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VANGELO E MISSIONE 3 _2008_ - Luca Moscatelli

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- C -<br />

LA «VITA NUOVA»<br />

Gli inizi della missione negli Atti<br />

Leggere gli esordi della missione negli Atti degli Apostoli è un classico. E la lettura che<br />

normalmente si fa dei primi capitoli evidenzia – come è giusto – la normatività di queste<br />

origini della missione cristiana (e dunque della chiesa). Il problema è come si legge la<br />

normatività di questo riferimento alle «origini» quando essa venga viziata, complice anche<br />

la forte sottolineatura del Concilio Vaticano II e del periodo dell’immediato post-concilio, da<br />

una idealizzazione che non riesce più a cogliere l’ironia presente nel racconto lucano.<br />

In una lettura idealizzante (che legge in ogni particolare di ogni racconto una realizzazione<br />

esemplare) mi pare non vengano tenuti in sufficiente considerazione tre aspetti, che sono<br />

come i tre lati dello stesso triangolo:<br />

• Il primo aspetto è l’onestà, tutta ebraica e tutta biblica, con la quale vengono<br />

tratteggiate le grandi figure della storia della salvezza. Una lettura idealizzante (nel<br />

peggiore dei casi «ideologizzante» o addirittura idolatrica) tende a non cogliere i<br />

limiti che gli Atti fanno intravedere, sia pure con grande discrezione, a proposito di<br />

persone (gli apostoli) o situazioni (la chiesa nascente).<br />

• Il secondo aspetto, conseguente al primo, è la dimensione temporale del racconto,<br />

e dunque la sua evoluzione. I protagonisti del racconto non sanno e non fanno tutto<br />

bene fin dall’inizio ma imparano, e spesso proprio dagli errori che commettono,<br />

dalle necessità nelle quali incappano o addirittura dai fallimenti che sperimentano.<br />

In altre parole, la missione non è l’applicazione di una conoscenza e di una pratica<br />

già perfette, ma è piuttosto essa stessa il luogo di un apprendimento continuo e<br />

critico non solo su come evangelizzare, ma anche e simultaneamente su cosa sia il<br />

vangelo.<br />

• Il terzo aspetto a rischio di essere smarrito è il parallelismo tra narrazione<br />

evangelica e Atti. Perché mai accettiamo l’ironia del vangelo sugli apostoli, ma non<br />

la ammettiamo più quando leggiamo gli Atti? Risposta: perché dopo la pasqua di<br />

Gesù essi hanno finalmente capito. Ma è questo che si legge negli Atti, oppure si<br />

deve leggere piuttosto che essi hanno cominciato a capire? Anche perché se dopo<br />

la pasqua essi (e noi con loro) hanno capito, perché allora continuare a leggere i<br />

vangeli? Non è forse perché certi limiti, rimanendo strutturali, devono<br />

continuamente essere mantenuti sotto controllo critico (=vigilanza)? E più a fondo,<br />

non è perché quello che ci insegna il Maestro (e la sua stessa persona) non<br />

abbiamo mai finito di capirlo?<br />

Gli Atti resteranno per tutti i tempi il riferimento obbligato per l’autocoscienza della<br />

missione ecclesiale proprio perché ci narrano cosa si deve fare, ma anche che cosa si<br />

deve evitare, e perfino che cosa resta comunque inevitabile. Certi limiti rimangono<br />

strutturali in noi, ci piaccia o no. Saperlo è il modo per ricordare a noi stessi e a tutti che la<br />

nostra è testimonianza di Gesù, rimando alla trascendenza della sua opera, del suo<br />

protagonismo, della sua missione (non a caso negli Atti lo Spirito è protagonista insieme<br />

alla Parola, spesso quasi personificata). Altrimenti la chiesa si sarebbe semplicemente<br />

sostituita a Gesù. Insomma, nonostante tutto Gesù rimane un po’ straniero anche dopo la<br />

pasqua. Custodire questa sua stranierità, mantenere aperto il «dramma» di questa<br />

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