DIALOGO SULLA LETTERATURA - Comune di Livorno
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Geografia dell’anima 7<br />
pressionista, macchiaiolo. Dopotutto sono livornese».<br />
<strong>Livorno</strong>, la città che Caproni lasciò a <strong>di</strong>eci anni, nel 1922, torna regolarmente<br />
nelle sue poesie, con i suoi luoghi tipici: il Voltone (l’attuale piazza<br />
della Repubblica, chiamata così perché sotto <strong>di</strong> essa passa un grande<br />
canale), lo Scalo dei fiorentini, «l’odore vuoto del mare / sui fossi, e il<br />
suo sciacquare». Ma è soprattutto la città della madre <strong>di</strong> Caproni che lui<br />
rievocò nel 1959, de Il seme del piangere, un libro che segnò l’inizio <strong>di</strong> una<br />
fase nuova della sua poesia.<br />
«Mia madre l’ho amata molto. Era una sarta e una ricamatrice bravissima,<br />
tutti la cercavano; suonava anche la chitarra, è stata una delle<br />
prime a <strong>Livorno</strong> ad andare in bicicletta. Nel libro cercai <strong>di</strong> immaginarmela<br />
come era prima che io nascessi, prima che si sposasse, <strong>di</strong> ritrovare<br />
insomma la ragazza Anna Picchi. A <strong>Livorno</strong> ci torno qualche volta, ma<br />
<strong>di</strong> rado, perché non ci conosco più nessuno. E poi la mia era una bella<br />
città liberty, come le ragazze che uscivano a gruppi, la sera, dal cantiere<br />
Orlando... Oggi non esiste più».<br />
Questa storia della città ideale e perduta, cui si torna sempre col ricordo,<br />
è una costante nella vita <strong>di</strong> Caproni. Ora che vive a Roma, per esempio,<br />
rimpiange molto Genova: «Mi manca il mare, ma il mare, per così<br />
<strong>di</strong>re, commerciale. Mio padre lavorava in una <strong>di</strong>tta <strong>di</strong> export-import, mio<br />
fratello nella marina mercantile. È curioso: detesto il progresso tecnologico,<br />
ma mi piacciono i paesaggi industriali, come quello, per esempio, <strong>di</strong><br />
Cornegliano. Ma ormai anche lì tutto è cambiato, le industrie chiudono,<br />
nel porto ci sono pochissime navi...».<br />
Ma cosa faceva Caproni nel periodo tra le due guerre, quando Genova<br />
era ancora Genova? Frequentava un istituto musicale («sognavo <strong>di</strong> fare<br />
il compositore, non il poeta. Del resto nella poesia ho cercato sempre la<br />
musica»). Poi dovette andare a lavorare come commesso nello stu<strong>di</strong>o <strong>di</strong><br />
un avvocato. Fu lì che scoprì una copia de L’Allegria <strong>di</strong> Ungaretti, che<br />
fu una vera rivelazione. Decise infine <strong>di</strong> <strong>di</strong>ventare maestro elementare<br />
(«Allora e dopo, con i ragazzi non ho mai avuto problemi: bastava mi sedessi<br />
in mezzo a loro e li guardassi negli occhi. Forse mi piaceva perché<br />
insegnare è un po’ come <strong>di</strong>rigere un’orchestra»). Nel 1935, a 23 anni, il<br />
maestro Caproni arriva nella Val Trebbia. «Era un bel posto allora, con<br />
i suoi gran<strong>di</strong> boschi, le sue pietre rosse, le case costruite con l’architettura<br />
un po’ <strong>di</strong>alettale dei capomastri. All’inizio mi guardavano con <strong>di</strong>ffidenza<br />
perché sostituivo un vecchio maestro molto amato, ma poi tutto<br />
si è accomodato. Fu lì che conobbi Rina, che <strong>di</strong>venne mia moglie. È una<br />
strana regione, quella: un po’ lombarda, un po’ ligure, un po’ emiliana.