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Sacerdote indotto a lasciare il Vaticano. Unico dato positivo: L’Eminenza, sempre più isterica,<br />

ridusse la sua capiente Arca biblica trasformandola in una barchetta biposto, e moderò<br />

sensibilmente le sue straripanti e pelose affettuosità. Che tuttavia ― pur ridotte di quantità e<br />

intensità ― non cessarono del tutto. Così fu poi la volta di un giovane prete veneto dalle fattezze<br />

efebiche, il quale lamentò in Segreteria di Stato le pressanti attenzioni, con affettuosità spinte,<br />

rivoltegli da quello stesso Porporato: venne accusato di mitomania e di morbosità proiettive, e<br />

dovette cambiare aria…» (cfr. I Millenari: «Fumo di Satana in Vaticano», Milanono, 2001).<br />

Il Papa Paolo VI (1963-1978), figlio di un imprenditore e banchiere bresciano, inizia il suo<br />

pontificato col dover risolvere un grave problema finanziario. Per tale motivo, nel 1964 non esitò a<br />

reintegrare Padre Pio da Pietrelcina (1887-1964), che dal Santo Uffizio il 31 maggio 1923 era stato<br />

ufficialmente smascherato come truffatore, in cambio del passaggio di proprietà alla Santa Sede<br />

delle sue enormi attività finanziarie. Nel contempo non si fece scrupolo di intraprendere anche<br />

attività illecite ben illustrate da Guarino (1998) come segue: «…sulle casse papali incombe<br />

l’incognita della nuova legislazione fiscale italiana, che dal dicembre 1962 impone una tassazione<br />

fino al 30% dei profitti derivanti dai dividenti azionari. Per le sue speculazioni sui mercati azionari,<br />

il Vaticano pretenderebbe un regime di totale esenzione fiscale […]. La questione è oggetto di una<br />

delicata trattativa diplomatica che si protrarrà negli anni, sia per l’instabilità dei governi italiani sia<br />

per il tenace rifiuto Vaticano di rispettare la legge. Il contrasto si risolve nel 1968, quando il<br />

governo conferma che il Vaticano è tenuto a pagare le tasse sui profitti azionari ed entro fine anno<br />

dovrà cominciare a versare il dovuto pregresso (circa 240 miliardi di lire dell’epoca [equivalenti a<br />

circa 1.200 milioni di euro attuali]. A quel punto la Santa Sede decide di correre ai ripari spostando<br />

fuori dall’Italia il suo patrimonio azionario per sottrarlo alla tassazione dell’Erario italiano.<br />

L’operazione al limite della legalità, viene affidata alle alchimie societarie di un finanziere siciliano<br />

attivo a Milano, amico di Paolo VI e suo “consulente”, già in affari col Vaticano, e con solidi<br />

legami negli USA: Michele Sindona. […]. Tanto cattolico quanto spregiudicato, Sindona si era<br />

specializzato nella remunerativa pratica dell’elusione fiscale, studiando a fondo i paradisi fiscali<br />

europei […]. Nel 1955 Sindona aveva attuato una serie di speculazioni edilizie nella periferia di<br />

Milano ed in quella occasione era entrato in contatto con l’arcivescovo Giovanni Battista Montini<br />

(il futuro Paolo VI). […]. Sindona, a quel punto, era divenuto il “consulente finanziario” della curia<br />

milanese: non solo uomo di fiducia di Montini, ma legato anche a Monsignor Pasquale Macchi, il<br />

potente segretario dell’alto prelato. I rapporti ecclesiali di Sindona non si erano limitati<br />

all’arcidiocesi milanese, ma erano arrivati fino in Vaticano. Nel 1960 Sindona aveva raggiunto lo<br />

status di banchiere proprio attraverso un affare concluso con la banca del papa […]. Nel 1963,<br />

quando era sceso al soglio di Pietro, Montini aveva insediato in Vaticano anche Monsignor Macchi<br />

ed altri esponenti della Curia lombarda: una cerchia di collaboratori che negli stessi ambienti era<br />

stata ribattezzata “mafia milanese”, perché tra essi c’era il consulente esterno in odore di mafia<br />

Michele Sindona. Paolo VI, infatti, alle prese con le difficoltà economiche del Vaticano, era<br />

intenzionato a rafforzare ed espandere il potere finanziario della Santa Sede ed aveva affidato il<br />

compito all’amico Sindona, affiancandolo all’esperto di finanza vaticana Massimo Spada e ai<br />

dirigenti dello Ior Luigi Pennini e Pellegrino De Strobel. Nella seconda metà degli anni sessanta<br />

Sindona non si occupa solo della finanza vaticana. È anche il consulente tributario, per esempio del<br />

boss mafioso italo-americano Joe Doto […]. Sindona si reca negli Stati Uniti […] ed a New York<br />

viene accolto dalla famiglia mafiosa di don Vito Genovese. Per conto del clan Genovese, Sindona si<br />

occupa di alcune società predisponendo canali per il riciclaggio dei proventi illeciti. Consulente del<br />

Vaticano e della mafia italo-americana, il finanziere siciliano brucia le tappe anche negli USA ed in<br />

breve diviene un protagonista del mercato finanziario nordamericano. […]. Sospettato negli USA di<br />

essere coinvolto nel traffico internazionale di stupefacenti e legato ad ambienti mafiosi, in Italia il<br />

chiacchierato Sindona può dedicarsi indisturbato ai suoi loschi traffici finanziari. Può farlo grazie<br />

agli ottimi rapporti instaurati con la Democrazia Cristiana ed alle credenziali che gli derivano<br />

dall’essere legato al Vaticano e personalmente al papa. Un legame, quest’ultimo, che nel 1968 si fa<br />

strettissimo. Infatti Paolo VI, intenzionato ad eludere la legislazione fiscale italiana sottraendo alla<br />

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