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Cacciatori di betoniere - Ljubo Ungherelli

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andosi ad uscire, “dovrebbe mettere la testa a posto, una buona volta. Non lo<br />

abbiamo mandato a Sarajevo per <strong>di</strong>vertirsi coi nostri sol<strong>di</strong>.”<br />

“Neka, neka”, mormorò la moglie, scrollando le spalle. Diceva sempre<br />

così, quando riteneva che qualcuno trasformasse una cosa da niente in un affare<br />

<strong>di</strong> stato. Si poteva anzi affermare che fosse l’unica espressione che le uscisse<br />

volentieri <strong>di</strong> bocca. Quando doveva articolare un concetto più lungo, <strong>di</strong>fatti,<br />

sembrava che qualcuno volesse estorcerglielo e le veniva fuori penosamente,<br />

quasi con dolore. Ogni volta che poteva, liquidava il suo e l’altrui pensiero con<br />

quel “neka, neka”, simbolo <strong>di</strong> una volontà demandata per procura a chi si prendesse<br />

la briga <strong>di</strong> esercitarla.<br />

“Faccia pure ciò che gli pare, è giovane, è giusto si <strong>di</strong>verta”, poteva significare<br />

in quel caso, ma, in linea generale, era traducibile come “cosa vuoi che<br />

m’importi <strong>di</strong> queste stupidaggini, con tutto quello <strong>di</strong> cui ho da preoccuparmi?”<br />

Quali fossero poi tali imprescin<strong>di</strong>bili preoccupazioni, non era dato sapere.<br />

Smiljana Učiteljević passava le sue giornate sferruzzando un lavoro a maglia,<br />

da sola oppure in compagnia <strong>di</strong> qualche vicina <strong>di</strong> casa, preparando pranzo e<br />

cena, andando al mercato e via <strong>di</strong> questo passo.<br />

Pressoché analoghe erano le attività del marito. La scuola gli portava via<br />

la mattina o, in alternativa, buona parte del pomeriggio, quin<strong>di</strong> rincasava per<br />

mangiare, prima <strong>di</strong> <strong>di</strong>rigersi alla locanda <strong>di</strong> Stipe, l’unica <strong>di</strong> Bolesno Selo.<br />

Se, nelle gran<strong>di</strong> città, la gioventù slava si <strong>di</strong>sperdeva oziosa ai tavoli dei<br />

sempre più numerosi e affollati caffè, sorseggiando una bibita annacquata tra<br />

una chiacchiera e l’ennesima sigaretta, nei villaggi resistevano le più tra<strong>di</strong>zionali<br />

taverne.<br />

Branko Učiteljević salutò la moglie ed uscì. C’era un bel sole, la primavera<br />

era arrivata ed avrebbe concesso un periodo piacevole, prima che il torrido<br />

caldo estivo iniziasse a imperversare, col rischio <strong>di</strong> gravi siccità qualora non<br />

fosse piovuto a sufficienza.<br />

Bolesno Selo, lentamente, si animava. I bottegai aprivano i loro esercizi,<br />

mentre i conta<strong>di</strong>ni erano già al lavoro nei poderi. Dei bambini si univano a<br />

Branko, trotterellandogli accanto.<br />

“Buongiorno, Učiteljević”, lo salutavano.<br />

L’uomo viveva ormai con noncuranza il fatto che gli scolari gli si rivolgessero<br />

chiamandolo per cognome. Abitualmente, il maestro era chiamato per<br />

nome, talvolta preceduto dalla sua qualifica.<br />

Il maestro Branko, per l’ironia del destino, che aveva associato il suo cognome<br />

al mestiere praticato, era così <strong>di</strong>venuto, nell’immaginifica fantasia infantile,<br />

semplicemente Učiteljević, come se questo fosse in realtà un soprannome,<br />

affibbiatogli per la sua qualifica, creato grazie a un’assonanza con le desinenze<br />

tipiche dei cognomi slavi.<br />

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