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DIALOGO SULLA LETTERATURA - Comune di Livorno

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Giorgio, la poesia 43<br />

Eppure c’è un sapore <strong>di</strong> antico, talvolta, nelle sue poesie...<br />

«Certo che c’è. Guar<strong>di</strong>: io ho cominciato, da giovanissimo, scrivendo poesie<br />

vagamente surrealiste, o forse futuriste, non so. Poi a un certo punto<br />

ho detto basta: ho sentito il bisogno <strong>di</strong> riimmergermi nella tra<strong>di</strong>zione,<br />

dopo tante invenzioni lambiccate e incomprensibili. E siccome la cura<br />

doveva essere ra<strong>di</strong>cale, ho scelto, per iniziare questo viaggio all’in<strong>di</strong>etro,<br />

il Carducci, ossia il poeta che mi era più antipatico. E così parecchi hanno<br />

detto, ma quasi sempre <strong>di</strong>etro mia in<strong>di</strong>cazione, che c’è in me un che<br />

<strong>di</strong> carducciano (del Carducci “macchiaiolo”, naturalmente). Comunque,<br />

Carducci a parte, le mie vere fonti sono i poeti delle origini, dai siciliani<br />

ai toscani prima <strong>di</strong> Cavalcanti: poeti che usavano una lingua in fondo<br />

ancora inesistente, e quin<strong>di</strong> dura, spigolosa, non addomesticata a ritmi<br />

cantabili. Ed è stata proprio questa durezza, questa musicalità non <strong>di</strong>co<br />

sgradevole, ma tuttavia non consolatoria, che ho cercato <strong>di</strong> riprodurre,<br />

almeno da un certo momento in poi».<br />

Neanche le immagini <strong>di</strong> mondo che lei trasmette, del resto, sono consolatorie.<br />

«Fa freddo nella storia», <strong>di</strong>ce in una sua poesia. Che cos’è,<br />

questo «freddo»?<br />

«Credo che sia la <strong>di</strong>sperazione a essere “fredda”: ma non una <strong>di</strong>sperazione<br />

patetica, bensì l’azzeramento consapevole delle speranze che è<br />

proprio dello stoico. Lo sfacelo della storia che abbiamo vissuto non<br />

ammette riscatti <strong>di</strong> illusione, né la poesia è un rifugio, o un’isola felice:<br />

anzi, è lo strumento forse più acuminato per esprimere un vuoto che non<br />

può certo essere colmato da istituzioni fatiscenti e artificiose. Valga,<br />

per tutti, l’esempio delle religioni istituzionali».<br />

Ecco, la sua «ateologia», «patoteologia»...<br />

«Senta, <strong>di</strong> queste cose io non so parlare. So solo che ho spesso avuto<br />

desiderio <strong>di</strong> Dio, come giustizia, remunerazione, garanzia. Ma è stato un<br />

desiderio sempre insod<strong>di</strong>sfatto. Dio, se c’è, è un <strong>di</strong>o serpente, un <strong>di</strong>o che<br />

non remunera, non re<strong>di</strong>me. Cristo, infatti, non è mai presente nelle mie<br />

poesie; come non è presente la Provvidenza perché, appunto, non c’è.<br />

Dice Monod che “l’uomo è nato per caso, ai margini <strong>di</strong> un universo insensibile<br />

ai suoi crimini e alle sue musiche”. È una frase bellissima, che<br />

rende bene la mia idea <strong>di</strong> Dio. Dio mi appare proprio come quell’universo<br />

insensibile, quel freddo primo motore immobile che da tempo abbiamo<br />

tutti ucciso nella nostra coscienza, e che però sopravvive come feticcio,<br />

in tutte le religioni organizzate. Ma poi, insomma: ateologia, patoteologia...<br />

Sono termini che ho usato in modo scherzoso. E invece quasi tutti<br />

li hanno presi sul serio. Io non sono certo un teologo; mi pongo però il

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