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Cacciatori di betoniere - Ljubo Ungherelli

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Stanza <strong>di</strong> rigore<br />

Solo. È la mia con<strong>di</strong>zione attuale, anche se mi sento attorniato da presenze<br />

fisiche più che tangibili. Solo nei miei pensieri, che non possono fare a meno<br />

d’importunarmi, implacabili, persino mentre <strong>di</strong>scuto col mio <strong>di</strong>rimpettaio circa<br />

il <strong>di</strong>sinvolto uso che i suoi due figli fanno del nostro comune pianerottolo.<br />

“Anche un santo avrebbe esaurito la scorta <strong>di</strong> pazienza, coi suoi figli. È<br />

impossibile che non siano abbastanza intelligenti da capire la <strong>di</strong>fferenza tra una<br />

porta da calcio e quella <strong>di</strong> un appartamento. Il mio, fra l’altro.”<br />

“Se può consolarla”, mi risponde quell’in<strong>di</strong>viduo assurdo, incapace <strong>di</strong><br />

spiegarsi la mia apparizione che, alla stregua <strong>di</strong> un arbitro malato <strong>di</strong> protagonismo,<br />

ha sequestrato il pallone e si rifiuta <strong>di</strong> far riprendere l’incontro, “giocano a<br />

due porte. E la mia è stata perforata molte più volte della sua.”<br />

Mi guarda accennando un sorriso che vorrebbe comunicare timida costernazione,<br />

ma a me fa l’effetto della solita, subdola messinscena per liberarsi <strong>di</strong><br />

me (e dei figli) al più presto e tornare ad appiccicarsi al televisore. Si stringe<br />

nelle spalle, e tenta <strong>di</strong> buttar lì la classica sentenza, che dovrebbe indurmi a più<br />

miti consigli e, lui ci spererebbe, a piantarla <strong>di</strong> lamentarmi.<br />

“Almeno lei dovrebbe capirli. Potrebbe essere il loro fratello maggiore. È<br />

giovane, lei”, mi <strong>di</strong>ce, mentre, con una mano, friziona amorevolmente il capo<br />

del figlio più grande, che, rimasto sul luogo del misfatto, mi rivolge uno sguardo<br />

ostinato, foriero <strong>di</strong> nuovi attentati alla mia pace domestica. Pochi in<strong>di</strong>vidui,<br />

prima <strong>di</strong> questo ragazzetto, hanno scatenato in me simili pulsioni omicide.<br />

“Mai stato giovane”, gli rispondo, “tanto meno ora. Mi stanno venendo<br />

pure i capelli bianchi, vede? Se i suoi figli fossero rappresentativi della gioventù,<br />

andrebbe presa in seria considerazione l’ipotesi <strong>di</strong> sterminare l’intero genere<br />

umano. Una sterilizzazione collettiva farebbe al caso nostro. Conosce la leggenda<br />

del padre che mangiava i figli per timore <strong>di</strong> essere spodestato da uno <strong>di</strong> loro?<br />

No? Forse chiedo troppo, sono cose <strong>di</strong> cui in televisione non si parla.”<br />

Lo sto mettendo alle corde, aspetto il momento giusto per sferrargli il colpo<br />

<strong>di</strong> grazia, ma i miei pensieri non mi danno requie, ed evito d’infierire oltre. E<br />

pensare che potrei affrontare questa sfida con la leggerezza che merita, e che<br />

adoperavo in passato. Come quando sorpresi uno dei due ragazzini, il più grande,<br />

tanto per cambiare, che con un trincetto cercava <strong>di</strong> raschiare via il mio nome<br />

dalla targhetta della cassetta postale. Non lo riportai ai genitori sollevandolo per<br />

un orecchio. Non ho figli, e non mi va <strong>di</strong> dare questo genere <strong>di</strong> lezioni. Tempo<br />

un paio <strong>di</strong> giorni, però, e le targhette a mio nome, come per magia, erano raddoppiate.<br />

Due citofoni, due appartamenti, due cassette della posta, mentre i miei<br />

vicini erano sprofondati nell’anonimato. Adesso, coi pensieri che ho, non mi <strong>di</strong>verto<br />

più con questi scherzi, e subisco pressoché inerme la vivacità dei figli del<br />

mio vicino.<br />

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