DIALOGO SULLA LETTERATURA - Comune di Livorno
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COME SU UN PENTAGRAMMA<br />
<strong>di</strong> Michele Gulinucci, “Leggere”, 3, luglio-agosto 1988<br />
Il volto ieratico <strong>di</strong> Giorgio Caproni non incoraggia gli estranei, e non<br />
serve, per entrare in tema, balbettare che lui è tra i maggiori poeti italiani<br />
del nostro secolo. La sua testa <strong>di</strong> rapace, gli occhi ton<strong>di</strong> e attenti,<br />
sono severi e prosciugati come la sua voce: «La parola poeta mi infasti<strong>di</strong>sce,<br />
è inflazionata. Io sono uno scrittore in versi e basta. Il volume<br />
Tutte le poesie (Garzanti 1983) avrebbe dovuto intitolarsi così: tutti i<br />
versi. Anche nel senso <strong>di</strong> versacci, quelli che fanno i bambini».<br />
Si può risalire, da quel mezzo sorriso che ora gli stiracchia la faccia<br />
magra, al bambino targato <strong>Livorno</strong> 1912, figlio <strong>di</strong> una sarta e <strong>di</strong> un ragioniere?<br />
Madre e padre sono <strong>di</strong>ventati personaggi dei suoi libri, e prima,<br />
tra i Caproni <strong>di</strong> Barga, c’era stato lo zi’ Meo, consulente “linguistico” <strong>di</strong><br />
Giovanni Pascoli. La poesia come destino? «Macché, i primi versi l’avrò<br />
scritti a quin<strong>di</strong>ci anni, ed erano d’avanguar<strong>di</strong>a, perché leggevo i surrealisti<br />
ispano-americani sull’Italia letteraria. Poi avevo nell’orecchio i futuristi,<br />
insomma un pasticcio. Finché un giorno ricominciai da capo, dal<br />
Carducci macchiaiolo. Intanto leggevo i due Machado, Salinas, Rubén<br />
Darío, Azorín. A <strong>di</strong>ciannove anni mandai le prime prove serie a Adriano<br />
Grande, allora <strong>di</strong>rettore <strong>di</strong> Circoli, il quale mi rispose testualmente: la<br />
poesia è fatta per tre quarti <strong>di</strong> pazienza... Ma stavo già a Genova. <strong>Livorno</strong><br />
era una città civile e popolare, un misto <strong>di</strong> ciano, cioè plebeo, volgare,<br />
e <strong>di</strong> raffinato. Un carattere misto che ne faceva la città meno toscana<br />
che c’era in Toscana. Mio padre mi portava al Teatro Avvalorati – lui<br />
teneva i conti, lì – e a una prova <strong>di</strong> Cavalleria rusticana vi<strong>di</strong> Mascagni<br />
che <strong>di</strong>rigeva. Fece una scenata a un tenore: Lei non è un tenore, è una<br />
capra! Da allora l’o<strong>di</strong>ai... Comunque Attilio, mio padre, va e viene nei<br />
versi, è presente in un modo poco appariscente, sta in profon<strong>di</strong>tà». Invece<br />
Annina, la madre-fidanzata dei “Versi livornesi” (Il seme del piangere,<br />
1959), riveste in pieno la solarità del ricordo, la leggerezza del canto,<br />
del pianto. Del desiderio, ha azzardato qualcuno. «Avevo l’ambizione<br />
<strong>di</strong> fare la “storia” <strong>di</strong> Annina prima che <strong>di</strong>ventasse mia madre, un’ambizione<br />
ragionevole perché la poesia è l’unica forma possibile <strong>di</strong> storia. In<br />
più volevo tentare un esperimento: costruire col linguaggio <strong>di</strong>atonico,<br />
come si <strong>di</strong>ce in termini musicali, una musica moderna. Allora ho preso<br />
a modello “Perch’i’ no spero <strong>di</strong> tornar giammai”, la ballatetta dell’esilio<br />
<strong>di</strong> Guido Cavalcanti, cioè un canto d’amore, e Annina è <strong>di</strong>ventata<br />
la mia donna... Ne è uscito il miglior poemetto neorealistico, secondo<br />
alcuni. Io al neorealismo non ci ho mai creduto, né l’ho amato. Quanto