■ Ogni cosa al posto giusto La plastica ha bisogno di 1000 anni per degradarsi. Getta i recipienti vuoti nel contenitore giallo. www.tradecosrl.it TRA.DE.CO. srl Servizi Igiene Ambientale
Una legge tutela i nostri marchi, ma le aziende delocalizzano troppo... [di Roberto Traetta] ► Made in Italy. Un concetto che sta a cuore alla Lega Nord, così tanto da averlo tutelato con una legge specifica, ad hoc. Chi l’avrebbe immaginato: il partito del “Carroccio” infatti si è schierato in difesa dei marchi italiani contro la concorrenza (sleale) dei Paesi emergenti. La legge è la Reguzzoni-Versace: prevede l’etichettatura obbligatoria e l’apposizione del marchio “made in Italy” su prodotti tessili, di pelletteria, e del settore calzaturiero. A patto però che le fasi di produzione avvengano nel nostro Paese. Possiamo essere contrari alle idee di federalismo della Lega, ma dobbiamo ammettere che si tratta di una robusta politica di rafforzamento dei distretti industriali italiani. Anche Tremonti è in prima linea per la difesa del marchio nostrano dagli attachi stranieri. E a proposito di distretto produttivo, non possiamo non pensare ai nostri imprenditori in sella ai loro cavalli di battaglia in pelle: i salotti. E’ superfluo ricordare che i divani creati sulla Murgia sono apprezzati in Germania e in Russia. L’ultima fiera del mobile che si è tenuta a Colonia ha riscosso un grande successo. Potremmo citare altri episodi in cui i nostri manufatti hanno strabiliato per caratteristiche, conquistato clientela straniera e mercati esteri. E’ la prova che il “made in Italy” nel mondo è sinonimo di qualità e design. Con un mercato invaso e inquinato dai prodotti cinesi, scadenti e scopiazzati, il manufatto che sforna la catena di montaggio del mobile imbottito non teme confronti. Per questo la nostra “firma” va sostenuta innanzitutto per aggredire la crisi e per agevolare il rilancio competitivo della nostra economia, locale e nazionale. Ecco perché ci riguarda. Soprattutto è necessario arginare la delocalizzazione, un fenomeno che riteniamo sia un punto di Attualità Giù le mani dal «made in Italy» debolezza dell’intraprendenza locale. Purtroppo è in costante espansione. Fino a pochi anni fa erano solo gli Usa a ricorrere a questa prassi. Negli ultimi anni lo sta facendo anche l’Europa. L’Italia, per esempio, si rivolge ai paesi dell’Europa orientale, ai Balcani. Le filiere internazionali seguono questa rotta perché gli operai da impiegare sono a basso costo. Nel delocalizzare un’attività si segue il principio del “maggior profitto al minor costo possibile”. Certo, se molte aziende preferiscono cedere parti del ciclo produttivo a Paesi esteri, ad aziende contoterziste, è perché ci sono vantaggi, oltre al costo minimo di manodopera: c’è il superamento di barriere commerciali, forse sono anche previste agevolazioni finanziarie. Ma ci sono anche rischi da considerare: l’aumento degli oneri logistici per le imprese, la perdita di controllo della qualità e di immagine; ma soprattutto la delocalizzazione impoverisce e deprime l’occupazione nel nostro territorio. E scusate se è poco. In questo preciso momento storico non è proprio una scelta sensata. Se le aziende lasciassero ogni fase della filiera in Italia, creerebbero più occupazione. E’ ovvio. Non occorre Eistein o un economista per farcelo spiegare. Questo modello di decentramento produttivo è basato, come dicevamo, sulla riduzione delle spese. Questa è la molla. E’ una buona motivazione? Si tratta di una strategia efficace? Chissà. Sergio Marchionne, l’amministratore delegato della Fiat, qualche tempo fa diceva che il costo della manodopera incide solo per il 7% sul valore di produzione di un prodotto, nel suo caso si parla di autovetture. In fatto di divani non sappiamo se il tasso di incidenza è lo stesso. Comunque, è sempre meglio produrre nei confini italiani. ■ | iL RESTO settimanale | 26 marzo 2011 19