Malvino Stolfa - Isola Nostra

15 Giugno 2004 ISOLA NOSTRA
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UNA PORZION
DE BACALA’
Nei giorni di magro il baccalà
era il piatto principe delle
cucine alietane. La sua preparazione
era scandita da martellate
accompagnate, spesso e
volentieri, da esclamazioni tipo
“Ahi, el me dito!”. La tecnica
di preparazione consisteva nell’acquistare
un bel baccalà possibilmente
della qualità “Ragno”
poi, cercata una robusta
soca de legno e un martèl, ci si
metteva fuori della soglia di casa
incominciando la lavorazione.
Appoggiando il baccalà sulla
soca de legno, giù a pestarlo
con il martello per farlo diventare
tenero ma, se non si poneva
la dovuta attenzione, il più
delle volte anca i diti finivano
sotto l’arnese ed ecco la famosa
esclamazione “Ahi, el me dito!”
La maggior parte dei lettori
sa che il baccalà e lo stoccafisso
derivano dallo stesso pesce:
il merluzzo, appunto. Cambia
solo la tecnica della preparazione
e conservazione: il merluzzo
prende la denominazione di
baccalà quando è diliscato e
aperto dalla parte del ventre
mentre prende il nome di stoccafisso
quando, dopo sventrato
e pulito, è appeso al sole per
farlo diventare duro e secco
come un pezzo di legno. Questo
per chiarezza, ma ad Alieto
si chiamava baccalà lo stoccafisso,
forse per imbrogliare le
cose o perché era il modo più
spontaneo per denominarlo. Ad
ogni buon conto, baccalà o
stoccafisso o merluzzo, come si
preparava da noi poteva definirsi
... afrodisiaco.
Dopo l’operazione della
pestatura, si raccoglieva quello
che rimaneva attorno alla
soca per almeno due metri quadrati
e, dopo aver separato la
polpa dalle schegge di legno,
dalla giarina e qualche cicca,
la si immergeva dentro un
caldaròn pieno di acqua fredda
lasciando bollire per benino.
Dopo cotto si scolava e, della
poltiglia rimasta, si faceva una
cernita per separare la polpa
dalle eventuali lische o qualche
scheggia di legno non vista in
precedenza. Quello che rimaneva
andava messo in una terrina
Alieto e la sua cucina tipica
a cura di Walter Pohlen
Settima puntata
Alla riscoperta dei sapori perduti
Viaggio attraverso tecie, farsore, pignatini,
pignate, caldaroni e… arnesi de cusina vari
aggiungendo oio de oliva, sal,
‘na masenada de pevare , un
pugno de pressemolo pestà e dò
spighi de àio, pestai anca lori.
Fatto questo, s’impugnava
un bastone (un manico di scopa
segato a metà) e ci si dava
da fare a missiar duta ‘sta polpa
fino a quando il braccio si
paralizzava: questo era il segnale
che il “bacalà mantecà” era
pronto al consumo. La delizia
marittima si presentava come
una crema di colore bianco, liscia,
vellutata, dall’odore e sapore
da far rissàr i pei dei brassi.
Niente di più meraviglioso
de una porsion de bacalà
mantecà per la vigilia di Natale.
Poi, se questo piatto
prelibato era accompagnato da
un bel bicchiere di malvasia
spumeggiante... allora, se vedeva
anca la stela cometa e i re
magi.
CAPUSSI GARBI
Piatto tipico tradizionale, fu
importato dagli Uni assieme
agli altri diventando presto piatto
unico o minestra de piròn.I
capussi garbi non devono mai
mancare sulle tavole della festa,
sia quella pagana o religiosa.
Infatti i nostri “veci” avevano
l’abitudine di dire che se
in tola no xe un piato de capussi
no xe gnanca festa. Ed era vero.
I capussi garbi sono il risultato
della macerazione in
aceto (o in vino) del cavolocappuccio
tagliato in fette sottili.
Le nonne e le mamme di
Alieto usavano tecniche diverse
per prepararli secondo il loro
umore, la loro dimestichezza
tra tecie e farsore e... quello che
si aveva nella dispensa di casa.
Il modo più semplice è
quello di scottarli in acqua bollente
e, una volta pronti e scolati,
si versano dentro una
farsora dove già si trova il con-
dimento, vale a dire oio, pestà
de lardo, un spigo de àio, tre o
quatro fete de zivola. Sempre
mescolando si aggiunge una
masenada de pevare fresco lasciando
cuocere per qualche
ora. Molti preparavano queste
specialità nella maniera ungherese
che in pratica consiste nella
preparazione iniziale de un
disfrìto de farineta zontando
una scuciarada de asedo e un
pugneto de pevare rosso
ungarese (paprika forte). Dopo
cotti e prima di servirli vi si
aggiunge mezo bicèr de late
garbo par dar el tòco finàl.
Un altro modo di preparazione
consiste nel gettare i
capussi garbi zà strucai de la
sò acqua dentro un tegame con
oio e un pestà de lardo fumante
e ben disfrito e poi,
missiando duto col cuciar de
legno, se lassa che i ciapi el
color dell’oro vecio, squasi
scuro versandoghe sora ogni
tanto brodo o acqua bolente. Se
lassa consumar disfrizendo fina
quando l’aquolina no stà par
sofegarve.
Altre preparazioni si approntano
aggiungendo carni di
maiale, luganighe, costine che
sprigionano un sapore “mille e
una notte”. Queste aggiunte
sono fatte nei pranzi di una certa
importanza e molte volte serviti
come piatto unico.
Si può affermare che un
piato de capussi garbi ze proprio
un piato de signori ma
quelli che lo gustavano di più
erano i poveri perché gli
altolocati (come diceva mia
nonna) se imagna capussi garbi
i storsi el naso. Povereti, sè
vedi che i no capissi niente!
RIBALTA VAPORI
Persone bene informate
asserivano che il
mitico “Rex” fu affon-
dato causa uno scontro con un
branco di pesciolini del nome
scientifico “latterino giralgiral”
oppure, nel nostro dialetto:
“girai”.
Da allora la fantasia popolare
battezza questo piccolo essere
marino con l’altisonante
nome di “ribalta vapori”. A parte
questa diceria non meglio
confermata, i “ribaltavapori”
sono comunemente consumati
in frittura, meglio se accompagnati
da do fete de polenta cotta
sui serci del spagher.
Nelle osterie (come nelle
case) si accompagnavano con
bottiglie di malvasia quando
l’occasione permetteva un
“rebechin” di un certo pregio.
Quando si decideva di fare una
magnada de ribaltavapori, alle
donne di casa prendeva un colpo
al solo pensiero della grande
quantità che occorreva per
sassiar duti quei ‘famai mai
sassi. Il più delle volte, per una
normale famiglia di quattro o
sei persone, non bastava un
mastela parché el buiòl iera
picio. Ma come tutti sapevano,
i ribalta-vapori va magnai
‘pena ciapai, sensa netarli e
come che i xe, duto compreso.
Il solo essere vivente che saltava
il pasto era il gatto dato che
rimaneva senza lische e teste.
La cottura non richiede
esperienza culinaria nè grande
attenzione: basta avere della
farina bianca par sbianchisarli,
una farsora piena de oio e tanta
pasiensa per frizerli. Dopo
un paio di minuti, si prelevano
dal bagno d’olio facendoli scolare
sopra la solita carta
sugante e, spolverai de sal si
servono caldissimi.
Una bottiglia di quello buono,
possibilmente bianco e nostrano,
una terineta de radiceto
de primo taio ben condì e un
piatto stracolmo di ribalta-vapori
può concludere una serata
in allegria.