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BPM<br />
SGR<br />
Pasto fiscale per squali<br />
troppo affamati<br />
di Andrea Di Stefano<br />
| editoriale |<br />
«S<br />
QUALI. UN PO’ DI SQUALI SERVONO ANCHE A DINAMIZZARE IL MERCATO. Ma quando sono troppi il rischio<br />
di fare disastri è molto reale». Parole di Carlo Fratta Pasini, presidente del Banco Popolare di Verona<br />
e Novara intervenuto al convegno organizzato a Terra Futura da Fiba-Cisl e Fabi sulla Finanza<br />
predatoria. A dimostrazione che l’allarme sul ruolo di alcune istituzioni internazionali, dai private<br />
equity agli hedge funds, è concreto. Nessuna demonizzazione degli strumenti in sé, anche<br />
se sui fondi altamente speculativi ci sarebbe molto da obiettare, ma senza regole internazionali ferree,<br />
senza organismi sovranazionali e soprattutto sovramercati finanziari, la pura logica della rendita<br />
può produrre solo disastri. Basti pensare alle dimensioni del fenomeno carry trade: operatori<br />
che si indebitano in una valuta che ha tassi d’interesse bassissimi (se non addirittura pari allo zero<br />
come lo yen) per investire laddove, invece, è possibile ottenere remunerazioni a due cifre. Così<br />
anche i fondi di private equity, che nella loro storia hanno costruito molte nuove realtà economiche<br />
ma hanno anche distrutto, in altri casi, decine di migliaia di posti di lavoro e di ricchezza, diventano<br />
ovviamente l’obiettivo principale delle campagne del sindacato inglese e americano.<br />
L’auspicio è che la politica smetta di subire le pressioni di lobbies più o meno trasparenti<br />
e metta finalmente un argine allo strapotere della finanza. È possibile e solo il nostro provincialismo<br />
non vede che negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, in Giappone si dibatte di profonde riforme fiscali<br />
che permettano di favorire gli investimenti produttivi, la finanza creatrice al posto di quella predatrice,<br />
il lavoro al posto della rendita. Un primo segnale importante sarebbe la revisione della tassazione<br />
delle rendite finanziarie: siamo ormai l’unico paese che privilegia in modo così palese e diseguale<br />
chi investe a discapito di chi lavora e produce. Ma si tratta solo di un primo passo se si pensa<br />
alla discussione in corso nel parlamento inglese o al Congresso Usa dove all’ordine del giorno<br />
sono state inserite proposte, avanzate anche da esponenti conservatori, che puntano a penalizzare<br />
i profitti dei private equity e degli hedge funds.<br />
La proposta, che porta la firma di Max Baucus, democratico presidente della Commissione<br />
Finanze del Senato, e di Charles Grassley, repubblicano, punta ad andare direttamente al cuore<br />
del problema: la struttura di partnership dei fondi di private equity che consente ai partner<br />
di minimizzare le tasse sugli strabilianti redditi. La struttura di pagamento per il fondo prevede<br />
una percentuale fissa del 2% sul capitale contribuito e del 20% sui profitti. Con il 2% i partners<br />
si pagano le spese di gestione in strutture che sono peraltro molto snelle. Il 20% invece entra<br />
come profitto netto per la partnership. Ma, visto che la struttura di partnership consente di trattare<br />
contabilmente i profitti come capital gain, i saggi partner si pagano uno stipendio relativamente<br />
contenuto su cui pagano aliquote normali; ma sul grosso del guadagno, che può essere anche<br />
di centinaia o in tempi recenti di un miliardo di dollari all'anno, non pagano l'aliquota massima<br />
sul reddito del 35%, ma quella per i capital gains che è appena del 15%.<br />
A favore di una revisione del sistema fiscale si sono schierati anche i grandi editorialisti<br />
che, a differenza di quelli italiani, reclamano a gran voce meccanismi che permettano<br />
di riequilibrare gli incredibili guadagni dei fondi e dei loro promotori. I grandi gestori l’hanno<br />
capito e stanno facendo azione di lobbies in tutto il mondo, dagli Stati Uniti a Bruxeless,<br />
spesso senza la trasparenza necessaria. .<br />
| ANNO 7 N.50 | GIUGNO 2007 | valori | 3 |