzione di uno status vincolante alla<br />

Carta a norma del diritto comunitario – azioni entrambe necessarie e da realizzare tempestivamente”.<br />

Con questa risoluzione, dunque, il PE, fedele alla sua storia recente e remota, ribadiva che<br />

l’inserimento della Carta dei <strong>diritti</strong> fondamentali dell’Unione all’interno del nuovo trattato e dunque<br />

il carattere legalmente vincolante di essa era la vera condizione fondamentale insieme sia per una<br />

Costituzione dell’UE, sia per un’effettiva <strong>cittadinanza</strong> dell’Unione, nonché precisava le conseguenze<br />

che ne sarebbero dovute scaturire rispettivamente per l’UE e per i cittadini europei: per l’UE la<br />

sua adesione alla CEDU (alla stregua di un autentico soggetto politico-istituzionale) e per i cittadini<br />

europei la possibilità di ricorrere sia davanti al Tribunale di primo grado e poi eventualmente alla<br />

Corte di giustizia dell’UE, sia davanti ai tribunali nazionali, contro qualsiasi atto giuridico dell’UE,<br />

tanto nella sua origine europea, quanto nella sua applicazione nazionale, essi ritenessero violasse<br />

qualche diritto fondamentale sancito nella Carta.<br />

Sull’onda di tale rinnovato slancio europeistico si svolgeva, pochi giorni dopo, il Consiglio europeo<br />

di Bruxelles del 24-25 ottobre 2002, che era ormai in grado di prevedere la chiusura dei negoziati di<br />

adesione dei Paesi candidati fra il novembre e il dicembre 2002, l’entrata in vigore del trattato di<br />

Nizza nei primi mesi del 2003 e la firma del trattato d’adesione ad Atene nell’aprile 2003.<br />

Quanto alla Convenzione, in occasione della sessione plenaria del 28 ottobre 2002 il Praesidium<br />

trasmise ai membri di essa il “progetto preliminare di trattato costituzionale”, il cui titolo preciso era<br />

già “Trattato che stabilisce una Costituzione per l’Europa” e che prevedeva: un preambolo, una parte<br />

prima dal titolo “Architettura costituzionale” (con: definizione e obiettivi dell’Unione; cittadi-<br />

366 Analogo esempio, purtroppo, non si darà negli anni dal 2005 al 2007, quando in Francia e nei Paesi Bassi la parola<br />

d’ordine sarà: “No è no!” (Non c’est non!). Il risultato sarebbe stato il blocco del processo di ratifica e l’abbandono del<br />

trattato costituzionale, nonché la codificazione, su iniziativa del governo di un terzo Stato membro (la Germania), di un<br />

nuovo trattato emendativo (e perciò non soggetto, di per sé, a referendum in tali due Paesi) con gli stessi contenuti del<br />

trattato abbandonato!


nanza dell’Unione e <strong>diritti</strong> fondamentali; competenze e azioni dell’Unione; le istituzioni<br />

dell’Unione; attuazione delle competenze e delle azioni dell’Unione; la vita democratica<br />

dell’Unione; finanze dell’Unione; l’azione dell’Unione nel mondo; l’Unione e l’ambiente circostante;<br />

l’appartenenza all’Unione), una parte seconda dal titolo “Le politiche e l’attuazione delle azioni<br />

dell’Unione” (con: politiche e azioni interne; azione esterna; difesa; funzionamento dell’Unione) e<br />

una parte terza dal titolo “Disposizioni generali e finali”. La scelta di fondo era così precisata fin nei<br />

minimi particolari: sarebbe stato un unico trattato, spacciato in quanto tale per la “Costituzione”,<br />

mentre il trattato fondamentale ossia autenticamente costituzionale non sarebbe stato che la sua<br />

prima parte.<br />

Nella cruciale sessione plenaria della Convenzione del 28 e 29 ottobre 2002 tale progetto preliminare<br />

riceveva l’approvazione generale, compreso “il fatto che si tratti di un testo unico”, visto<br />

anch’esso “come espressione di un approccio coraggioso, rispondente alle attese della Convenzione<br />

e dei cittadini”. La scelta scorretta, miope e disastrosa era dunque stata fatta e ormai l’intera Convenzione<br />

ne portava la piena responsabilità.<br />

Nel frattempo continuava peraltro l’apertura totale dell’Unione, sia pure in forma indiretta, al mondo<br />

intero. Poche settimane dopo veniva firmato infatti, il 18 novembre 2002, l’accordo di associazione<br />

del Cile all’UE. Entrato in vigore il 1° marzo 2005, questo accordo aprirà un nuovo grande<br />

“fronte” della politica di associazione all’UE ovvero quello dell’America latina, caldeggiato, in particolare,<br />

da due Stati membri dell’UE, la Spagna e il Portogallo.<br />

Il PE, invece, nell’intento, sempre perseguito, di creare le condizioni di un’effettiva omogeneità nei<br />

<strong>diritti</strong> politici dei cittadini europei, sia per gli elettori, sia per gli eletti, con la sua risoluzione del 5<br />

dicembre 2002 “sul progetto europeo di statuto dei deputati al Parlamento Europeo” invitava le altre<br />

istituzioni dell’UE ad <strong>attiva</strong>rsi per l’esame e l’approvazione del progetto, in fase di elaborazione da<br />

parte del PE, di statuto dei deputati al PE, che doveva garantire una piena uniformità di trattamento<br />

ai membri del PE, a prescindere dalle loro diverse nazionalità, creando così la condizione indispensabile<br />

a un’omogeneità del PE in quanto composto di effettivi rappresentanti dei cittadini europei.<br />

b) Il buio a mezzogiorno ossia la guerra in Iraq<br />

Una settimana dopo si svolgeva il Consiglio europeo di Copenhagen del 12-13 dicembre 2002. Esso<br />

annunciava l’avvenuta conclusione dei negoziati d’adesione e fissava l’entrata in vigore del trattato<br />

di Nizza nei primi mesi del 2003, la soluzione globale del problema di Cipro entro il 28 febbraio<br />

2003, la firma del trattato d’adesione ad Atene il 16 aprile 2003, la conclusione dei lavori della<br />

Convenzione e la presentazione del progetto di nuovo trattato europeo nel giugno 2003, la partecipazione<br />

dei nuovi Stati membri alla successiva CIG, l’entrata effettiva dei nuovi Stati membri<br />

nell’UE il 1° maggio 2004 (con la contestuale integrazione della Commissione da parte dei commissari<br />

dei nuovi Stati membri), la firma del nuovo trattato europeo dopo tale data, le elezioni europee<br />

nel giugno 2004, l’entrata in funzione della nuova Commissione e delle nuove disposizioni (di<br />

Nizza) riguardanti la Commissione e il voto in Consiglio il 1° novembre 2004, l’apertura dei negoziati<br />

d’adesione con la Turchia nel 2005 e l’entrata della Romania e della Bulgaria nell’UE il 1°<br />

gennaio 2007. 367<br />

367 Tale impressionante “tabella di marcia” evidenziava la vera intenzionalità del Consiglio europeo, che poneva<br />

l’allargamento, sempre più cospicuo e ravvicinato nel tempo, al di sopra di qualsiasi altra considerazione, sino al punto<br />

di anteporre la firma del trattato d’adesione alla fine dei lavori della Convenzione, di far partecipare i futuri Stati membri,<br />

prima ancora della loro entrata effettiva nell’UE, alla successiva CIG, di anteporre l’adesione effettiva alle elezioni<br />

europee, di posporre la firma del nuovo trattato a tale entrata, di anteporre l’apertura di negoziati con la Turchia (nel<br />

2005) alla conclusione del processo di ratifica del nuovo trattato europeo, e infine di programmare la stessa entrata effettiva<br />

di Romania e Bulgaria nell’UE per il 1° gennaio 2007. Ce n’era abbastanza da causare un terribile corto circuito<br />

tra tale allargamento (di proporzioni e ritmi sempre più preoccupanti per molti cittadini europei) e il risultato dei lavori<br />

della Convenzione, scaricando su quest’ultimo i timori per il primo, nella confusa, ma profonda sensazione di: “quel<br />

che è troppo, è troppo”.


Per quanto riguarda la PESD, il Consiglio europeo di Copenhagen manifestava la disponibilità<br />

dell’UE a condurre un’operazione militare anche in Bosnia-Erzegovina, in sostituzione della SFOR<br />

a guida NATO.<br />

Infine veniva adottata una “Dichiarazione del Consiglio europeo sull’Iraq”, nella quale si affermava:<br />

“Il Consiglio europeo sottolinea il suo pieno ed inequivocabile sostegno alla risoluzione 1441 del Consiglio di sicurezza<br />

dell’8 novembre 2002. L’obiettivo dell’Unione europea rimane l’eliminazione delle armi di distruzione di massa irachene,<br />

conformemente alle pertinenti risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Spetta ora all’Iraq cogliere<br />

questa opportunità finale di adempiere ai suoi obblighi internazionali per evitare un ulteriore confronto.<br />

Il Consiglio europeo prende atto dell’accettazione da parte dell’Iraq della risoluzione 1441 e del fatto che esso ha presentato,<br />

secondo quanto gli era stato richiesto, una dichiarazione sui suoi programmi per lo sviluppo delle armi di distruzione<br />

di massa e dei prodotti correlati.<br />

L’UE continuerà ad offrire il suo pieno appoggio agli sforzi delle Nazioni Unite per garantire il rispetto integrale ed<br />

immediato della risoluzione 1441 da parte dell’Iraq. Il ruolo del Consiglio di sicurezza nel mantenimento della pace e<br />

della sicurezza internazionale deve essere rispettato.<br />

Il Consiglio europeo esprime pieno sostegno alle operazioni di ispezione dell’UNMOVIC e dell’AIEA, guidate dal<br />

Dott. Blix e dal Dott. El-Baradei. Il Consiglio europeo sottolinea che dovrebbe essere consentito agli ispettori agli armamenti<br />

di proseguire la loro importante missione senza interferenze ed avvalendosi dell’intera gamma di strumenti a<br />

loro disposizione ai sensi della risoluzione 1441. L’UE è in attesa di ricevere la loro valutazione della dichiarazione irachena.”<br />

Tale dichiarazione svelava che persino il Consiglio europeo di Copenhagen del dicembre 2002 credeva<br />

nell’esistenza di “armi di distruzione di massa irachene”. E tuttavia anteponeva a “un ulteriore<br />

confronto” con l’Iraq la “valutazione della dichiarazione irachena” (sui programmi per lo sviluppo<br />

di tali armi) da parte delle agenzie internazionali preposte, al termine delle loro operazioni di ispezione<br />

in Iraq, che avrebbero dovuto peraltro “proseguire […] senza interferenze”. In altri termini il<br />

Consiglio europeo, si direbbe, voleva vederci chiaro e non era affatto disposto a veder una presunta<br />

certezza (persino propria) prendere il posto di una reale prova, quando era in gioco appunto “un ulteriore<br />

confronto” ossia la guerra.<br />

Frattanto la Convenzione procedeva alla serrata programmazione del suo piano d’azione. Nella sessione<br />

plenaria del 20 dicembre 2002, il suo presidente prevedeva “un progetto completo della prima<br />

parte del trattato entro Pasqua; anche la parte III (Disposizioni generali e finali) verrà diffusa ad aprile.”<br />

E aggiungeva:<br />

“Allo stesso tempo cominceranno i lavori sulla seconda parte del trattato. Entro la fine di gennaio il Praesidium intende<br />

trasmettere alla Convenzione un’analisi degli attuali articoli del trattato, individuando quelli che verranno sostituiti da<br />

nuovi articoli nella parte I del nuovo trattato, quelli che sarà necessario sostituire con nuovi articoli nella parte II (ad esempio<br />

le attuali disposizioni in ambito PESC e GAI) e quelli che avranno bisogno solo di alcune modifiche tecniche (al<br />

fine di tener conto delle nuove disposizioni della parte I). Il Praesidium elaborerà i progetti di articoli per la parte III che<br />

richiederanno modifiche sostanziali. Per quanto riguarda gli articoli che richiedono solo modifiche tecniche, esso ha<br />

previsto che il Segretariato della Convenzione lavori con un gruppo di esperti provenienti dai servizi giuridici delle tre<br />

istituzioni.”<br />

Di fronte a tale serrato programma di lavori della Convenzione, il PE proseguiva con maggior vigore<br />

la sua strategia d’attenzione a essi con l’adozione della risoluzione del 14 gennaio2003 “sul ruolo<br />

dei poteri regionali e locali nella costruzione europea”, con la quale chiedeva che nella Costituzione<br />

europea venisse esplicitamente riconosciuto l’associazione di tali poteri “alla preparazione degli atti<br />

legislativi e all’elaborazione delle politiche comunitarie”, visto che essi sarebbero stati poi “chiamati<br />

ad applicarle”.<br />

Nel clima politico-militare internazionale sempre più cupo l’UE inaugurava, il 15 gennaio 2003, la<br />

prima operazione, civile, della PESD ossia la missione di polizia in Bosnia-Erzegovina, rilevando<br />

l’ONU. Si trattava del primo passo, civile, dell’assunzione della diretta responsabilità politica<br />

dell’UE in questo tormentato, diviso e instabile Paese balcanico occidentale.


Il giorno dopo, il PE adottava la risoluzione (firmata da un enorme numero di membri) del 16 gennaio<br />

2003 “sull’elezione del presidente della commissione da parte del Paramento Europeo”, con la<br />

quale il PE invitava la Convenzione a “includere nella Costituzione Europea il principio secondo il<br />

quale il presidente della Commissione deve essere eletto dal Parlamento Europeo”.<br />

Poche settimane dopo, il 1° febbraio 2003, entrava in vigore il trattato di Nizza, aprendo così la<br />

strada definitivamente all’allargamento, secondo le proporzioni e la tabella di marcia previste dal<br />

Consiglio europeo.<br />

Ma ormai la situazione politico-militare internazionale stava precipitando, tanto che il Consiglio europeo<br />

si riuniva d’urgenza a Bruxelles il 17 febbraio 2003 (sotto la presidenza del primo ministro<br />

greco Costas Simitis (PASOK)), per una seduta dedicata esclusivamente alla “crisi irachena”. Con<br />

tono veramente profetico ammoniva: “Il modo in cui sarà gestita l'evoluzione della situazione in Iraq<br />

avrà importanti ripercussioni nel mondo per i prossimi decenni.” Perciò, anche se era effettivamente<br />

convinto che ci si trovasse in presenza di una “minaccia della proliferazione delle armi di<br />

distruzione di massa”, insisteva nell’affermare che “spetta anzitutto al Consiglio di sicurezza la responsabilità<br />

del disarmo dell’Iraq”. E soggiungeva: “Vogliamo raggiungere questo obiettivo in maniera<br />

pacifica. È chiaro che è proprio questo che vogliono i popoli d'Europa. La guerra non è inevitabile.<br />

L'uso della forza dovrebbe essere solo l'ultima risorsa”. E tuttavia, in base alla convinzione<br />

errata di cui sopra, precisava: “È il regime iracheno che deve porre fine a questa crisi ottemperando<br />

alle richieste del Consiglio di Sicurezza”. Perciò il Consiglio europeo giungeva a riconoscere<br />

che “l'unità e la fermezza della comunità internazionale, espresse con l'adozione all'unanimità<br />

della risoluzione 1441, e il concentramento delle forze militari sono stati fondamentali per ottenere<br />

il ritorno degli ispettori. Questi fattori resteranno essenziali se vogliamo ottenere la piena cooperazione<br />

che cerchiamo”. 368 Nella propria buona fede, errata, continuava: “Ribadiamo il pieno sostegno<br />

all'attuale missione degli ispettori ONU. Essi devono disporre del tempo e delle risorse ritenuti<br />

necessari dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Tuttavia le ispezioni non possono durare<br />

indefinitamente in mancanza di una totale cooperazione da parte dell'Iraq”. Di qui la conclusione:<br />

“L'Iraq ha un'ultima opportunità per risolvere la crisi in modo pacifico. Il regime iracheno sarà il<br />

solo responsabile delle conseguenze se continua a beffarsi della volontà della comunità internazionale<br />

e non coglie quest'ultima occasione”.<br />

Si trattava di un vero ultimatum, basato sull’errata convinzione dell’effettivo possesso iracheno di<br />

armi di distruzione di massa e perciò, in mancanza della relativa consegna di esse da parte dell’Iraq,<br />

della responsabilità di quest’ultimo nell’inevitabile scatenarsi di una guerra. 369 E tuttavia restava<br />

chiara la condizione persino di quest’ultima: “spetta anzitutto al Consiglio di sicurezza la responsabilità<br />

del disarmo dell’Iraq”.<br />

Molto più chiara era la posizione del PE, espressa in quella stessa sede dal suo presidente,<br />

l’irlandese Pat Cox (PELDR):<br />

“- l'Iraq deve procedere al disarmo;<br />

- il Parlamento appoggia il lavoro degli ispettori delle Nazioni Unite;<br />

- è contrario ad azioni militari preventive unilaterali;<br />

- insiste sul rispetto del multilateralismo attraverso il processo avviato dalle Nazioni Unite;<br />

- auspica la massima espressione dell’unione di intenti dell’Europa.”<br />

Il PE era dunque anch’esso convinto che l’Iraq possedesse armi di distruzione di massa, eppure, con<br />

molta maggiore chiarezza rispetto al Consiglio europeo, sosteneva il “rispetto del multilateralismo<br />

attraverso il processo avviato dalle Nazioni Unite” (anche se esso si fosse concluso con una guerra<br />

368 E’ curiosa l’ingenuità di questa affermazione, quasi fosse plausibile che il concentramento di centinaia di miglia di<br />

soldati, dotati di effettive e anzi delle più formidabili “armi di distruzione di massa”, a decine di migliaia di chilometri<br />

dalla patria e in territorio “scomodo” (l’Arabia Saudita) potesse essere finalizzato semplicemente a “intimidire” l’Iraq.<br />

369 E’ quasi incredibile come una falsa informazione di intelligence abbia finito per condizionare mentalmente le decisioni<br />

delle massime autorità politiche mondiali nella formazione di un pregiudizio che rese logicamente impossibile<br />

qualsiasi via d’uscita pacifica dalla crisi.


avente il “via libera” dell’ONU) e perciò manifestava la propria contrarietà ad “azioni militari preventive”,<br />

esigendo su questi punti “la massima espressione dell’unione di intenti in Europa”. A<br />

quest’ultimo proposito il presidente del PE così aggiungeva, rivolgendosi ai capi di Stato o di governo<br />

degli Stati membri dell’UE, presenti nel Consiglio europeo:<br />

“E se tollereremo il perdurare delle nostre divisioni interne, saranno i dittatori come Saddam Hussein a trionfare. Se sottoporremo<br />

ad eccessiva tensione le nostre tradizionali alleanze, daremo man forte alla dittatura, non alla democrazia. Se<br />

invece crediamo che il metodo delle Nazioni Unite, la Carta dell'ONU e il Consiglio di Sicurezza rappresentino strumenti<br />

unici per creare un nuovo ordine mondiale pacifico, dobbiamo astenerci dal compiere qualsiasi atto in grado<br />

di pregiudicare la credibilità delle Nazioni Unite e la loro capacità di intervenire in qualsiasi circostanza.”<br />

E concludeva con grande severità sul tema del “futuro dell’Europa”:<br />

“Il merito del dibattito in corso è quello di aver posto in evidenza il divario tra le nostre aspirazioni e la nostra capacità<br />

di agire. Mentre discutiamo del futuro dell'Europa, dobbiamo renderci conto che le costituzioni e le istituzioni sono<br />

soltanto dei gusci vuoti in assenza di un’energica volontà e visione politica.”<br />

Il minimo comun denominatore fra le due istituzioni dell’UE, il Consiglio europeo e il PE, era comunque<br />

il riconoscimento dell’esclusiva responsabilità del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite<br />

nella decisione sul tempo di scadenza dell’ultimatum e quindi di avvio della guerra, nella “dimenticanza”,<br />

peraltro, che a contribuire a tale decisione avrebbero dovuto essere ben quattro Stati<br />

membri dell’UE presenti all’epoca in tale organismo e quindi nell’assoluta mancanza di indicazioni<br />

dell’UE verso di loro al riguardo. E subito uno dei membri del Consiglio di sicurezza, gli Stati Uniti<br />

d’America, manifestò il suo orientamento a considerare ormai scaduto l’ultimatum e quindi maturo<br />

l’avvio della guerra; di conseguenza cercò di convincere altri Paesi della NATO, anch’essi all’epoca<br />

membri del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, a unirsi al governo americano nella presentazione<br />

di una proposta di risoluzione, nella quale si affermava molto semplicemente che “l’Iraq ha<br />

mancato di afferrare l’opportunità finale offertagli dalla risoluzione 1441 (2002)” ovvero che<br />

l’ultimatum era scaduto e perciò era aperta la guerra tra l’ONU e l’Iraq. Tali Paesi erano precisamente<br />

i quattro Stati membri dell’UE predetti, che si trovarono a compiere, in tale difficile situazione,<br />

una scelta per la quale non esisteva affatto una precisa posizione comune europea, ovvero se<br />

proporre o no di dare inizio subito a una guerra, condotta dalle Nazioni Unite, contro l’Iraq. Tali<br />

quattro Stati membri finirono perciò, su una questione di capitale importanza per le sorti del mondo<br />

intero, per decidere, appena una settimana dopo la riunione del Consiglio europeo, ognuno per conto<br />

proprio, trovandosi su posizioni antitetiche tra loro e distruggendo con ciò ogni credibilità della<br />

PESC e insieme a essa dell’UE in quanto tale: il Regno Unito e la Spagna accolsero l’invito americano,<br />

la Germania e la Francia si opposero anzi alla proposta americana. Di conseguenza il Consiglio<br />

di sicurezza delle Nazioni Unite si trovò a discutere, il 27 febbraio 2003, due documenti, entrambi<br />

presentati il 24 febbraio 2003, la proposta di risoluzione di Stati Uniti d’America, Regno Unito<br />

(entrambi membri permanenti con diritto di veto) e Spagna e un memorandum di Germania,<br />

Francia e Russia (gli ultimi due, pure, membri permanenti con diritto di veto), che diceva tra l’altro:<br />

“1. Un disarmo pieno ed effettivo in accordo con le risoluzioni pertinenti del Consiglio di sicurezza resta l’obiettivo imperativo<br />

della comunità internazionale. La nostra priorità deve essere quella di conseguirlo pacificamente attraverso il<br />

regime delle ispezioni. L’opzione militare dev’essere soltanto un’ultima risorsa. Finora le condizioni per l’uso della forza<br />

contro l’Iraq non sono state adempiute:<br />

- benché rimanga il sospetto, non è stata data prova che l’Iraq possieda ancora armi di distruzione di massa o capacità in<br />

questo campo<br />

- le ispezioni hanno appena raggiunto il loro pieno regime; stanno funzionando senza ostacoli; hanno già prodotto risultati<br />

- benché non ancora pienamente soddisfacente, la cooperazione irachena sta migliorando, come attestato dagli ispettori<br />

in capo nel loro ultimo rapporto.”


In altri termini il memorandum faceva presente molto semplicemente che, in presenza di una reale<br />

possibilità per gli ispettori di compiere il loro lavoro, non si poteva aprire una guerra senza prima<br />

aver trovato una sola prova della presenza di armi di distruzione di massa in Iraq.<br />

La presenza, fra i firmatari di tale memorandum, di ben due membri permanenti con diritto di veto,<br />

rendeva automaticamente impossibile la messa ai voti della proposta di risoluzione. Di conseguenza<br />

veniva presentata il 7 marzo 2003 una seconda proposta di risoluzione, sempre da parte di Stati Uniti<br />

d’America, Regno Unito e Spagna, che diceva:<br />

“1. Riafferma la necessità di un pieno adempimento della risoluzione 1441 (2002);<br />

2. Richiama l’Iraq a prendere immediatamente le decisioni necessarie nell’interesse del suo popolo e della regione;<br />

3. Decide che l’Iraq avrà mancato di cogliere l’opportunità finale offertagli dalla risoluzione 1441 (2002), a meno che, il<br />

17 marzo 2003 o prima, il Consiglio concluda che l’Iraq ha dimostrato una cooperazione piena, incondizionata, immediata<br />

e <strong>attiva</strong> in accordo con gli obblighi di disarmo a norma della risoluzione 1441 (2002) e delle precedenti risoluzioni<br />

pertinenti, e sia ceduto il possesso all’UNMOVIC e all’IAEA di tutte le armi, di tutti i sistemi e le strutture di consegna<br />

e supporto di armi, proibite dalla risoluzione 687 (1991) e da tutte le successive risoluzioni pertinenti, e di ogni informazione<br />

riguardante la precedente distruzione di tali voci;”.<br />

La differenza consisteva nel fatto che ora si trattava davvero di un ultimatum, con scadenza non più<br />

coincidente con il tempo della sua emissione. Ma la distanza tra tale ultimatum, formalmente corretto,<br />

e la sua scadenza (dieci giorni) era, in rapporto a ciò che si esigeva fosse nel frattempo prodotto<br />

(la consegna delle armi di distruzione di massa presenti e dei registri di distruzione di quelle passate),<br />

talmente risibile, che, nei fatti, equivaleva a un’inevitabile dichiarazione di guerra. Perciò i firmatari<br />

del memorandum confermavano la propria posizione alternativa, impedendo la messa ai voti<br />

anche della seconda proposta di risoluzione.<br />

In questa perdurante paralisi del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e di discredito della<br />

stessa ONU, si svolgeva l’incontro, promosso da quest’ultima, dell’Aja del 10-11 marzo 2003 dedicato<br />

alla questione cipriota, il quale falliva così miseramente. A causa della posizione negativa del<br />

leader turco-cipriota non era stato possibile raggiungere un accordo per attuare il piano di referendum<br />

simultanei (proposto dal segretario generale dell’ONU), e perciò ai Turco-ciprioti e ai Grecociprioti<br />

era stata negata l’opportunità di decidere per se stessi su un piano che avrebbe permesso la<br />

riunificazione di Cipro e di conseguenza non sarebbe stato possibile conseguire un accordo complessivo<br />

prima del 16 aprile 2003 ossia della firma ad Atene del trattato d’adesione di Cipro all’UE.<br />

Scattava così la clausola stabilita dall’UE al Consiglio europeo di Helsinki del dicembre 1999 ovvero<br />

la previsione della firma del trattato di adesione di Cipro all’UE anche senza una preliminare riunificazione<br />

politica dell’isola.<br />

In questa situazione drammatica di totale spaccatura del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite,<br />

che trovava al suo centro il dissidio insanabile fra quattro Stati membri dell’UE (due da una parte e<br />

due dall’altra), il PE dava luogo, il 12 marzo 2003, a una memorabile discussione sull’Iraq. Essa era<br />

preceduta da due interventi, uno a nome del Consiglio e l’altro a nome della Commissione. Nel suo<br />

intervento, il presidente del Consiglio (il ministro degli esteri greco Georgios Andreas Papandreou<br />

(PASOK)) confermava: “La responsabilità primaria del disarmo dell’Iraq spetta al Consiglio di sicurezza.<br />

Naturalmente, noi – l’Unione – abbiamo i nostri pareri, ma è in sede di Nazioni Unite che<br />

si adottano le decisioni.” Ovvero: l’UE si rifiutava di prendere posizione sull’argomento, ma ribadiva<br />

che un’eventuale guerra avrebbe comunque dovuto essere decisa dal Consiglio di sicurezza delle<br />

Nazioni Unite. L’intervento del commissario per le relazioni esterne, il britannico Chris Patten<br />

(conservatore), era molto più esplicito, affermando fra l’altro:<br />

- occorreva che “tutti gli Stati membri riconoscano quello che le persone che svolgono effettivamente il lavoro della<br />

PESC hanno capito da molto tempo; ossia che un mero approccio intergovernativo è una ricetta che produce fragilità e<br />

mediocrità, una politica estera europea del minimo comun denominatore. Questa constatazione diventerà sempre più<br />

palese via via che l’Unione accetterà nuove adesioni”<br />

- anche per una PESC delegata ai cinque maggiori Stati membri: “in assenza di migliori meccanismi per indirizzare la<br />

volontà politica comune, essi hanno altrettante probabilità di condurre una politica di alto profilo incoerente”


- per quanto riguarda l’ONU: “Una lezione che si può già trarre dall’evoluzione della situazione – un aspetto rilevato<br />

dal ministro – è l’importanza di promuovere il ruolo e l’autorità delle Nazioni Unite. E’ nell’interesse del mondo intero<br />

che il potere sia limitato da norme globali ed esercitato solo con il consenso internazionale. Quali altre fonti di legittimità<br />

internazionale esistono, a parte le Nazioni Unite, per un intervento militare? Su quali altre basi è davvero possibile<br />

affrontare il problema delle armi di distruzione di massa? Non mi riferisco solo al caso specifico dell’Iraq, ma alla questione<br />

più ampia. Il rifiuto degli Stati Uniti di procedere alla ratifica del Trattato sull’interdizione totale degli esperimenti<br />

nucleari di sicuro non rafforza il controllo dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica e di altre organizzazioni<br />

che cercano di prevenire la proliferazione della tecnologia nucleare in Iran, Corea del Nord e altrove. Ho altresì<br />

deplorato la decisione degli Stati Uniti di recedere con tanta leggerezza dal Trattato sui missili antibalistici. Tali decisioni<br />

– e ve ne sono state molte – trasmettono un segnale pericoloso riguardo al valore che gli Stati Uniti attribuiscono<br />

agli impegni internazionali. Questa è di sicuro una cruciale battaglia persa in quella che alcuni chiamano<br />

la “guerra contro il terrorismo”.<br />

- “Sono seriamente preoccupato – e so che molti parlamentari condividono la mia preoccupazione – per i potenziali<br />

danni collaterali derivanti dai recenti avvenimenti e da un’eventuale guerra. I nostri sforzi congiunti vanno indirizzati<br />

verso il tentativo di ridurre al minimo tali effetti potenziali. Non mi riferisco solo alla morte e alla distruzione provocate<br />

dalla guerra stessa o alle conseguenze destabilizzanti per i Paesi confinanti con l’Iraq, ma anche ai danni potenziali, per<br />

esempio per l’autorità delle Nazioni Unite, per la NATO e per le relazioni transatlantiche, che stanno attraversando – a<br />

dir poco – una fase molto difficile.”<br />

- per quanto riguarda i Paesi candidati: “Tuttavia, nei termini del Trattato sull’Unione europea, essi assumono la responsabilità<br />

di astenersi “da qualsiasi azione … tale da nuocere [all’efficacia dell’Unione] come elemento di coesione nelle<br />

relazioni internazionali”. Gli Stati membri attuali possono aver dato un pessimo esempio, ma ciò non riduce la responsabilità<br />

gravante su tutti gli Stati membri, compresi i Paesi candidati, di rispettare tale obbligo imposto dal Trattato.”<br />

- per quanto riguarda il rapporto con il mondo islamico: “Alcuni affermano che per sconfiggere il terrorismo è necessario<br />

sconfiggere Saddam Hussein. Questo può essere o meno vero, alcuni di noi sono come minimo agnostici al riguardo.<br />

Ma ciò di cui sono assolutamente certo è che invadere l’Iraq senza riuscire a portare la pace in Medio Oriente creerebbe<br />

proprio il tipo di condizioni in cui il terrorismo ha grandi probabilità di prosperare. La verità – e dobbiamo affrontare<br />

questo fatto – è che nessuno di noi sarebbe immune dalle conseguenze di una tale evoluzione.”<br />

Dopo questa franca e incredibilmente preveggente requisitoria da parte di un membro della Commissione,<br />

che era esponente del partito conservatore britannico (nonché futuro membro della Camera<br />

dei Lord), iniziava la discussione che vedeva i primi tre interventi svolti dai capi rispettivi dei tre<br />

principali gruppi parlamentari, ossia il tedesco Hans-Gert Poettering per il PPE, lo spagnolo Enrique<br />

Barón Crespo per il PSE e il britannico Graham Watson per il PESDR. Poettering affermava fra<br />

l’altro:<br />

“parlo a nome di tutto il mio gruppo quando affermo che siamo del parere che la nostra forza morale consista nel rispetto<br />

del diritto. Per questo motivo affermiamo, proprio come hanno fatto il Commissario Patten e il Ministro Papandreou,<br />

che qualsiasi azione venga avviata nei confronti dell’Iraq va messa in atto nel quadro della comunità internazionale<br />

e del diritto internazionale.”<br />

Barón Crespo sosteneva tra l’altro:<br />

“A nostro parere, una guerra preventiva non garantisce la sicurezza mondiale né è conforme al diritto internazionale. Al<br />

contrario, ci metterebbe nelle mani di coloro che realmente sostengono lo scontro tra civiltà e un attacco basato su queste<br />

premesse potrebbe solo alimentare il terrorismo internazionale. La guerra preventiva come strumento della politica<br />

di difesa non è compatibile con la nostra comunità di valori, che si fonda sul rispetto reciproco tra nazioni e popoli, e<br />

costituisce un’inequivocabile violazione del principio del multilateralismo e dell’attuale diritto internazionale, sostenuto<br />

dalle Nazioni Unite, le quali – è bene ricordarlo – sono state create a San Francisco nel 1945, fondamentalmente grazie<br />

agli sforzi degli Stati Uniti.<br />

Come Kofi Annan, ribadiamo che un’eventuale azione unilaterale violerebbe la Carta delle Nazioni Unite. L’ambizione<br />

della comunità internazionale di garantire la sicurezza mondiale deve basarsi su politiche preventive, non su attacchi<br />

preventivi. Dobbiamo essere più ambiziosi e più risoluti, se intendiamo rimuovere le cause della disuguaglianza, della<br />

violenza e della povertà.<br />

Mi chiedo, come tutti, quali sarebbero le conseguenze di una rapida vittoria militare. Quali piani vengono proposti per<br />

affrontare i problemi estremamente complessi della regione? Stiamo cercando di conseguire la rapida democratizzazione<br />

di una nazione – tracciata a tavolino dopo la Prima guerra mondiale e composta di sunniti, sciiti, curdi e turcomanni<br />

– o di instaurare un proconsolato neocoloniale, che può essere sostenuto solo con la forza delle armi?”<br />

Infine Watson affermava tra l’altro:


- “non condividiamo il parere del Presidente degli Stati Uniti, secondo cui in questa fase la guerra contro l’Iraq è giustificata.<br />

La relazione presentata da Hans Blix al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite venerdì scorso non fornisce motivi<br />

per un intervento militare immediato. Al contrario, annuncia un considerevole disarmo e, pur riconoscendo che la cooperazione<br />

non è stata affatto immediata, la considera <strong>attiva</strong> e persino solerte. La relazione dimostra che le ispezioni producono<br />

risultati tangibili, sufficienti per concedere i mesi supplementari necessari per completare il disarmo iracheno.<br />

Togliere il terreno ad Hans Blix e ricorrere alla guerra ora sarebbe incomprensibile per l’opinione dei moderati di tutto<br />

il mondo.<br />

Vorrei invitare i nostri amici americani a fermarsi a riflettere, anche solo per pochi minuti, su alcune questioni fondamentali.<br />

Un cambio di regime in Iraq contribuirà a consegnare alla giustizia i terroristi di Al-Qaeda? Un cambiamento<br />

radicale in uno Stato arabo secolarizzato promuoverà la causa della pace tra Israele e Palestina? Il costo della vigilanza,<br />

della flessibilità e della pazienza continue non sarebbe forse inferiore al costo della guerra e della ricostruzione? Non<br />

dobbiamo sottovalutare gli incidenti di guerra, non solo gli incidenti umani, anche se sarebbero numerosi e costosi, ma<br />

anche gli incidenti diplomatici, dei quali la rottura dei negoziati di riconciliazione a Cipro è forse il primo.”<br />

- “Poiché hanno scelto la via delle Nazioni Unite per ottenere il disarmo dell’Iraq, decisione all’epoca accolta con grande<br />

favore dal mio gruppo, gli Stati Uniti devono tener fede all’approccio multilaterale. L’inosservanza da parte degli<br />

Stati Uniti di una decisione dell’ONU contraria a un intervento militare preventivo sferrerebbe un colpo potenzialmente<br />

fatale alle Nazioni Unite stesse. Non importa se tale decisione viene raggiunta a causa dell’incapacità di raccogliere i<br />

nove voti necessari o del veto francese o russo. L’opposizione a un veto sarà sempre meno ragionevole dell’imposizione<br />

di un veto. Tuttavia, le regole sono regole, e il sostegno delle Nazioni Unite a un intervento militare non dev’essere aggirato<br />

in ragione del fatto che un veto è “irragionevole”.<br />

Sarebbe molto meglio rinviare la votazione di un’eventuale nuova risoluzione finché non si riuscirà a raggiungere un<br />

risultato consensuale. Gli elementi per il consenso sono facilmente individuabili, se solo si riuscissero a mettere da parte<br />

le esigenze artificiose di un calendario militare prestabilito.”<br />

- “In conclusione, a Londra, Washington e Madrid si afferma che la guerra potrebbe essere breve, rapida e vittoriosa.<br />

Con il sostegno delle Nazioni Unite ciò potrebbe effettivamente accadere, ma in assenza di tale sostegno potremmo trovarci<br />

sull’orlo di un’altra guerra dei cent’anni, che potrebbe provocare la caduta di regimi ben oltre l’Iraq.”<br />

In conclusione tutte e tre le istituzioni comunitarie, Consiglio, Commissione e PE (almeno per<br />

quanto riguarda i tre principali gruppi parlamentari), prendevano, di fatto, una posizione comune<br />

almeno per quanto riguarda questo punto: nessuna guerra unilaterale senza il preventivo assenso del<br />

Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite o persino contro di esso.<br />

Frattanto la Convenzione poneva l’ultimo tassello alla sua fusione dei trattati: il Praesidium decideva<br />

infatti, il 14 marzo 2003, definitivamente, di non coinvolgere nella fusione dei trattati il trattato<br />

CEEA o EURATOM, anche se proponeva di sopprimere la personalità giuridica anche di tale Comunità,<br />

sostituendola anch’essa con l’unica personalità giuridica attribuita soltanto all’UE.<br />

Tuttavia la perdurante crisi della PESC (con la contrapposizione fra quattro Stati membri dell’UE in<br />

seno al Consiglio di sicurezza) poneva ancora più in risalto la necessità di rilanciare la stessa PESC<br />

attraverso un deciso rafforzamento della PESD e della sua capacità di realizzare operazioni militari<br />

di gestione delle crisi, soprattutto in Europa. Ma tale capacità era possibile solo attraverso un preciso<br />

accordo con la NATO (e dunque con gli Stati Uniti d’America), volto a realizzare uno sfruttamento<br />

delle capacità operative del Patto atlantico in ordine alla conduzione di operazioni militari<br />

sotto la responsabilità dell’UE, rilevando precedenti operazioni militari della NATO in aree di crisi,<br />

soprattutto nei Balcani occidentali. Così, allo scopo di porre in essere la prima operazione militare<br />

dell’UE, prevista in Macedonia, veniva firmato ad Atene il 14 marzo 2003 il Patto di sicurezza tra<br />

l’UE e la NATO, che, se metteva l’UE in condizione di dare la prima prova concreta della conseguita<br />

capacità militare della PESD, la poneva peraltro in un quadro di talmente stretta collaborazione<br />

politico-militare con la NATO e perciò con gli Stati Uniti d’America, da impedirle, nei confronti<br />

di questi ultimi e persino di due Stati membri dell’UE, il Regno Unito e la Spagna, di andare al di là<br />

di una mera dichiarazione di principio per quanto riguarda la questione irachena. E ciò finiva quindi<br />

per valere anche per lo stesso Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.<br />

Così, tre giorni dopo, allo scadere dell’ultimatum previsto dalla seconda proposta di risoluzione, il<br />

17 marzo 2003, i firmatari di essa, gli Stati Uniti d’America, il Regno Unito e la Spagna, comunicavano<br />

il ritiro ufficiale di tale proposta e la decisione di assumere “propri provvedimenti” per disarmare<br />

l’Iraq ossia di scatenare una propria guerra, unilaterale e preventiva, contro l’Iraq. Come dire:


l’ultimatum proposto era in realtà il “loro” ultimatum già deciso e come tale valido non solo verso<br />

l’Iraq, bensì verso chiunque (ONU compresa) osasse opporsi a esso; perciò l’effetto della scadenza<br />

dell’ultimatum era il seguente: era istituito un potere, alternativo a e sostitutivo di quello dell’ONU,<br />

che si assumeva il diritto, già proprio di essa, di decidere se e quando muovere guerra a questo o a<br />

quel Paese, in base a proprie insindacabili valutazioni della pericolosità di quest’ultimo. E di tale<br />

potere si facevano sostenitori due Stati membri dell’UE, che avevano sottoscritto (appena un mese<br />

prima) la dichiarazione unanime dell’ultimo Consiglio europeo che “spetta anzitutto al Consiglio di<br />

sicurezza la responsabilità del disarmo dell’Iraq”. Tre giorni dopo, il 20 marzo 2003, iniziava un<br />

conflitto, che continua, sotto forme diverse, tuttora: la guerra in Iraq. 370<br />

Fu un evento talmente grave per l’ONU, l’OSCE, l’OCSE, la NATO e la stessa UE, che paradossalmente<br />

l’unico atteggiamento possibile fu quello di… tacere, per non aggravare ulteriormente i<br />

rapporti sia entro quelle organizzazioni internazionali, sia entro la stessa UE, rinviando a un imperscrutabile<br />

“dopoguerra” il ristabilimento del diritto internazionale nell’ONU e dell’unità della PESC<br />

nell’UE. Tale decisione, per l’UE, fu istantanea, visto che l’attacco all’Iraq coincise con l’apertura<br />

del Consiglio europeo di Bruxelles del 20-21 marzo 2003. In previsione e subito prima di esso, nella<br />

stessa giornata del 20 marzo 2003, veniva indetta d’urgenza una discussione nel PE sulla guerra<br />

in Iraq. Prendevano la parola ancora una volta gli stessi protagonisti della precedente discussione<br />

parlamentare di otto giorni prima. Il presidente del Consiglio, Papandreou, affermò la necessità in<br />

primo luogo che “la crisi in Iraq […] debba ora spingere l’Unione Europea a trarre importanti conclusioni<br />

sulle proprie istituzioni, sul nostro ruolo, sulle sfide che ci troviamo di fronte e su come<br />

possiamo affrontare in modo più efficace la situazione”, evidenziando come la guerra in Iraq avesse<br />

portato allo scoperto la questione dell’identità stessa dell’UE e la necessità di una sua profonda riforma<br />

istituzionale. Il commissario per le relazioni esterne Patten poneva invece l’accento sulle relazioni<br />

dell’UE con gli Stati Uniti, dicendo tra l’altro:<br />

“Avremo maggiori probabilità di poter conseguire la maggior parte degli obiettivi che vogliamo realizzare come Europei<br />

se sapremo collaborare con gli Stati Uniti. Del pari, gli Stati Uniti avranno maggiori probabilità di realizzare la<br />

maggior parte di ciò che vogliono se sapranno collaborare con l’Unione Europea. Infine, è indiscutibile che al mondo è<br />

più utile in termini di prosperità, sicurezza e stabilità che l’America e l’Unione Europea lavorino congiuntamente.”,<br />

e ponendo tuttavia una ben precisa condizione a tale collaborazione transatlantica:<br />

“Dobbiamo tornare al modo in cui il mondo era governato, o non governato, nel XIX secolo – un mondo di sovranità<br />

nazionali rivali e di equilibri di potere? O vogliamo cercare di ricostruire le istituzioni e le consuetudini della governance<br />

globale faticosamente conquistate negli ultimi 50 anni? Questa è la scelta netta che dobbiamo affrontare. Io<br />

so già da che parte schierarmi.”<br />

Il dibattito parlamentare segnalava invece una drammatica spaccatura tra il PPE, ormai orientato<br />

verso il “nuovo ordine” mondiale, da un lato, e il PSE e il PELDR, apertamente critici verso la<br />

guerra preventiva e unilaterale in Iraq. Il capogruppo del PPE, Poettering, infatti (nella completa<br />

dimenticanza ormai della sua impegnativa affermazione in aula solo otto giorni prima che “qualsiasi<br />

azione venga avviata nei confronti dell’Iraq va messa in atto nel quadro della comunità internazio-<br />

370 L’invasione dell’Iraq propriamente detta vide peraltro la partecipazione di forze armate esclusivamente del Regno<br />

Unito, fra tutti gli Stati membri dell’UE. La posizione del governo italiano di allora era a favore della guerra in Iraq,<br />

preventiva e unilaterale. Tuttavia la Costituzione italiana, all’articolo 11, afferma: “L'Italia ripudia la guerra come strumento<br />

di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in<br />

condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la<br />

giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.” In altri termini la<br />

stessa Costituzione italiana afferma la legittimità di una guerra solo se determinata espressamente da una risoluzione del<br />

Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Perciò il governo italiano di allora emise la stessa dichiarazione emessa dal<br />

governo italiano nel settembre 1939 ossia quella della “non belligeranza”, con un significato su per giù del tipo; “vorremmo,<br />

ma non possiamo” attaccare ora l’Iraq, come neppure, nel 1939, la Francia e la Gran Bretagna.


nale e del diritto internazionale”) sosteneva, fra l’altro, con accenti di assoluto lirismo nella fiducia<br />

incondizionata al “capo”:<br />

“Papa Giovanni Paolo II ha detto tramite il suo portavoce: “Chi decide che sono esauriti tutti i mezzi pacifici che il diritto<br />

internazionale mette a disposizione, si assume una grave responsabilità di fronte a Dio, alla sua coscienza e alla storia.”<br />

Il presidente degli Stati Uniti George Bush […] si assume senza dubbio tale responsabilità e, soprattutto, l’assume<br />

insieme ad altri. Oggi il presidente Bush ha detto: “Non abbiamo altra ambizione in Iraq se non quella di eliminare una<br />

minaccia e restituire il controllo di questo Paese al suo popolo.” Se questo è l’obiettivo, il nostro gruppo lo appoggia<br />

decisamente; si tratta di un argomento su cui non si può essere neutrali.”<br />

In altri termini: ciò che contava da allora in poi non era l’ONU, bensì le assicurazioni del presidente<br />

degli Stati Uniti, rispetto al quale era ammissibile un solo atteggiamento per l’UE: credergli senza<br />

riserve e seguirlo sino in fondo. Il capogruppo del PSE, Barón Crespo, si limitava, invece, a dire:<br />

“Di fronte a questa gravissima situazione, invitiamo ancora una volta i governi degli Stati membri dell’Unione e dei futuri<br />

Paesi membri a non partecipare a una guerra preventiva unilaterale, moralmente e legalmente dubbia e contraria<br />

all’opinione della maggioranza degli Europei.”<br />

Nella perdurante ingenuità di tutti circa ciò che stava per accadere, l’esponente socialista, pur così<br />

critico nei confronti dell’operazione politica americana di “spartizione del mercato della ricostruzione<br />

dell’Iraq” a favore di imprese americane in conflitto d’interessi con lo stesso vicepresidente<br />

degli Stati Uniti e dell’intento americano di “ridisegnare l’intera mappa del Medio Oriente”, proponeva<br />

peraltro che “il dittatore debba essere consegnato alla giustizia del Tribunale penale internazionale”,<br />

come se proprio la potenza mondiale che aveva rifiutato anche quest’ultimo potesse accettare<br />

di dargli un simile riconoscimento.<br />

Il capogruppo del PESDR, Watson, infine, aggiungeva un’importante osservazione sull’UE:<br />

“Questa crisi potrebbe rivelarsi un punto di svolta, se i nostri capi di Stato e di governo accetteranno finalmente la necessità<br />

di una politica estera comune e di una partecipazione unitaria dell’Unione europea al Consiglio di sicurezza<br />

dell’ONU, perché il problematico tribalismo dell’Europa significa che Washington avrà la meglio. Se c’è una lezione<br />

da imparare da questa crisi a Londra, Parigi, Berlino e Madrid, è che, se avessimo una politica estera e di sicurezza comune,<br />

prevarrebbe la nostra visione del mondo.”<br />

Ormai la frattura attraversava dunque lo stesso PE e si poneva invece un grande interrogativo su<br />

quale fosse la “visione del mondo” europea.<br />

I risultati di tale discussione parlamentare sulla guerra in Iraq furono portati al Consiglio europeo di<br />

Bruxelles del 20-21 marzo 2003 dal discorso del presidente del PE, Cox, che, nello stesso giorno 20<br />

marzo 2003, così si esprimeva davanti al Consiglio europeo:<br />

“E’ mio dovere sottolineare che il Parlamento Europeo ha sempre e fermamente preferito considerare la guerra una soluzione<br />

estrema e riporre la propria fiducia nella diplomazia multilaterale e nelle ispezioni degli armamenti sotto l’egida<br />

delle Nazioni Unite, nella convinzione che non fossero state esperite tutte le loro possibilità [come recitava lo stesso<br />

memorandum franco-tedesco-russo consegnato all’ONU]. E’ questo a tutt’oggi il parere di una maggioranza. Su questo<br />

tema, tuttavia, il Parlamento, riunito quest’oggi in seduta plenaria straordinaria a Bruxelles, si è trovato diviso, esattamente<br />

come il Consiglio europeo si è rivelato un “Consiglio diviso”. […]<br />

Le difficoltà degli ultimi giorni e settimane hanno rappresentato una sconfitta per un efficace multilateralismo sotto<br />

l’egida delle Nazioni Unite, una sconfitta per l’Unione Europea e una sconfitta per i rapporti transatlantici. […]<br />

Mi sia concesso rammentare ciò che il Trattato si attende dagli Stati membri: “Gli Stati membri sostengono <strong>attiva</strong>mente<br />

e senza riserve la politica estera e di sicurezza dell’Unione in uno spirito di lealtà e di solidarietà reciproca. Gli Stati<br />

membri operano congiuntamente per rafforzare e sviluppare la loro reciproca solidarietà politica. Essi si astengono da<br />

qualsiasi azione contraria agli interessi dell’Unione o tale da nuocere alla sua efficacia come elemento di coesione<br />

nelle relazioni internazionali. Il Consiglio provvede affinché questi principi siano rispettati.” (Articolo 11, paragrafo 2,<br />

del Trattato sull’Unione Europea). Ecco ciò che sancisce il Trattato.<br />

Nonostante l’impegno eccezionale della Presidenza greca, siamo stati incapaci di realizzare questo spirito di solidarietà<br />

reciproca. Non deve dunque sorprenderci il fatto che altri scelgano di ignorarci se noi stessi abbiamo deciso di ignorarci<br />

reciprocamente.


Ci troviamo nel momento buio di un disaccordo senza precedenti sul modo di procedere. Siamo sbalorditi e ci chiediamo<br />

come sia possibile essere arrivati a una tale situazione. E ci chiediamo altresì se si tratta di un’anomalia o di un triste<br />

presagio per il futuro.”<br />

Dopo questa chiarissima e impietosa analisi della grave situazione e degli ancor più gravi rischi per<br />

il futuro, il presidente del PE affermava: “E’ tempo di definire insieme una tabella di marcia per riscoprire<br />

che cosa significa effettivamente essere Europei”. Tale tabella di marcia prevedeva: 1)<br />

l’allargamento; 2) la stabilizzazione dei Balcani occidentali; 3) “un multilateralismo efficace sotto<br />

l’egida delle Nazioni Unite” 371 ; 4) la “qualità dei rapporti transatlantici” 372 ; 5) il rilancio del processo<br />

di pace in Medio Oriente.<br />

Il vero e proprio Consiglio europeo di Bruxelles del 20-21 marzo 2003 si trincerava invece dietro il<br />

proprio ordine del giorno, che, come ogni riunione di primavera, prevedeva esclusivamente l’esame<br />

dello stato di realizzazione della strategia di Lisbona. Le conclusioni riportavano peraltro, in appendice,<br />

le seguenti considerazioni sull’Iraq per quanto riguarda “il piano internazionale”:<br />

“Sul piano internazionale:<br />

• ribadiamo il nostro impegno riguardo al ruolo fondamentale delle Nazioni Unite nel sistema internazionale e alla responsabilità<br />

primaria del Consiglio di sicurezza per il mantenimento della pace e della stabilità internazionali;<br />

• siamo determinati a rafforzare la capacità dell'Unione europea nel contesto della PESC e della PESD;<br />

• restiamo convinti che dobbiamo rafforzare il partenariato transatlantico, che resta una priorità strategica fondamentale<br />

per l'Unione europea; a tale scopo, è necessario un dialogo costante sulle nuove sfide regionali e mondiali;<br />

• continueremo a contribuire a rafforzare ulteriormente la coalizione internazionale contro il terrorismo;<br />

• intensificheremo inoltre le nostre attività per una politica multilaterale globale, coerente ed efficace della comunità internazionale<br />

al fine di prevenire la proliferazione delle armi di distruzione di massa.”<br />

Si trattava del tentativo di ricomporre l’UE e la in particolare la PESC su questi obiettivi gerarchicamente<br />

disposti: 1) la riconferma delle Nazioni Unite e del loro Consiglio di sicurezza come primario<br />

punto di riferimento della PESC; 2) il rafforzamento della PESC e della PESD; 3) il dialogo<br />

costante con gli Stati Uniti; 4) un allargamento della “coalizione internazionale contro il terrorismo”;<br />

5) un nuovo approccio multilaterale nella prevenzione della “proliferazione delle armi di<br />

massa”. Intesa dinamicamente, tale strategia unitaria, basata sulla centralità delle Nazioni Unite e<br />

del Consiglio di sicurezza e alimentata da posizioni e azioni comuni della PESC e da operazioni civili<br />

e militari della PESD, avrebbe dovuto cercare di ricondurre il principale alleato ossia gli Stati<br />

Uniti, attraverso un dialogo costante, a una politica estera più attenta al coinvolgimento del maggior<br />

numero possibile di Paesi nella lotta contro il terrorismo e a un approccio multilaterale nella prevenzione<br />

della proliferazione delle armi di distruzione di massa, in modo da evitare il ripetersi del<br />

baratro apertosi in quei giorni in Iraq. Si trattava dunque di un complesso compromesso tra posizioni<br />

opposte, che dava luogo a una scommessa quanto mai difficile a vincersi, ma che aveva il pregio<br />

di far ritrovare tutti gli Stati membri, al di là delle pesanti responsabilità storiche di alcuni, riuniti<br />

nella comune fedeltà ai principi della PESC e nella comune volontà di resuscitarla e in particolare di<br />

rafforzare la PESD, dando prova tangibile della nuova capacità militare dell’UE. A quest’ultimo<br />

proposito il Consiglio europeo approvava “l'avvio dell'operazione militare dell'UE nell'ex Repubbli-<br />

371 A questo proposito Cox affermava: “Le nostre aspirazioni debbono spingersi oltre il mero cliché “gli Stati Uniti<br />

combattono, l’ONU sfama, l’UE finanzia” [come avrebbe voluto poi l’amministrazione americana in Iraq]. L’Europa<br />

dispone di una valida esperienza nel mantenimento della pace sostenibile. Sappiamo che gli strumenti tecnologici in<br />

grado di vincere le guerre sono molto più avanzati degli strumenti più delicati necessari per vincere la pace. E’ questa<br />

la lezione che abbiamo appreso dalle esperienze in Afghanistan, in Bosnia, nel Kosovo e altrove.” Si trattava di una sfida<br />

anticipatrice della situazione che si sarebbe prodotta in Iraq: “vincere la guerra” non sarebbe equivalso affatto a<br />

“vincere la pace”. E qui si sarebbe allora aperto lo spazio per l’”esperta” Europa “di rafforzare l’assistenza alla ricostruzione<br />

economica e politica dell’Iraq alla fine della guerra”. Ma la condizione posta da Cox (“se ciò avverrà sotto l’egida<br />

delle Nazioni Unite”) non sarebbe stata soddisfatta.<br />

372 A questo proposito Cox sosteneva: “E’ nel nostro comune interesse assicurare che gli Stati Uniti siano impegnati e<br />

legati alla comunità internazionale ed evitare che imbocchino unilateralmente una strada definita esclusivamente da interessi<br />

personali dettati dall’isolazionismo”. La strada non solo sarebbe stata imboccata, ma si sarebbe rivelata, alla fine,<br />

un vicolo cieco.


ca jugoslava di Macedonia, che il 31 marzo 2003 farà seguito all'operazione "Allied Harmony" della<br />

NATO.” La scommessa era cominciata, nell’interesse dell’UE e del mondo intero.<br />

Il 31 marzo 2003 iniziava la prima operazione militare UE di gestione delle crisi, l’operazione<br />

“Concordia” in Macedonia, e dunque la prima occasione dell’UE di mostrare al mondo la specificità<br />

dell’approccio europeo nella gestione delle crisi e insieme di contribuire in tal modo ad accelerare<br />

il processo di adesione di un Paese europeo all’UE.<br />

Frattanto la Convenzione procedeva in modo sempre più serrato nei suoi lavori: il Praesidium presentava,<br />

il 2 aprile 2003, il testo della Parte III (Disposizioni generali e finali), della quale faceva<br />

parte l’articolo G “Adozione, ratifica ed entrata in vigore”, nel quale si riprendeva la normale procedura<br />

di ratifica ed entrata in vigore. Nonostante il PPE e la stessa Commissione avessero riproposto<br />

l’idea di Spinelli di stabilire una soglia al di là della quale il trattato costituzionale sarebbe entrato<br />

comunque in vigore per gli Stati che lo avessero ratificato, il Praesidium riteneva di escludere tale<br />

proposta, in quanto “essa pone dei problemi rispetto ai trattati esistenti nel caso in cui uno o più<br />

Stati firmatari non ratifichino il trattato costituzionale. Infatti” in tal caso “occorre stabilire quale sarebbe<br />

il destino dei trattati attuali.” Infatti, secondo il Praesidium, “in mancanza di un’abrogazione<br />

dei vecchi trattati con l’accordo di tutti gli Stati membri dell’Unione, detti trattati resterebbero in<br />

vigore.” Perciò la conclusione era la necessità della ratifica del trattato costituzionale da parte di tutti<br />

gli Stati membri. Con questa decisione si definiva quindi completamente l’orizzonte in cui si sarebbe<br />

svolto il processo di ratifica del TCE.<br />

E anche in tema di allargamento si perveniva alla svolta definitiva: il PE approvava, il 9 aprile<br />

2003, l’adesione all’UE dei dieci Paesi candidati, proposta dalla Commissione e già approvata dal<br />

Consiglio.<br />

E così si perveniva alla firma, ad Atene il 16 aprile 2003, del Trattato di adesione all’Unione<br />

Europea della Repubblica ceca, dell’Estonia, di Cipro, 373 della Lettonia, della Lituania,<br />

dell’Ungheria, di Malta, della Polonia, della Slovenia e della Slovacchia. Cominciava così il<br />

conto alla rovescia del varo dell’UE a 25 Stati membri.<br />

In occasione e subito prima della firma di tale trattato era convocato, in riunione informale, il<br />

Consiglio europeo di Atene del 16 aprile 2003. All’apertura di esso il suo presidente, Simitis, invitava<br />

il presidente del PE, Cox, a rivolgere al Consiglio europeo il consueto discorso, incentrandolo<br />

peraltro sul “futuro dell’Europa” anche dopo il trattato d’adesione e l’allargamento effettivo, e<br />

quindi sui lavori in corso alla Convenzione europea. Il presidente del PE, Cox, accoglieva l’invito,<br />

descrivendo la Convenzione come “indispensabile per garantire che un’Europa composta da 25 Stati<br />

membri possa funzionare correttamente.” Elogiando le riforme realizzate dai Paesi candidati ai<br />

fini della loro entrata nell’UE, invitava a tal proposito l’attuale UE a 15 impegnata nella Convenzione:<br />

“Anche noi dobbiamo dimostrare coraggio e una matura capacità di compromesso.” Inoltre<br />

sottolineava che, del resto, “il metodo della Convenzione” era riuscito, grazie alla stimolazione del<br />

dibattito pubblico e all’apertura, a pervenire a conclusioni “in molti casi più radicali dei risultati di<br />

Amsterdam e di Nizza.” I principali risultati raggiunti, riferiva Cox, erano che “la Convenzione dovrà<br />

sfociare in un trattato costituzionale. La Carta dei <strong>diritti</strong> fondamentali sarà integrata in tale trattato.”<br />

Inoltre v’era stata una cospicua rielaborazione delle disposizioni “in tema di giustizia e affari<br />

interni” ed era stato assegnato un ruolo maggiore ai Parlamenti nazionali nel garantire la sussidiarietà.<br />

Tuttavia, memore che il risultato dei lavori della Convenzione ossia il progetto di trattato costituzionale<br />

avrebbe dovuto passare al vaglio di un’apposita CIG, Cox ammoniva il Consiglio europe-<br />

373 L’adesione di Cipro equivaleva ufficialmente all’entrata di tutta l’isola nell’UE; tuttavia, in presenza della perdurante<br />

divisione di fatto dell’isola in due parti, quella settentrionale, turco-cipriota, sotto l’autorità politico-militare della Turchia,<br />

e quella meridionale, greco-cipriota, sotto l’autorità effettiva della Repubblica di Cipro, solo questa parte, meridionale,<br />

dell’isola sarebbe entrata anche di fatto nell’UE, a meno che non si fosse nel frattempo prodotta un’eventuale<br />

riunificazione politica dell’isola prima del 1° maggio 2004.


o: “L’Europa di domani non potrà permettersi di fare marcia indietro e di tornare alle attuali disposizioni<br />

dei trattati.” 374 Guardando ancora oltre, Cox aggiungeva:<br />

“In ultima analisi sarà l’opinione pubblica a valutare i risultati. I nostri cittadini non s’interessano un granché alla teoria<br />

istituzionale. I meccanismi decisionali, le procedure di nomina, le istituzioni e le loro interazioni non sollevano entusiasmi.<br />

I cittadini giudicheranno la relazione finale della Convenzione in base a domande d’una semplicità disarmante.<br />

Funzionerà? Aumenterà la nostra capacità di fare? Favorirà la prosperità? Aumenterà la sicurezza? Aumenterà la nostra<br />

influenza nel mondo? E’ efficace? E’ comprensibile? Ma soprattutto, come parlamentare, sono sicuro che i cittadini si<br />

chiederanno: pone la democrazia, la legittimità e la trasparenza al centro stesso della costruzione europea?”<br />

In base a tale requisito fondamentale, Cox si apprestava quindi a rispondere alle domande specifiche<br />

rivoltegli dal presidente del Consiglio europeo in merito si lavori della Convenzione. Ammettendo<br />

che quest’ultima doveva concentrarsi sulle istituzioni, anche se esse erano solo “una parte del<br />

tutto”, e che quindi quello era il momento di discutere proprio delle istituzioni, Cox sintetizzava la<br />

posizione del PE nel “nostro risoluto sostegno al metodo comunitario, senza il quale l’Unione non<br />

avrebbe mai fatto registrare un successo del processo d’integrazione come quello finora ottenuto.”<br />

Quindi ricordava che il PE aveva rinunciato a redigere un progetto di Costituzione, affidando invece<br />

tale compito alla Convenzione. Tuttavia aggiungeva di essere in grado di riportare le posizioni comuni<br />

dei membri del PE presenti alla Convenzione sulle questioni sollevate dal presidente del Consiglio<br />

europeo, Simitis.<br />

La prima questione rifletteva l’estremo bisogno di unità d’azione del Consiglio europeo, soprattutto<br />

in seguito alla profonda spaccatura determinata dalla guerra in Iraq. La questione era infatti quella,<br />

espressa in forma generica, della “continuità nella presidenza del Consiglio europeo e negli altri<br />

Consigli”. Cox rispose francamente nel modo seguente: se con tale espressione si intendeva “rendere<br />

il Consiglio più efficiente di modo che le sue deliberazioni vengano meglio preparate e le sue decisioni<br />

attuate con fermezza”, allora un “maggior grado di continuità nella presidenza del Consiglio<br />

può bensì risultare giustificato.” Se, invece, con tale espressione, si intendeva l’eventualità di “creare<br />

un potente presidente dell’Unione”, sul tipo del presidente degli Stati Uniti, “che guidasse<br />

l’Unione in Europa e la rappresentasse all’estero”, allora si sarebbe aperta una serie di interrogativi<br />

sulla legittimità democratica di tale figura, non risolti i quali “la creazione di una nuova superpresidenza<br />

dell’Unione” avrebbe rischiato di “suscitare aspettative impossibili da soddisfare, preoccupazioni<br />

impossibili da alleviare e apprensioni sull’adeguatezza dell’equilibrio istituzionale.” Con tale<br />

risposta veniva dunque esclusa l’ipotesi di un’UE “presidenziale”.<br />

La seconda questione sollevata da Simitis era quella riguardante “le dimensioni e la composizione<br />

della Commissione europea”. Qui Cox sottolineava la necessità che “tutti gli Stati membri fossero<br />

rappresentati in tutte le istituzioni.” E tuttavia ammetteva che, in seguito all’allargamento, “una<br />

Commissione composta da molti più membri richiederà ulteriori riforme e un’ulteriore ristrutturazione<br />

interna.” Per il PE era dunque esclusa l’ipotesi di una Commissione a numero fisso di componenti.<br />

La terza questione era quella riguardante “la nomina e i poteri del presidente della Commissione”.<br />

Per quanto riguarda la “nomina” Cox ribadiva che avrebbe dovuto spettare al PE il compito di eleggere<br />

il presidente di approvare la Commissione nel suo insieme. Infatti, poiché nel PE non era mai<br />

esistito un gruppo parlamentare detentore di una maggioranza assoluta, la creazione di una maggioranza<br />

parlamentare a favore di una certa personalità era già di per se stessa garanzia che<br />

quest’ultima avrebbe realmente soddisfatto alle esigenze d’imparzialità e d’indipendenza, proprie<br />

del presidente della Commissione. Il ruolo del Consiglio avrebbe dovuto essere quello di emettere<br />

un necessario parere conforme a tale elezione, legittimando così la nomina. L’essenziale, tuttavia,<br />

era che, in base a tali suoi caratteri, autorità, imparzialità e indipendenza, al presidente della Com-<br />

374 Questo monito sarà effettivamente raccolto dal Consiglio europeo non solo quanto alla conclusione della CIG con il<br />

varo e poi la firma del trattato costituzionale nel 2004, ma anche, dopo gli esiti negativi dei referendum francese e olandese<br />

del 2005 e il blocco del processo di ratifica, con l’elaborazione di un nuovo “trattato di riforma” contenente le<br />

principali riforme stabilite dalla Convenzione.


missione fossero riconosciuti “la nomina dei suoi colleghi, il diritto di assegnare e ridistribuire i<br />

portafogli e il diritto di costringere un commissario a dimettersi”. In tal modo, secondo il PE, un<br />

presidente, così legittimato e dunque rafforzato nei propri poteri, avrebbe potuto guidare efficacemente<br />

la Commissione, a prescindere dal numero dei suoi componenti.<br />

La quarta questione, anch’essa connessa al rilancio di una effettiva PESC, era quella riguardante “la<br />

nomina e i poteri di un eventuale ministro degli affari esteri”. Cox appoggiava “l’idea di riunire le<br />

funzioni dell’Alto rappresentante e del commissario responsabile delle relazioni esterne”, ma alla<br />

condizione che “il futuro ministro degli esteri sarà un membro della Commissione, proposto dal<br />

Consiglio, con l’accordo del presidente della Commissione” e che “sarà soggetto al voto del Parlamento<br />

Europeo sul collegio nel suo insieme.” Tuttavia Cox sottolineava, con un chiaro richiamo<br />

ammonitore alla guerra in Iraq e alle divisioni che essa aveva apportato all’interno dell’UE:<br />

“Un eventuale ministro degli affari esteri avrà successo solo se saranno messe a sua disposizione sufficienti risorse - diplomatiche,<br />

tecniche e finanziarie. Ma, proprio perché la politica estera è sostanzialmente a carattere intergovernativo,<br />

ci si potrebbe anche ritrovare con un ministro, un apparato e delle procedure senza sostanza, se negli Stati membri non<br />

c’è una chiara volontà politica di far sì che funzioni. Avremmo quindi un ministro degli esteri senza una politica estera,<br />

un’alta carica dalle forti aspirazioni, ma con una debole capacità di agire.<br />

Non si tratta di qualcosa che può essere rimandato a dopo la ratifica di un trattato costituzionale. E’ ora urgente lasciar<br />

perdere i disaccordi sul conflitto iracheno. Il forte impegno di uno dei nostri Stati membri nelle azioni militari<br />

dev’essere trasformato in un impegno risoluto di tutti gli Stati membri a favore della ricostruzione e del buongoverno,<br />

attraverso l’agenzia delle Nazioni Unite e quanto prima possibile.<br />

Il ruolino di marcia per la pace nel Medio Oriente dev’essere pubblicato, la strategia per i Balcani occidentali definita,<br />

la nuova politica di vicinato messa a punto. Ancora una volta non possiamo aspettare un trattato costituzionale per mettere<br />

questi punti all’ordine del giorno. L’Europa deve prepararsi a parlare con una voce comune nei consessi mondiali.<br />

La Costituzione può solo darci uno strumento. Soltanto gli sforzi concertati della dirigenza, a livello del Consiglio europeo,<br />

possono offrire un significato concreto.”<br />

La quinta questione era quella riguardante un “Congresso dei parlamentari europei e nazionali”. A<br />

tale proposta Cox così replicava:<br />

“La democrazia europea sarà corroborata se considerata come una catena ininterrotta di responsabilità democratica;<br />

a ciascun livello incombono tuttavia le sue proprie funzioni: i Parlamenti nazionali, con il loro ruolo maggiorato<br />

previsto dalla Convenzione, obbligano i governi a render conto, mentre il Parlamento Europeo controlla la Commissione,<br />

colegifera insieme al Consiglio e approva il bilancio.”<br />

L’unica sede in cui i Parlamenti nazionali e quello europeo avrebbero potuto e dovuto decidere insieme<br />

era quella della stessa Convenzione, in quel periodo per la redazione e l’approvazione del<br />

progetto di trattato costituzionale, e, una volta questo fosse divenuto un vero e proprio trattato costituzionale<br />

e fosse entrato in vigore, “per le future modifiche costituzionali”.<br />

Dopo aver risposto a tutte le questioni sollevate dal presidente del Consiglio europeo, Simitis, il<br />

presidente del PE, Cox, esponeva le posizioni del PE anche rispetto alle seguenti questioni.<br />

In primo luogo “il nuovo trattato deve stabilire che il Consiglio legifera nella massima apertura e<br />

trasparenza durante tutte le fasi del processo legislativo.”<br />

In secondo luogo il PE aveva espresso la posizione che “la legittimità del processo decisionale in<br />

seno al Consiglio è garantita se il voto avviene alla maggioranza semplice degli Stati membri che<br />

rappresentano la maggioranza della popolazione dell’Unione.” Il principio della “doppia maggioranza”<br />

doveva essere dunque accolto come unico elemento capace di rassicurare tutti gli Stati membri,<br />

sia piccoli, sia grandi, sulla loro rappresentatività.<br />

In terzo luogo avrebbero dovuto essere apportate delle modifiche alla disciplina del bilancio.<br />

Infine Cox faceva delle osservazioni sul calendario. Raccomandava che i lavori della Convenzione<br />

si concludessero effettivamente entro la fine di giugno (per non ingenerare sospetti nei cittadini su<br />

esitazioni derivanti dallo sbandamento dell’UE a causa della guerra in Iraq) e invitava a convocare<br />

subito dopo la CIG, che avrebbe dovuto “concludersi con largo anticipo rispetto alle elezioni europee”<br />

del giugno 2004.


La Convenzione, dal canto suo, stabiliva la configurazione definitiva del suo progetto di trattato costituzionale:<br />

nella lettera del presidente dell’8 maggio 2003 ai membri della Convenzione “sul metodo<br />

di lavoro nella fase conclusiva” emergeva infatti che “la Parte II della Costituzione riprenderà<br />

il testo della Carta dei <strong>diritti</strong> fondamentali” e quindi la Parte III sarebbe stata quella relativa alle<br />

“politiche” e la Parte IV quella riguardante le Disposizioni generali e finali.<br />

Nell’atmosfera di generale esultanza per la firma del trattato di adesione all’UE di dieci Paesi candidati<br />

e di grande apertura verso il “futuro dell’Europa” in termini di riforme istituzionali aleggiava<br />

peraltro ancora lo spettro inquietante della guerra in Iraq. Quest’ultima riceveva una sua prima chiarificazione,<br />

quando, con la resa incondizionata dell’Iraq e quindi l’apparente fine vittoriosa della<br />

guerra, le due potenze responsabili dell’invasione, della conquista e dell’occupazione del Paese ossia<br />

gli Stati Uniti d’America e il Regno Unito inviavano l’8 maggio 2003 al Consiglio di sicurezza<br />

delle Nazioni Unite una lettera, nella quale comunicavano che intendevano istituire un regime di<br />

occupazione militare del Paese sotto l’Autorità Provvisoria della Coalizione (comprensiva di un Ufficio<br />

di Ricostruzione e Assistenza Umanitaria), “per esercitare poteri di governo temporaneamente<br />

e, se necessario, specialmente per garantire la sicurezza, per consentire la consegna di aiuti umanitari<br />

e per eliminare le armi di distruzione di massa.” Dopo aver elencato in dettaglio tutti i poteri militari,<br />

politici, finanziari, economici ecc. (praticamente illimitati, anche nel senso temporale) di tale<br />

Autorità, la lettera aggiungeva: “Le Nazioni Unite hanno un ruolo vitale da svolgere nel provvedere<br />

aiuti umanitari, nel sostenere la ricostruzione dell’Iraq, e nell’aiutare nella formazione di un’autorità<br />

provvisoria irachena.” La lettera sosteneva anzi che le due potenze occupanti erano pronte a collaborare<br />

strettamente con rappresentanti delle Nazioni Unite e con loro agenzie specializzate e attendevano<br />

la nomina di un coordinatore speciale da parte del segretario generale. Infine la lettera auspicava<br />

il sostegno e i contributi di Stati membri, organizzazioni internazionali e regionali e altre<br />

entità, previ accordi di appropriato coordinamento con l’Autorità predetta.<br />

In altri termini la lettera comunicava che la guerra in Iraq era il preludio di un regime di occupazione<br />

militare del Paese che sarebbe durato fintanto non si fossero distrutte tutte le armi di distruzione<br />

di massa e nel frattempo avrebbe garantito la sicurezza e consentito la consegna degli aiuti umanitari<br />

– ma attraverso il proprio Ufficio di ricostruzione e assistenza umanitaria, al quale avrebbe dovuto<br />

far capo il coordinatore speciale delle Nazioni Unite (secondo il principio “l’ONU sfama”) e altre<br />

organizzazioni internazionali e regionali, fra cui l’UE (secondo il principio “l’UE finanzia”). Il ristabilimento<br />

finale di un libero e democratico governo di un sovrano e indipendente Stato iracheno<br />

con proprie forze armate sufficienti a difendere il Paese sarebbe infine dipeso dal soddisfacimento<br />

di tutte le predette condizioni. 375<br />

Il seguito di questa lettera anglo-americana fu la risoluzione del Consiglio di sicurezza 1483 del 22<br />

maggio 2003. Approvata all’unanimità sulla base di un’apposita proposta di risoluzione avanzata da<br />

Stati Uniti, Regno Unito e Spagna, essa diceva fra l’altro che il Consiglio di sicurezza:<br />

“Prendendo atto della lettera dell’8 maggio 2003 inviata dai rappresentanti permanenti degli Stati Uniti d’America e del<br />

Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord al presidente del Consiglio di sicurezza (S/2003/538) e riconoscendo<br />

le specifiche autorità, responsabilità e obblighi rispetto alla legge internazionale applicabile di questi Stati come potenze<br />

d’occupazione sotto comando unificato (l’”Autorità”),<br />

Prendendo atto inoltre che altri Stati che non sono potenze d’occupazione stanno collaborando ora o nel futuro possono<br />

collaborare sotto questa Autorità,<br />

Accogliendo inoltre la volontà di Stati membri di contribuire alla stabilità e alla sicurezza in Iraq apportando personale,<br />

equipaggiamento e altre risorse sotto l’Autorità, […]<br />

1. Fa appello a Stati membri e organizzazioni pertinenti ad assistere il popolo d’Iraq nei suoi sforzi per riformare le sue<br />

istituzioni e ricostruire il suo Paese, e a contribuire a condizioni di stabilità e sicurezza in Iraq ai sensi di questa risoluzione;<br />

[…]”<br />

375 E’ quasi superfluo ricordare che le armi di distruzione di massa non si sarebbero mai trovate (perché non c’erano) e<br />

che l’Iraq proprio da quel momento sarebbe diventato il Paese più pericoloso del mondo, il principale crogiolo del terrorismo<br />

internazionale e la maggiore fonte di risentimento, a tutto beneficio di quest’ultimo, delle popolazioni arabe e islamiche<br />

in tutto il mondo contro l’Occidente e avrebbe conosciuto il periodo più sanguinoso e anarchico della sua intera<br />

storia.


Con questa risoluzione, che riprendeva il contenuto della precedente lettera anglo-americana, il<br />

Consiglio di sicurezza riconosceva dunque a Stati Uniti e Regno Unito lo status giuridico di “potenze<br />

d’occupazione” dell’Iraq, con tutti i <strong>diritti</strong> e gli obblighi derivanti da esso. Di conseguenza ogni<br />

iniziativa, dell’ONU, di organizzazioni internazionali o regionali (come l’UE) o di Stati membri<br />

delle Nazioni Unite, in Iraq avrebbe dovuto essere sottoposta all’approvazione e al controllo<br />

dell’”Autorità” e ogni apporto militare di Stati membri dell’ONU per “contribuire a condizioni di<br />

stabilità e sicurezza in Iraq”, benché sollecitato dal Consiglio di sicurezza in base al capitolo VII<br />

della Carta delle Nazioni Unite, avrebbe dovuto sottostare agli ordini dell’”Autorità” delle due potenze<br />

d’occupazione, Stati Uniti e Gran Bretagna.<br />

In tal modo l’ONU riconosceva il fatto compiuto, invitando anzi tutti gli Stati membri a collaborare<br />

sotto il comando dell’”Autorità” in Iraq, anche sotto il profilo militare. E tuttavia i governi americano<br />

e britannico riuscivano a ottenere tutto questo solo riconoscendosi e facendosi riconoscere come<br />

mere “potenze d’occupazione”, non legate da alcun mandato dell’ONU, per il semplice fatto che<br />

non lo avevano mai avuto. Era la conferma più chiara del “nuovo ordine” mondiale, che, libero da<br />

qualsiasi vincolo posto dall’ONU, riusciva anzi a convincere quest’ultima a riconoscere, “consacrare”,<br />

assecondare e promuovere la strategia anglo-americana messa in atto in Iraq, creando così un<br />

precedente per altri eventuali casi in altri Paesi del mondo. 376<br />

E tuttavia, se tale risoluzione del Consiglio di sicurezza fu approvata all’unanimità, fu anche perché<br />

persino gli altri due Stati membri dell’UE, Germania e Francia, diedero in tal senso l’esempio agli<br />

altri membri del Consiglio di sicurezza e perché tale voto franco-tedesco a sua volta fu il risultato di<br />

un’effettiva posizione comune della PESC, derivata dalla strategia dell’UE fissata al Consiglio europeo<br />

del 20-21 marzo 2003: riportare l’intera questione dell’Iraq alle Nazioni Unite e in sede di<br />

Consiglio di sicurezza e svolgervi un’azione comune della PESC, tesa a intensificare il dialogo con<br />

gli Stati Uniti in direzione di un rafforzamento della lotta contro il terrorismo e di un approccio<br />

multilaterale nella prevenzione della proliferazione delle armi di distruzione di massa. Il risultato di<br />

questa azione comune ovvero l’adozione di tale risoluzione era quanto mai limitato, ma serviva almeno<br />

a ricucire lo strappo all’interno sia dell’UE, sia delle Nazioni Unite, nella speranza che le “potenze<br />

d’occupazione” in Iraq avrebbero anche rispettato le loro “responsabilità e obblighi rispetto<br />

alla legge internazionale applicabile” ovvero i <strong>diritti</strong> umani della popolazione irachena, compresi i<br />

civili, le minoranze religiose e gli stessi prigionieri di guerra, e che, in assenza di ostilità, si sarebbe<br />

pervenuti rapidamente a un consistente aiuto umanitario, alla ricostruzione del Paese e<br />

all’instaurazione di un libero e democratico governo di uno Stato iracheno sovrano e indipendente<br />

con proprie forze armate sufficienti a garantire la difesa interna ed esterna. 377<br />

Successivamente, il 24 maggio 2003, la Convenzione europea completava il proprio inconsapevole<br />

“pasticcio”: veniva presentato il testo riveduto della Parte I, sprovvista ormai di titolo complessivo;<br />

infatti il titolo suo proprio “Architettura costituzionale” era fin troppo in contraddizione con il titolo<br />

che si era voluto dare al trattato unico ossia di “Trattato che istituisce una Costituzione per<br />

l’Europa” e quindi avrebbe generato un’inevitabile, anche se quanto mai giustificata, confusione. In<br />

376 Il risultato di tale “benedizione” dell’ONU fu la decisione di molti Stati membri di inviare proprie truppe in Iraq a<br />

disposizione e al comando dell’”Autorità” d’occupazione anglo-americana, compresi diversi degli allora 15 Stati membri<br />

dell’UE: la Danimarca (nel giugno 2003), l’Italia e i Paesi Bassi (nel luglio 2003), la Spagna (nell’agosto 2003) e il<br />

Portogallo (nel novembre 2003).<br />

377 La realtà dei fatti si sarebbe incaricata invece di smentire tale ottimistica speranza: dalla devastazione economicosociale<br />

del Paese e dallo smantellamento delle forze armate, dello stesso partito “Baath”, dello Stato e persino della<br />

stessa integrità territoriale di fatto dell’Iraq (quanto al Kurdistan), nella situazione di totale anarchia economica, sociale,<br />

civile, politica e militare del Paese, sarebbero sorti innumerevoli centri di resistenza armata, in cui si sarebbero infiltrati<br />

elementi stranieri facenti capo al terrorismo fondamentalista, scatenando una guerriglia e insieme una guerra civile di<br />

incredibile violenza. Di fronte a essa l’”Autorità”, incapace di assicurare il controllo dell’ordine pubblico e della convivenza<br />

civile, avrebbe invece permesso di fatto un trattamento dei prigionieri di guerra assai discutibile sotto il profilo<br />

del rispetto dei <strong>diritti</strong> umani, sia nelle carceri del Paese, sia nel nuovo supercarcere di Guantanamo Bay, sottratto alla<br />

giurisdizione civile americana. Solo con il passare degli anni tale situazione indurrà numerosi Paesi a ritirare le proprie<br />

truppe da un territorio per il quale era stata dichiarata fin dal 1° maggio 2003 l’espressione “missione compiuta”.


tal modo l’intero trattato sarebbe stato invece considerato indistintamente come la “Costituzione<br />

Europea”, con tutte le disastrose conseguenze del caso.<br />

Infine anche il PE concludeva l’iter di approvazione dello statuto unico dei suoi membri, varando la<br />

decisione del PE del 3 giugno 2003 “che adotta lo Statuto dei Deputati al Parlamento Europeo”. In<br />

essa, dopo una serie di “considerazioni generali” a commento del testo, in cui veniva precisato, tra<br />

l’altro, che la dizione preferita dal PE per i propri membri era quella di “Deputati al Parlamento Europeo”,<br />

veniva presentato lo Statuto, inteso essenzialmente come “Regolamentazione e condizioni<br />

generali di esercizio delle funzioni dei deputati al Parlamento Europeo”. In esso venivano stabilito:<br />

a) libertà e indipendenza: 1) “qualsiasi accordo sulle dimissioni dal mandato prima della scadenza o<br />

al termine della legislatura è nullo”; 2) “qualsiasi accordo sulle modalità di esercizio del mandato è<br />

nullo” (e quindi ogni istruzione o mandato imperativo); 3) irresponsabilità per ogni atto compiuto<br />

nell’esercizio delle proprie funzioni; 4) immunità parlamentare; 5) diritto al segreto su proprie fonti;<br />

6) diritto di libera circolazione in tutto il territorio UE; b) <strong>diritti</strong> politici: 1) presentare una proposta<br />

di atto comunitario (nel quadro del diritto d’iniziativa del PE); 2) prendere visione di tutti i documenti<br />

in possesso del PE e leggerli nella propria lingua; 4) organizzarsi in gruppi politici intesi come<br />

parte del PE e capaci di agire e stare in giudizio; c) condizioni finanziarie. Oltre ad alcune “disposizioni<br />

transitorie”, lo statuto prevedeva infine l’”entrata in vigore”, stabilita, “previa approvazione<br />

del Consiglio e contemporaneamente alle modifiche ai trattati che saranno adottate in base ai<br />

lavori della Convenzione europea”, con la firma del presidente del PE e la pubblicazione nella Gazzetta<br />

ufficiale dell’UE, serie L.<br />

Il giorno dopo il PE adottava la risoluzione del 4 giugno 2003 “sull’adozione dello statuto dei deputati<br />

al Parlamento europeo”, nella quale il PE, approvata la decisione predetta, invitava la Commissione<br />

a presentare un progetto per abrogare gli articoli, in contrasto con tale decisione, del Protocollo<br />

sui privilegi e sulle immunità e dell’Atto relativo alle elezioni del PE, il Consiglio a esprimere il<br />

suo accordo sullo Statuto, e il presidente del PE a firmarlo e a pubblicarlo nella Gazzetta ufficiale.<br />

378<br />

Il giorno dopo, infine, il PE forniva, nell’ambito della strategia d’attenzione ai lavori della Convenzione<br />

europea, un suo ultimo contributo di riflessione proprio sul tema più oggettivamente “scottante“,<br />

dal punto di vista della legittimità democratica, dell’intera problematica europea, con<br />

l’adozione, il 5 giugno 2003, di ben due risoluzioni sul “metodo aperto di coordinamento”. Esse riprendevano<br />

la risoluzione del PE del 16 maggio 2002 sulla delimitazione delle competenze tra l’UE<br />

e gli Stati membri, per quanto riguarda quelle competenze comuni che implicavano il coordinamento<br />

europeo delle politiche nazionali, e segnatamente delle politiche di bilancio e fiscali nel quadro<br />

dell’UEM e dell’occupazione. Il “coordinamento aperto” o appunto il “metodo aperto di coordinamento”<br />

previsto in quest’ultimo caso era precisamente l’oggetto di tali due risoluzioni, in quanto ritenuto<br />

apportatore di nuova confusione nelle responsabilità politiche e comunque esente da un autentico<br />

controllo parlamentare, tanto più in quanto, senza una chiara disposizione di trattato, esso<br />

era stato esteso, su decisione del Consiglio, a tutta una serie di temi sociali, sui quali il PE non veniva<br />

minimamente coinvolto: la protezione sociale, l’immigrazione e l’asilo, l’esclusione sociale, i<br />

servizi sanitari, i regimi pensionistici, l’istruzione e la formazione lungo tutto l’arco della vita, la<br />

politica delle imprese, la risposta all’invecchiamento della popolazione ecc.<br />

Nella prima di tali due risoluzioni ossia nella risoluzione del PE del 5 giugno 2003 “sull’analisi del<br />

metodo aperto di coordinamento nel settore dell’occupazione e degli affari sociali e prospettive per<br />

il futuro”, il PE argomentava ulteriormente tale accusa, sostenendo che in tal modo si stava ormai<br />

producendo “uno spostamento dal tradizionale lavoro legislativo a nuovi metodi di lavoro in settori<br />

ai quali l’approccio legislativo non si applica”, con la conseguenza di escludere il PE da tali processi<br />

politici, ma, così facendo, di impedire pure un controllo democratico su di essi. In tale situazione<br />

378 L’entrata in vigore dello Statuto doveva avvenire “contemporaneamente alle modifiche ai trattati che saranno adottate<br />

in base ai lavori della Convenzione europea” e della successiva CIG ossia dal trattato costituzionale, che, poiché sarà<br />

firmato solo il 29 ottobre 2004, rinvierà l’approvazione dello Statuto da parte del Consiglio di ben due anni al 19 luglio<br />

2005.


di conseguente confusione nelle responsabilità politiche, il metodo aperto di coordinamento rischiava,<br />

essendo basato in realtà su “un processo di mutuo apprendimento” soprattutto fra gli Stati membri,<br />

rappresentati in ultima analisi in seno al Consiglio europeo, di “dissimulare l’inazione di un Paese”<br />

(p.e. il Regno Unito), nonché di “sostituire strumenti regolamentari comunitari più vincolanti<br />

allo scopo preciso di eluderli e, nel contempo, di indebolire il modello sociale europeo nella sua<br />

globalità” ossia far passare, su iniziativa delle altre istituzioni europee e con il diretto avallo dei<br />

“soggetti civili e sociali” coinvolti, una serie di misure volte di fatto a snaturare il modello sociale<br />

europeo, che, in presenza di un controllo democratico esercitabile solo dal PE non sarebbero invece<br />

mai “passate”. Pertanto il PE chiedeva alla Convenzione che fosse “introdotto nel trattato costituzionale<br />

un articolo esplicitamente dedicato al metodo aperto di coordinamento”, che stabilisse regole<br />

di assoluta trasparenza per esso e comunque il coinvolgimento pieno del PE nel coordinamento<br />

stesso. 379<br />

Nella seconda risoluzione del PE del 5 giugno 2003 “sull’applicazione del metodo aperto di coordinamento”<br />

il PE focalizzava un determinato settore di applicazione di tale metodo ovvero quello riguardante<br />

“l’istruzione e l’apprendimento durante tutto l’arco della vita”, in quanto facenti parte<br />

della strategia di Lisbona. In proposito il PE faceva peraltro osservare come non fosse possibile, per<br />

evidenti ragioni di tipo pedagogico, isolare questi ambiti, in nome di un globale imperativo economico-sociale,<br />

da quelli naturalmente connessi “della gioventù, dei mezzi di comunicazione, della<br />

cultura e dello sport”, come pure “della politica audiovisiva”, ossia, in una parola, dell’educazione,<br />

della formazione e dell’istruzione integrale della persona e del cittadino europeo. Ben consapevole,<br />

peraltro, della vera natura del metodo aperto di coordinamento, tanto da sottolineare che esso “non<br />

deve evolvere in una procedura legislativa parallela, ma nascosta, che stravolga le procedure previste<br />

dal trattato CE”, il PE proponeva anzi un accordo interistituzionale, in base al quale fissare le<br />

norme per la “selezione delle politiche di coordinamento aperto”, consentire “un impiego coerente<br />

del metodo con la piena partecipazione, in condizioni di parità, del Parlamento Europeo” e prevedere<br />

in definitiva “una procedura capace di sviluppare il metodo aperto di coordinamento al punto di<br />

convertirlo in metodo comunitario formalizzabile attraverso il lavoro della Convenzione e della futura<br />

CIG”. 380<br />

V. Il progetto di Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa<br />

a) La vera Costituzione Europea<br />

In ogni caso, una settimana dopo, l’UE poteva dedicarsi, sulla base di un’invero fragile unità interna,<br />

a raccogliere il frutto del dibattito sul “futuro dell’Europa”. Infatti la Convenzione approvava<br />

per consenso il 13 giugno 2003 il testo delle prime due parti del progetto di “Trattato che istituisce<br />

una Costituzione per l’Europa”. Infatti, poiché, alla scadenza del mandato, la Convenzione non aveva<br />

avuto abbastanza tempo a sua disposizione per esaminare l’intera parte III e la parte IV, venivano<br />

approvati per consenso (ossia senza voto con l’indicazione di una maggioranza e di una minoranza)<br />

soltanto il preambolo e le parti I (innominata, ma in realtà la vera “Costituzione europea”) e<br />

II (la Carta dei <strong>diritti</strong> fondamentali) ossia le disposizioni propriamente costituzionali, nonché i tre<br />

protocolli a) sul ruolo dei Parlamenti nazionali nell’Unione Europea, b) sull’applicazione dei prin-<br />

379 L’introduzione effettiva di tale articolo “chiarificatore” avrebbe avuto particolare importanza anche al fine di sedare<br />

le preoccupazioni crescenti di molti cittadini europei sull’”opacità” della politica sociale dell’UE connessa alla strategia<br />

di Lisbona, ma il trattato costituzionale non menzionerà né il “coordinamento aperto”, né il “metodo aperto di coordinamento”<br />

e riserverà al ruolo del PE nel coordinamento della politiche dell’occupazione e degli affari sociali la seguente,<br />

laconica, dicitura: il PE “è pienamente informato”. La mancata risposta alla predetta sollecitazione del PE comporterà<br />

l’estensione delle diffidenze e dei sospetti relativi alla politica sociale dell’UE anche a un trattato costituzionale, le<br />

dimensioni enormi e la conseguente incomprensibilità del quale spingeranno a leggervi, all’occorrenza, una conferma di<br />

tali diffidenze e sospetti, con le conseguenze disastrose del caso in occasione di alcuni referendum nazionali di ratifica.<br />

380 Questa richiesta del PE era destinata a rivelarsi, nel giro di appena un mese, una pia illusione, con conseguenze peraltro<br />

dirompenti nel processo di ratifica del trattato costituzionale.


cipi di sussidiarietà e di proporzionalità e c) sulla rappresentanza dei cittadini nel Parlamento Europeo<br />

e sulla ponderazione dei voti in seno al Consiglio europeo e al Consiglio dei ministri.<br />

Pochi giorni dopo, il PE, a coronamento della sua impresa di stabilire uno stretto legame fra la <strong>cittadinanza</strong><br />

europea e la sua rappresentanza democratica nel PE, adottava, il 19 giugno 2003, due documenti<br />

su “status e finanziamento dei partiti politici europei”. Il primo documento era la risoluzione<br />

del PE “sulla proposta di regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio relativo allo status<br />

e al finanziamento dei partiti politici europei”, con la quale il PE approvava “la proposta della<br />

Commissione quale emendata”. Il secondo documento era la posizione del PE “definita in prima lettura<br />

il 19 giugno 2003 in vista dell’adozione del regolamento (CE) n. …/2003 del Parlamento Europeo<br />

e del Consiglio relativo allo status e al finanziamento dei partiti politici a livello europeo”, con<br />

la quale il PE presentava la propria proposta di regolamento. Essa stabiliva in primo luogo le condizioni<br />

per il riconoscimento di un “partito politico a livello europeo”, definito come “un partito politico<br />

o un’alleanza di partiti politici” con le seguenti caratteristiche:<br />

1) “avere personalità giuridica nello Stato membro in cui ha sede”;<br />

2) “essere rappresentato, in almeno un quarto degli Stati membri, da membri del Parlamento Europeo o nei Parlamenti<br />

nazionali o regionali o nelle assemblee regionali, oppure aver ricevuto, in almeno un quarto degli Stati membri, almeno<br />

il 3 per cento dei voti espressi in ognuno di tali Stati membri in occasione delle ultime elezioni del Parlamento Europeo”;<br />

3) “rispettare, in particolare nel suo programma e nella sua azione, i principi sui quali è fondata l’Unione Europea, vale<br />

a dire i principi di libertà, democrazia, rispetto dei <strong>diritti</strong> dell’uomo e delle libertà fondamentali e dello Stato di diritto”;<br />

4) “aver partecipato alle elezioni del Parlamento Europeo o averne espresso l’intenzione”.<br />

Un partito politico a livello europeo avrebbe potuto presentare ogni anno una domanda al PE per<br />

beneficiare di un finanziamento a carico del bilancio generale dell’UE, non superiore al 75% del<br />

proprio bilancio e non trasmissibile a partiti politici nazionali. Per la prima domanda avrebbe dovuto<br />

presentare: a) i documenti attestanti la soddisfazione delle condizioni di riconoscimento, b) un<br />

programma politico con gli obiettivi di detto partito e c) uno statuto indicante gli organi responsabili<br />

della gestione politica e finanziaria e gli organismi o le persone fisiche detenenti, in ciascuno degli<br />

Stati membri interessati, il potere di rappresentanza legale per l’acquisizione o la cessione di beni<br />

mobili e immobili e la capacità di stare in giudizio. Era prevista pure una complessa procedura di<br />

verifica dell’effettivo rispetto dei principi fondamentali dell’UE, che prevedeva, in caso di esito negativo,<br />

il disconoscimento di tale partito politico come “europeo” e quindi la sua esclusione dal finanziamento<br />

erogato. Inoltre il partito politico europeo avrebbe dovuto dimostrare la massima trasparenza<br />

nel proprio bilancio, escludendo da esso donazioni anonime o provenienti dai bilanci di<br />

gruppi politici rappresentati al PE o da imprese pubbliche o comunque superiori a 12.000 euro<br />

l’anno per donatore, nonché spese non collegate agli obiettivi del proprio programma politico. 381<br />

Nello stesso giorno si apriva il Consiglio europeo di Salonicco del 19-20 giugno 2003, l’ultimo<br />

Consiglio europeo svoltosi in una città diversa da Bruxelles. Esso era iniziato con il consueto<br />

discorso del presidente del PE dello stesso 19 giugno 2003, in cui venivano così condensate le principali<br />

novità apportate dalle prime due parti del Progetto di trattato che istituisce una Costituzione<br />

per l’Europa ossia dalla vera e propria “Costituzione europea”:<br />

“Essa propone una personalità giuridica per l'Unione.<br />

Essa incorpora la Carta dei <strong>diritti</strong> fondamentali.<br />

Essa semplifica l’assunzione di decisioni e rimuove l'artificiale struttura a "pilastri".<br />

Essa prevede controlli adeguati per rispettare la sussidiarietà.<br />

Essa stipula che quando il Consiglio discute e adotta gli atti legislativi, deve farlo pubblicamente.<br />

Essa chiarisce, meglio di quanto non avvenisse in precedenza, chi si occupa di cosa.<br />

Essa crea una struttura unificata in materia di affari esteri alle dipendenze di un Ministro che è responsabile verso di Lei<br />

[il presidente del Consiglio europeo], ma che risponde al Parlamento.<br />

Essa estende il voto a maggioranza qualificata.<br />

381<br />

Questa proposta del PE verrà ripresa alla lettera nell’effettivo regolamento del PE e del Consiglio emanato il 4 novembre<br />

2003.


Essa rafforza la legittimità della Commissione.<br />

Essa amplia il controllo parlamentare sulla legislazione - parlamenti nazionali e Parlamento europeo.<br />

Essa semplifica il linguaggio e consolida l'apparato regolamentare in una forma di più agevole gestione.”<br />

Il giorno dopo, il presidente della Convenzione V. Giscard d’Estaing presentava il 20 giugno 2003<br />

il testo delle prime due parti del “Progetto di trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa”<br />

(unitamente ai tre protocolli sopra citati, per una lunghezza complessiva di circa 72 pagine) al Consiglio<br />

europeo di Salonicco del 19-20 giugno 2003, ricordando come il Consiglio europeo di Laeken<br />

avesse convocato la Convenzione sul futuro dell’Europa, incaricandola di formulare proposte su tre<br />

temi: 1)”avvicinare i cittadini al progetto europeo e alle istituzioni europee”; 2) “strutturare la vita<br />

politica e lo spazio politico europeo in un’Unione allargata”; 3) “fare dell’Unione un fattore di stabilizzazione<br />

e un punto di riferimento nel nuovo ordine mondiale”. Giscard d’Estaing comunicava<br />

che la Convenzione aveva individuato le seguenti risposte ai quesiti contenuti nella Dichiarazione di<br />

Laeken:<br />

“- propone una migliore ripartizione delle competenze dell’Unione e degli Stati membri;<br />

- raccomanda la fusione dei trattati e l’attribuzione della personalità giuridica all’Unione;<br />

- instaura una semplificazione degli strumenti d’azione dell’Unione;<br />

- propone misure volte ad accrescere la democrazia, la trasparenza e l’efficienza dell’Unione Europea, accrescendo il<br />

contributo dei Parlamenti nazionali alla legittimazione del progetto europeo, semplificando il processo decisionale, rendendo<br />

il funzionamento delle istituzioni europee più trasparente e leggibile;<br />

- stabilisce le misure necessarie per migliorare la struttura e il ruolo di ciascuna delle tre istituzioni dell’Unione, tenendo<br />

conto in particolare delle conseguenze dell’allargamento.”<br />

Inoltre Giscard d’Estaing ricordava che la Dichiarazione di Laeken aveva posto anche il quesito se<br />

la semplificazione e il riordino dei trattati non avessero dovuto spianare la strada all’adozione di un<br />

testo costituzionale e comunicava che effettivamente i lavori della Convenzione “sono culminati<br />

nell’elaborazione di un progetto di trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa, che ha raccolto<br />

un vasto consenso nella sessione plenaria del 13 giugno 2003”, auspicando che il testo presentato<br />

“costituisca il fondamento di un futuro trattato che istituisce la Costituzione europea.” In tale<br />

affermazione il “testo costituzionale”, che avrebbe dovuto coincidere soltanto con un trattato fondamentale,<br />

veniva così trasformato definitivamente nell’intero trattato unico, comprensivo di tutte<br />

le disposizioni, fondamentali e non, contenute nei due trattati UE e CE.<br />

Il Progetto di Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa conteneva in primo luogo un preambolo<br />

che iniziava con una citazione di Tucidide, II, 37: “Crwémeja gaèr politeiéç... kaiè<br />

o$noma meèn diaè toè mhè e\v o\liégouv a\ll’e\v pleiéonav oi\kei%n dhmokratiéa keéklhtai.<br />

La nostra Costituzione… si chiama democrazia perché il potere non è nelle mani di pochi,<br />

ma dei più.” Il Preambolo iniziava con la seguente frase:<br />

“Consapevoli che l’Europa è un continente portatore di civiltà, che i suoi abitanti, giunti in ondate successive fin dagli<br />

albori dell’umanità, vi hanno progressivamente sviluppato i valori che sono alla base dell’umanesimo: uguaglianza degli<br />

esseri umani, libertà, rispetto della ragione;<br />

Ispirandosi alle eredità culturali, religiose e umanistiche dell’Europa, i cui valori, sempre presenti nel suo patrimonio,<br />

hanno ancorato nella vita della società la percezione del ruolo centrale della persona, dei suoi <strong>diritti</strong> inviolabili e inalienabili<br />

e del rispetto del diritto;<br />

Convinti che l’Europa, ormai riunificata, intende proseguire questo percorso di civiltà, di progresso e di prosperità…”<br />

Questo inizio del trattato verrà stralciato o comunque modificato dalla successiva CIG. Per il resto il<br />

progetto resterà sostanzialmente intatto, manifestandosi, in queste prime due parti contenenti le disposizioni<br />

propriamente costituzionali, come il punto più alto del risultato dei lavori della Convenzione<br />

sul futuro dell’Europa e anzi di tutta la storia del processo d’integrazione europea. La conferma<br />

del valore intrinseco di tali disposizioni propriamente costituzionali veniva data già dal citato<br />

Consiglio europeo di Salonicco del 19-20 giugno 2003, nelle conclusioni del quale si accoglieva favorevolmente<br />

il progetto del trattato costituzionale presentato, considerandolo “un passo storico”<br />

verso la realizzazione degli obiettivi dell’integrazione europea, per i seguenti motivi:


“- avvicina la nostra Unione ai suoi cittadini,<br />

- rafforza il carattere democratico della nostra Unione,<br />

- agevola la capacità decisionale della nostra Unione, specialmente dopo l’allargamento,<br />

- potenzia la capacità della nostra Unione di agire come una forza coerente e unita sulla scena internazionale e<br />

- risponde efficacemente alle sfide che la globalizzazione e l’interdipendenza creano”.<br />

Il Consiglio europeo sottolineava pure l’utilità della Convenzione anche come “forum di dialogo<br />

democratico tra rappresentanti dei governi, dei Parlamenti nazionali, del Parlamento Europeo, della<br />

Commissione europea e della società civile”. E riteneva anzi che<br />

“la presentazione del trattato costituzionale, nella versione in cui esso lo ha ricevuto, rappresenti la conclusione dei<br />

compiti della Convenzione definiti a Laeken e, di conseguenza, la fine dei lavori di quest’ultima. Tuttavia, sono ancora<br />

necessari alcuni lavori di carattere meramente tecnico per quanto riguarda la formulazione della parte III, che dovranno<br />

essere conclusi al più tardi entro il 15 luglio”.<br />

Con tale lode senza riserve per il lavoro della Convenzione, sia quanto alla sua sostanza, sia quanto<br />

alla sua forma, il Consiglio europeo faceva dunque intendere che con l’approvazione delle prime<br />

due parti del Progetto era stato già raggiunto il massimo di quanto concesso dalla stessa Dichiarazione<br />

di Laeken. La volontà della Convenzione di andare oltre, proponendo anche una parte III e<br />

una parte IV del Progetto, poteva dunque essere accolta solo in considerazione della necessità di<br />

“alcuni lavori di carattere meramente tecnico” 382 e perciò l’intera operazione doveva essere conclusa<br />

entro il 15 luglio 2003 (così come richiesto dalla Convenzione e dal PE).<br />

Stabilite queste precisazioni, il Consiglio europeo veniva incontro pure all’altra richiesta del PE, relativa<br />

alla convocazione della CIG. Infatti, in merito, così si pronunciava:<br />

“Il Consiglio europeo ha deciso che il testo del progetto di trattato costituzionale [così com’era allora ossia le sue prime<br />

due parti] è una buona base su cui avviare la Conferenza intergovernativa. Chiede alla prossima Presidenza italiana di<br />

avviare, nella sessione del Consiglio di luglio, la procedura prevista all’articolo 48 del trattato, affinché tale conferenza<br />

possa essere convocata nell’ottobre 2003. La conferenza dovrebbe terminare i suoi lavori e approvare il trattato costituzionale<br />

il più presto possibile e in tempo utile affinché sia conosciuto dai cittadini europei prima delle elezioni del Parlamento<br />

Europeo del giugno 2004. Gli Stati aderenti parteciperanno pienamente alla Conferenza intergovernativa in<br />

condizioni di parità rispetto agli attuali Stati membri. Il trattato costituzionale sarà firmato dagli Stati membri<br />

dell’Unione allargata il più presto possibile successivamente al 1° maggio 2004. […] Il Parlamento Europeo sarà strettamente<br />

associato e coinvolto nei lavori della Conferenza”.<br />

Il Consiglio europeo accedeva dunque pienamente alle richieste del PE in merito alla CIG, sia per<br />

quanto riguarda l’associazione di esso alla Conferenza, sia per quanto riguarda i tempi di questa,<br />

con l’apertura della CIG nello stesso ottobre 2003 e con la firma del trattato costituzionale nello<br />

stesso maggio 2004. 383<br />

Il Consiglio europeo di Salonicco prendeva poi posizione su materie quali “immigrazione, frontiere<br />

e asilo” (raccomandando pure lo sviluppo di una politica di integrazione dei cittadini di Paesi terzi<br />

382 Il giorno prima il presidente del PE si era espresso a tale riguardo nei seguenti, inversi, termini: “Spero che Lei [il<br />

presidente del Consiglio europeo] vorrà autorizzare la Convenzione a procedere in tal modo, in particolare per quanto<br />

riguarda la terza parte del trattato, sulle politiche dell’Unione, che solleva quesiti ben lungi dall’essere squisitamente<br />

tecnici. Auspichiamo che la Convenzione trovi gli strumenti per evitare ingorghi, a causa dell’eccessivo ricorso al meccanismo<br />

di veto, nell’assunzione di decisioni a livello dell’Unione Europea. In tal modo si otterrà una certa coerenza<br />

con il resto del testo, che risponde alla duplice sfida di un rafforzamento della democrazia e di un aumento<br />

dell’efficienza”. Il PE auspicava perciò che la produzione, anche se in tempi così ravvicinati, di una parte III realmente<br />

coerente con la parte I apportasse modifiche sostanziali anche alle modalità decisionali delle stesse singole politiche<br />

dell’UE, completando così il “rivoluzionamento” di tutto il complesso delle attività dell’UE.<br />

383 Ciò che desta qualche stupore è che venisse già decisa una tale stretta tabella di marcia, senza conoscere ancora<br />

l’intero testo del progetto di trattato costituzionale che avrebbe dovuto costituire la base dei lavori della CIG, visto che,<br />

nell’assenza delle parti III e IV, mancava ancora ben più della metà di tale testo. Tale decisione poteva essere giustificata<br />

solo in base alla convinzione che tali due ultime parti non fossero che una fusione meramente “tecnica” delle disposizioni<br />

non fondamentali dei due trattati UE e CE. Ma non era propriamente questa l’intenzione del PE.


con soggiorno legale nell’UE), “allargamento”, “Cipro”, “Balcani occidentali” (i cui Paesi “diverranno<br />

parte integrante dell’UE, una volta soddisfatti i criteri stabiliti”), “Europa allargata/nuovi vicini”,<br />

tematiche economico-sociali e “relazioni esterne, PESC e PESD”. Proprio nell’ambito di<br />

quest’ultimo punto rientravano i temi costituenti l’oggetto dei due allegati a tali conclusioni, ovvero<br />

la “relazione della presidenza del Consiglio europeo sull’azione esterna dell’UE nella lotta contro il<br />

terrorismo (comprese PESC/PESD)” e la “dichiarazione del Consiglio europeo sulla non proliferazione<br />

delle armi di distruzione di massa”.<br />

Questi due ultimi documenti erano del tutto funzionali alla preparazione del successivo vertice tra<br />

UE e Stati Uniti, svoltosi a Washington il 25 giugno 2003. Si trattava del primo vertice euroamericano<br />

dopo la guerra in Iraq e suggellò il varo della nuova strategia europea diretta, attraverso<br />

una piena adesione agli obiettivi della lotta contro il terrorismo e la proliferazione delle armi di distruzione<br />

di massa, a rafforzare la collaborazione euro-americana nell’ambito della NATO,<br />

dell’OCSE e dell’OSCE e soprattutto a ricondurre gradualmente gli Stati Uniti a un approccio multilaterale<br />

ai problemi internazionali e alla ricerca delle loro soluzioni nell’ambito delle Nazioni Unite.<br />

b) L’onnicomprensivo “trattato costituzionale”<br />

Nel frattempo la Convenzione approntava il resto del trattato costituzionale. La richiesta del PE di<br />

applicare alle varie politiche dell’UE (compresa la PESC) il principio della decisione a maggioranza<br />

qualificata non trovava peraltro accoglienza, venendo quindi sostituita dall’estensione della clausola<br />

della “passerella” ovvero della possibilità, riconosciuta agli Stati membri, di decidere all’unanimità<br />

l’eventuale passaggio di una determinata azione dal voto all’unanimità al voto a maggioranza qualificata.<br />

Il testo completo del Progetto di trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa veniva<br />

infine approvato per consenso il 10 luglio 2003, con la conseguente conclusione dei lavori e quindi<br />

lo scioglimento della Convenzione.<br />

Una settimana dopo, il presidente della Convenzione consegnava a Roma il 18 luglio 2003 al presidente<br />

del Consiglio europeo il testo completo del Progetto di trattato che istituisce una Costituzione<br />

per l’Europa (per una lunghezza complessiva di circa 263 pagine). L’avventura cominciava.<br />

Dopo la pausa estiva e prima dell’inizio della CIG si verificava peraltro un nuovo episodio che faceva<br />

capire come non solo il nuovo contesto “costituzionale”, bensì lo stesso acquis comunitario<br />

fosse lontano dall’essere effettivamente recepito da qualche Stato membro. Secondo i trattati, infatti,<br />

l’adesione all’euro era un preciso obbligo per ogni Stato membro, a meno che non si fosse già ottenuta,<br />

a suo tempo, una deroga, come era il caso di Danimarca e Regno Unito. Perciò anche la<br />

Svezia avrebbe già dovuto aderire di fatto all’euro o comunque impegnarsi ad aderirvi prima o poi.<br />

Invece il governo svedese indisse un referendum popolare sull’euro, che, svoltosi il 14 settembre<br />

2003, diede esito negativo. Da quel momento la Svezia, pur non godendo di alcuna deroga, si comportò<br />

esattamente come se l’avesse e infatti non fa tuttora parte della zona euro. Tale esempio non<br />

esemplare sarà poi puntualmente imitato da qualche nuovo Stato membro, che, come la Polonia,<br />

non sembra tuttora seriamente intenzionato ad assumere la moneta dell’Unione.<br />

In ogni caso, in previsione dell’ormai imminente CIG, il PE adottava la risoluzione del 24 settembre<br />

2003 “sul progetto di trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa, recante parere del Parlamento<br />

Europeo sulla convocazione della Conferenza intergovernativa (CIG)”. In essa il PE in primo<br />

luogo metteva in risalto la “qualità dei lavori della Convenzione” e quindi che “il metodo della<br />

Convenzione dovrebbe applicarsi per tutte le future revisioni”. 384 Nella lunghissima sequenza di<br />

384 In tal modo il PE poneva l’intero futuro trattato costituente come dotato di dignità appunto costituzionale, prevedendo<br />

anche per le disposizioni della parte III e della parte IV una procedura di revisione tramite una nuova Convenzione.<br />

Ciò confermava e anzi accresceva la tendenza già in atto a considerare tutto il trattato costituzionale come la “Costituzione<br />

europea” in quanto tale, confermando e accrescendo di conseguenza i timori tra i cittadini per un trattato unico<br />

(sostitutivo dei trattati esistenti), che, dato il suo carattere “costituzionale”, avrebbe previsto, per qualsiasi sua parte, una<br />

procedura di revisione talmente complessa, da rendere molto difficile una sua sia pur parziale modifica. Si ingenerava in


motivi di elogio per il testo del progetto, il PE non mancava peraltro di notare alcune mancanze,<br />

ovvero:<br />

a) per quanto riguarda la “trasparenza”:<br />

- “il metodo comunitario non si applica pienamente a tutte le decisioni in materia di politica estera e di sicurezza comune,<br />

di giustizia e affari interni, nonché di coordinamento delle politiche economiche”;<br />

- per quanto riguarda il trattato CEEA o EURATOM (che sarebbe comunque sopravvissuto accanto al futuro trattato<br />

costituzionale), “sollecita la CIG a indire una conferenza per la revisione del trattato, al fine di abrogare le disposizioni<br />

obsolete e antiquate del trattato, segnatamente per quanto riguarda la promozione dell’energia nucleare e la mancanza di<br />

procedure decisionali democratiche”;<br />

b) per quanto riguarda l’”efficienza”:<br />

- “la necessità in futuro di ulteriori estensioni della votazione a maggioranza qualificata o del ricorso alla votazione a<br />

maggioranza qualificata speciale”;<br />

- “il Parlamento Europeo deve essere l’istanza parlamentare responsabile in materia di politica estera e di sicurezza comune<br />

e politica europea di sicurezza e di difesa, nella misura in cui queste rientrano nelle competenze dell’UE”;<br />

c) per quanto riguarda gli “aspetti che richiedono un ulteriore monitoraggio in fase di attuazione”:<br />

- “l’elezione del presidente del Consiglio europeo […] potrebbe determinare conseguenze imprevedibili per l’equilibrio<br />

istituzionale dell’Unione”; “il ruolo del presidente deve essere strettamente limitato a quello di una presidenza in senso<br />

stretto, al fine di evitare eventuali conflitti con il presidente della Commissione o il ministro degli affari esteri<br />

dell’Unione e di non mettere a repentaglio il loro status o usurpare, in alcun modo, il ruolo della Commissione nella<br />

rappresentanza esterna, nell’iniziativa legislativa, nell’attuazione esecutiva o nell’amministrazione”;<br />

- “le disposizioni concernenti le presidenze delle formazioni del Consiglio dei ministri diverse dal Consiglio “Affari esteri”<br />

rinviano i dettagli a una decisione successiva, che dovrebbe essere attentamente esaminata, tenendo conto del requisito<br />

della coerenza, dell’efficienza e della responsabilità, nonché della necessità di trattare il problema della presidenza<br />

degli organismi preparatori del Consiglio”;<br />

- “è indispensabile che il ministro degli affari esteri dell’Unione sia appoggiato da un’amministrazione congiunta in seno<br />

alla Commissione”;<br />

- “il mediatore europeo, che è eletto dal Parlamento Europeo, e i mediatori nazionali propongano eventualmente un sistema<br />

più esauriente di rimedi extragiudiziali in stretta cooperazione con la Commissione per le petizioni del Parlamento<br />

Europeo”;<br />

- la CIG “dovrebbe decidere l’abrogazione, dopo l’entrata in vigore dello Statuto dei deputati,” degli articoli risultanti in<br />

contrasto con esso del Protocollo sui privilegi e le immunità e dell’Atto sull’elezione del PE;<br />

- “deplora l’insufficiente coerenza della parte III con la parte I del progetto di Costituzione, in particolare riguardo<br />

all’articolo I-3” ossia a quello relativo agli obiettivi dell’Unione;<br />

- esigeva “la rapida apertura di un negoziato interistituzionale, a integrazione della Conferenza intergovernativa, sulla<br />

struttura “ del quadro della procedura di bilancio “e sulla natura dei vincoli che graveranno sulla procedura di bilancio”;<br />

- esprimeva la sua preoccupazione in merito alle risposte insoddisfacenti alle seguenti questioni fondamentali: 1)<br />

“l’ulteriore consolidamento della politica di coesione economica e sociale, un più stretto coordinamento delle politiche<br />

economiche degli Stati membri in vista di una governance economica efficace, e una più esplicita integrazione della<br />

dimensione occupazionale, ambientale e degli aspetti riguardanti il benessere degli animali in tutte le politiche<br />

dell’Unione”; 2) “il pieno e integrale riconoscimento del ruolo dei servizi pubblici”; 3) “la soppressione dell’unanimità<br />

in seno al Consiglio in ordine a taluni settori importanti, tra cui segnatamente la politica estera e di sicurezza comune<br />

(almeno per quel che riguarda le proposte presentate dal ministro degli affari esteri dell’Unione con il sostegno della<br />

Commissione) e alcuni ambiti della politica sociale”;<br />

- “auspica che la riforma della Commissione non indebolisca il suo carattere collegiale o dia luogo a una mancanza di<br />

continuità; si rammarica del fatto che il sistema previsto renda difficile mantenere un valido Commissario europeo per<br />

un secondo mandato”;<br />

d) per quanto riguarda la “valutazione generale”:<br />

- deplorava “che l’unanimità degli Stati membri e la ratifica da parte dei Parlamenti nazionali o mediante altre disposizioni<br />

costituzionali saranno ancora necessarie per consentire l’entrata in vigore persino di modifiche costituzionali di<br />

lieve importanza”, nonché deplorava che “l’approvazione del Parlamento Europeo non sia sistematicamente prevista per<br />

l’entrata in vigore di nuovi testi costituzionali adottati”.<br />

Al di là di queste “note di doglianza” sul Progetto, il PE, a proposito del tema “convocazione della<br />

Conferenza intergovernativa e processo di ratifica”, prendeva atto, con approvazione, che l’apertura<br />

della CIG avrebbe avuto luogo il 4 ottobre 2003 e che la presidenza italiana intendeva concluderla<br />

entro il dicembre 2003; il PE proponeva altresì che la firma del trattato costituzionale fosse effettua-<br />

tal modo la rozza, ma profonda sensazione: “O lo si accetta per intero così com’è (lunghissimo, incomprensibile e pericolosamente<br />

“misterioso”) una volta per tutte, o lo si respinge ora per semplificarlo e renderlo davvero chiaro subito”.


ta il 9 maggio 2004, in coincidenza con la giornata dell’Europa, e infine raccomandava che “gli Stati<br />

che prevedono referendum in merito al progetto di Costituzione dovrebbero organizzare tali referendum<br />

o prevedere la ratifica del progetto di Costituzione in conformità con le loro disposizioni<br />

costituzionali, se possibile, lo stesso giorno”.<br />

In tal modo il PE intendeva riproporre, sotto questa veste, il principio del “referendum paneuropeo” sulla Costituzione<br />

europea, quale modalità supremamente democratica di approvazione da parte dei cittadini europei in quanto tali della<br />

“loro” Costituzione. Inoltre il PE intendeva evitare per converso che, nell’ambito di un singolo referendum nazionale<br />

svoltosi isolatamente, i cittadini si sentissero chiamati a votare per o contro la ratifica di un trattato costituzionale europeo<br />

da cittadini del loro particolare Stato membro, in un’ottica, dunque, impropria e falsata già all’origine. Infatti, se è<br />

in gioco una Costituzione, la si fa votare ai cittadini di quel soggetto politico-istituzionale che si intende fondare su<br />

quella Costituzione, altrimenti la sola espressione “Costituzione europea” suona come l’evocazione di un soggetto politico-istituzionale<br />

sovrapposto o persino alternativo all’indipendenza o persino alla sovranità dello Stato, di cui si è e ci<br />

si sente in primo luogo cittadini, proprio nella misura in cui si è chiamati a votare, in quel giorno, “da soli” ossia a livello<br />

esclusivamente nazionale. Infine il PE intendeva evitare che l’eventuale esito negativo di un referendum nazionale<br />

non finisse per influenzare altrettanto negativamente successivi referendum nazionali. Purtroppo questi semplici accorgimenti<br />

relativi a una logica quanto mai elementare non avranno ascolto e in tal modo si finirà per imboccare a tutta<br />

forza il terribile vicolo cieco del blocco del processo di ratifica.<br />

c) La CIG del 2003-‘04<br />

In ogni caso il primo problema da affrontare e da risolvere era il varo del trattato costituzionale e<br />

perciò uno svolgimento positivo della CIG, che si apriva, come previsto, a Roma il 4 ottobre 2003.<br />

Tale apertura era accompagnata da un vertice straordinario dei capi di Stato e di governo dell’UE,<br />

all’inizio del quale il presidente del PE Pat Cox rivolgeva loro un discorso, in cui si sottolineava che<br />

era la prima volta che il presidente del PE fosse invitato a una CIG e anzi che il PE avesse modo di<br />

partecipare pienamente ai lavori di essa. Cox poneva alla CIG questa meta ambiziosa, propria della<br />

stessa Convenzione: dar luogo a un trattato costituzionale, che, proprio in quanto tale, ponesse fine<br />

alla “costante revisione dell’assetto costituzionale”, a “quest’interminabile introspezione istituzionale”,<br />

che aveva accompagnato la storia del processo d’integrazione europea negli ultimi diciassette<br />

anni dall’Atto unico, attraverso il trattato di Maastricht, quello di Amsterdam e quello di Nizza, sino<br />

all’attuale CIG, dato che “ciò permetterebbe di liberare energie e di concentrarle su quello che è il<br />

nostro obiettivo politico fondamentale: migliorare la vita quotidiana dei nostri cittadini”. Ma Cox<br />

metteva pure in guardia da ciò che sarebbe potuto succedere nel caso si fosse tornati al solito spirito<br />

delle CIG:<br />

“Se ci si concentra sulle minacce agli interessi nazionali fondamentali, si corrono due rischi. Il primo è che a fine giornata<br />

– o più probabilmente nel cuore della notte – si ritorni alla politica dei mercanteggiamenti a porte chiuse, che è esattamente<br />

ciò che si era cercato di evitare ricorrendo al metodo della Convenzione. Il secondo rischio è che, alzando<br />

ora la posta in gioco, si inducano aspettative irrealistiche e si fomentino i timori dell’opinione pubblica, cosicché, anche<br />

qualora venissero raggiunti i necessari compromessi, si renderebbe più difficile il processo di ratifica, una volta firmato<br />

il trattato.”<br />

Insomma il tipo di svolgimento della CIG non avrebbe mancato, secondo Cox, di influenzare<br />

l’immagine del trattato costituzionale presso l’opinione pubblica e quindi lo stesso processo di ratifica.<br />

Ciò non impediva, peraltro, di migliorare ulteriormente il progetto della Convenzione, p.e. a<br />

proposito della presidenza del Consiglio europeo e delle diverse formazioni del Consiglio. Tuttavia<br />

Cox raccomandava un’ultima volta di guardarsi bene dal generare confusione tra i rispettivi ruoli<br />

della presidenza del Consiglio europeo e della presidenza della Commissione: “Per quanto riguarda<br />

il Consiglio europeo, ciò che occorre è un presidente, non il capo di un nuovo Stato.” Infine il presidente<br />

del PE si rallegrava, oltre che della pubblicizzazione via Internet dei lavori della CIG, anche<br />

del fatto che, proprio in nome della duplice legittimazione dell’UE, da parte degli Stati membri e da<br />

parte dei loro cittadini, fosse prevista la partecipazione piena alla CIG di tre deputati al PE: lo stesso<br />

Pat Cox, nonché Klaus Hänsch e Iñigo Méndez de Vigo, già membri del Praesidium della Convenzione.


Il vertice straordinario si chiudeva poi con la “Dichiarazione di Roma”, un documento dei capi di<br />

Stato e di governo dei Paesi membri, in via di adesione (anch’essi partecipanti a pieno titolo alla<br />

CIG) e candidati (osservatori alla CIG) dell’UE, del presidente del PE e del presidente della Commissione,<br />

in cui si rinnovava l’impegno della CIG a produrre, in tempo utile per le elezioni del PE<br />

del giugno 2004, un trattato costituzionale, basato sul progetto della Convenzione. Da quel momento<br />

iniziavano quindi i lavori della CIG.<br />

Poche settimane dopo si svolgeva il Consiglio europeo di Bruxelles del 16-17 ottobre 2003: da questo<br />

momento il Consiglio europeo si sarebbe riunito sempre nella capitale belga, che diventava con<br />

ciò l’autentica capitale dell’UE. Esso era preceduto nella giornata del 16 ottobre 2003 da una riunione<br />

della CIG a livello di capi di Stato e di governo, nella quale il presidente del PE esponeva la<br />

posizione dello stesso PE sui temi istituzionali. Per quanto riguarda il “ruolo della presidenza del<br />

Consiglio europeo”, Cox riaffermava: “non sarà il capo di un nuovo Stato, ma il guardiano della<br />

continuità, il promotore del consenso e della coesione dell’Unione” ovvero “viene proposta una<br />

nuova carica, non una nuova istituzione”. Cox insisteva pure sul fatto che “per tutte le procedure legislative<br />

deve essere rispettato il principio della trasparenza” e che quindi era necessario che quando<br />

“il Consiglio deliberi sulle leggi dell’Unione, deve farlo in pubblico”. Per quanto riguarda il “voto a<br />

maggioranza qualificata”, insisteva sull’importanza della flessibilità (nel passaggio dall’unanimità<br />

alla maggioranza) offerta dalla cosiddetta “passerella”, ammonendo: “In occasione di una crisi o di<br />

fronte a una nuova sfida, l’Unione non potrà concedersi il lusso di perdere tempo a rimodellare la<br />

propria architettura costituzionale per poter intervenire con efficacia”. Per quanto riguarda la “composizione<br />

del Parlamento Europeo”, Cox ammoniva: “Un accordo sottobanco nel cuore della notte<br />

alla fine dell’anno, nel quale i voti del Consiglio o i seggi del Parlamento Europeo vengano distribuiti<br />

come regalo natalizio getterà il discredito sulla nobile opera che abbiamo intrapreso. Quel che<br />

ci vuole è una clausola costituzionale, non Babbo Natale.” Per quanto riguarda il “ministro degli affari<br />

esteri dell’Unione”, si chiedeva: “Questo argomento sarà la cartina al tornasole: gli Stati membri<br />

sono pronti a dare questo segnale, per confermare che siamo seriamente intenzionati ad agire insieme<br />

sulla scena mondiale?” Per quanto riguarda, infine, la “composizione della Commissione europea”,<br />

confermava l’accettazione, da parte del PE, del fatto che “sarebbe arrivato un momento in<br />

cui non tutti gli Stati membri avrebbero avuto un proprio Commissario”, ma ammoniva: “purché<br />

tutti gli Stati membri abbiano accesso alla Commissione su una base di parità”. Infine, traendo le<br />

“conclusioni”, si augurava che “si resista alla tentazione di riaprire una lunga lista di voci” e, se del<br />

caso, “coloro che rifiutano le soluzioni di consenso raggiunte dalla Convenzione dovrebbero avanzare<br />

proposte in grado di ottenere lo stesso ampio consenso”.<br />

Mentre la CIG continuava i propri lavori, il PE approvava la risoluzione legislativa del 20 novembre<br />

2003 “sulla proposta di decisione del Consiglio che istituisce un programma d'azione comunitaria<br />

per la promozione della <strong>cittadinanza</strong> europea <strong>attiva</strong> (partecipazione civica)”. Con essa il PE approvava,<br />

emendandola, la proposta della Commissione relativa all’istituzione di un programma<br />

d’azione comunitaria per la promozione della “<strong>cittadinanza</strong> europea <strong>attiva</strong>” ovvero della “partecipazione<br />

civica”. Si trattava di una vera svolta politica: per la prima volta la <strong>cittadinanza</strong> dell’Unione<br />

come tale, nella sua dimensione piena della <strong>cittadinanza</strong> <strong>attiva</strong> e quindi nella dimensione della partecipazione<br />

civica, diventava lo stesso oggetto di una concreta politica educativa o formativa varata<br />

dalle istituzioni comunitarie. Tale risoluzione del PE preludeva all’effettiva decisione del Consiglio<br />

in merito che sarebbe stata adottata il 26 gennaio 2004.<br />

Nel frattempo completava il suo iter decisionale l’altra proposta del PE, relativa ai partiti politici<br />

europei. Con il regolamento (CE) n. 2004/2003 del PE e del Consiglio del 4 novembre 2003 relativo<br />

“allo statuto e al finanziamento dei partiti politici a livello europeo”, infatti, veniva varata la<br />

normativa al riguardo, così come proposta dal PE. Partiva con ciò la corsa, da parte delle varie forze<br />

politiche, alla redazione dei rispettivi statuti e alla richiesta dei relativi finanziamenti. La situazione<br />

che si sarebbe prodotta è la seguente (denominazione, data dell’attuale statuto di associazione internazionale<br />

senza scopo di lucro, finanziamenti in migliaia di euro forniti dall’UE nel 2004, 2005 e<br />

2006):


Partito popolare europeo 385 31/3/06 1.587 2.863 2.929<br />

Partito socialista europeo 386 8/12/06 1.257 2.489 2.580<br />

Partito europeo dei liberali, democratici e riformatori 387<br />

30/4/04 894 883<br />

Alleanza libera europea 388 28/5/05 165 217 222<br />

Federazione europea dei partiti verdi 389 21/2/04 306 568 581<br />

Alleanza per l’Europa delle nazioni 390 3/12/04 161 450 450<br />

Partito della sinistra europea 391 9/5/04 210 365 518<br />

Partito democratico europeo 392 9/12/04 340 459 514<br />

Alleanza dei democratici indipendenti in Europa 393 2005 328<br />

Democratici dell’UE 394 8/11/05 219<br />

Già dalla denominazione ufficiale emerge come dei dieci predetti partiti politici si presentino, almeno<br />

ufficialmente, quali “partiti politici” (e non già “alleanze di partiti politici”), soltanto i seguenti<br />

sei, ordinati per posizionamento politico: il PPE, il PELDR, il PDE, il PSE, la FEPV e la SE.<br />

Tutt’altra questione è se almeno qualcuno di tali dieci partiti sia effettivamente un partito politico<br />

europeo. In merito il Regolamento così si esprime: “La pratica indica che i membri di un partito politico<br />

a livello europeo saranno o cittadini raggruppati come partito politico, oppure partiti politici<br />

che formano un’alleanza.” La situazione attuale propende, nei fatti, per la seconda alternativa. Ma<br />

non è detto che debba restare l’unica: anzi, ciò che oggi potrebbe costituire una semplice ipotesi teorica,<br />

potrebbe divenire non solo realtà, bensì persino la regola, per il futuro, dei partiti politici europei.<br />

La prima, forse non debole, “spia” a questo riguardo è costituita dalla possibilità<br />

dell’iscrizione diretta a tale partito da parte del singolo cittadino europeo, persino in assenza della<br />

sua iscrizione a qualsiasi partito nazionale. Tale possibilità è peraltro prevista, ma in misura quanto<br />

mai diversificata tra l’uno e l’altro, soltanto negli statuti del PESDR (art. 5) 395 , della FEPV (art.<br />

6) 396 , dell’AEN (art. 7) 397 , della SE (art. 6) 398 , del PDE (art. 7) 399 e dei DUE (art. 4) 400 . L’esclusione<br />

385<br />

Al PE il PPE rientra nel gruppo politico PPE-DE. Al PPE aderiscono i seguenti partiti politici italiani: Forza Italia,<br />

Unione dei democratici cristiani e di centro, Popolari UDEUR.<br />

386<br />

Al PE il PSE rientra nel gruppo politico PSE. Al PSE aderiscono i seguenti partiti politici italiani: Sinistra democratica,<br />

Democratici di sinistra (sino al 14 ottobre 2007), Socialisti democratici italiani (dal 2008 Partito socialista italiano).<br />

387<br />

Al PE il PELDR rientra nel gruppo politico ALDE. Al PELDR aderiscono i seguenti partiti politici italiani: Partito<br />

repubblicano italiano, Italia dei valori, Movimento repubblicani europei, i Radicali.<br />

388<br />

Al PE l’ALE rientra nel gruppo politico Verdi-ALE. All’ALE aderiscono i seguenti partiti politici italiani: Libertà<br />

emiliana- Alleanza “Libera Emilia”, Liga “Fronte Veneto”, Partito sardo d’azione, Slovenska Skupnost, Union für Südtirol,<br />

Union Valdôtaine.<br />

389<br />

Al PE la FEPV rientra nel gruppo politico Verdi-ALE. Alla FEPV aderisce l’italiana Federazione dei Verdi.<br />

390<br />

Al PE l’AEN rientra nel gruppo politico UEN. All’AEN aderiscono i seguenti partiti politici italiani: Alleanza Nazionale,<br />

Lega Nord per l’indipendenza della Padania.<br />

391<br />

Al PE la SE rientra nel gruppo politico SE-SVN. Alla SE aderisce l’italiano Partito della rifondazione comunista.<br />

392<br />

Al PE il PDE rientra nel gruppo politico ALDE. Al PDE aderisce l’italiana La Margherita - Democrazia è libertà (sino<br />

al 14 ottobre 2007). Da questa data La Margherita e i Democratici di sinistra confluiranno nel nuovo Partito democratico<br />

(italiano), che sembra quanto mai logico aderirà al PDE.<br />

393<br />

Al PE l’ADIE rientra nel gruppo politico ID.<br />

394<br />

Al PE i DUE rientrano nel gruppo politico PPE-DE. Ai DUE aderisce l’italiano Partito dei pensionati.<br />

395<br />

“Ai membri individuali può esser richiesto di pagare un contributo per l’appartenenza. Hanno il diritto di prendere<br />

parte agli incontri del Consiglio e del Congresso, alle condizioni descritte nei Regolamenti interni. Se dei membri individuali<br />

prendono parte agli incontri del Consiglio e del Congresso, possono esprimere la loro opinione, ma non hanno il<br />

diritto di voto.”<br />

396<br />

“Sostenitori e donatori hanno diritto a una regolare informazione sugli sviluppi programmatici e sulle politiche della<br />

Federazione. Dietro domanda possono seguire gli incontri della Federazione e le reti regionali con una limitata possibilità<br />

di partecipare a discussioni e senza <strong>diritti</strong> di voto.”<br />

397<br />

“L’appartenenza all’Alleanza per l’Europa delle nazioni sarà aperta a individui sulla base di condizioni da stabilire<br />

dal Consiglio.”<br />

398<br />

“La Sinistra europea introduce per un certo periodo di sperimentazione l’opportunità di un’appartenenza individuale<br />

come contributo per il suo futuro sviluppo. Una decisione finale sulla questione sarà presa soltanto dopo un completo


di tale possibilità proprio negli statuti dei due maggiori partiti (PPE e PSE) e insieme la previsione<br />

di essa solo “per un certo periodo di sperimentazione” ed esclusivamente a titolo di contributo al<br />

“futuro sviluppo” del partito nello statuto della SE, come pure altre forme di limitazione (p.e.<br />

l’assenza del diritto di voto) in quelli di altri partiti, lasciano intendere che persino i partiti che la<br />

ammettono lo fanno in quanto la ritengono un’eccezione, peraltro necessaria allo scopo di consolidare<br />

e accrescere il peso politico del partito a livello europeo. Si tratterebbe, in altre parole, di una<br />

concessione, provvisoria e condizionata, all’esercizio, da parte del cittadino europeo, di una sorta di<br />

“democrazia partecipativa” proprio nel cuore della “democrazia rappresentativa”.<br />

Proprio tale eccezione, tuttavia, permetterebbe, ove fosse realmente incoraggiata (come nel caso<br />

dello statuto di qualche partito), di coinvolgere direttamente cittadini europei in quanto tali nella<br />

partecipazione alla vita politica europea e perciò sia di “formare una coscienza europea”, sia di “esprimere<br />

la volontà politica dei cittadini dell’Unione” (art. 191 del trattato CE). Inoltre la presenza<br />

di un congruo numero di cittadini europei o di associazioni (non partitiche) europee direttamente iscritti<br />

al singolo partito europeo permetterebbe di legittimare altrettanto direttamente dal punto di<br />

vista democratico quest’ultimo, consentendogli di andare oltre la natura di semplice confederazione<br />

di partiti nazionali e spingendo questi ultimi, ove sia presente in essi una vera apertura europea, a<br />

istituire una struttura propriamente federale nel rispettivo partito europeo, caratterizzata, p.e., da un<br />

autentico programma politico unitario (non generico, bensì basato su univoche scelte qualificanti di<br />

carattere vincolante) e da candidature unitarie al PE (discusse e ratificate a livello europeo), compresa<br />

quella del candidato unico alla presidenza della Commissione europea. In tal modo verrebbe<br />

davvero <strong>attiva</strong>to il circuito virtuoso della legittimazione democratica necessaria alla definizione delle<br />

sempre più impegnative decisioni dell’UE, coinvolgendo direttamente i cittadini europei in quanto<br />

tali su azioni aventi impatto su di essi in quanto tali.<br />

Nel frattempo la CIG aveva condotto i propri lavori sulla base del seguente procedimento: i veri e<br />

propri lavori della CIG erano stati svolti, come richiesto dallo stesso PE, a livello politico e avevano<br />

individuato nel progetto della Convenzione varie questioni richiedenti precisazioni o modifiche o<br />

persino avevano elaborato proposte di possibili soluzioni; parallelamente, peraltro, a tali discussioni<br />

a livello politico, era stato creato pure un gruppo di esperti giuridici che aveva effettuato la revisione<br />

giuridica del progetto della Convenzione, producendo un nuovo progetto di trattato pubblicato<br />

nel documento CIG 50/03 del 25 novembre 2003 (di 248 pagine), nonché (per gli allegati e i protocolli)<br />

nel documento CIG 50/03 ADD 1 della stessa data (di circa 270 pagine). A questi due ponderosi<br />

documenti la CIG univa il documento CIG 51/03 del 25 novembre 2003, contenente la “presentazione<br />

dei risultati dei lavori del gruppo – documento 50/03”. In quest’ultima il gruppo non mancava<br />

di far notare che<br />

“le delegazioni spagnola e polacca hanno fatto presente che il trasferimento nel progetto di “protocollo sulle disposizioni<br />

transitorie relative alle istituzioni e agli organi dell’Unione” delle varie disposizioni transitorie disseminate nel testo<br />

dibattito sull’esperienza e sui dibattiti in tutti i partiti membri. Durante tale periodo ogni partito od organizzazione politica<br />

membro è libero di adottare – per il proprio Paese – l’approccio e i metodi pratici più convenienti. Sulla base di tale<br />

approccio donne e uomini residenti di uno stato membro dell’Ue possono diventare individualmente membri della SE.<br />

In Paesi ove esistano partiti o organizzazioni politiche membri a pieno diritto della SE, queste persone possono dar vita<br />

a circoli di amicizia associati a questi partiti.”<br />

399 “5. Le persone fisiche aderenti ai partiti membri sono membri di diritto. Le persone fisiche non aderenti a un partito<br />

membro e che abbiano versato una quota il cui importo è fissato dalla Presidenza sono membri dopo l’ammissione da<br />

parte del Consiglio tenuto conto che non siano aderenti a un partito politico nazionale, regionale o locale membro di un<br />

altro partito o gruppo al Parlamento europeo. 6. Le associazioni senza scopo di lucro che abbiano versato una quota il<br />

cui importo è fissato dalla Presidenza sono membri dopo l’ammissione da parte del Consiglio.” Degno di nota è pure il<br />

seguente passo dell’art. 13: “Le persone fisiche contemplate all’articolo 7 punto 5 possono essere invitate a partecipare<br />

al Congresso. Tale decisione è presa dal Consiglio su proposta del (dei) Presidente (i). Il Congresso del PDE si impegna<br />

a prendere posizione e, all’occorrenza, a dar seguito alle proposte presentate da almeno il 30% delle persone fisiche<br />

contemplate all’articolo 7 punto 5 e delle persone morali contemplate al punto 6.”<br />

400 “Dietro domanda scritta, sarà concessa l’appartenenza a organizzazioni, movimenti e individui per tutta Europa, che<br />

sottoscrivano agli obiettivi delineati in questo statuto…”.


del progetto di Costituzione pone loro dei problemi di opportunità politica. Di conseguenza potranno condividere<br />

l’approccio tecnico-giuridico elaborato dal gruppo solo nella misura in cui i problemi di opportunità politica in questione<br />

saranno stati risolti.”<br />

Inoltre, in merito alla sua proposta di aggiungere un “ultimo considerando del preambolo della Carta<br />

dei <strong>diritti</strong> fondamentali (parte II del progetto di Costituzione)”, relativo alle “spiegazioni” della<br />

stessa Carta, il gruppo rilevava:<br />

“La seguente aggiunta è appoggiata dalla grande maggioranza delle delegazioni (contrarie le delegazioni tedesca, austriaca,<br />

belga, lussemburghese e francese perché ritengono che ciò sollevi questioni di opportunità politica): “[…] spiegazioni<br />

elaborate sotto l’autorità del Praesidium della Convenzione che ha redatto la Carta e aggiornate sotto la responsabilità<br />

del Praesidium della Convenzione europea.”<br />

In merito alla sua proposta di menzionare esplicitamente, nella base giuridica che permette<br />

l’adozione di misure specifiche riferite alla zona euro, sia l’istituzione che le deve adottare ossia il<br />

Consiglio, sia le procedure da applicare in funzione del contenuto della decisione, il gruppo rilevava:<br />

“Sono contrarie solo le delegazioni del Regno Unito e della Svezia che propongono una formulazione<br />

diversa.”<br />

In merito poi alla sua proposta di una redazione più precisa e giuridicamente più certa della “regola<br />

di non pregiudizialità reciproca tra le procedure PESC e quelle delle altre politiche”, il gruppo rilevava:<br />

“vi si oppone solo la delegazione spagnola”.<br />

Infine, in merito alla sua proposta di estensione alla BEI delle regole di accesso ai documenti proprie<br />

della BCE, il gruppo rilevava: “solo la delegazione svedese è contraria”.<br />

Già a livello di semplici “adeguamenti di carattere redazionale e giuridico” del progetto della Convenzione<br />

si registravano dunque i primi segnali di divergenze tra i vari Stati membri. Quanto alle<br />

discussioni politiche vere e proprie, la Presidenza italiana della CIG interveniva invece con il<br />

documento CIG 52/03 dello stesso 25 novembre 2003. In esso la Presidenza italiana sosteneva che<br />

“i testi risultati dai lavori del gruppo di esperti giuridici non dovrebbero essere rimessi in questione<br />

e dovrebbero fungere da punto di riferimento per i ministri e i capi di Stato e di governo nelle discussioni<br />

a livello politico.” In vista di queste ultime, la Presidenza indicava propri suggerimenti per<br />

una serie di questioni, al di fuori delle quali “il testo del progetto di trattato costituzionale (quale figura<br />

nel doc. CIG 50/03) resta la base dei futuri lavori.” Tali suggerimenti (formulati quasi tutti in<br />

precise proposte di testi nel contestuale documento CIG 52/03 ADD 1) erano:<br />

1) per il Preambolo e la definizione e gli obiettivi dell’Unione:<br />

- Preambolo: aggiunta del retaggio cristiano dell’Europa e del carattere laico delle istituzioni degli Stati membri<br />

dell’UE (principio di laicità)<br />

- art. I-2 (valori dell’UE): aggiunta dei <strong>diritti</strong> delle minoranze e della parità tra uomini e donne<br />

- art. I-10 (primato del diritto dell’UE): aggiunta di una dichiarazione nell’Atto finale sull’accoglimento della giurisprudenza<br />

esistente della Corte di giustizia<br />

2) per la Carta dei <strong>diritti</strong> fondamentali:<br />

- aggiungere nel Preambolo un riferimento all’aggiornamento delle spiegazioni ufficiali della Carta, inserire in una<br />

dichiarazione nell’Atto finale del testo di tali spiegazioni e loro pubblicazione nella Gazzetta ufficiale<br />

3) per le questioni istituzionali:<br />

a) per la definizione del voto a maggioranza qualificata:<br />

“La Presidenza ha rilevato che numerose delegazioni appoggiano il progetto di testo della Convenzione sulla questione.<br />

La Presidenza è tuttavia consapevole che per alcune delegazioni [spagnola e polacca] la proposta della Convenzione<br />

non può essere accettata nella sua formulazione attuale. Tenuto conto di tali opinioni divergenti e dell’obiettivo globale<br />

di mantenere l’equilibrio istituzionale stabilito dalla Convenzione, la Presidenza non propone modifiche alle proposte<br />

della Convenzione sulla definizione della maggioranza qualificata. Ritiene tuttavia sia necessario continuare a riflettere<br />

sui possibili modi per rispondere a queste preoccupazioni, tenendo presente l’obiettivo globale condiviso di disporre di<br />

procedure decisionali semplici, efficaci e trasparenti.”<br />

b) per la composizione della Commissione:<br />

- mantenimento del progetto della Convenzione (tredici commissari a pieno titolo e altri commissari “senza diritto di<br />

voto”)<br />

c) per il Consiglio dei ministri – formazioni e Presidenza:


- presentazione di un apposito progetto di testo, che comunque prevede la soppressione del “Consiglio legislativo”<br />

proposto nel progetto della Convenzione<br />

d) per il ministro degli affari esteri:<br />

- sostanziale mantenimento del progetto della Convenzione<br />

e) per il Consiglio europeo – controllo giudiziario dei suoi atti giuridici:<br />

- estensione del controllo giudiziario della Corte di giustizia agli atti giuridici del Consiglio europeo<br />

f) per il Parlamento europeo:<br />

- sostanziale mantenimento del progetto della Convenzione<br />

4) per finanze/bilancio/politica economica e monetaria:<br />

a) per le prospettive finanziarie:<br />

- proposta di una “clausola di revisione a tempo”<br />

b) per il bilancio:<br />

- sostanziale mantenimento del progetto della Convenzione<br />

c) per la sorveglianza multilaterale:<br />

- sostanziale mantenimento del progetto della Convenzione<br />

d) per la Banca centrale europea:<br />

- affidare alla BCE compiti specifici nelle politiche sulla vigilanza prudenziale<br />

- ampliare la portata delle disposizioni della clausola di abilitazione alla revisione dello statuto del SEBC e della BCE<br />

- introdurre il voto a maggioranza qualificata per la nomina dei membri della BCE<br />

e) per le procedure Lamfalussy:<br />

- redigere una dichiarazione sull’impegno della Commissione a consultare gli esperti degli Stati membri<br />

nell’elaborazione delle sue proposte di regolamenti delegati nell’ambito dei servizi finanziari<br />

f) per la clausola di abilitazione per la BEI:<br />

- modifica della procedura per la modifica dello statuto della BEI<br />

g) per l’UEM – processo decisionale relativo all’euro:<br />

- modifiche delle disposizioni concernenti il processo decisionale relativo all’euro<br />

5) per lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia:<br />

a) per il diritto penale:<br />

- possibilità per ogni Stato membro di esporre le proprie preoccupazioni specifiche prima dell’adozione di un atto<br />

- precisare che nel mandato del magistrato della Procura rientra la lotta contro la frode lesiva degli interessi finanziari<br />

dell’UE<br />

b) per il diritto civile:<br />

- chiarimento della disposizione relativa alla cooperazione giudiziaria in materia civile<br />

6) per la difesa:<br />

- allineamento delle disposizioni sulla cooperazione strutturata nella PESD alle disposizioni sulla cooperazione rafforzata<br />

nella PESC<br />

- precisare che la clausola della difesa reciproca non pregiudica gli impegni nella NATO<br />

7) per la PESC:<br />

- estensione del voto a maggioranza qualificata nel settore della PESC<br />

8) per le altre politiche dell’UE: modifiche sui seguenti argomenti:<br />

a) clausola sociale<br />

b) sicurezza sociale<br />

c) fiscalità<br />

d) politica sociale<br />

e) coesione economica, sociale e territoriale<br />

f) trasporti<br />

g) ricerca e sviluppo<br />

h) energia<br />

i) sanità pubblica<br />

j) sport<br />

k) turismo<br />

9) per la procedura di revisione:<br />

a) per la decisione di passare dall’unanimità alla maggioranza qualificata o da una procedura legislativa speciale alla<br />

procedura legislativa ordinaria (clausola “passerella” generale): inserire una disposizione per cui tale decisione non avrà<br />

effetto se un certo numero di Parlamenti nazionali avranno mosso obiezioni (procedura di nulla osta)<br />

b) per la decisione di modificare le disposizioni della Costituzione sulle politiche interne (titolo III della parte III - procedura<br />

di revisione speciale): se tale decisione non comporta alcun ampliamento delle competenze dell’UE, è sufficiente<br />

una decisione del Consiglio europeo a maggioranza qualificata e la successiva ratifica di tutti gli Stati membri, senza<br />

convocazione di una CIG<br />

10) per altre questioni:<br />

a) possibilità di adattare l’elenco delle regioni ultraperiferiche con una procedura più semplice<br />

b) versione modificata del protocollo 5 sulla posizione della Danimarca


c) ricordare la competenza degli Stati membri per fornire, commissionare e finanziare i servizi d’interesse generale<br />

d) riferimento specifico ai piccoli Stati limitrofi all’UE mediante una dichiarazione<br />

e) introdurre il voto a maggioranza qualificata del Consiglio per l’adesione dell’UE alla Convenzione europea dei <strong>diritti</strong><br />

dell’uomo<br />

f) trasformare il protocollo sulla protezione e benessere degli animali in una disposizione all’inizio della parte III<br />

g) invito ai tre Paesi candidati (Bulgaria, Romania e Turchia) a firmare l’Atto finale in veste di osservatori<br />

infine varie questioni riguardanti alcuni adattamenti formali al testo della Convenzione.<br />

Per quanto numerose fossero tali proposte e le aree interessate a esse, si coglieva già fin da allora<br />

che il tema veramente “scottante” erano le questioni istituzionali e in particolare la definizione del<br />

voto a maggioranza qualificata, che, nonostante godesse dell’approvazione dei governi di quasi tutti<br />

gli Stati membri, incontrava peraltro la più strenua opposizione da parte dei governi della Spagna e<br />

della Polonia. Questi due Paesi, infatti, aventi il medesimo ordine di grandezza di popolazione, avevano<br />

ricevuto con il trattato di Nizza un identico voto ponderato che li poneva entrambi in posizione<br />

quanto mai avvantaggiata rispetto ai maggiori Stati membri (come Germania, Regno Unito, Francia<br />

e Italia), mentre, con l’adozione della doppia maggioranza, prevista dal progetto della Convenzione<br />

quale nuova definizione del voto a maggioranza qualificata, avrebbero perduto tale posizione vantaggiosa.<br />

Di qui il loro rifiuto dello stesso principio della doppia maggioranza (numero di Stati e<br />

quantità di popolazione). Di fronte a tale rifiuto, la Presidenza italiana preferiva continuare sulla<br />

strada maestra della revisione, sostanzialmente “indolore”, dell’intero progetto della Convenzione,<br />

preferendo, sul punto specifico in questione, “continuare a riflettere”.<br />

In questo modo il successivo “conclave ministeriale” di Napoli del 28-29 novembre 2003 portò ad<br />

altri chiarimenti ovvero a effettive soluzioni di diverse delle questioni sopra menzionate, ma lasciò<br />

intatti i problemi più gravi, tra cui quello sollevato dalle delegazioni spagnola e polacca.<br />

Nel frattempo il PE provvedeva all’adozione di due risoluzioni nello stesso giorno, 4 dicembre<br />

2003, su due temi apparentemente estranei l’uno all’altro, ma in realtà profondamente connessi tra<br />

loro.<br />

La prima era la risoluzione del PE “sulla governance europea”. In essa il PE, considerando proprio<br />

il fatto che “il processo relativo al miglioramento della governance rappresenta una riforma che non<br />

oltrepassa i limiti dei trattati europei e va pertanto distinta dal processo più ampio di sviluppo costituzionale<br />

europeo nel cui ambito la Convenzione europea ha avanzato proposte importanti di modifica<br />

dei trattati e di riforma istituzionale”, che peraltro la CIG era sul punto di respingere, cercava di<br />

porre ordine almeno a un situazione in cui “gli organi consultivi che assistono la Commissione sono<br />

molto numerosi e rappresentano un insieme confuso, il che non consente al Parlamento Europeo di<br />

avere una visione d’insieme del processo legislativo”, dato anche che “la Commissione non ha ancora<br />

pubblicato un elenco esaustivo dei comitati e dei gruppi di lavoro coinvolti in consultazioni<br />

formali e strutturate.” Il PE riapriva dunque la questione del presunto conflitto tra democrazia partecipativa<br />

e democrazia rappresentativa, destinato a durare fin tanto che la Costituzione non fosse<br />

entrata effettivamente in vigore. Pertanto il PE si lanciava ancora una volta in una dura requisitoria<br />

contro l’assunzione della democrazia partecipativa come sostitutiva della democrazia rappresentativa,<br />

nei seguenti termini:<br />

“4. ribadisce che il miglioramento della qualità della legislazione, della trasparenza dell’apertura delle istituzioni alla<br />

cosiddetta “società civile organizzata”, ai settori professionali, ai sindacati e alle imprese, nonché ai cittadini in generale<br />

non può sostituire l’accesso dei cittadini ai poteri pubblici attraverso procedure elettorali aperte e sempre più democratiche;<br />

5. insiste sul fatto che il miglioramento dei legami tra i cittadini e le istituzioni dell’Unione Europea può essere ottenuto<br />

in primo luogo attraverso il rafforzamento dei poteri legislativi del Parlamento Europeo, una legislazione elettorale uniforme<br />

che garantisca la comunicazione sempre più diretta tra i deputati e i loro elettori e un’autentica trasparenza dei<br />

lavori, delle sessioni e delle procedure del Consiglio, perlomeno quando quest’ultimo agisce nella sua funzione di legislatore;<br />

6. ritiene che l’introduzione di una valutazione d’impatto ex ante (“scheda del cittadino”) come strumento non giuridico<br />

per valutare l’impatto sociale, ecologico ed economico delle proposte legislative sulla vita quotidiana dei cittadini possa<br />

essere un buon metodo per porre il cittadino al centro del processo decisionale europeo;


7. sottolinea il ruolo importante che i cittadini, uniti sotto forma di organizzazioni sociali, possono svolgere nella costruzione<br />

dell’Unione Europea;<br />

8. constata che, se il portale EUR-Lex è effettivamente divenuto più conviviale e contiene più documenti, non esiste ancora<br />

un sito web unico per tutte le istituzioni, in cui i cittadini possano seguire la formulazione delle proposte inerenti<br />

alle varie politiche durante l’intero processo decisionale; invita pertanto tutte le istituzioni a far confluire i vari siti<br />

Internet in un portale unico;<br />

[…] 12. ritiene tuttavia che un accordo interistituzionale che fissi per tutte le istituzioni norme minime uniformi in materia<br />

di consultazione risulterebbe ancor più efficace; insiste affinché si analizzino senza indugio le possibilità per concludere<br />

tale accordo;<br />

13. avverte però che questa consultazione non deve assolutamente sostituirsi alla democrazia parlamentare, che poggia<br />

sul ruolo di colegislatore del Parlamento Europeo e del Consiglio e su un solido controllo da parte dei Parlamenti nazionali<br />

e regionali qualora il legislatore europeo non sia in grado o non possa svolgere questo ruolo;<br />

14. ritiene che, nel raccogliere e utilizzare pareri di esperti, la Commissione debba assicurare il rispetto dell’obbligo di<br />

responsabilità, pluralismo e integrità degli esperti consultati;<br />

15. sottolinea che l’Unione Europea intrattiene già un dialogo con il Comitato economico e sociale europeo e il Comitato<br />

delle Regioni, il primo dei quali è composto di rappresentanti legittimi della società civile e delle parti sociali, mentre<br />

il secondo è composto di rappresentanti delle autorità regionali e locali; ribadisce inoltre la necessità di una migliore istituzionalizzazione<br />

del dialogo sociale e della consultazione delle parti sociali; ritiene pertanto che il processo di consultazione<br />

debba basarsi sulla perizia di questi organi;<br />

[…] 17. ritiene tuttavia che tale consultazione non debba in alcun modo ledere il diritto dei rappresentanti della società<br />

civile e delle autorità regionali e locali di rivolgersi direttamente al Parlamento Europeo, al Consiglio e alla Commissione;<br />

[…] 19. riconosce il valore aggiunto che apportano gli esperti come fonte di informazione durante il processo legislativo;<br />

nondimeno opta espressamente per una democrazia parlamentare e non per una democrazia di esperti; insiste<br />

pertanto affinché la Commissione renda pubbliche la documentazione e la maniera in cui la utilizza nel processo legislativo,<br />

affinché questo Parlamento possa avere una visione chiara del modo in cui vengono operate scelte politiche fondamentali;<br />

20. deplora che non esista ancora un elenco univoco dei comitati e dei gruppi di lavoro che assistono la Commissione<br />

[…]<br />

21. sollecita vivamente la Commissione a intrattenere, nella fase preparatoria, un dialogo permanente anche con i rappresentanti<br />

dei poteri locali e regionali, in maniera da migliorare la realizzabilità e l’accettazione della normativa sin<br />

dallo stadio iniziale […]; auspica altresì che una procedura di consultazione più sistematica tra la Commissione e i rappresentanti<br />

delle pertinenti organizzazioni europee possa essere istituita in una fase precoce, vale a dire quando la<br />

Commissione presenta le sue iniziative; è dell’avviso che tale requisito di consultazione debba essere standardizzato e<br />

reso pubblico;”.<br />

Con tale requisitoria il PE faceva presente la propria crescente preoccupazione per un quadro generale<br />

che vedeva, da un lato, la progressiva paralisi della CIG nel processo di accoglimento del progetto<br />

di Costituzione Europea presentato dalla Convenzione europea e, dall’altro lato, una costante<br />

prassi di progressivo utilizzo della democrazia partecipativa, da parte della Commissione europea,<br />

ma anche e soprattutto da parte del Consiglio e dello stesso Consiglio europeo (nel metodo del “coordinamento<br />

aperto”), in modo insieme “opaco” e tendenzialmente alternativo alla democrazia rappresentativa<br />

e dunque allo stesso PE. Perciò l’atteggiamento del PE non era affatto critico nei confronti<br />

della democrazia partecipativa, considerata come un oggettivo fattore di democratizzazione<br />

del tutto compatibile e anzi complementare alla democrazia rappresentativa, bensì di una sorta di<br />

“strumentalizzazione”, più o meno consapevole, di essa come mezzo alternativo alla democrazia<br />

rappresentativa ossia in ultima analisi allo stesso PE. Infatti la possibilità di formare proposte di<br />

legge o comunque iniziative politiche, sulla base di indicazioni fornite direttamente da soggetti della<br />

società civile, mentre forniva utili indicazioni sul modo di procedere, non comportava la minima<br />

obbligazione, altrimenti presente nel caso in cui fossero stati coinvolti fin dall’inizio non solo altre<br />

istituzioni dell’UE (come il PE) e non (come i Parlamenti nazionali e regionali), bensì anche semplici<br />

organi dell’UE (come i due Comitati, il CES e il CR). In ultima analisi questa prassi andava<br />

combattuta, perché, a lungo andare, avrebbe favorito soltanto il consolidarsi definitivo del metodo<br />

intergovernativo e quindi la fine dell’UE come vero e proprio soggetto politico-istituzionale.<br />

La controprova di questa preoccupazione di fondo si trovava nell’ultima parte della risoluzione, dove<br />

il PE prendeva posizione pure sul tema della “governance mondiale”, in merito alla quale affermava:


“25. ritiene che la rappresentanza internazionale dell’Unione Europea vada rivista in maniera tale che l’Unione possa<br />

essere presto rappresentata in seno a organizzazioni internazionali con un proprio seggio;<br />

26. auspica che, come proposto nel progetto di Costituzione, un’Unione Europea rafforzata possa in futuro rappresentare<br />

i principi di una migliore governance mondiale anche sulla scena internazionale, attraverso un suo ministro degli esteri<br />

a capo di un servizio diplomatico europeo comune;”.<br />

Tali proposte sarebbero rimaste infatti semplicemente improponibili nel quadro di un’Unione che si<br />

fosse modellata in base a una strutturale procedura di consultazione intergovernativa, definitivamente<br />

consolidata proprio grazie a metodi come quello del “coordinamento aperto” direttamente a<br />

soggetti della società civile.<br />

Il secondo documento era la risoluzione del PE del 4 dicembre 2003 “sui lavori della Conferenza<br />

intergovernativa”. In essa il PE, prendendo atto che “alcune formazioni settoriali del Consiglio [il<br />

Consiglio ECOFIN] stanno avanzando proposte proprie [sulla procedura di bilancio] , minando in<br />

tal modo la stabilità della base negoziale”, prendeva ufficialmente posizione sulla preoccupante involuzione<br />

della CIG in questi termini:<br />

“1. rivolge un appello ai capi di Stato e di governo perché proseguano i loro sforzi e superino le loro divergenze, al fine<br />

di giungere a un risultato equilibrato e positivo entro il 13 dicembre 2003;<br />

2. esprime la sua inquietudine per la messa in discussione, da parte di taluni Stati membri, delle proposte di riforma istituzionale<br />

promosse dalla Convenzione; […]<br />

3. ribadisce il suo sostegno alle proposte contenute nel progetto di Costituzione in merito alla definizione di “maggioranza<br />

qualificata”; ravvisa nondimeno un margine di compromesso per quanto riguarda le cifre proposte, a condizione<br />

che sia rispettato il principio della doppia maggioranza e dell’abbassamento della soglia fissata a Nizza; […]<br />

7. deplora la decisione che palesemente è stata assunta di sopprimere il Consiglio legislativo, la cui funzione era di assicurare<br />

una separazione più netta tra le funzioni esecutive e legislative del Consiglio, nonché di assicurare la piena trasparenza<br />

dell’iter legislativo; auspica che venga quanto meno mantenuta l’opzione di istituire il Consiglio legislativo in<br />

una fase successiva;<br />

[…] 9. ribadisce il suo sostegno alle proposte contenute nel progetto di Costituzione per quanto riguarda la composizione<br />

della Commissione; ritiene che l’attribuzione di un commissario a ogni Stato membro rischi di conferire<br />

all’istituzione un carattere intergovernativo;<br />

[…] 12. insiste sull’importanza di introdurre una procedura agile e flessibile per la revisione della Parte III della Costituzione;<br />

13. sostiene fermamente il progetto di convocare una Conferenza di revisione del trattato EURATOM, per sopprimere<br />

le norme obsolete e superate di tale trattato, segnatamente per quanto riguarda l’assenza di procedure decisionali democratiche;”<br />

Il PE aveva dunque ufficialmente individuato e denunciato la vera origine di un possibile fallimento<br />

della CIG nella messa in discussione delle riforme istituzionali, del voto a maggioranza qualificata e<br />

del principio della doppia maggioranza da parte dei governi della Spagna e della Polonia, ma anche<br />

aveva deplorato la soppressione del Consiglio legislativo, come diverse facce della stessa logica di<br />

restaurazione del coordinamento intergovernativo, nell’ambito della quale il PE iscriveva ormai<br />

quella stessa proposta di attribuire un commissario per ogni Stato membro, che pur era stata a suo<br />

tempo uno dei suoi stessi principi. Sempre in base allo scopo di evitare di offrire spazi a tale logica<br />

e quindi alla convocazione di nuove CIG, il PE proponeva pure “una procedura agile e flessibile per<br />

la revisione della Parte III della Costituzione”, senza chiedersi peraltro come ciò sarebbe stato possibile<br />

in presenza di un unico trattato costituzionale. E infine, sempre in base alla stessa strategia,<br />

richiedeva una Conferenza di revisione del trattato EURATOM, proprio in quanto privo di “procedure<br />

decisionali democratiche”.<br />

La CIG, nel frattempo, andava incontro al proprio destino. Il 9 dicembre 2003 la Presidenza italiana<br />

emanava il documento CIG 60/03, in cui presentava, quale risultato del precedente conclave ministeriale<br />

di Napoli del 28-29 novembre 2003, due documenti distinti: nel primo (CIG 60/03 ADD 1)<br />

venivano esposte, sotto forma di progetti di testo del trattato, le proposte sulle questioni virtualmente<br />

risolte, mentre nel secondo (CIG 60/03 ADD 2) venivano indicate le “questioni politiche più sensibili”<br />

e le proposte relative. Per tutte le altre questioni “il testo del progetto di trattato costituzionale<br />

figurante nel documento CIG 50/03 resta invariato.” In tal modo il “risultato finale della CIG do-


vrebbe pertanto consistere in due documenti”: “il testo consolidato del trattato riveduto dal gruppo<br />

di esperti giuridici” e “un unico pacchetto contenente le modifiche a tale testo consolidato, basato<br />

sulle proposte della Presidenza modificate alla luce delle discussioni”, che si sarebbero tenute nel<br />

successivo vertice; soltanto “successivamente verrà elaborato un unico testo consolidato.”<br />

Il secondo documento, CIG 60/03 ADD 2, dell’11 dicembre 2003, indicava le seguenti “questioni<br />

politiche più sensibili”:<br />

1) per il Preambolo: la maggior parte delle delegazioni non era a favore dell’inclusione del “riferimento ai valori cristiani”<br />

2) per la composizione della Commissione: proposta di rinviare a una determinata data l’avvio della “Commissione ridotta”<br />

3) per il voto a maggioranza qualificata:<br />

- in merito al principio della doppia maggioranza: “La Presidenza fa rilevare che moltissime delegazioni restano favorevoli<br />

al testo della Convenzione […]. Tuttavia la Presidenza è consapevole del fatto che, nell’attuale versione, la proposta<br />

della Convenzione non è accettabile per alcune delegazioni [spagnola e polacca]. La Presidenza continua a riflettere<br />

[…]”<br />

- in merito al campo d’applicazione: “[…] la Presidenza ritiene che il testo della Convenzione costituisca, in linea generale,<br />

un compromesso equilibrato.”<br />

4) per il Parlamento Europeo: propensione ad aumentare la soglia minima dei 4 seggi.<br />

Tutte queste proposte costituivano altrettanti passi indietro rispetto a quelle analoghe del documento<br />

CIG 52/03 del 25 novembre 2003; tuttavia si sperava che, così facendo e quindi isolando come unica<br />

questione ancora da decidere quella del principio della doppia maggioranza, si potesse produrre<br />

una sufficiente pressione nei confronti delle delegazioni spagnola e polacca, a esso contrarie, nel<br />

corso del vertice finale della CIG del 12-13 dicembre 2003.<br />

Esso veniva preceduto dal Consiglio europeo della mattina del 12 dicembre 2003. Esso rilanciava in<br />

primo luogo il tema della crescita economica, avviando una specifica azione europea a favore della<br />

crescita, volta all’obiettivo di collegare il mercato interno, attraverso la realizzazione effettiva di<br />

una serie di reti transeuropee dei trasporti e delle telecomunicazioni (comunicazioni mobili di terza<br />

generazione e connessioni a banda larga), nonché di sviluppare la competitività e l’occupazione. Il<br />

Consiglio europeo rilanciava, in secondo luogo, lo SLSG, incoraggiando la gestione unitaria delle<br />

frontiere comuni dell’Unione, il controllo unitario dei flussi migratori, la cooperazione giudiziaria e<br />

di polizia e, novità di rilievo, il dialogo interconfessionale. Quanto all’allargamento, confermava le<br />

date stabilite per l’entrata nell’UE dei dieci nuovi Stati aderenti, nonché dei due Stati candidati<br />

(Romania e Bulgaria), e incoraggiava la Turchia a perseverare sulla strada delle riforme. Infine per<br />

Cipro si augurava una riunificazione politica dell’isola in tempo per l’entrata di tale Stato nell’UE.<br />

Per quanto riguarda le relazioni esterne, la PESC e la PESD, il Consiglio europeo confermava la<br />

strategia di lunga durata per un progressivo avvicinamento dei Paesi dei Balcani occidentali all’UE<br />

e l’opportunità di avviare una nuova, stabile e politicamente impegnativa operazione PESD dell’UE<br />

in Bosnia-Erzegovina.<br />

In particolare il Consiglio europeo approvava una “Dichiarazione del Consiglio europeo sulle relazioni<br />

transatlantiche”, in cui confermava il carattere assolutamente privilegiato delle relazioni tra<br />

l’UE e gli Stati Uniti, precisando peraltro:<br />

“L’UE chiede un ordine internazionale basato su un multilateralismo efficace. […] Oltre a lottare contro le minacce<br />

immediate per la sicurezza, occorre affrontare i fattori che stanno alla base di tali minacce. Dobbiamo sviluppare ulteriormente<br />

politiche efficaci e sostenibili e agire insieme. Solo utilizzando la gamma completa degli strumenti disponibili<br />

– politici, economici, strumenti di gestione civile e militare delle crisi - potremo affrontare efficacemente tutte le sfide<br />

che abbiamo di fronte. […] L'UE ribadisce la sua determinazione a consolidare ulteriormente le sue capacità e a rafforzare<br />

la sua coerenza. La relazione UE-NATO è un'espressione importante del partenariato transatlantico. La capacità<br />

operativa dell'UE, obiettivo chiave dello sviluppo generale della PESD, è rafforzata da accordi permanenti, in particolare<br />

dagli accordi "Berlin plus", che forniscono il quadro per il partenariato strategico tra le due organizzazioni nella gestione<br />

delle crisi. […] L'UE attribuisce la massima importanza al dialogo sulla prevenzione e la gestione delle crisi, che<br />

si sta rivelando così efficace nei Balcani. […] Le relazioni transatlantiche travalicano i governi. I legami tra settori eco-


nomici e società sono il fondamento di tali relazioni. L'UE incoraggerà tutte le forme di dialogo tra gli organi legislativi<br />

e tra le società civili delle due sponde dell'Atlantico.<br />

Veniva così confermato il carattere fondamentale delle relazioni tra UE e Stati Uniti soprattutto per<br />

il decollo e lo sviluppo, in ambito NATO, della PESD e della gestione europea (civile e militare)<br />

delle crisi soprattutto nei Balcani occidentali e in particolare in Bosnia-Erzegovina, quale irrinunciabile<br />

premessa dello sviluppo di un’autentica PESC dell’UE, specificamente orientata a un approccio<br />

insieme multilaterale e “multidimensionale” ai problemi internazionali e a un più fecondo<br />

rapporto con gli Stati Uniti, che coinvolgesse direttamente il Congresso e la stessa società civile<br />

americana.<br />

Il pomeriggio del 12 dicembre 2003 aveva inizio il vertice finale della CIG, preceduto da un<br />

intervento del presidente del PE, Pat Cox. In esso veniva reso omaggio al lavoro della Presidenza<br />

italiana, che “ha cercato di rimanere quanto più fedele possibile ai risultati della Convenzione europea”.<br />

Guardando sempre più al di là della CIG, il presidente del PE ammoniva:<br />

“I risultati dei nostri lavori dovranno essere ratificati da tutti gli Stati membri, in molti dei quali sarà necessario un referendum.<br />

Per ottenere il sostegno dell’opinione pubblica a tale progetto, occorrerà dare risalto con assiduità ai potenziali<br />

vantaggi della Costituzione:<br />

- coerenza delle politiche esterne, maggiore efficienza del processo decisionale nei lavori legislativi,<br />

- azione concertata su questioni di sicurezza interna, immigrazione e asilo,<br />

- protezione dei valori comuni mediante l’integrazione nel trattato della Carta dei <strong>diritti</strong> fondamentali,<br />

- rafforzamento della dimensione parlamentare grazie al maggiore ruolo previsto per i Parlamenti nazionali e il Parlamento<br />

Europeo,<br />

- riforme democratiche per tutte le istituzioni e<br />

- riorientamento degli sforzi dell’UE verso i settori in cui la collaborazione a livello europeo conferisce valore aggiunto<br />

alle azioni degli Stati membri.<br />

Vorrei pertanto invitare voi, i leader politici, a porre maggiore enfasi sugli aspetti positivi del trattato costituzionale e a<br />

dare forse un risalto minore alle minacce percepite alla sovranità nazionale. […] Siamo certi che riuscirete a riaccendere<br />

l’entusiasmo dell’opinione pubblica, evitando di cedere ulteriore terreno agli euroscettici.<br />

[…] La storia […] ci insegna inoltre che un’Unione di 25 Stati membri, e presto anche di più, necessita di un quadro<br />

costituzionale in grado di durare per un ragionevole lasso di tempo, affinché possiamo concentrare la nostra attenzione<br />

sulle vere preoccupazioni dei nostri elettori: l’occupazione, la sicurezza e la crescita sostenibile.<br />

[…] Ridurre ulteriormente i casi in cui si applica il voto a maggioranza qualificata o rendere più semplice bloccare le<br />

decisioni dell’Unione Europea potrebbe essere una soluzione a breve termine per rassicurare a livello superficiale<br />

l’opinione pubblica degli Stati membri; a lungo termine, tuttavia, ciò rischia di compromettere la nostra capacità di agire<br />

e finirebbe con l’esacerbare la frustrazione pubblica riguardo all’importanza dell’Europa e alla sua capacità di affrontare<br />

i problemi reali dei cittadini.<br />

Devo altresì rilevare che talune proposte di compromesso della Presidenza italiana, segnatamente quelle che comporterebbero<br />

il ricorso alla sospensione delle procedure, facendo ricorso al Consiglio europeo, - nell’ambito del diritto civile<br />

e penale – turberebbero il normale equilibrio del processo legislativo.<br />

Vi è una questione che solleva in particolare i timori del Parlamento: le disposizioni in materia di finanziamento<br />

dell’Unione e la sua procedura di bilancio. […] Il Consiglio ECOFIN e alcune delegazioni nazionali hanno formulato<br />

proposte diverse, alcune delle quali comprometterebbero il controllo parlamentare sul bilancio, non solo rispetto alle<br />

conclusioni della Convenzione del 2003, ma anche rispetto al trattato sul bilancio del 1975.<br />

[…] L’alternativa del Consiglio ECOFIN rappresenta un regresso ed è contraria all’evidenza di bilancio, all’intera logica<br />

del trattato costituzionale e agli sforzi a lungo termine di democratizzare il nostro lavoro, rafforzando il controllo parlamentare.<br />

[…] è mio compito ammonirvi circa la profonda sensibilità del Parlamento per tale questione, giacché le<br />

competenze di bilancio, il controllo sui cordoni della borsa, sono alla base della democrazia parlamentare, non solo in<br />

Europea, ma in tutti gli Stati membri. […]<br />

E’ mio dovere principale difendere con chiarezza la posizione del Parlamento, le sue prerogative politiche, ma anche la<br />

sua efficienza. L’attuale Parlamento, con la sua ingente mole di lavoro legislativo e il suo ruolo di vigilanza sul bilancio<br />

e sulla Commissione, deve restare un organo gestibile. Si tratta di un lavoro che può essere svolto soltanto da un Parlamento,<br />

non da un “Congresso dei popoli”. 736 seggi, come previsto dalle proposte della Convenzione e dal compromesso<br />

della Presidenza italiana, è una cifra che si avvicina al limite massimo del funzionamento organizzativo di un Parlamento<br />

efficiente. […] I seggi del Parlamento non devono essere utilizzati come fiche in una sala giochi. […]<br />

Dopo aver riconosciuto l’imperativo a Laeken e aver fissato l’obiettivo a Salonicco, ammetteremmo pubblicamente la<br />

mancanza di volontà politica se adesso rinviassimo o abbandonassimo il tentativo di dotare l’Unione Europea di una<br />

struttura istituzionale efficiente, in grado di far fronte alle nuove sfide che si presentano alla nuova Europa nel nuovo


secolo. L’opinione pubblica dell’Unione, già disillusa per ciò che percepisce come disaccordo o confusione, e i nostri<br />

partner nel resto del mondo trarrebbero le loro conclusioni da un’eventuale battuta d’arresto.<br />

Il PE denunciava dunque, ancora una volta, la tendenza in atto verso un aggiramento della procedura<br />

legislativa e dello stesso potere parlamentare in materia di bilancio, ma ancor di più ammoniva<br />

sul fatto che la stessa cooperazione intergovernativa era esposta al fallimento di fronte ai veti avanzati<br />

in nome degli interessi nazionali, con il conseguente pericolo di un blocco del varo del trattato,<br />

che, anche ove fosse stato temporaneo, sarebbe stato esiziale in termini di credibilità pubblica, soprattutto<br />

al momento del processo di ratifica attraverso referendum popolari.<br />

Nonostante questi chiari avvertimenti, il vertice finale della CIG del 12 e del 13 dicembre 2003 si<br />

risolveva in un fallimento, dovuto all’irriducibile opposizione delle delegazioni polacca e soprattutto<br />

spagnola al principio della doppia maggioranza come criterio del voto a maggioranza qualificata.<br />

Perciò alla Presidenza italiana non restava che prendere atto di tale fallimento, con il seguente comunicato:<br />

“Il Consiglio europeo ha preso atto dell'impossibilità per la Conferenza intergovernativa di raggiungere, nella fase attuale,<br />

un accordo globale sul progetto di trattato costituzionale. Si chiede alla Presidenza irlandese di effettuare, sulla base<br />

di consultazioni, una valutazione delle prospettive di progresso e di riferire al Consiglio europeo di marzo.”<br />

A tale comunicazione veniva inoltre acclusa la seguente dichiarazione del Presidente del Consiglio<br />

europeo:<br />

“La Presidenza italiana ha condotto la Conferenza intergovernativa intendendo rispettare nella misura massima possibile<br />

il progetto della Convenzione, frutto di dibattiti democratici ed approfonditi, ma aprendosi ad esaminare con spirito<br />

costruttivo le proposte di ogni Stato membro per tenere conto di esigenze legittime e imprescindibili.<br />

Questo arduo lavoro ha portato alla definizione di un testo condiviso da una grande maggioranza di Stati membri, che<br />

sarà da qui in avanti considerato come un "acquis negoziale" indiscutibile, realizzando così un significativo passo avanti<br />

sulla strada di una più stretta integrazione tra i Paesi e i cittadini dell’Unione ampliata.<br />

La Presidenza dà atto di avere constatato una generale volontà di procedere nella direzione di una Unione più integrata e<br />

più ambiziosa. Sarà responsabilità comune continuare su questa strada e proseguire in questa impresa.<br />

La Presidenza conferma che le speranze che furono alla base dei trattati di Roma rappresentano ancora oggi un patrimonio<br />

ideale che lega la generazione dei padri fondatori a quella degli Europei di domani.”<br />

In tal modo veniva chiarito che, nonostante tale battuta d’arresto, il progetto della Convenzione, sotto<br />

forma del nuovo testo definito dalla CIG, sarebbe stato la base di ulteriori negoziati in seno alla<br />

stessa CIG, volti esclusivamente a venire a capo dell’unica questione rimasta aperta ovvero della<br />

doppia maggioranza come criterio democratico del voto a maggioranza qualificata. Se con ciò nulla<br />

sembrava perduto, era peraltro emerso un precedente pericoloso: due Stati, ma soprattutto uno Stato<br />

membro ossia la Spagna, avevano spinto talmente oltre la loro opposizione su tale tema, da far fallire<br />

l’obiettivo di concludere la CIG entro il 2003 e da mettere con ciò in forse lo stesso obiettivo della<br />

firma del trattato costituzionale nel maggio 2004 ovvero in tempo utile per le elezioni del PE del<br />

giugno 2004. E tale esito fallimentare si produceva su un progetto di trattato, la cui origine era il<br />

prodotto dei lavori della Convenzione europea ossia di un organismo altamente democratico, composto,<br />

tra gli altri, da rappresentanti anche spagnoli del PE, da rappresentanti del Parlamento spagnolo<br />

e da rappresentanti del governo spagnolo. Il messaggio era chiaro: il principio democratico<br />

europeo della maggioranza qualificata doveva essere basato su un voto ponderato del singolo Stato<br />

membro che riflettesse il più alto rapporto di forza raggiunto (non importa come), quale espressione<br />

di un interesse nazionale irrinunciabile, di cui il capo del governo era l’unico interprete possibile,<br />

soprattutto in tempi di elezioni politiche ravvicinate, rispetto alle quali democrazia europea, Convenzione,<br />

trattato costituzionale, elezioni europee semplicemente non dovevano contare. Tale messaggio,<br />

proprio nella misura in cui si sarebbe rivelato sufficiente a bloccare la CIG sin oltre le elezioni<br />

europee del 2004, certamente non sarebbe stato destinato ad accrescere l’effettiva attendibilità<br />

di un futuro trattato costituzionale presso l’opinione pubblica.


E infatti, già da subito, il PE reagiva a tale deriva del metodo intergovernativo verso le secche degli<br />

interessi nazionali, in primo luogo reclamando dal Consiglio la rimozione delle riserve tuttora esistenti<br />

su una decisione essenziale per il riconoscimento dell’immagine e del ruolo del PE quale punto<br />

di riferimento primario della democrazia rappresentativa europea, con la risoluzione del 17 dicembre<br />

2003 “sullo statuto dei deputati”. In essa il PE invitava il Consiglio a comunicargli la sua<br />

approvazione dello statuto dei deputati “prima della fine della Presidenza italiana e in ogni caso entro<br />

il 15 gennaio 2004”. Il giorno dopo il PE adottava la risoluzione del 18 dicembre 2003 “sui risultati<br />

della Conferenza intergovernativa”. In essa il PE ribadiva che “la Costituzione deve essere<br />

firmata in tempo utile per consentire l’avvio di un dibattito pubblico al riguardo, nel contesto della<br />

campagna elettorale del Parlamento Europeo” ossia nel maggio 2004. Inoltre si esprimeva nei seguenti<br />

termini a proposito della CIG:<br />

- “deplora fermamente l’incapacità del Consiglio europeo di raggiungere un accordo globale sul progetto di trattato costituzionale”<br />

- “deplora che, in seno alla CIG, non sia stato evidentemente posto l’accento sull’interesse comune europeo”<br />

- “insiste affinché il progetto di trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa, quale risulta dalla Convenzione,<br />

continui a costituire la base per l’accordo CIG finale e complessivo, senza l’apertura di nuovi punti”<br />

- mette in guardia dal rischio che la mancata soluzione del problema concernente la capacità di agire di un’Unione allargata<br />

comporti una “Europa a varie velocità”, un ritorno al metodo intergovernativo o persino una frammentazione<br />

dell’Unione”<br />

- “invita la Presidenza italiana a pubblicare un elenco dettagliato in cui figurino gli accordi che sostiene siano stati raggiunti<br />

alla riunione di Bruxelles della CIG del 12 e 13 dicembre 2003”<br />

- “chiede alla prossima Presidenza irlandese di riconvocare la CIG a livello dei ministri degli esteri nel gennaio 2004<br />

per adottare una procedura che consenta di registrare progressi e per consolidare tutti i testi approvati finora in seno alla<br />

CIG”<br />

- “chiede alla Presidenza irlandese di proporre una data – prima del 1° maggio 2004 – per una riunione CIG a livello dei<br />

capi di Stato e di governo in cui poter decidere sulle questioni in sospeso”<br />

- “sollecita la Presidenza irlandese, quando nel gennaio 2004 si presenterà dinanzi al Parlamento Europeo a Strasburgo,<br />

a presentare il suo piano d’azione per una conclusione positiva della CIG”.<br />

In seguito a quest’ultimo appuntamento, il PE adottava la risoluzione del 29 gennaio 2004 “sul programma<br />

della Presidenza irlandese in carica del Consiglio e sulla Costituzione Europea”, in cui il<br />

PE dichiarava che “accoglie con favore l’approccio costruttivo adottato dalla nuova Presidenza in<br />

carica del Consiglio, mirante a concludere la Conferenza intergovernativa sulle basi del progetto di<br />

Costituzione della Convenzione, e sollecita che la CIG completi i suoi lavori prima del 1° maggio<br />

2004 […]”.<br />

Analogo invito fu, tuttavia, necessario rivolgere allo stesso Consiglio europeo nella risoluzione del<br />

PE dell’11 marzo 2004 “sulla preparazione del Consiglio europeo del 25-26 marzo 2004”. Proprio<br />

in quel giorno, peraltro, accadde qualcosa destinato a smuovere anche la CIG. Infatti la stessa UE in<br />

quanto tale veniva bruscamente posta davanti alla gravissima novità dell’attentato terroristico di<br />

Madrid dell’11 marzo 2004, che, per la metodologia, la brutalità e la strage di tante vittime innocenti,<br />

risultava di tutta evidenza di matrice internazionale e precisamente islamica e fondamentalista,<br />

collegata alla stessa organizzazione responsabile degli attentati di New York del 2001. Era la prima<br />

volta che tale forma di terrorismo colpiva così duramente una città dell’UE e lo sgomento fu notevole:<br />

la guerra globale al terrorismo non era più soltanto una necessità per la difesa dei <strong>diritti</strong> umani<br />

e dei popoli o della cultura “cristiana” o della civiltà occidentale o dell’alleanza nordatlantica, bensì<br />

della credibilità della stessa UE in quanto tale, dove la costruzione dello SLSG aveva dimostrato,<br />

nel successo di tale attentato, tutti i suoi perduranti limiti. La prima ripercussione si aveva peraltro<br />

nella stessa Spagna: l’attentato infatti si era svolto nello stesso giorno (11) degli attentati di New<br />

York, ma nel marzo ossia immediatamente prima delle elezioni politiche spagnole del 14 marzo<br />

2004. Il significato era quanto mai chiaro: punire, nel momento per lui più importante, il capo del<br />

governo spagnolo, per il ruolo politico di primo piano svolto nel marzo 2003 a favore della guerra<br />

in Iraq. La presa di posizione immediata dell’uomo politico spagnolo fu per lui fatale: infatti, nonostante<br />

l’evidenza, tentò di far passare l’attentato di Madrid come un ennesimo fatto di sangue


dell’ETA, l’organizzazione terroristica basca. E la reazione del popolo spagnolo fu altrettanto radicale:<br />

alle elezioni politiche vinse il fronte politico opposto, il cui leader assumerà il 17 aprile 2004<br />

la guida del nuovo governo spagnolo e provvederà nello stesso aprile 2004 all’immediato ritiro del<br />

contingente militare spagnolo dall’Iraq.<br />

Nel frattempo si riuniva il Consiglio europeo del 25-26 marzo 2004. Di fronte a esso fu presentata<br />

una relazione della Presidenza sulla CIG. Da essa emergeva che il gruppo degli esperti giuridici stava<br />

proseguendo i lavori secondo il calendario stabilito sotto presidenza italiana e contava di concluderli<br />

entro il 27 aprile 2003; quanto alla vera e propria CIG, le uniche questioni “serie” rimaste tuttora<br />

insolute erano: la dimensione e composizione della Commissione, la definizione e il campo<br />

d’applicazione del voto a maggioranza qualificata e la questione della soglia minima di seggi al PE.<br />

Per il primo problema la Presidenza della CIG dichiarava di ritenere possibile conciliare l’esigenza<br />

della rappresentatività della Commissione e quella della sua efficienza. Per il terzo problema si proponeva<br />

un live aumento della soglia minima di 4 seggi per Stato membro in seno al PE. Per il secondo<br />

problema la Presidenza si pronunciava a favore del mantenimento del principio della doppia<br />

maggioranza e anche per un’ulteriore estensione ragionevole del voto a maggioranza qualificata. Infine<br />

la Presidenza della CIG chiedeva un pronunciamento ufficiale del Consiglio europeo di impegno<br />

a sostenere la stessa CIG. Il Consiglio europeo rispondeva, incoraggiando la CIG a concludere i<br />

suoi lavori entro il Consiglio europeo del giugno 2004: saltava dunque ufficialmente la scadenza<br />

della conclusione della CIG entro l’aprile e quindi la firma del trattato nel maggio e in definitiva la<br />

presentazione della Costituzione Europea ai cittadini prima delle elezioni del PE del giugno. Il fallimento<br />

della CIG nel 2003 aveva cambiato dunque notevolmente il calendario stabilito, esponendo<br />

con ciò le elezioni europee del 2004 alla campagna elettorale degli euroscettici. E tuttavia si aveva<br />

finalmente almeno una nuova scadenza ufficiale per la conclusione della CIG.<br />

Nella sua prima giornata, il 25 marzo 2003, il Consiglio europeo dedicava la prima sessione, straordinaria,<br />

di lavoro al tema del terrorismo. Essa era preceduta da un intervento del presidente del PE<br />

Pat Cox, che non mancava di rimproverare gli stessi Stati membri dell’UE per l’attentato a Madrid<br />

dell’11 marzo 2004: “Non siamo stati capaci di mantenere tutti gli impegni che ci eravamo prefissi<br />

dopo l'11 settembre: farlo ora sarebbe la giusta risposta al massacro dell'11 marzo e costituirebbe il<br />

segnale più forte per dimostrare che le democrazie e le istituzioni europee sono unite nella loro determinazione<br />

a sconfiggere la più grande minaccia alla quale dobbiamo confrontarci.” Con ciò il<br />

presidente del PE intendeva sottolineare come la cosa più importante fosse non solo stabilire, in sede<br />

di Consiglio europeo, una nuova serie di misure contro il terrorismo, ma soprattutto ottenere un<br />

autentico impegno di ogni Stato membro ad applicarle effettivamente, con la relativa normativa di<br />

attuazione nazionale, all’interno del proprio territorio. A suggello di tale impegno corale, quanto<br />

mai urgente almeno in seguito all’attentato di Madrid, Pat Cox proponeva che l’11 marzo fosse decretato<br />

come “giornata europea in memoria delle vittime del terrore”.<br />

A tale invito di Cox, il Consiglio europeo rispondeva con una “Dichiarazione sulla lotta al terrorismo”.<br />

In essa si riconosceva che con l’attentato di Madrid il terrorismo aveva dichiarato guerra alla<br />

stessa UE in quanto tale, che perciò doveva reagire subito in modo energico e compatto, accogliendo<br />

in primo luogo la proposta del PE e perciò dichiarando “l’11 marzo giornata europea di commemorazione<br />

delle vittime del terrorismo”.<br />

A fondamento di tale azione comune il Consiglio europeo decideva di applicare fin da allora la<br />

clausola di solidarietà “sancita all’articolo 142 del progetto di Costituzione per l’Europa”, prima ancora,<br />

dunque, della conclusione della stessa CIG, chiamata ad esaminarlo. Su questa base il Consiglio<br />

europeo adottava una separata “Dichiarazione sulla solidarietà contro il terrorismo”. In essa gli<br />

Stati membri e aderenti si impegnavano ad agire<br />

“congiuntamente in uno spirito solidale qualora uno di essi sia oggetto di un attacco terroristico. Essi mobilitano tutti gli<br />

strumenti di cui dispongono, inclusi i mezzi militari, per:<br />

• prevenire la minaccia terroristica sul territorio di uno di essi;<br />

• proteggere le istituzioni democratiche e la popolazione civile da un eventuale attacco terroristico;


• prestare assistenza a uno Stato membro o a uno Stato aderente sul suo territorio, a richiesta delle sue autorità politiche,<br />

in caso di attacco terroristico.”<br />

A prescindere da tali evenienze estreme, il Consiglio europeo sollecitava in ogni caso la piena attuazione<br />

della già decisa “strategia in materia di sicurezza”, la pronta definizione di misure per<br />

l’”assistenza alle vittime” del terrorismo e l’ulteriore sviluppo della “cooperazione esistente”, in ordine<br />

a:<br />

A) “misure legislative”:<br />

1) l’effettiva applicazione in ogni Stato membro delle seguenti misure legislative europee già adottate:<br />

“▪ decisione quadro relativa al mandato d'arresto europeo;<br />

▪ decisione quadro relativa alle squadre investigative comuni;<br />

▪ decisione quadro sulla lotta al terrorismo;<br />

▪ decisione quadro concernente il riciclaggio di denaro, l'individuazione, il rintracciamento, il congelamento o sequestro<br />

e la confisca degli strumenti e dei proventi di reato;<br />

▪ decisione che istituisce l'Eurojust;<br />

▪ decisione relativa all'applicazione di misure specifiche di cooperazione di polizia e giudiziaria per la lotta al terrorismo.<br />

Le misure di questo tipo dovrebbero essere istituite entro il giugno 2004.”<br />

- “attuare la decisione quadro relativa all'esecuzione dei provvedimenti di blocco dei beni o di sequestro probatorio e<br />

ratificare la convenzione relativa all'assistenza giudiziaria in materia penale, il relativo protocollo e i tre protocolli della<br />

convenzione Europol entro il dicembre 2004”<br />

- “la decisione quadro relativa alla confisca di beni, strumenti e proventi di reato e la decisione quadro relativa agli attacchi<br />

contro i sistemi di informazione dovrebbero essere messe a punto entro giugno 2004. I lavori concernenti la decisione<br />

quadro relativa al reciproco riconoscimento delle decisioni di confisca si dovrebbero parimenti concludere entro<br />

giugno 2004 e si dovrebbero proseguire i lavori concernenti la decisione quadro relativa al mandato europeo di ricerca<br />

delle prove.”<br />

2) inoltre veniva dato mandato al Consiglio di legiferare sulle seguenti ulteriori misure:<br />

“▪ proposte relative all'istituzione di norme sulla conservazione dei dati relativi al traffico delle comunicazioni da parte<br />

dei prestatori di servizi;<br />

▪ scambio di informazioni relative alle condanne per i reati di terrorismo;<br />

▪ inseguimento in flagranza oltre frontiera;<br />

▪ registro europeo delle condanne e delle interdizioni;<br />

▪ banca dati su materiale forense;<br />

▪ semplificazione dello scambio di informazioni e di intelligence tra le autorità degli Stati membri incaricate dell'applicazione<br />

della legge.”<br />

3) “S'invita la Commissione a presentare una proposta per la creazione di un programma europeo di protezione dei testimoni<br />

nei casi di terrorismo.”<br />

B) “rafforzamento della cooperazione operativa”:<br />

- sfruttare appieno l’Europol e l’Eurojust nei seguenti modi:<br />

“▪ i corrispondenti nazionali dell’Eurojust in materia di lotta al terrorismo siano designati da tutti gli Stati membri e che<br />

l’Eurojust sia utilizzata al massimo grado ai fini della cooperazione nei casi di terrorismo transfrontaliero;<br />

▪ i rappresentanti dell’Europol e dell’Eurojust siano associati, nella misura del possibile, ai lavori delle squadre investigative<br />

comuni;<br />

▪ l’accordo Europol/Eurojust sia adottato entro maggio 2004.”<br />

- potenziare il ruolo dell’Europol nei seguenti modi:<br />

“▪ rafforzandone le capacità antiterrorismo e ri<strong>attiva</strong>ndo la Task Force antiterrorismo;<br />

▪ provvedendo a che le loro autorità incaricate dell'applicazione della legge trasmettano all'Europol tutte le pertinenti<br />

informazioni sulla criminalità in materia di terrorismo non appena ne vengano a conoscenza.”<br />

C) “massimizzare l’efficienza dei sistemi d’informazione”:<br />

- “Il Consiglio europeo invita la Commissione a presentare proposte per migliorare l'interoperabilità fra le varie basi di<br />

dati europee e a vagliare la possibilità di sinergie fra i sistemi d'informazione attuali e futuri (SIS II, VIS ed EURO-<br />

DAC) per sfruttarne il valore aggiunto, nel rispettivo ambito giuridico e tecnico, ai fini della prevenzione e del contrasto<br />

del terrorismo.”<br />

Inoltre il Consiglio europeo raccomandava di “rafforzare i controlli alle frontiere e la sicurezza dei<br />

documenti”, invitando a tradurre in normativa europea le seguenti misure:<br />

“▪ la proposta di regolamento relativo all'istituzione di un'Agenzia europea per le frontiere in vista dell’adozione entro il<br />

maggio 2004 e nella prospettiva di rendere operativa detta Agenzia entro il 1º gennaio 2005;


▪ la proposta direttiva del Consiglio relativa all’obbligo dei vettori di comunicare i dati relativi alle persone trasportate,<br />

in vista di una rapida conclusione su detta misura;<br />

▪ l’adozione del progetto di strategia per la cooperazione doganale e del relativo piano di lavoro entro il maggio 2004 e<br />

la successiva attuazione, con urgenza, di misure per combattere il terrorismo.<br />

Il Consiglio europeo incarica inoltre il Consiglio di adottare entro il 2004 le proposte della Commissione sull'introduzione<br />

di dati biometrici nei passaporti e nei visti ai fini della messa a punto della specifica tecnica che la Commissione<br />

dovrà adottare entro lo stesso termine.<br />

In vista dell'ulteriore sviluppo di tali misure, il Consiglio europeo incarica il Consiglio di portare avanti, sulla scorta di<br />

una proposta della Commissione, i lavori sulla creazione entro il 2005 di un sistema integrato per lo scambio di informazioni<br />

sui passaporti rubati o smarriti, utilizzando il SIS e la base dati dell'Interpol.<br />

Invita inoltre la Commissione a presentare entro il giugno 2004 una proposta relativa ad un approccio comune dell'UE<br />

all'uso dei dati dei passeggeri ai fini della sicurezza delle frontiere e dei trasporti aerei e per altre finalità di contrasto.”<br />

Approvate le “linee direttrici dell’UE per un’impostazione comune nella lotta contro il terrorismo”,<br />

il Consiglio europeo precisava poi gli “obiettivi strategici di un piano d’azione dell’UE riveduto per<br />

la lotta contro il terrorismo”, individuandoli negli obiettivi seguenti:<br />

1) “aumentare il consenso internazionale e potenziare gli sforzi internazionali per combattere il terrorismo”<br />

2) “limitare l’accesso dei terroristi alle risorse finanziarie e ad altre risorse economiche”<br />

3) “massimizzare la capacità degli organi dell'UE e degli Stati membri in materia d'individuazione, indagine e perseguimento<br />

dei terroristi e di prevenzione degli attentati terroristici”<br />

4) “proteggere la sicurezza dei trasporti internazionali e assicurare sistemi efficaci di controllo alle frontiere”<br />

5) “potenziare la capacità dell’Unione Europea e degli Stati membri di far fronte alle conseguenze di un attentato terroristico”<br />

6) “affrontare i fattori che favoriscono il sostegno al terrorismo e il reclutamento nelle sue fila” (anche elaborando e attuando<br />

“una strategia intesa a promuovere la comprensione transculturale e interreligiosa tra l’Europa e il mondo islamico”)<br />

7) “focalizzare le azioni nel quadro delle relazioni esterne dell’UE sui Paesi terzi prioritari, di cui occorre rafforzare la<br />

capacità antiterrorismo o l’impegno a combattere il terrorismo”<br />

Il Consiglio europeo insisteva soprattutto nell’imperativo di “condivisione dell’intelligence”, nella<br />

necessità di “impedire il finanziamento del terrorismo”, nonché nella creazione di “misure a difesa<br />

dei trasporti pubblici e della popolazione”, nello sviluppo della “cooperazione internazionale”, nel<br />

rafforzamento della “cooperazione con gli Stati Uniti e con i partner”, nell’”istituzione della figura<br />

di coordinatore antiterrorismo” e nell’attenzione all’”evoluzione futura” del fenomeno.<br />

La seconda sessione di lavoro del Consiglio europeo, del 26 marzo 2004, dedicata all’ordine del<br />

giorno previsto ovvero allo sviluppo della strategia di Lisbona, era preceduta da un nuovo intervento<br />

del presidente del PE, Pat Cox, che presentava un’analisi quanto mai chiara, impietosa e allarmante:<br />

- “Il compito principale di questo Consiglio europeo consiste nell’esigenza di colmare il difetto di risultati ottenuti, esigenza<br />

quanto mai palese all’interno dell’Agenda di Lisbona, la cui scarsa attuazione ci sta conducendo a un calo di<br />

credibilità in merito a tutto il nostro operato.<br />

[…] La definizione di obiettivi ambiziosi e di termini per il loro conseguimento è parte integrante della metodologia europea,<br />

in quanto stimola la partecipazione dei cittadini e consente di accrescerne la fiducia. […] Per conseguire gli obiettivi<br />

dell’Agenda di Lisbona, […] è necessario il sostegno degli Stati membri e un apporto utile, non un ostacolo,<br />

da parte di Bruxelles. Si tratta di una campagna europea, condotta su fronti di battaglia nazionali. L’atteggiamento degli<br />

Stati membri deve ora coincidere con le nostre ambizioni europee.<br />

Siamo al quarto anno di un programma decennale e tutte le analisi conducono allo stesso punto: non stiamo rispettando<br />

il programma.<br />

[…] Il problema è evidenziato da due indicatori fondamentali, la crescita economica e l’aumento dell’occupazione. I<br />

cittadini ci pongono giustamente delle domande. Per quale motivo, nonostante le proporzioni del nostro mercato interno,<br />

approssimativamente una volta e mezza più vasto di quello americano, e il numero maggiore di scambi commerciali<br />

a livello mondiale, otteniamo costantemente prestazioni inferiori rispetto agli Stati Uniti? Per quale ragione, nonostante<br />

la presenza di un mercato unico sorretto da una valuta comune, dobbiamo attendere la ripresa dell’economia americana<br />

per venir fuori dalla stagnazione?<br />

E’ naturale che i nostri elettori si interessino alle modalità dei cambiamenti e all’erosione delle garanzie occupazionali<br />

tradizionali e delle altre conquiste sociali. Gli Stati membri e lo stesso Consiglio dovrebbero intervenire con decisione<br />

per spiegare che la prosperità a lungo termine dell’Europa si fonda sulla creazione di posti di lavoro, non sul loro


mantenimento, e sulla promozione delle competenze e dell’adattabilità delle persone. L’imperativo sul fronte delle riforme<br />

consiste nel velocizzare il processo, non nel rallentarlo.<br />

[…] Quanto a talune questioni concernenti la famiglia [dell’UE], le istituzioni non hanno inteso o non hanno incontrato<br />

lo slancio per legiferare. Ricordo quando nel corso del Consiglio europeo di Barcellona ci siamo congratulati con noi<br />

stessi ritenendo di aver raggiunto un accordo politico in merito al brevetto comunitario europeo. Siamo oggi ben consci<br />

del fatto che il Consiglio non è stato ancora una volta in grado di legiferare in materia, a trent’anni dalle prime discussioni,<br />

in un’epoca in cui le società americane registrano, presso l’Ufficio dei brevetti americano, un numero di brevetti<br />

quattro volte superiore rispetto alle controparti europee, e la situazione non muta nemmeno all’interno della stessa Unione,<br />

dove sono sempre le ditte americane a detenere il comando (170 brevetti registrati per ogni 161 da parte di ditte<br />

europee).<br />

Nonostante l’adozione di direttive europee, il livello di attuazione e applicazione nazionale è deludente: circa il 40%<br />

delle direttive comunitarie non sono ancora state recepite entro i termini previsti. […]<br />

All’interno del progetto di conclusioni, la Presidenza ha correttamente evidenziato l’importanza del settore ricerca e sviluppo,<br />

registrandone l’insufficienza di investimenti nel settore privato. […], ma a tal scopo è necessaria una ulteriore<br />

disponibilità di fondi da devolvere alla ricerca di base e applicata. […]<br />

La nostra comunità scientifica, sempre più tentata dal cogliere opportunità al di fuori dell’Unione Europea, va motivata<br />

e stimolata attraverso grandi progetti europei, fattibili dal punto di vista economico e che offrano una valenza europea ai<br />

nostri sforzi. […]<br />

La Presidenza irlandese è riuscita a semplificare le conclusioni della riunione: avete per la prima volta elaborato un testo<br />

che sia chiaro e comprensibile. Il nostro augurio è che meno conclusioni portino a maggiori risultati.”<br />

Di fronte a tale serio invito del PE, il Consiglio europeo confermava, nelle sue conclusioni, che le<br />

priorità della strategia di Lisbona erano “una forte crescita economica e la creazione di occupazione”<br />

e che, per il conseguimento di questi obiettivi, occorreva “imprimere una forte accelerazione al<br />

ritmo delle riforme”, contando anche sul fatto che “l’allargamento stimolerà l’economia europea<br />

con la creazione di nuove opportunità per tutti e la promozione della convergenza degli Stati membri”.<br />

E tuttavia si riconosceva nettamente che occorreva “mantenere gli impegni” ovvero che<br />

“la questione critica è ora rappresentata dalla necessità di una migliore attuazione degli impegni già assunti. Affinché il<br />

processo sia credibile, occorre accelerare il ritmo delle riforme a livello degli Stati membri. E’ necessario prevedere<br />

una maggiore sorveglianza dei risultati nazionali, nonché uno scambio d’informazioni sulle migliori pratiche. Occorre<br />

tradurre più rapidamente in misure concrete gli accordi e le politiche convenuti a livello di UE. Il Consiglio europeo<br />

sottolinea la necessità d’impegnarsi per risolvere i deficit di livello inaccettabile del recepimento delle misure convenute<br />

nel diritto nazionale e di completare il programma legislativo derivante dall’agenda di Lisbona.”<br />

Per quanto riguarda la sfida principale ossia la “crescita sostenibile”, il Consiglio europeo individuava<br />

come suoi fattori essenziali: la presenza di “politiche macroeconomiche sane”, il rilancio di<br />

“competitività e innovazione”, la centralità della “coesione sociale” e la sostenibilità della crescita<br />

“sotto il profilo ambientale”.<br />

Per il primo punto, il Consiglio europeo era esplicito:<br />

“13. Il raggiungimento o il mantenimento di sane posizioni di bilancio, conformi al patto di stabilità e crescita, e la stabilità<br />

dei prezzi rappresentano i due fattori chiave su cui basarsi. Gli Stati membri devono garantire il rispetto degli impegni<br />

da essi assunti in materia di stabilizzazione del bilancio.<br />

14. E’ essenziale garantire la sostenibilità a lungo termine delle finanze pubbliche. Il Consiglio europeo incoraggia vivamente<br />

gli Stati membri a far fronte alle implicazioni finanziarie dell’invecchiamento della popolazione, riducendo il<br />

debito pubblico e potenziando le riforme in materia di occupazione, sanità e pensioni.<br />

15. Le riforme strutturali sono necessarie e utili: necessarie in un’economia sempre più globalizzata, e utili perché concorrono<br />

in modo significativo a incrementare la crescita e l’occupazione, influendo positivamente sulla fiducia e favorendo<br />

una migliore ripartizione delle risorse.”<br />

Solo su questa base avrebbe avuto senso lo svolgimento del “programma ad avvio rapido” stabilito<br />

nel dicembre 2003 per la realizzazione di progetti in materia di trasporti, energia, telecomunicazioni,<br />

ricerca, innovazione e sviluppo.<br />

Il requisito fondamentale richiesto alla società civile era invece “competitività e innovazione”. A tal<br />

proposito il Consiglio europeo indicava quattro priorità specifiche per conseguire questo obiettivo:<br />

il “completamento del mercato interno”, il “miglioramento della regolamentazione”, “centrare<br />

l’obiettivo di ricerca e sviluppo” e nuove “disposizioni istituzionali”.


La prima priorità doveva consistere in: nuove strategie dell’UE in materia di comunicazioni elettroniche<br />

mobili e a banda larga all’avanguardia; una maggiore concorrenza nel settore dei servizi; in<br />

particolare un efficiente mercato unico per i servizi finanziari mirante a fornire maggiori capitali di<br />

rischio a un costo inferiore; il rispetto dei <strong>diritti</strong> di proprietà intellettuale e in particolare il brevetto<br />

comunitario; l’eliminazione degli ostacoli al mercato interno derivanti dal sistema fiscale ovvero<br />

delle misure fiscali dannose.<br />

La seconda priorità consisteva essenzialmente nella necessità della semplificazione effettiva della<br />

regolamentazione sia europea, sia nazionale.<br />

La terza priorità era una più celere creazione di uno spazio europeo della conoscenza, garantendo il<br />

potenziamento degli investimenti delle imprese in ricerca e sviluppo (attraverso sostegni e incentivi<br />

opportuni), realizzando un’istruzione di alta qualità (formazione delle risorse umane, incentivi a restare<br />

nell’UE, mobilità dei ricercatori entro l’UE e concorrenza nel settore per la promozione<br />

dell’eccellenza), fornendo sostegno maggiore alla ricerca di base di altissima qualità (con finanziamenti<br />

attraverso un apposito Consiglio della ricerca) e avviando il progetto ITER (reattore termonucleare<br />

sperimentale internazionale, a fusione).<br />

La quarta priorità comportava la piena <strong>attiva</strong>zione della formazione “Competitività” del Consiglio.<br />

Tale dinamismo doveva rispettare peraltro la centralità della “coesione sociale”, attraverso<br />

l’ammodernamento dei sistemi di protezione sociale e in particolare dei sistemi pensionistici e di<br />

assistenza sanitaria.<br />

Infine la crescita doveva risultare sostenibile “sotto il profilo ambientale”, migliorando l’efficienza<br />

energetica, aumentando l’utilizzazione di fonti energetiche rinnovabili, riducendo le emissioni e incoraggiando<br />

lo sviluppo delle tecnologie pulite.<br />

Per quanto riguarda invece la creazione di “nuovi e migliori posti di lavoro”, il Consiglio europeo<br />

riconosceva l’urgenza di essa e anzi, capovolgendo le affermazioni tradizionali, affermava:<br />

“L’aumento dei tassi di occupazione è essenziale per realizzare la crescita economica e […] per favorire<br />

l’inclusione sociale.” A questo proposito si individuavano tre sfide strutturali specifiche: adattabilità,<br />

attrazione del mercato del lavoro ovvero miglioramento qualitativo del lavoro e investimento<br />

nel capitale umano.<br />

L’”adattabilità” richiedeva la riduzione dei costi del lavoro non salariali, l’aggancio delle retribuzioni<br />

alla produttività e la promozione di forme di lavoro flessibili.<br />

L’”attrazione di un maggior numero di persone sul mercato del lavoro” esigeva la presenza di<br />

“chiari vantaggi finanziari” del lavoro, con strategie specifiche per le donne (rimozione delle disparità<br />

in materia retributiva e luoghi di lavoro compatibili con le esigenze familiari) e per i lavoratori<br />

anziani (adeguati incentivi giuridici e finanziari).<br />

I “maggiori e più efficaci investimenti nel capitale umano” dovevano comportare il riconoscimento<br />

del ruolo vitale dell’istruzione e della formazione, con un adeguato rilievo alla strategia<br />

dell’apprendimento lungo tutto l’arco della vita.<br />

In conclusione il Consiglio europeo sottolineava ancora una volta: “La sfida ora è sviluppare quanto<br />

realizzato.” Inoltre veniva prevista una “promozione della libera circolazione dei lavoratori”, con<br />

l’introduzione della “tessera di assicurazione sanitaria europea” nel giugno 2004 e soprattutto il “riconoscimento<br />

reciproco delle qualifiche professionali” e l’”Europass”.<br />

Per rafforzare l’attuazione nazionale di tali orientamenti economico-sociali europei, il Consiglio europeo<br />

lanciava inoltre la proposta della “creazione di partenariati per le riforme” a livello nazionale,<br />

che “coinvolgano le parti sociali, la società civile e le autorità pubbliche”, accanto al potenziamento<br />

del vertice sociale tripartito a livello UE.<br />

Infine il Consiglio europeo convocava per il vertice di primavera del 2005 l’”orizzonte 2005” ovvero<br />

l’esame intermedio della strategia di Lisbona a metà del suo percorso decennale.<br />

Nel PE, invece, si svolgevano tra il 13 e il 15 aprile 2004 le audizioni pubbliche dei Commissari designati<br />

dei dieci Paesi aderenti.


E finalmente, il 1° maggio 2004, entrava in vigore il trattato di adesione di tali dieci Paesi: Cipro<br />

(di fatto limitata alla parte meridionale dell’isola, greco-cipriota), 401 Estonia, Lettonia, Lituania,<br />

Malta, Polonia, Repubblica Ceca, Repubblica Slovacca, Slovenia e Ungheria entravano<br />

a far parte dell’Unione Europea, che diventava con ciò l’UE a 25 Stati membri.<br />

Il PE procedeva allora, il 5 maggio 2004, alla votazione formale di approvazione dei dieci nuovi<br />

Commissari (provenienti dai dieci nuovi Stati membri) e il Consiglio li nominava formalmente.<br />

Infine si svolgevano, tra il 10 e il 13 giugno 2004, le elezioni del Parlamento Europeo, con la partecipazione<br />

dei cittadini europei dei nuovi dieci Stati membri. Esse vedevano un ulteriore, drammatico,<br />

calo nell’affluenza alle urne, scesa ormai al 45,6%. Si segnalavano in particolare i casi inadeguati<br />

di Lituania (48,38%), Danimarca (47,9%), Spagna (45,1%), Germania (43%), Francia<br />

(42,75%), Austria (42,43%), Lettonia (41,34%), Finlandia (41,1%), ancor più quelli preoccupanti<br />

dei Paesi Bassi (39,3%), del Regno Unito (38,9%), di Portogallo (38,79%), Ungheria (38,5%), Svezia<br />

(37,8%), in particolare quelli allarmanti della Repubblica Ceca e di Slovenia (28,3%), Estonia<br />

(26,89%), Polonia (20,87%) e soprattutto quello sconfortante di Slovacchia (16,96%). Si trattava<br />

dunque di un deludente risultato generale, quanto mai diffuso, coinvolgente Stati membri maggiori<br />

e minori, di vecchia e di nuova acquisizione. Tale risultato complessivo costituiva il più evidente<br />

segnale di una percezione in particolare del PE e in genere dell’UE quali entità vissute come esterne,<br />

estranee, indifferenti, se non addirittura minacciose, in presenza di una crisi economico-sociale<br />

irrisolta o risolvibile solo attraverso duri costi sociali, di un inquietante allargamento massiccio ormai<br />

compiuto e anzi destinato a proseguire a oltranza (con l’ingresso programmato per il 2007 di<br />

Romania e Bulgaria e il possibile accesso di Croazia e persino Turchia) e di un ancor più preoccupante<br />

trattato costituzionale ancora “misterioso”, in quanto tuttora in fase di definizione da parte di<br />

una CIG svolta sostanzialmente a porte chiuse. In ogni caso i risultati vedevano, nell’assegnazione<br />

provvisoria dei nuovi 732 seggi, un’ulteriore vittoria del gruppo PPE-DE come gruppo di maggioranza<br />

relativa (279 seggi), seguito dal PSE (199 seggi), dai LDRE (67 seggi), dai Verdi-ALE (40<br />

seggi), dalla SUE/SVN (39 seggi), dall’UEN (27 seggi) e dall’EDD (15 seggi), con altri 66 seggi<br />

attribuiti a deputati non appartenenti a gruppi politici del PE.<br />

Tuttavia, subito dopo le elezioni del PE, si svolgeva il Consiglio europeo del 17-18 giugno 2004. In<br />

esso si raggiungeva finalmente l’accordo definitivo sul testo del trattato costituzionale, ponendo con<br />

ciò fine ai lavori della CIG. In tal modo cominciava finalmente il conto alla rovescia per il varo del<br />

nuovo trattato costituzionale europeo.<br />

Nel frattempo i capi di Stato e di governo degli Stati membri, riunitisi il 29 giugno 2004 e tenuto<br />

conto dei risultati delle elezioni del PE, nominavano a presidente designato della futura Commissione<br />

europea José Manuel Durão Barroso (presidente del partito socialdemocratico (PSD)<br />

portoghese, facente parte del PPE, e capo del governo del Portogallo), e a segretario generale del<br />

Consiglio e Alto rappresentante per la PESC, nonché (una volta entrato in vigore il previsto trattato<br />

costituzionale) a futuro ministro degli esteri dell’UE Francisco Javier Solana de Madariaga (già esponente<br />

del PSOE e ministro degli esteri spagnolo, poi segretario generale della NATO e infine<br />

segretario generale del Consiglio dell’UE).<br />

L’INIZIO DELLA SESTA LEGISLATURA EUROPEA (2004-2009)<br />

L’inizio dei lavori dell’attuale Parlamento Europeo, la formazione dell’attuale Commissione<br />

europea e la firma del Trattato costituzionale europeo<br />

401 Infatti, il 24 aprile 2004, nell’isola di Cipro si erano svolti due referendum distinti per la comunità turco-cipriota e<br />

quella greco-cipriota sulla riunificazione politica dell’isola, che avevano dato i seguenti risultati rispettivi: 64,90% sì e<br />

35,09% no, nonché 24,17% sì e 75,83% no. Sulla base di quest’ultimo risultato della consultazione della comunità greco-cipriota<br />

falliva pertanto il tentativo di riunificazione politica dell’isola e Cipro entrava quindi nell’UE limitatamente<br />

alla parte meridionale dell’isola, greco-cipriota.


L’attuale Parlamento Europeo iniziava i suoi lavori con la sua sessione plenaria di apertura, svoltasi<br />

tra il 20 e il 23 luglio 2004. Nel corso di essa il PE approvava, il 22 luglio 2004, la nomina di José<br />

Manuel Barroso a presidente designato della Commissione europea.<br />

Qualche settimana dopo, quest’ultimo presentava al PE, il 12 agosto 2004, la propria proposta di<br />

suddivisione di 24 incarichi per i 24 Commissari designati, che si presentavano poi davanti al PE,<br />

tra il 27 settembre e l’8 ottobre 2004, per le rispettive audizioni, in vista del voto finale del PE<br />

sull’intera futura Commissione europea, previsto per il 1° novembre successivo. Ben quattro di essi<br />

subivano, in tali occasioni, le critiche del PE. 402 Di conseguenza, al fine di evitare un pronunciamento<br />

del PE contro l’intera Commissione, Barroso ritirava, il 26 ottobre 2004, l’intera sua proposta<br />

relativa alla nuova Commissione, con il conseguente slittamento della data del voto finale del PE<br />

sulla Commissione. Tale episodio era quanto mai emblematico del nuovo potere del PE in materia<br />

di controllo dell’esecutivo dell’UE.<br />

In tale clima di provvisoria incertezza 403 si arrivava comunque alla data fissata per la solenne cerimonia<br />

della firma, avvenuta a Roma (nello stesso luogo della firma dei due trattati CEE ed EURA-<br />

TOM) il 29 ottobre 2004, del Trattato che stabilisce una Costituzione per l’Europa, sottoscritto<br />

dai capi di Stato e di governo di tutti e 25 gli Stati membri dell’UE.<br />

Iniziava così una vicenda, che, per quanto risoltasi, a causa dell’esito negativo dei due referendum<br />

francese e olandese della primavera 2005, con l’affossamento del trattato stesso, non ne comprometterà<br />

i contenuti sostanziali, riportati, per quanto riguarda il tema “democrazia e <strong>cittadinanza</strong> <strong>attiva</strong>”,<br />

nella prima parte del presente contributo. Infatti il processo di ratifica del trattato costituzionale,<br />

avviato già con la ratifica di esso da parte del Parlamento della Lettonia l’11 novembre 2004 e di<br />

quello dell’Ungheria il 20 dicembre 2004, avrebbe visto, entro il 1° gennaio 2007, l’approvazione di<br />

esso da parte di ben 18 Stati membri su 27. Perciò la pur inevitabile decadenza del trattato costituzionale<br />

diverrà effettiva solo con la firma, il 13 dicembre 2007, del nuovo trattato di riforma, volto a<br />

modificare i due trattati fondamentali dell’UE e della CE, destinati a divenire il trattato sull’UE e il<br />

trattato sul funzionamento dell’UE e ad assumere sostanzialmente i medesimi contenuti del precedente<br />

trattato costituzionale.<br />

Al di là dei risultati (positivi o negativi) del nuovo processo di ratifica che si svolgerà nel corso del<br />

2008 e del 2009, restano da valutare peraltro le seguenti questioni:<br />

1) come presentare ai cittadini europei, oltre che ai Parlamenti nazionali, un trattato emendativo,<br />

che ripropone contenuti analoghi a quelli già presenti nel trattato costituzionale, ma in forma molto<br />

meno chiara e comprensibile?<br />

2) come sollecitare il loro consenso, sia pure indiretto, a tale trattato di riforma e in genere alla nuova<br />

Unione che da esso sorgerà?<br />

3) come ricucire lo strappo determinatosi tra gli anni 2005 e 2007 tra l’Unione e i suoi cittadini?<br />

Tutte domande che, oltre che la stessa UE, interpellano gli Stati membri e soprattutto i soggetti organizzati<br />

della società civile europea, quanto al grado di informazione, coinvolgimento, dibattito e<br />

mobilitazione che sapranno suscitare nei cittadini.<br />

402 Fra di essi figurava l’italiano Rocco Buttiglione (esponente dell’UDC e perciò del PPE e ministro delle politiche comunitarie),<br />

commissario designato per lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia. Egli fu accusato di discriminazione sessuale<br />

nei confronti degli omosessuali, in quanto considerava l’omosessualità “indice di disordine morale”, e successivamente<br />

delle donne, in base all’affermazione: “I bambini che hanno solo una madre e non hanno padre sono figli di<br />

una madre non molto buona”. La linea di difesa fu giudicata inadeguata e la commissione parlamentare incaricata<br />

dell’audizione si espresse contro la nomina di tale personalità.<br />

403 Già pochi giorni dopo, il governo italiano sostituiva la candidatura di Buttiglione con quella di Franco Frattini (esponente<br />

di Forza Italia e quindi del PPE e ministro degli esteri) a Commissario europeo per lo spazio di libertà, sicurezza e<br />

giustizia. Barroso presentava ben presto una nuova proposta di formazione della Commissione, che il 18 novembre<br />

2004 riceveva il voto finale di approvazione del PE e il 22 novembre 2004 sostituiva la precedente Commissione Prodi.


- PER IL MEDIATORE EUROPEO :<br />

III. RIFERIMENTI GIURIDICI EUROPEI<br />

- Decisione 94/262/CECA, CE, Euratom del Parlamento europeo, del 9 marzo 1994, sullo statuto<br />

e le condizioni generali per l'esercizio delle funzioni del Mediatore<br />

- le disposizioni più recenti sul sito web del Mediatore Europeo<br />

- il Codice europeo di buona condotta amministrativa<br />

- PER LE ELEZIONI EUROPEE NELLO STATO MEMBRO DI RESIDENZA.<br />

- Direttiva 93/109/CE del Consiglio, del 6 dicembre 1993, relativa alle modalità di esercizio del diritto<br />

di voto e di eleggibilità alle elezioni del Parlamento europeo per i cittadini dell'Unione che risiedono<br />

in uno Stato membro di cui non sono cittadini<br />

- PER LE ELEZIONI COMUNALI NELLO STATO MEMBRO DI RESIDENZA:<br />

- Direttiva 94/80/CE del Consiglio, del 19 dicembre 1994, che stabilisce le modalità di esercizio del<br />

diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni comunali per i cittadini dell'Unione che risiedono in uno<br />

Stato membro di cui non hanno la <strong>cittadinanza</strong><br />

- PER LA “TUTELA DIPLOMATICA”:<br />

- 95/553/CE: Decisione dei rappresentanti dei governi degli Stati membri, riuniti in sede di Consiglio,<br />

del 19 dicembre 1995, riguardante la tutela dei cittadini dell'Unione europea da parte delle<br />

rappresentanze diplomatiche e consolari<br />

- PER UNA “CITTADINANZA EFFETTIVA” (comunicazione della Commissione):<br />

- Comunicazione della Commissione - Far sì che la <strong>cittadinanza</strong> diventi effettiva: promuovere la<br />

cultura e la diversità europee mediante programmi nei settori della gioventù, della cultura, dell'audiovisivo<br />

e della partecipazione civica /* COM/2004/0154 def. */<br />

- PER « DIRITTI FONDAMENTALI E CITTADINANZA » (decisione sull’intero pacchetto di<br />

programmi d’azione):<br />

- Décision du Conseil du 19 avril 2007 établissant pour la période 2007-2013, dans le cadre du programme<br />

général Droits fondamentaux et justice , le programme spécifique Droits fondamentaux et<br />

citoyenneté<br />

1) PER IL MEDIATORE EUROPEO:<br />

IV. PROPOSTE CONCRETE DI PARTECIPAZIONE<br />

- il formulario di denuncia<br />

- come contattare un membro del Parlamento Europeo<br />

2) PER LA PETIZIONE:<br />

Chi può presentare una petizione?<br />

Può presentare una petizione: qualsiasi cittadino dell'Unione europea, qualsiasi persona residente in


uno Stato membro dell'Unione europea, qualsiasi membro di una associazione, società o organizzazione<br />

(persona fisica o giuridica) con sede sociale in uno Stato membro dell'Unione europea.<br />

Su cosa può vertere una petizione?<br />

Una petizione può vertere su temi che riguardano l'Unione europea o sono di sua competenza,<br />

quali ad esempio: i vostri <strong>diritti</strong> in quanto cittadini europei ai sensi dei trattati, le questioni ambientali,<br />

la protezione dei consumatori, la libera circolazione di persone, merci e servizi e il mercato interno,<br />

l'occupazione e la politica sociale, il riconoscimento delle qualifiche professionali, altre questioni<br />

connesse all'attuazione della legislazione dell'Unione europea.<br />

N.B.<br />

Non vengono prese in considerazione dalla commissione per le petizioni semplici richieste d'informazione<br />

né osservazioni generali sulla politica dell'Unione europea.<br />

In quale lingua si può presentare una petizione?<br />

La petizione deve essere redatta in una delle lingue ufficiali dell'Unione europea.<br />

Consultare:<br />

Articolo 194 del trattato CE<br />

Articolo 191 del regolamento<br />

In che modo si può presentare una petizione?<br />

Vi sono due possibilità:<br />

invio postale<br />

invio on line mediante apposito formulario elettronico<br />

La petizione deve includere tutti i fatti attinenti alla questione su cui verte, evitando tuttavia particolari<br />

superflui. La petizione, che va redatta in maniera chiara e leggibile, può essere corredata di una<br />

sintesi.<br />

Invio postale:<br />

Se desiderate presentare una petizione su supporto cartaceo, non vi sono formulari da compilare né<br />

modelli standard per la redazione.<br />

La petizione dovrà tuttavia: recare nome, nazionalità e indirizzo permanente del firmatario (nel caso<br />

di petizioni collettive devono figurare il nome, la nazionalità e l'indirizzo permanente dell'autore o<br />

almeno del primo firmatario); essere firmata.<br />

La petizione può contenere allegati, incluse le copie dei documenti probanti eventualmente in suo<br />

possesso.<br />

La petizione va inviata all'indirizzo seguente:<br />

European Parliament<br />

The President of the European Parliament<br />

Rue Wiertz<br />

B-1047 BRUSSELS<br />

Invio on line mediante apposito modulo elettronico:<br />

Per presentare una petizione on line elettronica:legga attentamente le informazioni e istruzioni fornite<br />

on line nelle pagine del sito Web del Parlamento europeo dedicate alle petizioni, compili il modulo<br />

elettronico on line e clicchi su «Invia».<br />

Dopo aver inviato la petizione tramite modulo elettronico, riceverà conferma elettronica dell'avvenuta<br />

ricezione.<br />

La petizione sarà inviata alla commissione per le petizioni, incaricata di gestire la procedura e di<br />

formulare le opportune raccomandazioni e conclusioni.<br />

La commissione per le petizioni comunicherà le informazioni relative al seguito dato alla petizione<br />

per posta.<br />

Eventuali informazioni supplementari o documenti giustificativi allegati alla petizione devono essere<br />

inviati per posta, con l'indicazione del numero della petizione, al seguente indirizzo:


European Parliament<br />

Committee on petitions<br />

The Secretariat<br />

Rue Wiertz<br />

B-1047 BRUSSELS<br />

La commissione per le petizioni è composta da 40 deputati e presieduta da un presidente e 4 vicepresidenti.<br />

Quale seguito viene dato a una petizione ricevibile?<br />

Se l'oggetto della petizione inviata riguarda uno dei settori di attività dell'Unione europea, la petizione<br />

è di norma dichiarata ricevibile dalla commissione per le petizioni, che prende una decisione<br />

sul seguito da darle, a norma del regolamento.<br />

Quale che sia la decisione adottata, la commissione per le petizioni ne informa senza indugio il firmatario.<br />

A seconda delle circostanze, la commissione per le petizioni può: chiedere alla Commissione europea<br />

di avviare un'indagine preliminare e fornire informazioni riguardo al rispetto della legislazione<br />

comunitaria pertinente, deferire la petizione ad altre commissioni del Parlamento europeo con richiesta<br />

di informazioni o di ulteriori azioni (una commissione parlamentare può ad esempio tenere<br />

conto di una petizione nell'ambito delle proprie attività legislative), in casi eccezionali, presentare<br />

una relazione al Parlamento da sottoporre a votazione in Aula o effettuare un sopralluogo informativo,<br />

o compiere qualsiasi altro passo giudicato opportuno per risolvere un determinato problema.<br />

La commissione per le petizioni si riunisce di norma ogni mese, eccettuato il mese di agosto, quando<br />

il Parlamento è in vacanza. La commissione è assistita da una segreteria permanente che svolge<br />

un ruolo consultivo e prepara le riunioni della commissione.<br />

Se la commissione per le petizioni può richiedere la cooperazione delle autorità nazionali o locali di<br />

uno Stato membro nel tentativo di risolvere un problema sollevato dal firmatario di una petizione,<br />

essa non può tuttavia ignorare le decisioni adottate dalle autorità competenti degli Stati membri.<br />

Poiché il Parlamento europeo non è un'autorità giudiziaria, esso non può pronunciarsi sulle decisioni<br />

adottate dalle autorità giudiziarie degli Stati membri né revocarle. Le petizioni che perseguono<br />

tali obiettivi sono irricevibili.<br />

Consultare:<br />

Articolo 192 del regolamento<br />

Irricevibilità di una petizione<br />

Se una petizione non rientra in un settore di attività dell'Unione europea, essa è dichiarata irricevibile.<br />

Ciò può essere dovuto al fatto che l'oggetto della petizione rientra chiaramente nella sfera di responsabilità<br />

e di competenza dello Stato membro.<br />

Le petizioni dichiarate irricevibili dalla commissione per le petizioni sono archiviate e ad esse non<br />

viene più dato alcun seguito. La commissione per le petizioni notifica comunque al firmatario la<br />

propria decisione.<br />

A seconda dell'oggetto della petizione, la commissione per le petizioni può suggerire al firmatario<br />

di rivolgersi a un organismo non comunitario (ad esempio, la Corte europea dei <strong>diritti</strong> dell'uomo) o<br />

nazionale (ad esempio, il difensore civico nazionale o la commissione per le petizioni del parlamento<br />

nazionale).<br />

N. B. Le questioni inerenti alla c<strong>attiva</strong> amministrazione in seno alle Istituzioni o agli organi dell'Unione<br />

europea vanno inviate al Mediatore europeo.<br />

Consultare:<br />

Mediatore europeo<br />

Pubblicità delle petizioni<br />

Le petizioni, corredate dei rispettivi numeri e autori, o dell'autore principale per le petizioni colletti-


ve, vengono iscritte in un registro nell'ordine in cui sono pervenute e annunciate durante le sedute<br />

plenarie del Parlamento europeo. Tali comunicazioni figurano nel processo verbale della rispettiva<br />

seduta.<br />

Si informano i firmatari delle petizioni che i processi verbali sono pubblicati nella Gazzetta ufficiale<br />

e che pertanto taluni dati, tra cui il nome del firmatario e il numero della petizione, sono disponibili<br />

su Internet. Si richiama in particolare l'attenzione dei firmatari sul fatto che ciò ha delle ricadute sulla<br />

tutela dei dati personali. Qualora il firmatario desideri che il suo nome non sia reso noto, il Parlamento<br />

europeo ne rispetterà la privacy. Tale richiesta dovrà però essere indicata in modo chiaro ed<br />

esplicito nella petizione. Analogamente, se si desidera che la petizione venga trattata in via confidenziale,<br />

si indicherà chiaramente tale richiesta. Di norma, le riunioni della commissione sono pubbliche<br />

e i firmatari delle petizioni possono eventualmente partecipare, su richiesta, alla discussione<br />

della loro petizione.<br />

Consultare:<br />

Tutela dei dati personali al Parlamento europeo<br />

Regolamento (CE) n. 45/2001 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 18 dicembre 2000,<br />

concernente la tutela delle persone fisiche in relazione al trattamento dei dati personali da parte delle<br />

istituzioni e degli organismi comunitari, nonché la libera circolazione di tali dati<br />

Modulo per la presentazione di una petizione online<br />

3) Programma d’azione “GIOVENTU’ IN AZIONE”<br />

- Decisione n. 1719/2006/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 novembre 2006 , che<br />

istituisce il programma Gioventù in azione per il periodo 2007-2013<br />

OBIETTIVI<br />

Il programma Gioventù in Azione mira a sviluppare tra i giovani dai 18 ai 30 anni un senso di responsabilità,<br />

interesse per gli altri, partecipazione civica e coinvolgimento attivo a livello locale,<br />

nazionale ed europeo.<br />

DESCRIZIONE<br />

Il programma si sviluppa in diverse azioni:<br />

- Azione 1 - Gioventù per l’Europa: sostiene gli scambi di giovani, sia intracomunitari che con<br />

Paesi terzi, finalizzati a consentire ai giovani di scoprire realtà sociali e culturali diverse.<br />

- Azione 2 - Servizio Volontario Europeo (SVE): prevede un servizio volontario sia intracomunitario<br />

che con i Paesi terzi ed è finalizzato a consentire ai giovani di partecipare ad attività che<br />

soddisfino necessità della società nei settori più disparati e ad acquisire conoscenze sociali e culturali.<br />

- Azione 3 -Gioventù del mondo: sostiene il mutuo apprendimento ed il coinvolgimento attivo attraverso<br />

un approccio “open-mind”.<br />

Prevede anche la realizzazione di progetti con i Paesi confinanti e con i nuovi Stati membri.<br />

- Azione 4 – Strutture di sostegno per i giovani: aiuta le organizzazioni di giovani attive a livello<br />

europeo a promuovere lo sviluppo di:<br />

• formazione, scambio per i giovani lavoratori;<br />

• progetti per stimolare innovazione, qualità e partenariato<br />

con autorità locali e regionali.<br />

- Azione 5 – Supporto alla cooperazione europea: promuove la cooperazione tra gli enti decisionali<br />

della politica giovanile, preparando la partecipazione dei giovani alla vita democratica.<br />

Sostiene le strutture rappresentative dei giovani in Europa.<br />

La DG Cultura ha pubblicato una Guida dell’utente che precisa tutte le<br />

formalità di partecipazione e le scadenze periodiche per la<br />

presentazione delle proposte:


http://ec.europa.eu/youth/yia/yia_programme_guide_it.pdf<br />

BASE GIURIDICA<br />

Decisione 1719/2006/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 15 novembre 2006 che istituisce<br />

il programma «Gioventù in azione» per il periodo 2007-2013 in GUUE serie L 327/30 del<br />

24/11/2006.<br />

RIFERIMENTI Commissione Europea – DG Istruzione e cultura<br />

Unità D1 – Politiche per la gioventù<br />

Contatto: Artur PAYER – Manager di programma<br />

Tel.: +32 2 2991318 / E-mail: artur.payer@ ec.europa.eu<br />

Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali<br />

Agenzia Nazionale Italiana Gioventù<br />

Contatto: Paola TRIFONI – Coordinatrice del programma<br />

Tel.: +39 06 36754433 / E-mail: ptrifoni@welfare.gov.it<br />

Sito Internet ufficiale:<br />

http://ec.europa.eu/youth/yia/index_en.html<br />

Agenzia Nazionale Italiana: www.gioventu.it<br />

Procedura di partecipazione: Allegato 3, procedura B.<br />

4) Programma d’azione “MEDIA 2007”:<br />

- Decisione n. 1718/2006/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 novembre 2006 , relativa<br />

all’attuazione di un programma di sostegno al settore audiovisivo europeo (MEDIA 2007)<br />

OBIETTIVI<br />

1. conservare e valorizzare la diversità culturale e linguistica europea e il patrimonio audiovisivo<br />

cinematografico, garantire l’accesso al pubblico dello stesso e favorire il dialogo tra le culture;<br />

2. accrescere la circolazione e la visibilità delle opere audiovisive europee all’interno e all’esterno<br />

dell’Unione europea, intensificando fra l’altro la cooperazione fra le parti attive;<br />

3. rafforzare la concorrenza del settore audiovisivo europeo nel quadro di un mercato europeo aperto<br />

e concorrenziale propizio all’occupazione, promuovendo fra l’altro i collegamenti tra i<br />

professionisti dell’audiovisivo.<br />

DESCRIZIONE Il programma sostiene:<br />

- acquisizione e perfezionamento delle competenze nel settore audiovisivo;<br />

- elaborazione di progetti di produzione destinati al mercato europeo e internazionale presentati da<br />

società di produzione indipendenti, in particolare PMI;<br />

- valorizzare la diversità culturale delle opere audiovisive europee distribuite;<br />

- migliorare la circolazione delle opere audiovisive europee garantendo al settore audiovisivo europeo<br />

un accesso ai mercati professionali europei e internazionali;<br />

- garantire l’adeguamento del programma agli sviluppi del mercato in connessione in particolare<br />

con l’introduzione e l’utilizzo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione.<br />

BASE GIURIDICA<br />

Decisione n. 1718/2006/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del<br />

15 novembre 2006 in GUUE serie L 327/12 del 24/11/2006.<br />

RIFERIMENTI Commissione Europea – DG Società dell’Informazione e Media<br />

Unità A2 – Programma MEDIA<br />

Contatto: Isabella TESSARO


Tel.: +32 2 2956936 / E-mail: isabella.tessaro@ec.europa.eu<br />

MEDIA Desk Italia<br />

Contatto: Giuseppe MASSARO<br />

c/o ANICA<br />

Tel.: +39 06 4404633<br />

E-mail:produzione@mediadesk.it<br />

MEDIA Antenna Torino<br />

Contatto: Silvia SANDRONE<br />

Tel.: +39 011 539 853<br />

E-mail: media@antennamedia.it<br />

Sito Internet ufficiale:<br />

http://www.ec.europa.eu/comm/avpolicy/media/index_en.html<br />

5) Programma d’azione “L’EUROPA PER I CITTADINI”:<br />

- Decisione 1904/2006/EC del Parlamento Europeo e del Consiglio del 12 dicembre 2006, che<br />

stabilisce per il periodo 2007-2013 il programma “Europa per i cittadini” per promuovere<br />

una <strong>cittadinanza</strong> europea <strong>attiva</strong><br />

- Guida al programma “Europa per i cittadini”<br />

OBIETTIVI<br />

Il programma persegue i seguenti obiettivi:<br />

a) avvicinare tra loro le persone appartenenti alle comunità locali di tutta Europa, affinché possano<br />

condividere e scambiare esperienze, opinioni e valori, trarre insegnamento dalla storia e operare per<br />

costruire il futuro;<br />

b) promuovere le iniziative, i dibattiti e la riflessione in materia di <strong>cittadinanza</strong> europea e democrazia,<br />

valori condivisi, storia e cultura comuni, grazie alla cooperazione all’interno delle organizzazioni<br />

della società civile a livello europeo;<br />

c) avvicinare l’Europa ai suoi cittadini, promuovendo i valori e le realizzazioni dell’Europa e preservando<br />

la memoria del passato europeo;<br />

d) favorire l’interazione tra i cittadini e le organizzazioni della società civile di tutti i paesi partecipanti,<br />

contribuendo al dialogo interculturale e mettendo in evidenza la diversità e l’unità<br />

dell’Europa, con un’attenzione particolare per le attività volte a promuovere più stretti contatti tra i<br />

cittadini degli Stati membri dell’Unione europea nella sua composizione al 30 aprile 2004 e quelli<br />

degli Stati membri che hanno aderito all’Unione europea dopo tale data.<br />

DESCRIZIONE<br />

Incoraggia la cooperazione tra cittadini e le loro organizzazioni di differenti paesi al fine favorire<br />

azioni congiunte e lo sviluppo di idee nel contesto europeo, superando le visioni nazionali e rispettando<br />

le loro diversità. Gli obiettivi del programma sono perseguiti sostenendo le seguenti azioni:<br />

Cittadini attivi per l’Europa:<br />

- gemellaggio di città;<br />

- progetti dei cittadini e misure di sostegno.<br />

Una società civile <strong>attiva</strong> in Europa:<br />

- sostegno strutturale ai centri di ricerca sulle politiche europee<br />

(gruppi di riflessione);<br />

- sostegno strutturale alle organizzazioni della società civile a livello europeo;<br />

- sostegno a progetti promossi da organizzazioni della società civile.<br />

Insieme per l’Europa:


- eventi di grande visibilità, come commemorazioni, premi, manifestazioni artistiche, conferenze su<br />

scala europea;<br />

- studi, indagini e sondaggi d’opinione;<br />

- strumenti d’informazione e di diffusione.<br />

Memoria europea <strong>attiva</strong>:<br />

- preservazione dei principali siti ed archivi connessi con le deportazioni e commemorazione delle<br />

vittime.<br />

BASE GIURIDICA<br />

Decisione n. 1904/2006/EC del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 dicembre 2006 che istituisce,<br />

per il periodo 2007-2013, il programma “Europa per i cittadini” mirante a promuovere la<br />

<strong>cittadinanza</strong> europea <strong>attiva</strong> in GUUE serie L 378 del 27/12/2006.<br />

RIFERIMENTI Cultural Contact Point Italy<br />

Dialoghi per la Cultura Europea, Antenna Culturale Europea<br />

Massimo Scalari<br />

Marcella Mondini<br />

Tel.: +39 011 547208 / E-mail: info@antennaculturale.it<br />

http://www.antennaculturale.it<br />

Procedura di partecipazione: Allegato 3, procedura B.<br />

Commissione europea – DG Istruzione e Cultura<br />

Unità D4 – Town Twinning<br />

Contatto: Pavel TYCHTL – Manager di programma<br />

Tel.: +32 2 2962973 / E-mail: pavel.tychtl@ec.europa.eu<br />

E-mail: eacea-p7@ec.europa.eu<br />

Sito Internet ufficiale: http://ec.europa.eu/citizenship/index_en.html<br />

6) Programma d’azione “CULTURA”:<br />

- Decisione n. 1718/2006/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 novembre 2006 , relativa<br />

all’attuazione di un programma di sostegno al settore audiovisivo europeo (MEDIA 2007)<br />

OBIETTIVI<br />

L’obiettivo generale del programma è quello di contribuire alla valorizzazione di uno spazio culturale<br />

condiviso dagli europei e basato su un comune patrimonio culturale, sviluppando la cooperazione<br />

culturale tra i creatori, gli operatori culturali e le istituzioni culturali dei paesi partecipanti al<br />

programma, al fine di favorire l’emergere di una <strong>cittadinanza</strong> europea.<br />

Più precisamente, si intende<br />

• promuovere la mobilità transnazionale degli operatori culturali;<br />

• incoraggiare la circolazione transnazionale di opere e prodotti artistici e culturali;<br />

• favorire il dialogo interculturale.<br />

DESCRIZIONE Gli obiettivi del programma sono perseguiti attuando le seguenti azioni,:<br />

a) sostegno ad azioni culturali, nel modo seguente:<br />

- progetti di cooperazione pluriennale;<br />

- azioni di cooperazione;<br />

- azioni speciali;<br />

b) sostegno ad organismi attivi a livello europeo nel settore della<br />

cultura;


c) sostegno a lavori d’analisi e ad attività di raccolta e diffusione dell’informazione e ad attività che<br />

ottimizzino l’impatto di progetti nel settore della cooperazione culturale europea e dello sviluppo<br />

della politica culturale europea.<br />

BASE GIURIDICA<br />

Decisione n. 1855/2006/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio,<br />

del 12 dicembre 2006, che istituisce il programma Cultura (2007 –<br />

2013) in GUUE serie L 372 del 27 dicembre 2006.<br />

RIFERIMENTI Commissione europea – DG Cultura<br />

E-mail: eac-culture@ec.europa.eu<br />

Tel.: +32 2 2966599<br />

Unità C4 – Cultura<br />

Contatto: Antonio FARRAUTO – Manager di programma<br />

Tel.: +32 2 2987736 / E-mail: antonio.farrauto@ec.europa.eu<br />

Antenna culturale italiana (Punto di contatto italiano)<br />

Tel.: +39 011 547208<br />

E-mail: info@antennaculturale.it<br />

Sito internet: www.antennaculturale.it<br />

Sito Internet ufficiale: www.ec.europa.eu/comm/culture/eac/index_en.html

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