MEDIALOGANDO «O TI SPIAZZA E TI FA REAGIRE O NON SERVE A NIENTE» LE QUALITÀ DI UN GIORNALE E DELL’INFORMAZIONE OGGI, SECONDO CLAUDIO CERASA, DIRETTORE DEL FOGLIO di Marco Mancini marmanug Raggiungo la redazione del Foglio, nella centralissima via del Tritone, in una di quelle splendide giornate autunnali che Roma regala per mitigare la nostalgia dell’estate e illuderti che non sia finita. Incontro Claudio Cerasa nel suo ufficio, al secondo piano del palazzo della Sorgente Group, la società proprietaria della testata fondata nel 1996 da Giuliano Ferrara, oggi presidente della cooperativa di giornalisti che la gestisce. Claudio Cerasa diventa direttore del Foglio a 32 anni, nel gennaio del 2015, dopo esserne stato caporedattore. Com’è ormai consuetudine per molti direttori, è diventato anche un opinionista politico ben conosciuto 4
dal pubblico dei talk televisivi. Grazie a quella fortunata contaminazione transmediale, di cui abbiamo scritto altre volte, che fa perno su un perdurante coinvolgimento passionale sprigionato dall’agone politico, nonostante le disillusioni e i sussulti anti-establishment. Cerasa è incisivo, asciutto, diretto, pragmatico. Il nostro breve ma denso incontro, incastonato trai suoi mille impegni, ne è conferma. Il Foglio, fin dalla sua nascita, è stato un giornale sui generis. A cominciare dall’aspetto: caratteri minuti, interlinea stretta, colonne piene. Ecco, oggi che la disabitudine alla lettura va di pari passo con la contrazione dei tempi di attenzione tutto questo funziona ancora? Intanto, se parliamo di giornale cartaceo, i suoi articoli devono essere potenzialmente ritagliabili. Insomma devono indurti a conservarli, a metterli da parte. Se un giornale funziona devi sentire il bisogno di strapparne una pagina. Se me lo dici significa che in tanti ritagliano articoli del Foglio. Quindi non conta la lunghezza, quanto piuttosto il contenuto? Ma sì. Abbiamo la riprova sul web, dove vediamo che gli articoli lunghi sono letti esattamente come quelli corti. Sia sul telefonino sia sui computer. I formati restano essenzialmente due. Quelli più corti servono per darti un’idea, raccontarti un fatto, offrirti una rapida interpretazione del mondo. Ecco, sono un po’ come lo schiocco delle dita che richiama la tua attenzione. Poi ci sono quelli che invece ti accompagnano in una lettura necessariamente più lunga perché quel tema lo approfondiscono. E tu, lettore, vuoi sapere tutto di quel tema lì. E certo non ti lasci impaurire dal tempo necessario. <strong>La</strong> crisi dell’editoria tradizionale e dei giornali cartacei appare irreversibile. Quel modello di business non funziona più. Quali sono le alternative? Comprare un quotidiano in edicola è diventato per molti un lusso. Ma non è una questione da dirimere, è come la forza di gravità. A qualcuno capita di più, ad altri di meno, ma sta succedendo. Paradossalmente i grandi giornali possono solo calare, mentre i piccoli possono ancora crescere, e molto. Insomma, tutto questo non vuol dire che i giornali debbano sparire. Forse è il momento più eccitante per immaginarsi nuovi prodotti e nuovi contenuti, cercando di utilizzare questa fase di distruzione delle vecchie modalità di giornalismo per crearne di nuove. Ecco, siamo di fronte a una distruzione creatrice, come ci insegna il modello schumpeteriano. Ossia la cosiddetta burrasca di Schumpeter, dal nome dell’economista austriaco del secolo scorso, che comprende quei cambiamenti repentini introdotti dalla tecnologia. Come quando il vinile ha lasciato il posto alla musicassetta, che lo ha ceduto poi al cd, poi al lettore mp3 e dopo allo streaming…ma la musica comunque resta. Anche il giornalismo, quindi, resisterà. Ma in quali forme e modalità? Da qui in poi dobbiamo pensare a una testata giornalistica come a una specie di hub. Diciamo a una stazione, usando una metafora ferroviaria. Una stazione da cui partono tantissimi treni diversi che vanno in mille direzioni. <strong>La</strong> sfida è riuscire a inventarsi nuovi modi di creare contenuti, utili per essere poi acquistati nei modi più vari. Oggi anche la terminologia “il giornale” è quindi sbagliata. Perché il giornale è solo una parte del tutto, è un binario. Gli altri non sono stati ancora percorsi. E ce ne sono e saranno tanti. Dai podcast, per ascoltare il giornale senza sfogliarlo con le mani o senza muovere le dita su uno schermo, ai convegni e agli appuntamenti in cui le persone si possono vedere e confrontare. Dal personalizzare l’offerta facendo abbonamenti ad hoc, cuciti addosso alla singola persona, fino alla multimedialità video e radio con palinsesti diversificati. Mi sembra tu abbia le idee piuttosto chiare e un programma ben preciso. Stai forse parlando di un cantiere aperto al Foglio? Sbaglio? Non sbagli. È la sfida che abbiamo davanti nei prossimi mesi e anni, a cui stiamo lavorando: trasformare la nostra testata in un brand, in una specie di casa editrice, un hub, appunto. Diversificheremo l’offerta anche con produzioni settimanali e mensili, creando una sorta di galassia intorno al sole del Foglio. Nel fare questo abbiamo la possibilità e il vantaggio di essere molto veloci, perché siamo un piccolo giornale. E, soprattutto, con la nostra cooperativa, siamo di fatto l’editore di noi stessi. Questo ci garantisce indipendenza e libertà assoluta, che ci viene concessa, ovviamente, da chi ha in mano la testata. È proprio una questione di dna del giornale. Quindi il prossimo anno assisteremo all’inizio di questa burrasca creativa? Il Foglio, 5 luglio <strong>2019</strong> 5