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Parti I e II - IReR

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VOLUME SECONDO<br />

Aspetti caratteristici


486


Parte prima<br />

Gli uccelli<br />

487


488


Il piumaggio<br />

Capitolo 1<br />

Morfologia, fisiologia e comportamento<br />

Caratteristiche anatomiche e attitudinali dei volatili<br />

Il colore del piumaggio ha sempre affascinato naturalisti ed artisti proprio perché<br />

nessun volatile è uguale ad un altro. Ciascun abito ha particolari caratteristiche<br />

mimetiche e, a ben osservarli, ci si può rendere facilmente conto di quanto sia<br />

appropriata la scelta dei colori, che contraddistinguono ogni specie di volatile,<br />

considerandone la corrispondenza con l’habitat.<br />

Si tratta insomma di un vestito su misura per affrontare ambiente e clima.<br />

A render gli abiti ancora più suggestivi contribuisce la luce intrappolata nelle<br />

penne la quale crea illusioni ottiche che generano ulteriori varietà cromatiche. Lo<br />

constatarono i primi ornitologi quando si stupirono di veder scomparire tinte da<br />

piume appena strappate. C'è persino un volatile, il turaco, che quando si bagna<br />

perde temporaneamente il proprio naturale colore.<br />

Si è scoperto, ad esempio, che il blu non esiste, ma scaturisce da un fenomeno<br />

di rifrazione. Il verde nasce da blu e giallo proprio come sulle tavolozze dei<br />

pittori.<br />

Le piume infatti sono verdi e hanno la medesima formazione di piume blu ma<br />

in queste la cheratina sulle barbe è quantitativamente abbondante e impregnata di<br />

carotenoidi gialli.<br />

“L’intensità e la natura dell’effetto cromatico vengono determinati da un lato<br />

dalla struttura del segmento di barba che produce l’effetto blu e, dall’altro, dalla<br />

quantità di carotenoidi contenuti nella piuma”(Dorst).<br />

Anche il viola è creato in base al medesimo principio. In questo caso specifico<br />

la zooeritrina che altro non è se non un carotenoide rosso, si diffonde nella parte<br />

superficiale e crea quindi una componente rossa che unita all’effetto azzurro dà<br />

origine al viola.<br />

Il colore nasce da pigmenti, sostanze ad elevato potere assorbente, che<br />

captano frazioni di raggi luminosi, li filtrano e trattengono la luce bianca che fa<br />

emergere il colore.<br />

Le melanine danno vita al nero, al grigio, al bruno, al giallo e ad altre tinte di<br />

tonalità intermedie.<br />

I chimici chiamano in causa la melanina per il colore scuro che caratterizza lo<br />

sono le penne del merlo, dello storno, del corvo o il capo della cincia. Le<br />

489


fenomelanine per il grigio, come quello presente sulle piume di pernici, coturnici,<br />

fringuello e anatre.<br />

La quantità di melanina infatti è in stretta relazione con l’umidità<br />

dell’ambiente.<br />

Vi sono però anche numerose alterazioni cromatiche: albinismo (bianco totale),<br />

isabellismo (colori tendenti al caffelatte), acianismo (quando le penne da verdi<br />

diventano giallastre) e il melanismo (predominanza del nero).<br />

Inoltre si è constatato che non esiste il pigmento blu negli uccelli. Ciò appare<br />

addirittura stupefacente se si considera, ad esempio, che Martin pescatore,<br />

ghiandaia, gruccione e numerosi altri volatili hanno gran parte del piumaggio di<br />

tinta blu. Tale colore è dato dalla luce incidente secondo una particolare reazione.<br />

Infine sulla livrea di molti uccelli si notano riflessi che hanno una lucentezza<br />

metallica e li rendono brillanti. Si tratta di colori che mutano di intensità a<br />

seconda della prospettive da cui li si osserva e in base all’angolo di incidenza<br />

della luce. Si tratta di piume che sono presenti solo in una piccola parte del corpo.<br />

Nelle anatre, ed è solo un esempio, si trovano su una parte dell’ala e sono dette<br />

“specchio”. A seconda della specie hanno tinta verde, blu o persino color oro.<br />

Le piume sono sostituite una o due volte l’anno e solitamente non mutano di<br />

colore. La piuma infatti, ben diversamente da quanto accade per il pelo nei<br />

mammiferi, è infissa nel corpo del volatile ma non ha alcun collegamento con<br />

esso. Significa quindi che non vi è alcun riferimento con il regine di<br />

alimentazione. La sua base, che nel periodo in cui cresce viene alimentata dal<br />

sangue, risulta quindi soltanto trattenuta dall’epidermide. Può però accadere che<br />

alcune piume appaiano dopo un certo periodo diverse: significa che sono state in<br />

parte consumate soprattutto sulle punte.<br />

Durante l’inverno, ad esempio, sembra che il passero abbia la gola più chiara<br />

perché vi sono piume “nuove” con ampi orli che scompaiono invece per consumo<br />

in estate e lasciano intravedere il nero.<br />

Le piume hanno funzioni diverse che non si esauriscono solo nella copertura<br />

del corpo con tutte le funzioni relative a protezione ed effetti termici. Le differenti<br />

colorazioni e le diverse tinte sono efficaci segnali che possono riassumersi nel<br />

riconoscimento visivo di esemplari della medesima specie, delle prede, dei<br />

nemici, del sesso e quindi della partecipazione alle parate nuziali e<br />

all’allevamento dei piccoli.<br />

In alcuni casi il piumaggio costituisce una validissima difesa confondendo il<br />

volatile con l’ambiente in cui vive.<br />

Il piumaggio inoltre è stato utilizzato dagli ornitologi per la classificazione,<br />

anche se, a questo proposito, si tratta solo di un contributo parziale. Infine le<br />

caratteristiche del piumaggio hanno a anche significato ecologico risentendo<br />

dell’influenza dell’ambiente. In particolare si nota come l’avifauna delle zone<br />

tropicali ha piume dalla colorazione vivace mentre nei Paesi temperati il colore<br />

accentuato si limita solo a poche zone (la testa rossa nel cardellino ad esempio).<br />

Le colorazioni metalliche, sempre nelle zone temperate, danno origine soltanto<br />

agli specchi alari delle anitre.<br />

490


Il becco<br />

L’esigenza del volo ha condizionato l’intero sistema nutritivo degli uccelli. Manca<br />

infatti ogni apparato masticatorio e quindi la testa risulta ridotta e leggera, il becco<br />

ha funzione prensile e, soltanto in alcune specie, quella di lacerare la preda per<br />

consentire di mangiarla facilmente. Altri organi, che si trovano nel centro di<br />

gravità, hanno il compito di sminuzzarla e digerirla.<br />

Proprio il becco, quindi, è un’efficace ed infallibile spia di che cosa si ciba il<br />

volatile. Indica se si nutre di semi, di carni di mammiferi, di insetti oppure di<br />

pesci e molluschi.<br />

Gli uccelli, lo abbiamo visto nel capitolo del volo, hanno un notevolissimo<br />

dispendio energetico e quindi la necessità di integrare le energie spese ingerendo<br />

continuamente cibo. Ecco perché raramente li vediamo in riposo.<br />

Tucani e buceri hanno un aspetto buffo proprio per i becchi enormi ma<br />

leggerissimi perché vuoti all’interno, altri, come quelli dei colibrì, superano<br />

addirittura la lunghezza complessiva del corpo ed i crocieri hanno il becco<br />

incrociato utile per cibarsi di semi a guscio durissimo.<br />

Il becco infatti è così costruito perché viene utilizzato per togliere i pinoli dalla<br />

loro custodia nella pigna. Nonostante questa loro specializzazione si nutrono però<br />

anche di altri frutti in particolare durante il periodo della migrazione.<br />

Il ciuffolotto delle pinete, invece, pur nutrendosi dei semi delle conifere non ha<br />

becco incrociato, ma piuttosto tozzo e particolarmente robusto.<br />

I vegetali forniscono cibo agli uccelli sotto forma di frutto o di seme. I volatili,<br />

a loro volta, propagano le piante sia trasportando i frutti in zone più adatte per<br />

nutrirsene, lasciandone una parte lungo il percorso, sia ingerendone i semi che<br />

sono poi espulsi con gli escrementi.<br />

Ciò accade, ad esempio, con il vischio, le cui bacche sono mangiate dalle<br />

tordele ed i semi, appiccicaticci, vengono espulsi e cadono su rami a cui si<br />

attaccano e germogliano in nuove piante parassite.<br />

I semi vengono liberati del loro involucro secondo due sistemi. Alcuni uccelli,<br />

ed in particolare i fringillidi, afferrano il seme (panico, miglio, scagliola, canapa,<br />

girasole, ecc…) e lo collocano fra la mandibola e la mascella tranciandolo con i<br />

bordi del becco che sono taglienti. Lasciano cadere le parti dell’involucro e<br />

trattengono l’interno, il seme, che viene poi deglutito.<br />

Altri lo fanno scivolare fino all’interno, bloccandolo contro il palato, e lo<br />

spezzano esercitando una notevole pressione della mandibola. Tutti gli uccelli che<br />

si cibano in questo modo, e fra di loro ci sono anche gli zigoli, hanno becchi<br />

voluminosi, solidi e privi di bordi taglienti.<br />

Ci sono infine uccelli, fra questi il frosone, che risultano attrezzati per rompere<br />

involucri particolarmente resistenti ed hanno becchi capaci di spezzare le<br />

mandorle, come dimostra la loro conformazione anatomica.<br />

Il frosone ha infatti il cranio che è oltre il doppio di quello del fringuello<br />

nonostante appartengano alla medesima famiglia ed abbiano un peso equivalente.<br />

491


In base ad alcuni calcoli è risultato che la pressione necessaria a spezzare<br />

noccioli di ciliegia è di 27/34 kgm che salgono a 48/72 per i noccioli di oliva ed il<br />

frosone è in grado di frantumarli agevolmente.<br />

Alcuni picchi per rompere i semi ricorrono ad un sistema affatto particolare: li<br />

inseriscono in una fessura della pianta e quindi li colpiscono in rapida successione<br />

fino a spezzarne l’involucro.<br />

Nei rapaci i bordi, detti tomi, sono taglienti proprio perché finalizzati a<br />

dilaniare la carne mentre gli smerghi hanno alcuni minuscoli “denti” che servono<br />

a trattenere i pesci.<br />

Cacciatori di insetti<br />

Gli insetti rappresentano una notevolissima fonte di cibo e moltissimi uccelli si<br />

sono specializzati nella loro cattura.<br />

I turdidi, le ballerine, le pispole e volatili di numerose altre specie si dedicano<br />

alla ricerca di insetti esplorando sistematicamente il terreno dove trovano semi ma<br />

anche larve e vermi.<br />

Alcuni volatili, fra cui rondini e rondoni, li cacciano al volo. Si riconoscono dal<br />

becco che è aperto e largo in modo da costituire una “trappola” ampia.<br />

Alcuni altri restano immobili su un ramo (pigliamosche, gruccioni, martin<br />

pescatore) ed attendono che la preda giunga a tiro di becco.<br />

Infine ci sono i cacciatori di insetti (cince, scriccioli, luì, picchi, rampichini e<br />

alcuni fringillidi) che ricercano prede che vivono sugli alberi.<br />

In particolare i picchi scavano nel legno alla ricerca di parassiti che si sono<br />

nascosti all’interno del tronco di cui si nutrono.<br />

Il “lavoro” del picchio presuppone una costruzione anatomica particolare.<br />

Difatti il cranio risulta molto solido e ossificato e “la mascella è mobile per la<br />

presenza di una cerniera frontonasale e di una connessione mobile tra i<br />

premascellari e l’osso quadrato: tale costruzione deve considerarsi come un<br />

meccanismo in grado di assorbire gli urti perché i muscoli che muovono l’osso<br />

possano compensare gli urti contraendosi nel momento in cui il becco batte il<br />

colpo. Un tale dispositivo tende anche a spostare lo sforzo verso la base del cranio<br />

più resistente e più flessibile e a proteggere la volta cranica e il cervello” (Sping) .<br />

Cacciatori di pesci e molluschi<br />

Gli uccelli si cibano anche di molluschi: i piccoli vengono addirittura ingoiati,<br />

quelli più grossi battuti su una pietra in modo da spezzare la conchiglia e quindi<br />

raggiungere con il becco l’interno come fanno i tordi.<br />

Le anitre di mare ed in particolare gli edredoni sono gran consumatori di cozze.<br />

I gabbiani portano in aria le conchiglie e le lasciano cadere andando poi a<br />

mangiare l’interno.<br />

Le beccacce di mare hanno un becco particolare: lo introducono in bivalvi<br />

semiaperti e li spalancano cibandosene.<br />

492


A seconda dei becchi vi sono diverse modalità di cattura in acqua: le spatole<br />

che lo hanno appiattito e simile ad un cucchiaio, setacciano l’acqua in modo da<br />

chiuderlo su qualsiasi preda.<br />

Le anitre hanno un becco piatto completato da lamelle cornee che formano<br />

rilievi trasversali. Queste sono presenti anche sulla lingua e creano quindi, con<br />

quelle del becco, una sorta di filtro.<br />

I pesci costituiscono cibo per molti uccelli che li catturano, a seconda della<br />

specie, in modo addirittura singolare.<br />

Il martin pescatore, ad esempio, sta in agguato su un ramo e appena scorge un<br />

pesce si precipita e lo insegue fin sotto l’acqua entro cui continua a muovere le ali.<br />

Una volta catturatolo, risale in superficie e raggiunge il posatoio.<br />

Tutti i volatili che catturano pesci hanno un becco munito di protuberanze o<br />

dentelli ai bordi in modo da trattenere la preda che è sempre viscida.<br />

Alcuni rapaci hanno le unghie affilatissime e completate da minuscole<br />

protuberanze, anch’esse appuntite, in modo da afferrare meglio i pesci. Uccelli da<br />

preda si sono specializzati nella cattura di altri volatili adulti.<br />

Gli sparvieri ad esempio catturano i passeriformi.<br />

I falchi della regina cacciano sul mare catturando i migratori che giungono<br />

verso la terraferma.<br />

I falchi pellegrini predano anatre, pernici e persino gabbiani.<br />

I roditori vengono cacciati dai gheppi e dalle poiane, ma anche da allocchi,<br />

civette ed altri rapaci notturni.<br />

L’esofago è il condotto attraverso cui transita il cibo dalla faringe allo<br />

stomaco.<br />

Muscoloso e con ghiandole che secernono liquidi che facilitano il passaggio di<br />

alimenti, è molto sviluppato in quei volatili che ingeriscono prede di notevoli<br />

dimensioni.<br />

Il gozzo, estensione dell’esofago, serve per immagazzinare temporaneamente<br />

gli alimenti che sono poi sospinti nello stomaco. Si tratta né più né meno che di un<br />

magazzino entro cui il volatile mette il cibo in eccesso.<br />

Lo stomaco è composto da due parti, una anteriore ghiandolare e, l’altra,<br />

principale, posteriore muscolare.<br />

L’intestino è uno strumento di digestione e di assorbimento degli alimenti .<br />

Le esigenze nutrizionali<br />

Gli uccelli hanno la necessità di cibo come condanna. Per alimentare il loro fisico<br />

infatti i volatili devono cibarsi in continuazione: il loro dispendio energetico è<br />

enorme. Secondo un calcolo se un uomo mangiasse in proporzione ad un colibrì,<br />

dovrebbe ingerire 130 chili di carne o addirittura 170 chili di patate oppure 60<br />

chili di pane al giorno.<br />

Il rapporto peso/superficie è sfavorevole per gli uccelli che non possono<br />

accumulare grandi riserve di grasso proprio per le esigenze di vita. Riserve nel<br />

fisico infatti appesantirebbero il volo costringendo ad un maggior consumo<br />

energetico.<br />

493


I volatili di piccole dimensioni, proprio come accade anche nei mammiferi,<br />

mangiano molto di più.<br />

Gli uccelli terrestri pesanti fra 100 e 1000 grammi mangiano tra il 5 ed il 9 per<br />

cento del loro peso, quelli fra 10 e 90 grammi fra il 10 ed il 30 per cento.<br />

Folaghe e cormorani in prigionia ingoiano fino a 3 chili di pesce, la capinera in<br />

inverno si ciba di un quantitativo di bacche equivalente al suo peso.<br />

I maschi durante il periodo degli amori consumano cibo che assomma a circa il<br />

15% del proprio peso, cioè molto più delle femmine che hanno un minor<br />

dispendio di energia. Tale proporzione si inverte durante il periodo della<br />

deposizione in cui le femmine mangiano oltre il doppio che negli altri periodi<br />

dell’anno.<br />

Gli uccelli devono mangiare continuamente e non hanno che poche riserve: il<br />

passero senza cibo muore dopo 67 ore a 29 gradi centigradi, il pollo dopo circa<br />

dieci giorni , le anitre dopo 21.<br />

I carnivori sopportano meglio il digiuno: un gufo muore dopo 24 giorni,<br />

un’aquila vive senza cibo un mese.<br />

Ci sono uccelli che ammassano riserve di semi, e fra questi alcuni tipi di picchi<br />

americani, le cince dal ciuffo in Norvegia, le ghiandaie e le nocciolaie.<br />

Le averle invece infiggono sugli spini le prede in eccesso tornando poi a<br />

mangiarle.<br />

La respirazione<br />

Il ritmo di respirazione è regolato da un centro nervoso ed è influenzato dalla<br />

temperatura interna e dai gas che sono disciolti nel sangue. Si è accertato, ad<br />

esempio, che in un piccione un aumento della temperatura interna da 41,7 gradi<br />

centigradi a 43,6 causa un aumento del ritmo respiratorio da 46 a 510 ispirazioni<br />

al minuto ed il volume dell’aria inspirata passa da 185 a 610 cm 3 nel passero<br />

invece da 50 ispirazioni al minuto se è fermo ed in riposo a 210 in volo, nella<br />

cincia da 65 ispirazioni al minuto a una temperatura di 11°C a 95 ispirazioni a<br />

32°C.<br />

Il ritmo respiratorio cambia durante il volo proprio per il maggior sforzo ed in<br />

alcuni uccelli è in sincronia con il battito delle ali come accade nel piccione che<br />

raggiunge 190 battiti al minuto mentre in altri uccelli i battiti d’ala sono troppo<br />

rapidi. E’ il caso del pappagallo, ondulato perché siano in sincronia con quelli del<br />

cuore. Il cosiddetto pappagallino che di solito viene tenuto in gabbia e batte le ali<br />

840 volte al minuto ha un ritmo respiratorio di 175/300 volte al minuto.<br />

Frequenza respiratoria di alcune specie di uccelli.<br />

Specie Ritmo respratorio (inspirazioni al minuto)<br />

Pollo domestico 20<br />

Piccione 26<br />

Poiana 34<br />

Tordo 45<br />

Cincia bigia 64<br />

Canarino 57<br />

Storno 84<br />

494


La temperatura corporea<br />

Il corpo degli uccelli ha temperature che variano da 40 a 44°C e quindi nettamente<br />

superiori a quelle dei mammiferi comprese fra 36 e 38°C. La temperatura interna<br />

è costante anche se ha modificazioni giornaliere e raggiunge il massimo nel<br />

primo pomeriggio. Inoltre esiste una differenza di almeno 2°C fra il periodo di<br />

riposo e quello di attività.<br />

Tale differenza però può aumentare per determinate situazioni particolari. Nei<br />

rondoni, ad esempio, che possono digiunare fino a 5 giorni, qualora manchino gli<br />

insetti la temperatura si abbassa fino a 20°C e quindi diminuisce anche il consumo<br />

di ossigeno dell’80 per cento.<br />

La costituzione cardiaca<br />

Temperatura corporea.<br />

Specie Temperatura<br />

Struzzo 39,3<br />

Gabbiano comune 41,4<br />

Cigno reale 41<br />

Anitra domestica 42,1<br />

Quaglia 42<br />

Tortora 42,7<br />

Sparviero 41,2<br />

Allocco 41<br />

Picchio rosso 42,1<br />

Corvo imperiale 41, 9<br />

Pettirosso 40,6<br />

Merlo 41<br />

Passero 43,5<br />

Storno 41,5<br />

Il cuore è simile a quello dei mammiferi, ma con alcune differenze fondamentali<br />

che lo rendono adatto a supportare una “macchina” perfetta per il volo qual è<br />

appunto l’intera struttura degli uccelli.<br />

La parte sinistra (arteriosa) è formata da muscoli ed ha uno sviluppo maggiore<br />

(il rapporto è di 3 ad 1) della destra (venosa).<br />

Il perché è semplice: la parte sinistra pompa il sangue in tutto il corpo mentre<br />

l’altra solamente nei polmoni. Si può dire che le parti del cuore sono inversamente<br />

proporzionali alle dimensioni del volatile anche se tale affermazione ha alcune<br />

eccezioni in quanto il maggior numero di battiti compensa la minor dimensione.<br />

Anche il sistema di vita è fondamentale per lo sviluppo del cuore. Le<br />

dimensioni risultano minori negli uccelli che cercano cibo a terra, volano poco,<br />

planano o veleggiano.<br />

495


Avvoltoi e poiane quindi hanno un cuore di peso limitato e inferiore allo 0,7<br />

per cento mentre nei falchi tale proporzione è dell’1,2 per cento. Inoltre gli uccelli<br />

delle zone fredde hanno cuore più grosso di quelli che vivono in climi tropicali.<br />

L’altitudine è responsabile di un maggior sviluppo del ventricolo destro che<br />

garantisce ai polmoni un maggior quantitativo di sangue in modo da compensare<br />

il basso quantitativo di ossigeno<br />

Percentuale del peso cardiaco sul peso corporeo.<br />

Specie Peso cuore in % peso corpo<br />

Struzzo 0,98<br />

Strolaga mezzana 1,12<br />

Pellicano 0,81<br />

Anitra domenstica 0,95<br />

Colino della Virginia 0,39<br />

Tortora 1,11<br />

Rondine 1,42<br />

Concia bigia 1,45<br />

Strono 1,30<br />

Luì 1,59<br />

Le due metà battono in sincronia ed il ritmo cardiaco risulta particolarmente<br />

elevato con accelerazioni in volatili di piccole dimensioni. Si è infine accertato<br />

che nelle specie tuffatrici il ritmo diminuisce quando gli uccelli si gettano in<br />

acqua.<br />

Frequenza cardiaca.<br />

Specie Ritmo cardiaco (battiti al minuto)<br />

Rapaci 301<br />

Anitra domestica 212<br />

Pollo domestico 243-341<br />

Tacchino 93<br />

Piccione 192-244<br />

Passero 460-800<br />

Canarino 1000<br />

Cornacchia 342<br />

Il ritmo respiratorio dipende da un centro nervoso nel midollo che invia<br />

attraverso i nervi spinali impulsi ai muscoli inspiratori.<br />

“Tali impulsi sono fortemente influenzati dalle variazioni della temperatura<br />

interna, dal pH e dal tenore dei gas disciolti nel sangue tanto che nel piccione un<br />

aumento della temperatura interna da 41,7°C a 43,6°C è seguita da un aumento<br />

del ritmo respiratorio che va da 46 a 510 inspirazioni al minuto e il volume<br />

dell’aria inspirata nello stesso tempo passa da 185 a 610 cm 3 .<br />

Nel passero il ritmo respiratorio passa da 50 inspirazioni al minuto in riposo a<br />

212 quando l’animale è eccitato o in volo. L’aumento della temperatura ambiente<br />

provoca lo stesso effetto”. (Dorst).<br />

496


Nella cincia bigia immobile o comunque a riposo ad una temperatura di 11<br />

gradi il ritmo respiratorio è di 65, ma diventa 95 se la temperatura sale a 32 gradi.<br />

Le dimensioni cerebrali<br />

Gli uccelli derivano dai rettili ma hanno un cervello nettamente più pesante. Una<br />

lucertola di circa 10 grammi ha un cervello di 0,05 grammi, un volatile di uguale<br />

peso avrà invece il cervello di 0,5 grammi. Risulta inoltre che i mammiferi<br />

adattano il loro comportamento alle diverse situazioni e vi sanno far fronte spesso<br />

in maniera così stupefacente da apparire addirittura “intelligenti” mentre gli<br />

uccelli agiscono in base a stereotipi e quindi con comportamenti sempre uguali.<br />

In una graduatoria, a seguito di esperimenti compiuti da scienziati ed<br />

ornitologi, è risultato che i gallinacei sono al livello più basso, il più elevato<br />

invece comprende corvi, picchi, pappagalli, gufi e civette.<br />

La vista<br />

Peso cerebrale.<br />

Specie Peso cervello (in grammi)<br />

Quaglia 0,73<br />

Voltolino 1,1<br />

Storno 1,8<br />

Assiolo 2,2<br />

Picchio rosso maggiore 2,7<br />

Gli uccelli non hanno una visione binoculare e quindi sono privi del senso del<br />

rilievo, ma compensano questa mancanza con altre particolarità.<br />

L’occhio è in gran parte simile a quello dei mammiferi. La densità delle cellule<br />

nervose è notevole in alcune zone della retina dove si contano circa un milione di<br />

coni per 2 mm 2 nei rapaci, cinque volte in più di quelli dell’uomo.<br />

Facendo un paragone rispetto al peso della testa risulta che mentre in un uomo<br />

gli occhi sono l’1 per cento nello storno raggiungono il 15 per cento.<br />

In molte specie gli occhi sono in posizione laterale più o meno accentuata. In<br />

alcuni passeriformi, infatti, l’angolo formato dagli assi ottici è di 120°, nei<br />

piccioni addirittura di 145°, mentre nei rapaci l’angolo è di appena 90° e li obbliga<br />

a voltare la testa per osservare un punto nello spazio, ma consente di avere un<br />

campo visivo ben più ampio di quello umano.<br />

Nei piccioni il campo visivo è di 300° con un angolo morto di appena 60°, nel<br />

barbagianni il campo visivo è di 160° ed i rapaci notturni hanno la possibilità di<br />

far girare la testa su se stessa sfruttando un’accentuata mobilità del collo.<br />

497


Il volo e la migrazione<br />

Hanno la magia del volo e la varietà dei colori, l’armonia del canto e la<br />

suggestione d’essere messaggeri d’un universo lontano e a noi precluso. Forse per<br />

questo sono stati considerati il sesto continente ancora in gran parte inesplorato.<br />

Perché nonostante studi e ricerche, indagini e rilevamenti, non si è ancora<br />

raggiunta la verità autentica su come avvengano le migrazioni e perché,<br />

generazione dopo generazione, ogni razza percorra sempre, negli stessi periodi<br />

dell’anno, le medesime vie del cielo raggiungendo i luoghi di svernamento e<br />

tornando in quelli di nidificazione.<br />

Anche le modalità sono precise come se ubbidissero a regole ferree: i maschi<br />

partono prima e le femmine chiudono l’immensa carovana che due volte l’anno<br />

segna il firmamento percorrendo itinerari che possono essere cento metri sopra di<br />

noi o addirittura superare le vette dell’Himalaia.<br />

Ciascuno di loro è una macchina meravigliosa che percorre nella vita centinaia<br />

di migliaia chilometri senza stancarsi e senza mai sbagliar strada. Così si può ben<br />

comprendere perché gli antichi li videro araldi del Mito e delle Divinità. Anche<br />

oggi, nonostante la luna sia una meta raggiunta, non si può non rimanere stupiti<br />

dalla loro vita e dal loro fisico, creato per essere più vicino di noi alle stelle.<br />

Vengono definiti “rettili glorificati” proprio perché si sarebbero evoluti dai<br />

serpenti e hanno progenitori che risalgono ad almeno 150 milioni di anni fa.<br />

Complessivamente sono state censite 8.600 specie (le sottospecie sono quasi 30<br />

mila) suddivise in 28 ordini e 164 famiglie.<br />

In Italia vi sono esemplari di 470 specie, 581 sottospecie, 65 famiglie e 19<br />

ordini, nei 52 Paesi europei le specie assommano a 524.<br />

La classificazione è basata sul metodo inventato da Linneo nel 1758. Ogni<br />

specie, indicata con parole latine, è composta da una prima parte che indica il<br />

genere, da una seconda per la specie e infine da una terza per la sottospecie.<br />

Le dimensioni possono variare notevolmente.<br />

Lo struzzo ad esempio, è alto 2,50 metri e pesa fino a 150 kg, mentre alcuni<br />

tipi di colibrì sono lunghi appena pochi centimetri e pesano da 2 a 4 grammi.<br />

Il “cammino” nel cielo<br />

Nonostante siano profondamente diversi fra di loro gli uccelli hanno una palese<br />

unità architettonica, cioè sono tutti “costruiti” sul medesimo “disegno” proprio<br />

perché nati in funzione del volo, cioè di quello spostamento nell’aria che ha<br />

permesso loro di colonizzare tutti gli ambienti.<br />

La prima condizione per il “cammino” nel cielo è la leggerezza. Il fisico appare<br />

creato specificamente in funzione del volo. Tutti i “pesi ingombranti” sono stati<br />

eliminati.<br />

498


I mammiferi, i pesci ed in genere tutti gli animali che non volano hanno organi<br />

pesanti e si nutrono di sostanze che in molti casi richiedono un lungo tempo di<br />

digestione e continuano ad appesantire il corpo per ore. Gli uccelli invece sono<br />

privi di organi masticatori che risultano pesanti, all’opposto quindi di un<br />

qualunque erbivoro o carnivoro. Inoltre la riproduzione avviene mediante uova,<br />

non é vivipara come nei mammiferi.<br />

La seconda peculiarità riguarda l’aerodinamica: un uccello deve poter fendere<br />

l’aria, creare cioè il minor ostacolo per muoversi con un ridotto dispendio di<br />

energie e alla massima velocità. Ecco quindi che ogni parte esterna in forma di<br />

appendice (orecchio, coda mobile con vertebre) è stata soppressa.<br />

Le zampe sono retrattili e distese orizzontalmente proprio come il carrello di un<br />

aereo. Gli organi propulsori sono particolarmente leggeri in modo da evitare<br />

qualsiasi dispendio di energia mentre funzionano o sono in stasi.<br />

Un’altra caratteristica è costituita dalla potenza. L’uccello si muove nell’aria e<br />

la spinta idrostatica risulta pari allo zero, il pesce invece usa tutta la potenza per<br />

spostarsi proprio perché il galleggiamento gli è garantito dall’acqua.<br />

Il volatile deve non solo procedere, ma anche sostenersi nell’aria ed è quindi<br />

necessario che abbia una muscolatura potente e leggera nel medesimo tempo,<br />

completata da uno scheletro rigido, resistente e che non ne comprometta la<br />

leggerezza.<br />

Tutto il fisico dovrà essere funzionante al massimo proprio per assicurare un<br />

elevato rendimento.<br />

Lo scheletro degli uccelli ha un numero di vertebre che varia da 39 (nei<br />

passeriformi) a 63 (nei cigni). Un quantitativo nettamente superiore a quello dei<br />

mammiferi che ne hanno al massimo sette, giraffa compresa, nonostante la<br />

diversità di lunghezza del collo.<br />

Negli uccelli più il collo è lungo e più vi sono vertebre: i pappagalli ne<br />

hanno11, i cigni 25.<br />

Le ali non sono altro, rispetto ai mammiferi, che bracci ed avambracci con<br />

articolazioni particolarmente sensibili e sviluppate.<br />

Nei mammiferi e in genere in tutti i vertebrati le ossa sono riempite da midollo.<br />

Negli uccelli sono attraversate da diverticoli e sacchi aerei. Risultano, perciò,<br />

piene d’aria.<br />

Il modo più semplice per comprendere e figurarsi la costituzione ossea di un<br />

uccello, è quello di paragonarla al telaio di una bicicletta. Pure in questo caso si<br />

utilizzano strutture tubolari. Il vantaggio non consiste esclusivamente nella<br />

maggior leggerezza, ma anche in una resistenza superiore a quella che analoghe<br />

strutture in metallo pieno offrirebbero.<br />

La muscolatura degli uccelli è molto sviluppata. In alcuni costituisce<br />

addirittura quasi il 50 per cento del peso complessivo, piume ed ossa comprese.<br />

Lo si intuisce facilmente, considerando che proprio i muscoli devono assicurare la<br />

necessaria spinta per il volo.<br />

I muscoli che permettono il movimento dell’ala sono infatti il 15 per cento del<br />

peso del volatile. Il più potente, il pettorale, tira l’ala verso il basso, le dà<br />

l’appoggio sull’aria e quindi genera la propulsione.<br />

La sua azione si completa con quella del piccolo pettorale.<br />

499


“Il suo modo di agire, spiega il grande Jean Dorst, ha alcune differenze perché<br />

invece di diminuire l’incidenza dell’ala abbassandone il bordo di attacco come fa<br />

il grande pettorale, tende ad aumentare quest’angolo. L’azione dei due muscoli<br />

permette così all’uccello di regolare quest’angolazione al valore desiderato e di<br />

pilotare come un aviatore che agisca sugli alettoni del proprio apparecchio”.<br />

L’innalzamento dell’ala avviene per l’azione di un altro muscolo, meno<br />

voluminoso del pettorale, e genera quello che in meccanica viene denominato<br />

movimento trasmesso.<br />

Un abito su misura<br />

Già a guardarli ci s’accorge che vestono un abito meraviglioso fatto di colori<br />

suggestivi e che si armonizzano sorprendentemente l’uno con l’altro nonostante la<br />

diversità di tinte e gradazioni di colore. Ma questa è solo l’apparenza. Perché<br />

ciascun colore ha una sua origine ed una particolare finalità. La scienza ha infine<br />

scoperto ben più importanti meraviglie.<br />

Il “vestito” degli uccelli è composto da piume e penne anch’esse degne di<br />

meraviglia, non solo per le tinte, ma anche per come sono costruite e per la loro<br />

straordinaria leggerezza.<br />

Ciascuna consta di una parte infissa nell’epidermide, detta calamo. Da qui si<br />

sviluppa poi verso l’esterno lungo il rachide, che ne è l’asse principale. Ai lati di<br />

questo sorgono, diametralmente opposte, due fila delle cosiddette “barbe”. Da<br />

quest’ultime, a loro volta, spuntano le “barbule”, piccole diramazioni costituite da<br />

un asse e da minuscole lamelle.<br />

Alcune piume, chiamate penne e di notevole dimensione, sono le remiganti<br />

collocate sulle ali. Altre, le timoniere, formano la coda. Tutte le rimanenti sono<br />

dette piume di contorno.<br />

Il numero delle penne è proporzionale al corpo: il cigno ha 25.216 penne, il<br />

colibrì 940. I minuscoli uccelli (fringuello, peppola, ecc.) hanno un numero di<br />

piume compreso fra mille e 4.000. I piccoli passeriformi da 1.100 a 2.800. Da<br />

2.000 a 2.500 va il numero di quelle che ricoprono tortore e picchi. Sulle anatre ne<br />

sono state contate 12.000.<br />

Tali quantitativi aumentano d'inverno quando il piumaggio è più folto per<br />

evidenti ragioni di temperatura. Una cincia nel periodo invernale ha circa 1.700<br />

piume mentre in piena estate il numero scende fino a 1.100.<br />

In presenza di un clima mite quindi, le piume cominciano a cadere e le<br />

rimanenti a disporsi in maniera diversa in modo da continuare a coprire tutto il<br />

corpo. Inoltre ogni volatile può modificare, mediante i muscoli pellicciai, la<br />

disposizione delle proprie piume. Di fronte a temperature rigide infatti gli uccelli<br />

gonfiano il piumaggio formando la caratteristica palla (come noto, un corpo<br />

sferico a parità di volume ha una minor superficie e quindi una ridotta dispersione<br />

di calore). Viene quindi accresciuto il volume del piumaggio aumentando lo<br />

spessore dello strato d’aria trattenuto.<br />

500


L’incidenza del piumaggio sul peso complessivo è notevole. E’ stato accertato<br />

che in un’aquila di mare dalla testa bianca le penne pesano 586 grammi su un<br />

peso complessivo di 4,082 chilogrammi. Si tratta in questo caso del 14%.<br />

La media del peso comunque è del 6% con un massimo del 12% nelle cince ed<br />

un minimo del 3% nei pinguini.<br />

Quando cambiano vestito<br />

La muta, cioè il cambio parziale delle penne, avviene, in alcuni volatili, una volta<br />

l’anno, subito dopo la riproduzione. Si ha così un infoltimento in preparazione<br />

della stagione fredda. In altri invece la muta avviene due volte all’anno. La prima<br />

precede la riproduzione stessa. In questo caso non avviene sulle penne remiganti e<br />

timoniere che assicurano la capacità di volo.<br />

Si dice allora che i volatili indossano la cosiddetta “livrea di nozze”. Il<br />

piumaggio nei maschi diventa ancor più policromo proprio perché debbono<br />

attrarre una compagna con cui dar vita alla riproduzione.<br />

Le piume cadono secondo uno schema preordinato che generalmente non<br />

incide sulle capacità di volo.<br />

Le remiganti primarie, ad esempio, vengono sostituite una per volta<br />

cominciando da quelle più interne. In alcuni uccelli, tuttavia, la muta inibisce per<br />

breve tempo la capacità di volo. Questi raggiungono allora zone scarsamente<br />

accessibili ai loro nemici, che offrano loro possibilità di mimetizzarsi e di riuscire<br />

a sopravvivere comunque.<br />

Volo planato<br />

Il paragone con gli aerei non rende giustizia agli uccelli. Questi difatti non<br />

dispongono di piani che garantiscano il sostentamento nell’aria e di un<br />

meccanismo per la propulsione. Hanno invece una superficie battente che<br />

assomma entrambe le funzioni.<br />

Molti volatili, ed è facile osservarlo, si spostano, volano, senza neppure<br />

muovere le ali. Il paragone con l’aliante è immediato.<br />

Se in aria un aliante con superfici portanti è lasciato libero segue una traiettoria<br />

rettilinea in discesa che è direttamente proporzionale al peso ed alla forma della<br />

superficie.<br />

Più un aliante quindi è sottile più rimane in aria e questo accade anche per gli<br />

uccelli.<br />

“La sottigliezza è molto elevata negli avvoltoi, scrive Dorst, nei grandi rapaci,<br />

nei pellicani e nelle cicogne, che sono quindi in grado di volare senza battere ala<br />

in un’aria calma con una perdita di altitudine. In completa assenza di vento è stata<br />

misurata la perdita di altitudine di circa un metro per un percorso in proiezione<br />

orizzontale di circa 8,5 nel fulmaro e di 22 nell’urubù”.<br />

501


Meglio di un aereo<br />

L’ala mantiene l’uccello nell’aria e nel medesimo tempo lo fa avanzare.<br />

Movendosi regolarmente agisce come un remo nell’acqua. La parte più vicina al<br />

corpo (braccio ed avambraccio, piume remiganti secondarie e terziarie) compie<br />

movimenti modesti proprio perché ha la funzione principale del sostentamento.<br />

L’estremità invece, ed in particolare le remiganti primarie, esegue ampi<br />

movimenti che assicurano la propulsione.<br />

In una concatenazione di moti quindi si crea sia il sostentamento che è la<br />

componente verticale, sia la trazione, ovvero lo spostamento in avanti, che è la<br />

componente orizzontale.<br />

Durante il movimento l’ala somiglia a una pala che si appoggia all’aria e<br />

proietta il volatile in avanti. Il moto dell’ala all’indietro è costituito da un tempo<br />

inerte che consuma energia cinetica. Il volatile quindi non ha un’idonea superficie<br />

che lo sostenga e perde quindi un po’di altezza recuperata subito con un battito<br />

d’ala. Per questa ragione, osservando un uccello in volo, il moto risulta ondulato.<br />

Parecchi passeriformi effettuano, come osserva Dorst, un volo ondeggiato<br />

molto caratteristico che contrasta con il volo teso, rettilineo degli uccelli di<br />

maggiori dimensioni nei quali le remiganti secondarie e terziarie più sviluppate<br />

consentono di mantenere sempre una superficie di sostentamento relativamente<br />

ampia.<br />

I picchi sono un classico esempio di questo particolare tipo di volo<br />

caratterizzato da picchiate con ali chiuse e battute che permettono di riguadagnare<br />

in altezza.<br />

Alcuni uccelli, come il gheppio, la starna, il martin pescatore ed in genere i<br />

passeriformi, mentre cacciano o tendono un agguato, hanno la possibilità di volare<br />

rimanendo fermi nel medesimo posto. Questo particolare comportamento viene<br />

indicato con l’espressione “fare lo Spirito Santo”.<br />

Durante il volo rettilineo, cioè ad un’altezza costante, peso del corpo e reazione<br />

dell’aria si equilibrano. Quando il volatile cambia la propria direzione opera una<br />

variazione di questo rapporto la quale gli consente di ottenere facilmente una<br />

virata.<br />

Rapporto fra il peso corporeo e la superficie alare di alcuni volatili<br />

Specie Peso ( in grammi) Superficie ala (cm 2 )<br />

Strolaga maggiore 2425 1358<br />

Germano reale 1408 1029<br />

Airone Cinerino 1400 3590<br />

Poiana 1072 2691<br />

Falco pellegrino 1222 1342<br />

Gheppio 245 708<br />

Gallo Cedrone 3361 1412<br />

Beccaccino 95 244<br />

Rondine 18 135<br />

Gazza 214 640<br />

Cinciallegra 21 102<br />

Merlo 91 250<br />

Storno 84 190<br />

Fringuello 21 102<br />

502


Il peso del corpo resta sempre riferito al centro di gravità, ma il punto di<br />

reazione dell’aria si sposta in avanti, all’indietro o su un fianco a seconda della<br />

posizione di ali e coda. Più le ali sono lunghe maggiormente aumenta la<br />

possibilità di manovra. Questo lo si nota particolarmente negli uccelli che vivono<br />

nei boschi, avvezzi a incontrare continui ostacoli.<br />

Gli uccelli d’acqua, invece, mutano raramente direzione e hanno grandi spazi<br />

di manovra in zone prive di alta vegetazione. Questo e il motivo del loro scarso<br />

sviluppo alare.<br />

Le ali sono stati suddivise in categorie e tipi intermedi.<br />

a) Ali caratterizzate da una grande larghezza, arrotondate, ellittiche e con<br />

remiganti distaccate.<br />

In volo appaiono come dita aperte (come ad esempio avviene per il fagiano).<br />

Tali tipi di ali sono presenti anche nei gallinacei, nei picchi e nei passeriformi. Il<br />

volo che queste ali consentono è lento e ha battute non rapide, ma permette di<br />

effettuare evoluzioni anche a bassa velocità. La resistenza al volo non è<br />

particolarmente accentuata.<br />

b) Ali lunghe e strette che terminano con una punta , tipo i rondoni, le<br />

rondini,i gruccioni ed i falchi. Si tratta di uccelli che hanno un volo rapido e non<br />

possono sostenersi immobili per aria se non per brevissimo tempo.<br />

c) Ali da veleggiatori sia marini sia terrestri. Sostengono per lungo tempo in<br />

aria usufruendo in maniera ottimale delle correnti.<br />

La proporzione fra peso e superficie alare, cioè quello che viene definito il<br />

carico per unità di superficie portante consente di rendersi conto di alcune altre<br />

caratteristiche.<br />

Insieme per faticare meno<br />

Frequenza cardiaca.<br />

Specie Battiti (al secondo)<br />

Svasso maggiore<br />

6,3<br />

Cormorano 3,9<br />

Gallo cedrone 4,6<br />

Fagiano comune 9,0<br />

Folaga 5,8<br />

Germano reale 2,5<br />

Cigno reale 2,7<br />

Nibbio bruno 2,8<br />

Falco pellegrino 4,3<br />

Pavoncella 2,3<br />

Colombaccio 4,0<br />

Merlo 5,6<br />

Storno 5,1<br />

Gazza 3,0<br />

Corvo comune 2,3<br />

Le formazioni di volo non sono mai casuali. Negli spostamenti gli uccelli<br />

consumano molta energia ed è quindi logico che tentino di risparmiarne il più<br />

503


possibile mantenendo nell’aria una formazione tale che consenta un minor<br />

consumo. Alcuni uccelli si muovono in lunghe file, proprio come fanno i<br />

cormorani, mentre oche ed altri uccelli, fra cui gru e pivieri, si spostano in<br />

formazioni a V.<br />

Accade perché il volatile che precede forma un vortice con corrente ascendente<br />

la quale viene pienamente sfruttata dall’uccello che lo segue con conseguente<br />

risparmio di energia.<br />

La velocità<br />

Le distanze percorse durante le migrazioni sono addirittura stupefacenti, ma<br />

risultano eccezionali anche quelle giornaliere. Una cincia, ad esempio che<br />

imbecchi i piccoli quaranta volte al giorno, percorre mediamente non meno di 100<br />

chilometri. Questa cifra risulta poi insignificante se confrontata alle prestazioni<br />

dei rondoni che, rimanendo in volo persino 18 ore, possono percorrere una<br />

distanza di almeno mille chilometri in 24 ore con un dispendio energetico<br />

eccezionale reso possibile da continui rifornimenti di cibo.<br />

La velocità non è sempre la medesima, ma varia e dipende dal tipo di<br />

spostamento dovuto alle circostanze.<br />

Si ha una velocità considerata normale per spostamenti usuali: la ricerca del<br />

cibo o il raggiungimento delle zone dove trascorrere la notte. Viene raggiunta una<br />

velocità eccezionale quando l’uccello deve sottrarsi ad un predatore. Inoltre la<br />

velocità risulta intermedia durante i voli di migrazione.<br />

Così i piccioni raramente superano, come velocità media, 70 chilometri l’ora,<br />

le rondini 100 km/h ed i passeriformi 60 km/h.<br />

Il record è dei rondoni che possono toccare i 200 km/h e del falco pellegrino<br />

che in picchiata raggiunge 290 km/h.<br />

L’altezza di volo di solito non supera 100 metri ma in situazioni eccezionali gli<br />

uccelli volano persino oltre 3.000 metri come è stato accertato anche per i fanelli.<br />

E’ stato osservato, durante le migrazioni, che oche ed altri volatili, fra cui<br />

anatre, superano la catena dell’Himalaia.<br />

Velocità di volo.<br />

Specie Km/h<br />

Storno 77,6<br />

Fringuello 56<br />

Passero 56<br />

Merlo 52,8<br />

Germano reale 96<br />

Alzavola 112<br />

Colombaccio 81,6<br />

Tortora 81,6<br />

Pavoncella 72<br />

Beccaccino 80<br />

Gallo cedrone 83,2<br />

Beccaccia 71,3<br />

Starna 67,2<br />

Quaglia 89,6<br />

Fagiano 60,8<br />

504


La rosa dei venti e la migrazione<br />

Le condizioni climatiche hanno una notevole importanza nella migrazione ed il<br />

vento la condiziona come la pioggia se non, in alcuni casi, addirittura di più.<br />

Quando soffia forte contrario alla direzione di volo infatti costringe i volatili a<br />

fermarsi, se spira in direzione a loro favorevoli li aiuta, proprio come accade con<br />

gli aerei e le imbarcazioni. Le caratteristiche dei venti sono diverse sia per la<br />

località in cui nascono che la velocità con cui si spostano. Gli antichi li credevano<br />

magici “figli del sole” perchè nascono dalle perturbazioni provocate dal suo<br />

calore. Ed anche i loro nomi sono a volte bizzarri. Ci sono gli Alisei ed i Polari,<br />

gli Occidentali persistenti ed i costanti, le Brezze ed i Monsoni che cambiano la<br />

forza dello spirare ma mantengono la medesima direzione, i Pulsanti perchè<br />

intermittenti ed a direzione costante. Eppoi i venti locali che sono sempre<br />

dominanti.<br />

Per ciascuno di loro ed ogni comportamento c'è un vocabolo ed una<br />

spiegazione: si alzano, spirano, soffiano, mutano direzione, sibilano, si placano,<br />

cadono.<br />

E possono essere caldi, gelidi, umidi, secchi a folate, a raffiche. Per gli uccelli<br />

diventano un aiuto od un baluardo insormontabile: dipende se spirano in favore<br />

del loro volo o sono contrari. Ed in questo caso la migrazione si blocca, gli<br />

spostamenti avvengono a pochi metri da terra e risultano quasi sempre<br />

condizionati dalla ricerca del cibo. Persino nelle paludi, dove di solito il vento ha<br />

una minor violenza e le acque sono appena increspate, gli anatidi escono di<br />

malavoglia dal riparo dei canneti.<br />

Una rosa per tutti.<br />

Un antico grafico costituito da una stella a quattro punte e conosciuto come “Rosa<br />

dei venti”, indica il punto cardinale da cui il vento proviene. La più semplice<br />

“rosa” è formata da quattro punte e ciascuna corrisponde ad un punto cardinale:<br />

Nord o mezzanotte, borea oppure tramontana<br />

Sud o mezzogiorno o austro<br />

Est o oriente o levante<br />

Ovest o occidente o ponente<br />

Fra questi quattro punti cardinali se ne possono indicare altrettanti intermedi<br />

Nord-est o greco<br />

Sud-est o scirocco<br />

Sud-ovest o libeccio<br />

Nord-ovest o maestrale<br />

505


Questi ultimi quattro punti uniti agli altri formano la rosa dei venti ad otto punte.<br />

Naturalmente la “rosa” può essere aumentata con successive suddivisioni che<br />

indicano venti locali.<br />

Il navigatore che la disegnò (il cui nome è rimasto sconosciuto ma secondo<br />

un’antica credenza sarebbe stato un veneziano) avrebbe posto il centro nell’isola<br />

di Creta e questo spiega anche i nomi e l’origine dei venti.<br />

Se ci si trova sull’isola infatti pare proprio che il Libeccio giunga dalla Libia (<br />

Sud- Ovest), la Tramontana ( trans montes, cioè attraverso i monti) dalle cime<br />

della Grecia e, più su, della Macedonia ( Nord), lo Scirocco dalla Siria ( Sud –<br />

Est) mentre i Genovesi ritennero che il nome derivasse da Shuluq che in arabo<br />

significa Mezzogiorno.<br />

Il Maestrale invece avrebbe nome da Venezia proprio perché in quel tempo era<br />

considerata la signora dei mari.<br />

Qualche dubbio fu sollevato per il Grecale che giunge da Est- Nord- Est e la<br />

Grecia è posta più a Sud ma tale vento fu aggiunto in seguito alla “rosa”.<br />

A quel primo grafico furono aggiunti anche altri nomi di venti fra cui la Bora e<br />

il Garbino che soffia lungo la costa adriatica.<br />

In particolare lo Scirocco precede di almeno 12 ore l’arrivo di una<br />

perturbazione. Compie lunghi percorsi sul mare, è umido e provoca sull’Adriatico<br />

il fenomeno cosiddetto dell’acqua alta.<br />

Il Libeccio spira in direzione Sud Ovest ed è quasi sempre di notevole<br />

violenza.<br />

Il Maestrale che soffia da nord ovest è freddo, secco e di solito porta con se il<br />

cielo coperto con nubi di tipo cumuliforme e non raramente provoca anche<br />

temporali.<br />

La Tramontana è un vento particolarmente freddo e soffia con cielo sereno e<br />

terso.<br />

Il Grecale (sulle coste adriatiche viene denominato Bora) giunge quasi sempre<br />

dopo lo scirocco, le raffiche sono forti e non raramente raggiungono i<br />

70chilometri.<br />

La scelta del territorio, il corteggiamento e la costruzione del nido<br />

Territorio di nidificazione<br />

E’ il maschio che cerca casa. E lo fa scegliendo un territorio adatto alla<br />

nidificazione ed alla crescita dei figli. La zona deve avere, a seconda della specie,<br />

determinate caratteristiche fra cui quella, fondamentale, di fornire cibo, non solo<br />

per i riproduttori, ma anche per i figli ed essere lontana da minacce ed insidie.<br />

E’ logico quindi che la superficie media del territorio (l’ornitologo Nice, nel<br />

1941, ne distinse sette tipologie) vari a seconda della specie, ma anche in rapporto<br />

all’alimentazione.<br />

506


Superficie del territorio di nidificazione per specie (in m 2 )<br />

Specie Superficie (in m 2 )<br />

Folaga 4.000<br />

Merlo 1.200<br />

Tordo bottaccio 40.000<br />

Fringuello 4.000<br />

Aquila 93 milioni<br />

Cinicia mora 53.000<br />

Pettirosso 6.000<br />

Luì grosso 1.500<br />

a) Zona conquistata dal maschio ed in cui avviene la fase riproduttiva,<br />

dall’arrivo della femmina alla parata nuziale e infine deposizione delle<br />

uova.<br />

b) Il territorio ha solo significato sessuale: avvengono le parate nuziali e<br />

l’accoppiamento e la zona non ha alcuna importanza per l’alimentazione<br />

che viene reperita altrove. Accade per le rondini e le cesene, che ricercano<br />

il cibo lontano dalle colonie.<br />

c) Superficie destinata solamente alla parata nuziale mentre il nido viene<br />

costruito altrove. Ne sono un esempio i tetraonidi fra cui il gallo cedrone<br />

ed il gallo forcello.<br />

d) Area limitata al solo nido o addirittura a portata di becco del volatile in<br />

cova. Riguarda uccelli che si riproducono in colonie e fra questi vi sono i<br />

pinguini, i pellicani i cormorani, le starne, gli aironi e le taccole.<br />

e) Per alcuni volatili esistono due territori: uno utilizzato per la riproduzione,<br />

l’altro per l’alimentazione. Ne è un esempio il codirossone. Entrambi<br />

comunque vengono difesi.<br />

f) Negli uccelli sedentari, di solito, la difesa del territorio si limita al periodo<br />

della riproduzione e solo eccezionalmente. Si nota che nei migratori<br />

proprio all’inizio della fase di abbandono della zona l’istinto di difesa<br />

viene meno, ma si manifesta durante le soste per piccole zone e lo si può<br />

osservare nei pivieri .<br />

Vi sono anche territori che comprendono le zone in cui gli uccelli, al<br />

termine della stagione riproduttiva, vanno a dormire . Molti volatili infatti tornano<br />

a dormire nel medesimo luogo ed in particolare gli storni difendono persino la<br />

parte di posatoio su cui trascorrono la notte<br />

I volatili da preda hanno necessità di territori vasti. Non solo perché di solito<br />

non esiste notevole densità di animali da catturare (anche questi infatti hanno un<br />

proprio territorio), ma anche perché non devono depauperare le diverse zone. I<br />

granivori occupano un territorio più vasto degli insettivori di uguale taglia.<br />

Inoltre la superficie varia anche in rapporto al carattere del volatile: il tordo<br />

occupa un territorio di circa 1.200 m 2 , mentre la tordela deve avere a propria<br />

disposizione, essendo particolarmente aggressiva, almeno 150.000 metri quadri.<br />

Inoltre il territorio, proprio in base alle sue caratteristiche specifiche, varia<br />

anche rispetto ad individui della medesima specie. Nella cincia bigia è compreso<br />

fra 0,4 e 6,5 ettari. Durante il periodo della riproduzione, la zona che ciascun<br />

507


volatile considera “sua” diminuisce tanto che il fagiano domina su 5 ettari in<br />

aprile e 2,5 in giugno.<br />

Il territorio fa parte della casa degli uccelli e basta questo per comprendere<br />

perché tutti lo difendono, indipendentemente dalle loro dimensioni, con eguale<br />

combattività. Così lo scricciolo, che è il più piccolo dei volatili italiani, si opporrà<br />

all’ingresso di altri nella sua zona con impegno uguale a quello dell’aquila.<br />

La difesa si esplica in diverse modalità e secondo una strategia propria di<br />

ciascuna specie.<br />

Nei passeriformi si manifesta immediatamente con il canto, dando luogo, così,<br />

a originalissimi “duelli” vocali. Ed è facile sincerarsene, in particolare a<br />

primavera, quando si ode un uccello che canta ed un altro a breve distanza, e<br />

quindi nel territorio del primo, che “gli risponde”. Esistono, inoltre, particolari<br />

atteggiamenti del corpo che significano manifesta volontà di combattere contro la<br />

minaccia di ogni intruso e sono talmente espliciti che risultano quasi sempre<br />

sufficienti a far allontanare il nemico.<br />

Il pettirosso, ad esempio, cerca di mettere in mostra la macchia rossa che ha<br />

sul petto gonfiandone le piume e acquistando, quindi, una dimensione maggiore di<br />

quella reale. In altre specie invece si ha un’erezione della coda, un raddrizzamento<br />

del corpo o l’emissione di grida caratteristiche. Insomma, ogni uccello si presenta<br />

nell’aspetto più combattivo che gli è possibile cercando di dare un’immagine di<br />

forza.<br />

Tutti questi comportamenti hanno infatti lo scopo di indicare, rendendola ben<br />

evidente, la presenza del volatile in una determinata zona e significare che è ben<br />

deciso a difenderla.<br />

E’ inoltre stato accertato che in caso di lotta ha la meglio il “proprietario” di<br />

casa, come ha dimostrato l’esperimento con un pettirosso: si è chiuso il volatile in<br />

una gabbia e lo si è posto al centro del suo territorio. All’arrivo di un nuovo<br />

individuo, il prigioniero ha manifestato con grida e sbattimenti di ali la sua ostilità<br />

di frote alla presenza dell’antagonista che s’è allontanato.<br />

“Al contrario, se si sistema lo stesso uccello in gabbia sul territorio di un<br />

vicino, esso si sente nella posizione dell’intruso e manifesta la propria<br />

sottomissione al proprietario del territorio che attacca la gabbia” (Lack).<br />

Non è vero che una zona valga l’altra a parità di caratteristica. Gli uccelli<br />

infatti si affezionano al proprio territorio ed anche i migratori ritornano nei luoghi<br />

dove hanno nidificato.<br />

Le rondini ne sono un esempio, anche se non certamente l’unico.<br />

I rapaci riadattano addirittura lo stesso nido ogni anno. In particolare la fedeltà<br />

al nido è più accentuata in alcuni volatili (fra cui il merlo che ritorna nei medesimi<br />

luoghi ben più del tordo) ed i maschi hanno più fedeltà delle femmine tanto che in<br />

Finlandia è stato accertato che le balie nere maschio tornano nel 37% dei casi nel<br />

luogo di nidificazione mentre le femmine non superano il 10,7%<br />

508


Il corteggiamento e l’accoppiamento<br />

Le parate nuziali non sono altro che inviti al fidanzamento. “La parate nuziali”,<br />

afferma Dorst, “vale a dire l’insieme delle pose e dei comportamenti che le<br />

compongono, sono caratteristiche di una specie. Svolgono un ruolo di liberazione<br />

di interruttori specifici. Sono state paragonate a serrature psicologiche o a una<br />

sorta di dialogo fra iniziati. Si può anche paragonarle alla bandiera usate in marina<br />

per parlare da una nave all’altra: la loro combinazione variabile permette di<br />

passare messaggi che non sono compresi se non da quelli che ne posseggono il<br />

codice”.<br />

Il maschio, occupato un determinato territorio, caccia tutti i possibili rivali sia<br />

con il canto che con attacchi fisici e le femmine si avvicinano e vengono attratte<br />

dai maschi. Le parate nuziali nell’ambito della medesima specie si svolgono con<br />

le stesse modalità. Si è accertato che esiste una compensazione fra vistosità del<br />

piumaggio e stimoli acustici.<br />

I volatili che cantano meglio hanno infatti piumaggio meno colorato. Le piume<br />

di silvie e luì, ad esempio, non si distinguono per una particolare colorazione, ma<br />

proprio per la scarsa appariscenza. Durante le parate nuziali, però, la voce è<br />

particolarmente sonora e quindi più adatta a sedurre la compagna.<br />

La parata comunque è solo e soltanto una manifestazione del maschio che si<br />

mostra nel suo aspetto migliore o comunque mette in evidenza quelle parti del<br />

piumaggio che ritiene siano più vistose. La femmina partecipa alla parata in un<br />

secondo tempo ed è un tacito primo sì al corteggiamento. Comunque le modalità<br />

sono diverse e variano da specie a specie.<br />

Il passero, che ha colori sbiaditi, presenta alla femmina la gola nera. La<br />

capinera rizza le piume sulla testa, gonfia il piumaggio del dorso e allarga la coda.<br />

Il codirosso apre la coda a ventaglio e spalanca il becco per mettere il mostra<br />

l’interno giallo marcato. Il culbianco salta attorno alla femmina sventolando la<br />

coda bianca e nera, poi si alza verso il cielo e si lascia cadere repentinamente.<br />

La parata più nota è quella del pavone, in cui il maschio allarga la coda<br />

mettendo in mostra uno stupendo piumaggio e si muove lentamente come stesse<br />

eseguendo una danza.<br />

Il fagiano ha una parata semplice. Lancia grida di richiamo, cammina<br />

lentamente fra la vegetazione e quando vede una femmina allarga le ali e le sbatte<br />

fino a quando lei lo raggiunge, allora comincia a seguirla da vicino.<br />

Gli anatidi hanno parate complesse. Lorenz, all’interno della famiglia, ne<br />

distinse, addirittura, sedici tipi.<br />

Il germano reale, ad esempio, fa rientrare il collo e gonfia le piume del capo<br />

arrotondandolo, aumentandone quindi le dimensioni e cominciando ad agitarlo in<br />

sincronia con la coda. Dopo qualche tempo immerge il becco nell’acqua, scuote la<br />

testa ed emette suoni. In alcuni casi partecipa alla parata anche la femmina con un<br />

cerimoniale complicatissimo, ma in alcuni casi addirittura suggestivo.<br />

Ogni parata, nell’acqua, sulla terra, sugli alberi, è uno spettacolo a sé, bello ed<br />

originalissimo, ma quelle che avvengono nel cielo hanno una suggestione tutta<br />

particolare. Si è attratti dalla bellezza del volo, dalle evoluzioni di cui di cui sono<br />

509


capaci gli uccelli e dalla struttura meravigliosa del loro fisico che li fa autentici<br />

funamboli dell’aria.<br />

L’allodola che canta mentre sale in alto nel cielo e par attraccata ad un raggio<br />

di sole è un esempio che incanta non soltanto i poeti. I beccaccini fanno voli di<br />

parata in cui mediante sfregamento riescono a far vibrare le piume. Le pavoncelle<br />

femmina si raggruppano in un terreno pianeggiante ed i maschi volano sopra di<br />

loro, lentamente, come fossero posati nell’aria, mettendo in mostra il magnifico<br />

piumaggio bianco e nero.<br />

Uno spettacolo unico, così come originalissimo, è quello dei rapaci. Le<br />

albanelle ad esempio, eseguono in aria stupefacenti evoluzioni . Un partner vola<br />

più in alto poi piega le ali e si lascia cadere mentre quello più in basso si gira sulla<br />

schiera in modo che sia rivolta verso il suolo e allunga le zampe: gli artigli di<br />

entrambi si toccano come fossero mani che si uniscono.<br />

Al termine delle parate, quando la coppia inizia a formarsi, vi sono offerte di<br />

cibo ed atti simbolici uguali per specie.<br />

Molte femmine di piccoli passeriformi mendicano cibo allargando le ali e<br />

assumendo parvenze da nidiaceo: tale condotta non ha lo scopo di reperire<br />

alimenti. Vi sono femmine, infatti, che continuano in questo atteggiamento anche<br />

quando si trovano in presenza di abbondante cibo o, addirittura, appollaiate su<br />

mangiatoie. Si tratta di modi di comportarsi che mimano le attività biologiche<br />

essenziali che si esplicano durante altri periodi della riproduzione: fabbricazione<br />

del nido, imbeccata della femmina che sta covando, e quindi proprio mentre<br />

avvengono hanno soltanto un significato simbolico.<br />

La parata è un atto fra due individui, ma in alcune specie risulta collettiva, cioè<br />

vi sono coinvolti molti volatili che partecipano tutti insieme ad un rituale che<br />

assume quindi un originalissimo aspetto coreografico.<br />

Gli uccelli della stessa specie si radunano in luoghi, sono sempre i medesimi ed<br />

in gergo vengono denominati “lek”, particolari.<br />

La spiegazione, secondo Dorst, è la seguente: “Si può pensare che tali<br />

comportamenti collettivi provengano da quello stadio elementare in cui la<br />

femmina è corteggiata da parecchi maschi che la circondano e compiono le loro<br />

parate per sedurla. In seguito sono diventati più complicati perché, oltre ai legami<br />

sessuali che si stabiliscono e formano le coppie, essi condizionano anche i<br />

rapporti fra maschi: si instaura una gerarchia fra i partecipanti che si eccitano<br />

reciprocamente”.<br />

Tale fenomeno, secondo Snow, agevola la specie perché una raccolta di molti<br />

maschi attrae le femmine molto di più di quanto potrebbe fare un singolo maschio.<br />

Già gli antichi furono suggestionati dalla “danza” delle gru.<br />

Di solito si riuniscono in molte decine di individui e girano in tondo<br />

emettendo grida, poi compiono riverenze, muovono il capo, saltellano proprio<br />

come stessero eseguendo un’autentica danza.<br />

I combattenti si ritrovano nel medesimo luogo: hanno un vasto collare di<br />

piume da cui spunta il becco proprio come fosse una spada. Corrono uno verso<br />

l’altro quasi a scontrarsi, si cercano, si accovacciano, ripartono in direzione<br />

dell’avversario in una sorta di duello simbolico altamente coreografico.<br />

510


Fra i tetraonidi sono note le parate dei fagiani di monte che si radunano in<br />

arene mentre le femmine restano a guardare i duelli fra maschi.<br />

Alcune parate degli uccelli sono simili a comportamenti degli uomini che,<br />

imitandole, hanno anche dato il nome del volatile alla loro danza.<br />

Così gli Indiani del Nord America fanno una danza che si chiama “parata dei<br />

tetraoni”, gli Eschimesi le “danze delle gru” e gli africani le “danze dei buceri”.<br />

L’uomo, nota Dorst, ha complicato il fenomeno in seguito al suo psichismo più<br />

sviluppato. Se però la motivazione prima, il determinismo e lo svolgimento dei<br />

comportamenti, sono gli stessi sia per gli uomini sia per gli animali, le parate<br />

nuziali degli uccelli ne sono una manifestazione particolarmente brillante.<br />

Il “matrimonio” fra gli uccelli dura il tempo necessario a metter su famiglia e<br />

farla crescere fino a quando la prole non sarà in grado di volar via.<br />

In alcune specie la poligamia diventa una regola ed un maschio arriva a<br />

fecondare molte femmine mentre la poliandria avviene soltanto nel caso della<br />

quaglia tridattilo, in cui una femmina si accoppia con più maschi.<br />

La quasi totalità delle specie risulta essere monogama, ma solo per il tempo<br />

delle covata.<br />

Può infatti accadere che nella covata successiva la femmina cambi partner<br />

proprio perché il maschio si occupa dei piccoli usciti dal nido. Solo in pochi<br />

uccelli, fra cui le gru e le oche, l’unione dura tutta la vita. Ma quando scompare<br />

un partner viene subito sostituito.<br />

Le tipologie di nido<br />

Hanno le forme più varie e vengono costruiti nelle zone più diverse: ciascuno però<br />

risulta il più funzionale possibile rispetto al luogo ed alla specie. Così in alcune<br />

località deserte e con poche insidie alcune specie di volatili non si sono evolute e<br />

depositano le uova sul terreno mentre in altre zone scelgono luoghi che ritengono<br />

inaccessibili o, comunque, che possano essere facilmente difesi o non attraggano<br />

l’attenzione di eventuali predatori.<br />

Tutti, nelle differenti forme e nei luoghi in cui sono collocati, indicano<br />

un’evoluzione delle singole specie. Tanto che si può fare una graduatoria fra quei<br />

volatili che depongono le uova per terra, altri che invece ricercano cavità naturali,<br />

altri ancora che scavano in tronchi d’albero o perfezionano buchi in pareti friabili<br />

e infine uccelli che intessono il proprio nido così bene da farlo sembrar addirittura<br />

un’opera stupefacente.<br />

Numerosi i volatili che si limitano a radunare pochi sassolini e deporvi al<br />

centro le uova che hanno guscio mimetico da far sembrare anche loro pietre. Altri,<br />

e fra questi le urie, depongono le uova in fessure ed anfratti di roccia difficilmente<br />

accessibili a predatori. Non c’è pericolo che cadano perché sono piriformi.<br />

Ci sono specie di cormorani che depongono le uova in isole deserte ove, poiché<br />

le femmine mentre covano lasciano deiezioni fuori dal nido, che viene utilizzato<br />

per anni, si sono formati strani imbuti che servono egregiamente a difendere le<br />

uova.<br />

511


Il martin pescatore ed altri fra cui i gruccioni, scavano addirittura gallerie o<br />

modificano quelle che trovano già esistenti.<br />

Molti uccelli si limitano a cercare cavità negli alberi e fra questi ci sono civette,<br />

anatre marine, upupe e molti passeriformi.<br />

Cince bigie alpestri, picchi, sitte e altri volatili scavano invece i tronchi<br />

costruendosi il proprio nido.<br />

All’interno delle cavità spesso manca ogni rivestimento. Le uova sono<br />

collocate sul legno o su alcuni trucioli. E’ interessante notare come la maggior<br />

parte di volatili che collocano il nido in cavità depongono uova con guscio bianco<br />

e il colore che risulterebbe evidente ai predatori qualora fosse collocato<br />

all’esterno, è il più utile nelle cavità in quanto permette di distinguere<br />

immediatamente le uova.<br />

E’ inoltre opportuno considerare che il luogo, per i volatili che nidificano nelle<br />

cavità degli alberi, è più importante del territorio. Il maschio si preoccupa subito<br />

di trovare il nido e successivamente di difendere il terreno.<br />

Poiché le cavità sono limitate sorgono feroci competizioni fra i volatili che<br />

non sono in grado di scavarsi autonomamente un nido. La balia nera deve<br />

difenderlo non soltanto dai congeneri, ma anche dalle cince, che risultano<br />

aggressori particolarmente crudeli e dai torcicolli, che entrano nella cavità e<br />

gettano fuori le uova.<br />

Vi sono nidi costruiti a terra in maniera grossolana e ne sono artefici le gru, i<br />

gabbiani, gli albatros e le strolaghe. Questi si limitano ad ammassare fili d’erba e<br />

sterpaglie.<br />

Anatre, oche e gallinelle d’acqua foderano il nido con una sorta di piumino per<br />

meglio proteggere i piccoli in un ambiente ostile e soggetto a forti variazioni<br />

climatiche.<br />

L’uovo<br />

Dall’uovo la vita, dicevano gli antichi ponendolo al principio del mondo. Ed è<br />

proprio così. L’uovo è fondamentalmente costituito da un ovulo fecondato munito<br />

di una serie di avvolgimenti che servono a proteggerlo e nutrirlo. Al proprio<br />

interno dispone di tutti gli elementi per svilupparsi, ad eccezione dell’ossigeno<br />

che penetra attraverso il guscio permeabile.<br />

L’ovulo è, con altre migliaia, chiuso nell’ovaio ed il tuorlo, che lo costituisce,<br />

ha una crescita lentissima per alcuni mesi e, poco prima della deposizione,<br />

rapidissima.<br />

In questo particolare stadio ha la forma di un disco germinativo superficiale<br />

che contiene le cellule e sovrasta una massa di vitello colorato giallo o arancio.<br />

Il follicolo ovario si spezza per uno stimolo esterno che causa l’accoppiamento<br />

e l’ovocita viene fecondato nel padiglione della tromba dove rimane breve tempo<br />

(circa 18 minuti per il pollo) poi passa nella parte detta “magnum” dove resta tre<br />

ore ed è circondato dall’albume che è circa il 50 per cento del volume. Quindi<br />

passa nell’istmo in cui è circondato dal guscio e raggiunge poi l’utero in cui resta<br />

circa 20 ore.<br />

512


Intanto prende la sua forma dove viene modellato il guscio con movimenti<br />

peristaltici.<br />

Il guscio è costituito per il 94% di carbonato di calcio, ha tre strati, risulta<br />

impregnato di proteine che arrivano per diffusione all’albume.<br />

Nei limicoli, nei piccioni ed in alcuni picchi è molto sottile, nei francolini<br />

invece può addirittura superare il 27% del peso complessivo.<br />

L’albume è formato da proteine e dal 90% di albumina<br />

La membrana vitellina consiste in cheratina che controlla il passaggio di<br />

sostanze da e verso l’albume.<br />

Il tuorlo è composto da un terzo di proteine e due terzi di lipidi. Il volume<br />

complessivo varia dal 15% nei cormorani al 50% in alcune specie di anitre.<br />

Di solito gli uccelli “nidicoli”, cioè che rimangono a lungo nel nido (al<br />

contrario dei “nidifugi” che lo abbandonano dopo un giorno), hanno meno tuorlo<br />

(20%) di quello dei nidifugi (50%).<br />

Il disco germinativo costituisce il primo stadio di un embrione e inizialmente è<br />

una cellula gigante<br />

Composizione chimica dell’uovo di gallina.<br />

Elementi %<br />

Proteine 12,1%<br />

Lipidi 10,5%<br />

Glucidi 0,9%<br />

Sali minerali 10,9%<br />

Acqua 65,6%<br />

La forma delle uova varia a seconda delle specie e dei luoghi in cui sono<br />

deposte. Ed è anche questa una meravigliosa manifestazione della vita che si<br />

adegua a luoghi e tempi.<br />

Ciascun uovo ha un’estremità arrotondata ed una appuntita, un asse maggiore<br />

ed uno minore che consentono di definire la forma e le dimensioni che variano da<br />

specie a specie.<br />

Si è notato che la forma è adatta al particolare tipo di nido in cui sono<br />

collocate. Le uova che si trovano nelle cavità sono tondeggianti proprio perché<br />

risultano protette da danni da rotolamento, sono invece coniche o addirittura<br />

piriformi quelle collocate in zone da cui è facile cadere. Ecco perché le urie che<br />

nidificano su strette cornici di roccia depongono uova piriformi che, tolte dalla<br />

loro posizione di equilibrio, non rotolano in linea retta.<br />

La forma conica infine consente una sistemazione migliore: ciascun uovo<br />

addossato all’altro formando una massa compatta in modo da utilizzare tutto il<br />

calore.<br />

I pivieri depongono le uova con la punta rivolta verso il centro e quindi<br />

occupano il minor spazio possibile. Le uova possono essere covate meglio e<br />

ciascuna riceve maggior quantità di calore.<br />

Il peso dell’uovo risulta inversamente proporzionale al peso del volatile o alle<br />

sue dimensioni.<br />

L’uovo di struzzo è circa 1,7% del peso dell’uccello, quello dell’aquila di mare<br />

il 2,4%, dello scricciolo il 13%, dell’ albatro il 6%, del fulmaro il 15%.<br />

513


In proporzione il più grosso è quello del kiwi, uccello che pesa quanto un pollo,<br />

e depone un uovo di circa 400 grammi. In genere le uova di volatili che ne<br />

depongono uno solo sono più grosse di quelle di uccelli che ne depongono molte.<br />

Alcune uova sono opache e rugose, altre brillanti e lisce come quelle dei picchi<br />

e sono così particolari da essere uno dei caratteri distintivi della specie.<br />

Comunque è certo che anche nelle uova vi è stata una costante evoluzione.<br />

Quelle con guscio bianco sono le più primitive perché più vicine a quelle di<br />

rettile, da cui derivano gli uccelli.<br />

La stragrande maggioranza delle uova risultano colorate da pigmenti deposti<br />

nello strato superficiale e sono il risultato della degenerazione di globuli rossi<br />

nella parete del tratto genitale. Infine alcune uova hanno colore uniforme. Sono<br />

verdastre quelle dei cormorani, verde blu negli aironi, azzurre nella passera<br />

scopaiola, rosso mattone nell’usignolo.<br />

Altre uova sono caratterizzate da macchie rossastre, nere o brune su fondo<br />

chiaro, castano, azzurrognolo o verde.<br />

In alcuni casi la colorazione va interpretata come un mimetismo ulteriore.<br />

La deposizione avviene in periodo tale che alla schiusa vi sia quello che in<br />

gergo si definisce l’optimum ecologico, cioè il clima migliore per la crescita dei<br />

piccoli ed abbondanza di nutrimento.<br />

Il numero varia a seconda della specie. Pinguini grandi, rapaci e procellarie<br />

depongono un solo uovo. Due, invece, i piccioni, i colibrì le strolaghe ed alcuni<br />

tipi di pinguini. Tre i gabbiani e le sterne, quattro i limicoli, da 4 a sei i<br />

passeriformi .<br />

Oche ed anatre depongono fino a 12 uova, le cince giungono fino a 16 e, in<br />

alcuni galliformi, ne sono state contate fino a 22.<br />

Di solito gli uccelli di grandi dimensioni depongono meno uova di quelli di<br />

taglia più piccola. Gli uccelli che nidificano nelle cavità ne depongono un numero<br />

maggiore .<br />

Infine, in alcuni volatili, il numero è fisso. Due nei colibrì, nelle tortore e nei<br />

piccioni. In altri è variabile e la cinciallegra può deporre da 5 a 13 uova.<br />

Vi sono anche variazioni che dipendono dalle zone.<br />

Si è constatato che la poiana depone tre uova nei paesi dell’Europa centratale e<br />

due in Francia e di solito gli uccelli che abitano paesi freddi depongono più uova<br />

di quelli che vivono in zone calde come, ad esempio insegna il pettriosso.<br />

Uova depositate in media dal pettirosso in diverse località europee.<br />

N. uova Paesi<br />

3,5 Canarie<br />

4,9 Spagna<br />

5,8 Paesi Bassi<br />

6,3 Finladia<br />

Si è infine notato che alcuni uccelli tropicali depongono soltanto 2 uova mentre<br />

loro consimili, che vivono in zone temperate, ne depongono da 4 a 6 e questo si<br />

spiega con l’allungamento delle giornate e quindi la maggior luce che consente<br />

tempi di caccia più lunghi.<br />

514


Il numero delle uova e delle covate deve essere considerato in rapporto alla<br />

dinamica delle popolazioni e in senso positivo mentre tutti gli altri fattori avranno<br />

impatto negativo.<br />

La cova e l’allevamento dei giovani rappresentano maggiori rischi nelle zone<br />

fredde, i migratori subiscono maggior perdite durante i viaggi di trasferimento, i<br />

nidi collocati a terra sono più di frequente assaliti da predatori.<br />

Inoltre ha importanza anche la presenza di cibo e si è constatato che nella<br />

civetta delle nevi la consistenza delle covate aumenta quando vi è abbondanza di<br />

prede, le nocciolaie producono 3 uova nelle annate di scarsità di frutti, quattro,<br />

invece, se questi abbondano.<br />

La deposizione avviene ad intervalli che variano a seconda della specie. Nei<br />

passeriformi, l’intervallo, è di 24 ore. Il doppio per aironi, piccioni, martin<br />

pescatore ed alcuni rapaci. Quattro o, addirittura, cinque giorni nei grandi rapaci.<br />

Togliendo le uova appena sono deposte si riesce in alcune specie a farne<br />

aumentare il numero. Nella taccola si è provocata la deposizione di 15 uova<br />

mentre il numero normale prevede una media che varia da sette a 10. Si è poi<br />

ottenuta la deposizione di 71 uova in un picchio americano che di solito ne<br />

produce al massimo otto. L’addomesticamento ha consentito di accentuare ancor<br />

più la deposizione tanto che la gallina depone persino 300 uova l’anno.<br />

Complessivamente, il peso delle uova deposte in un a sola covata è superiore a<br />

quello del volatile. Nel fiorrancino 11 uova raggiungono 120% del peso<br />

dell’animale. Nel voltolino, il 125% del peso è raggiunto da 12 uova.<br />

Alcune specie allevano una sola covata l’anno, altre invece due. Qualora venga<br />

distrutto il nido la deposizione si blocca: la formazione delle uova infatti avviene<br />

anche per la stimolazione generata dalla vista del nido.<br />

515


516


Capitolo 2<br />

Le piante dei volatili<br />

Quando tutto è silenzio le cose cominciano a parlare :<br />

pietre, animali e piante diventano fratelli e sorelle e<br />

comunicano ciò che è nascosto. Un arcobaleno invisibile<br />

circonda quello visibile<br />

Ernts Junger<br />

Gli alberi dei Padri, il fascino della memoria che ritorna<br />

Sono alberi, erbe e cespugli, in gran parte selvatici, che producono bacche, semi e<br />

frutti cari agli uccelli. O solamente ombra e rifugio per loro. Un intero giardino<br />

delle meraviglie in pianure, colline o montagne, che lentamente sta riconquistando<br />

l’attualità non solo nei parchi naturalistici.<br />

Gli è complice, in questo suo ritorno che ha il sapore di un cammino a ritroso<br />

nel tempo, un’inespressa nostalgia, l’effettiva utilità e persino la bellezza<br />

originalissima.<br />

C’è il sorbo e il biancospino, ci sono edera, caprifoglio, fitolacca e il ciliegio<br />

selvatico. Ed insieme a loro tanti altri fra cui il castagno ed il sambuco, il faggio,<br />

sacro a Giove, e l’ontano che attrae, come una sirena, lucherini ed altri minuscoli<br />

volatili. Una moltitudine di nomi che in natura diventano piante d’alto fusto,<br />

cespugli impenetrabili o soltanto macchie di verde magari ai margini dei viottoli.<br />

E continuano a perpetuare, per molti, un mondo mitologico e magico insieme<br />

perché ad ogni albero, ad ogni cespuglio, a ciascuna foglia è legata una ninfa, un<br />

dio oppure un significato che a noi appare misterioso e fu invece per gli antichi<br />

esplicito perchè consideravano il bosco un immenso tempio e quanto vi viveva, in<br />

fiori, animali e piante, una manifestazione della divinità.<br />

Oggi gran parte di quei significati si sono perduti, molte di quelle leggende si<br />

sono ridotte a frammenti appena, scintille di ricordi remoti destinati forse, e<br />

purtroppo, ad affievolirsi ancor più. Ma per tanti restano ancora vive nel giardino<br />

meraviglioso di ogni prato o bosco.<br />

517


Il tempo della stregoneria<br />

Lo popolano le piante e i fiori dei cacciatori, fanno parte della loro tradizione e<br />

della loro cultura, evocano antiche leggende e riconducono ad epoche lontane di<br />

cui oggi si fatica persino a coglierne la eco remota in cui vissero maghi e sortiere<br />

ed ogni atto pareva un rito semisegreto.<br />

Hanno nomi che evocano lontane memorie e riportano a pagine di autori a<br />

volte dimenticati. Sono Ferdinando Paolieri, Renato Fucini, Luigi Ugolini,<br />

Vincenzo Chianini, che invitava a togliersi il cappello davanti ad ogni quercia<br />

maestosa, Eugenio Barisoni, Augusto Noghera, Adelio Ponce de Leon, Piero<br />

Pieroni e tanti altri fra cui il grande Piero Chiara ed il coinvolgente Mario Rigoni<br />

Stern. Ed insieme a loro Leopardi, Pascoli, Carducci, Saba, Montale e altri grandi<br />

“ospiti” che portiamo nell’anima.<br />

Anche loro, a leggerne prosa e versi, presi da una grande nostalgia o, se si<br />

preferisce, tanta tenerezza per fusti, foglie, frutti e fiori capaci di nascere<br />

spontaneamente dalla terra. Come fossero un dono prezioso.<br />

E, a far ombra alle parole, gli erbari di un tempo. Volumoni in cui ogni pianta è<br />

dipinta minuziosamente, persino nelle sfumature, e pare così viva che ancor oggi<br />

sembra si possa allungare la mano accarezzando con le dita il foglio. Come si<br />

potesse coglierla.<br />

Crescono ancora in quei giardini della natura che sono siepi spontanee e<br />

margini di boschi oppure dentro le selve nascosti fra alberi giovani o che l’uomo<br />

coltiva.<br />

Svettano soprattutto nei roccoli e in altri impianti per la cattura di volatili.<br />

Producono bacche che gli uccelli gradiscono, ricercano, di cui sono ghiotti.<br />

I “santuari” degli alberi<br />

I colori costituiscono un’altra meraviglia della natura. Paiono creati proprio<br />

perché, quando le piante son mature, vengano scorte subito fra la miriade di tinte<br />

dell’estate oppure nel gran giallo delle foglie malate d’autunno.<br />

Così il sorbo dell’uccellatore ha bacche color corallo visibili da lontano. La<br />

fitolacca produce grappoli neri che si stagliano contro il verde stinto delle grandi<br />

foglie che s’avviano a cadere proprio quando i frutti sono più maturi cosicché<br />

chiunque possa scorgerli. Ed il sambuco, che crea grappoli fitti fitti, proprio come<br />

il ligustro, dai minuscoli semi neri a grappolo e che paion tanti pallini da caccia,<br />

fra foglie rade o di piccole dimensioni.<br />

Le “piante degli uccelli” hanno anche i loro santuari.<br />

Sono i roccoli, i capanni ed altri impianti fissi.<br />

Fatte crescere anno dopo anno secondo una geometria obbligata dalle reti o<br />

dalla distanza dal fucile, paiono poste casualmente ed ubbidiscono invece a regole<br />

ferree: trasgredirle significava rendere improduttivo l’impianto. Basta immaginare<br />

quei giorni di fame in casolari sperduti, dove la gente, anche nel freddo, portava<br />

gli zoccoli, per sapere cosa potesse causare nei lunghi inverni.<br />

518


L’appostamento, proprio come un giardino ben coltivato, ha spazi riservati a<br />

determinate piante.<br />

Gli alberi di buttata, cioè la vegetazione su cui giungono i volatili, non devono<br />

avere foglie ampie perché altrimenti nasconderebbero il selvatico. E proprio per<br />

questo motivo gran parte delle fronde, a partire dal tronco, vengono sfoltite<br />

lasciando solo le foglie nelle parti terminali dei rami.<br />

Fra le piante più utilizzate vi sono: il rovere, la roverella che mantiene le foglie<br />

fino quasi al termine della stagione del passo, il sughero, sempreverde, il salice, i<br />

pioppi, il pino, il ciliegio, il melo, il pero, il mandorlo, il faggio, gli olmi e l’ulivo.<br />

Completano l’alberatura i cosiddetti “secchi” che altro non sono se non rami<br />

privati delle foglie e issati sugli alberi con la funzione di posatoi. Sono graditi ad<br />

alcune specie che preferiscono posarsi su rami senza o con poche foglie.<br />

Di solito tali rami sono di noce, faggio, mandorlo e castagno. Infine il capanno<br />

viene mimetizzato con rampicanti o cespugli i quali, potati, danno origine a getti<br />

che vengono piegati in modo da costituire un’ottima mimetizzazione.<br />

Fra le piante più utilizzate vi sono le edere, la vite selvatica, il caprifoglio e la<br />

vitalba. Si tratta di essenze che hanno un rapido accrescimento e possono essere<br />

opportunamente indirizzate in modo da fornire un’idonea copertura naturale.<br />

Poco lontano dal capanno vengono coltivate piante selvatiche per attrarre i<br />

volatili.<br />

Ciascuna ha una sua caratteristica particolare ed tutte insieme formano<br />

quell’immenso mistero verde che continua ad essere il bosco. Con quel suo<br />

aspetto un po’scarmigliato ed un po’selvatico, la sua magia che riporta ad antichi<br />

riti, l’irresistibile richiamo che fa credere al fanciullo che rimane in ciascuno di<br />

noi, che ogni pianta nasconda una foglia di mistero.<br />

Qualità e storia degli alberi dei migratori<br />

Sorbo. Tenuto in gran considerazione da tutti i popoli il sorbo è gran signore di<br />

roccoli e altri impianti di cattura con reti. Bellissimo nelle sue fronde rade che<br />

paiono ricami contro il cielo, lascia filtrare la luce cosicché il terreno sottostante<br />

diventa dominio di erbe e fiori. Al contrario di quanto accade dove cresce il pino<br />

che non sopporta accanto al tronco neppure il fiore più stentato. O diversamente<br />

dal cipresso, che vuole uno spicchio di deserto sotto di sé.<br />

Il sorbo no. A maggio le sue fronde si arricchiscono di fiori bianchi, da<br />

settembre si impreziosiscono di bacche rosse che paiono di corallo tanto sono<br />

vivide e lucide.<br />

I volatili ne sono ghiotti ma ci fu un tempo che erano ricercate anche dagli<br />

uomini che le essiccavano per farne poi un’appetitosa salsa da render ancor più<br />

saporita la selvaggina o addirittura una bibita con un così alto contenuto di<br />

vitamina C da guarire persino lo scorbuto.<br />

Gli abitanti della Finlandia lo consideravano l’albero della vita, i Celti lo<br />

avevano consacrato come pianta simbolo, nel loro calendario, del primo mese<br />

519


dell’anno dandogli quindi un significato bene augurante proprio perché indicava il<br />

ritorno della luce a fecondare la terra.<br />

Nell’Irlanda i Druidi ne raccoglievano rami, bruciandoli e spargendo poi la<br />

cenere, sicuri di poter scacciare i demoni prima della battaglia e propiziare quindi<br />

la vittoria.<br />

E’ una delle piante più amate dai cacciatori e soprattutto dai tenditori negli<br />

impianti di uccellagione ma anche da quanti collocano i cosiddetti archetti,<br />

micidiali trappole proibite dalla legge, con cui si catturano tordi, merli, pettirossi<br />

ed altri volatili ghiotti del sorbo.<br />

Viene infatti messo a dimora nei roccoli perché attragga gli uccelli che lo<br />

preferiscono e mangiano le bacche eliminando poi il seme e quindi contribuendo<br />

alla diffusione della pianta che ha crescita lenta.<br />

Rovo. E’ la più selvatica delle piante e ritenuta invasiva, tanto che, ai margini<br />

degli impianti di cattura e degli appostamenti, dev’essere “regolata” ogni anno in<br />

modo da impedirne una crescita eccessiva. Attrae e dà rifugio a molti volatili e<br />

contribuisce a creare un ambiente quanto più possibile naturale.<br />

In Italia ve ne sono un centinaio di specie conosciute fin dall’antichità e tutte<br />

ritenute utili al punto che Plinio scrisse “la natura non creò neppure i rovi perché<br />

facessero danno all’uomo.<br />

Fu così che tra essi pose le more, un alimento per gli uomini”. Ma anche per i<br />

volatili che ne sono ghiotti.<br />

Gli antichi attribuivano alle more numerose proprietà fra cui quella di guarire<br />

dal veleno dei serpenti, da gonfiori alle gengive e da infiammazioni alle tonsille<br />

ed infine di avere un alto potere astringente. Ancor oggi vengono usate in pozioni<br />

per il viso o per gargarismi.<br />

I frutti, nel Medioevo furono elevati a simbolo di un dolce dono a quanti<br />

cingono la corona di spine che fece sanguinare la fronte di Gesù.<br />

Nell’Esodo c’è una suggestiva immagine del rovo che rappresenta Dio:<br />

compare a Mosè che sta pascolando il gregge sul monte Oreb, nelle sembianze di<br />

un roveto che continua a bruciare senza consumarsi. Tale roveto divenne per i<br />

Cristiani l’immagine della Immacolata Concezione e Maria fu raffigurata con<br />

Gesù dentro un roveto in fiamme.<br />

L’immagine è in alcune icone conservate nel monastero di Santa Caterina sul<br />

Sinai e nel dipinto su un soffitto di palazzo Martinengo a Brescia ed eseguito da<br />

Moretto da Brescia.<br />

Sambuco. Un tempo era la pianta abitata da fate ed elfi si diceva che il flauto<br />

magico fosse stato intagliato proprio da un suo ramo.<br />

Oggi resiste solamente negli incolti ed accanto ad alcuni appostamenti.<br />

Ovunque vi siano giardini e terreni coltivati non c’è spazio per il Sambuco,<br />

prezioso per le sue virtù curative, ricercato dagli uccelli (Capinera, Merlo,<br />

Beccafico, Storno, Passera scopaiola, Tordo Bottaccio, Sassello, Tordela) non<br />

solo per le bacche, ma anche, dov’è folto, per il rifugio che può offrire.<br />

520


Ovunque cresce spontaneo. A primavera basta porre un ramo nel terreno per<br />

vederlo germogliare in un paio di settimane purché riceva tanto sole, un minimo<br />

di acqua e soprattutto cresca in un luogo ricco di azoto.<br />

La pianta può essere facilmente regolata. Ogni anno infatti cresce ben più di un<br />

metro. A primavera si ricopre di bellissimi fiori bianchi e vista da lontano sembra<br />

un cespuglio reso suggestivo dalla neve. In Germania è noto come “albero di<br />

Holda”, fata benefica.<br />

Nel Medioevo i contadini prima di tagliare un ramo pregavano la fata di<br />

perdonarli affermando che in cambio avrebbero donato qualcosa al sambuco. Chi<br />

aveva il mal di denti camminava in direzione di un sambuco mormorando il nome<br />

della fata e dicendo “imprestami un pezzetto del tuo legno che te lo restituirò”.<br />

Poi, straccato un pezzo di sambuco andava a casa, si massaggiava la gengiva fino<br />

a farla sanguinare quindi riportava il legno nella parte di tronco da cui lo aveva<br />

staccato.<br />

Nel Tirolo era chiamato “farmacia degli dei” e ci si inchinava sette volte<br />

davanti ad ogni sambuco perché donava altrettanti rimedi. Con i germogli si aveva<br />

un decotto per guarire le nevralgie, impacchi con foglie curavano malattie della<br />

pelle, dai fiori si ottiene un the depurante e dalle bacche uno sciroppo<br />

antinfiammatorio per bronchi e polmoni.<br />

La corteccia provoca il vomito ed è lassativa. Posta fresca sugli occhi cura il<br />

glaucoma.<br />

La radice, frantumata e bollita, è valida medicina contro la gotta e dal midollo<br />

unito a farina e miele si ricava un unguento utile per lenire il dolore da lussazioni.<br />

Secondo alcuni antichi autori il sambuco indicava anche come sarebbero stati i<br />

mesi seguenti al suo fiorire. Se i fiori erano giallastri o comunque non di un<br />

bianco sorprendente nell’abitazione vicina sarebbe nato un figlio.<br />

Fiori piccoli indicavamo un anno di siccità e di scarso raccolto, il contrario,<br />

invece, se erano grossi.<br />

Biancospino. I moderni giardinieri gli stanno nuovamente rendendo giustizia<br />

perché il biancospino è una bella pianta con fiori caratteristici e dal profumo<br />

penetrante e bacche rosso corallo che rimangono fino al tardo inverno e sono<br />

appetite da tordele, cesene, merli, tordi, frosoni, ciuffolotti, capinere e passeri.<br />

Richiede solo pochi interventi di contenimento e nessun’altra cura.<br />

L’origine è suggestiva: sarebbe miracolosamente germogliata dal bastone<br />

piantato in Britannia da Giuseppe di Arimatea, l’unico nel Sinedrio a non aver<br />

votato per la condanna a morte di Gesù e che raccolse il sangue di Cristo in un<br />

calice utilizzato per l’Ultima Cena, il Santo Graal.<br />

Giunto in Inghilterra, Giuseppe piantò il suo bastone e accanto costruì una<br />

chiesa. Ogni anno il biancospino fioriva alla vigilia di Natale ed un ramo era<br />

portato al re d’Inghilterra.<br />

Nel 1649 l’arbusto venne sradicato dai seguaci di Cromwell.<br />

I Romani invece avevano consacrato la pianta a Maia, dea della castità, e<br />

quindi in maggio, mese a lei dedicato, erano sconsigliate le nozze. Qualora si<br />

fosse deciso diversamente occorreva bruciare cinque mazzi di biancospino per<br />

chiedere la grazia alla dea. Foglie e fiori in infuso sono indicati contro l’insonnia.<br />

521


Corniolo. <strong>Parti</strong>colarmente apprezzato fino alla metà del secolo scorso per i frutti<br />

dal sapore acidulo, oggi è usato, peraltro sempre più raramente, per siepi. Le<br />

bacche sono appetiti da tordi, merli ed altri volatili.<br />

Il legno duro ed il tronco rossiccio hanno dato origine a diverse leggende. Si<br />

racconta che la pianta, sacra ad Apollo, servisse ai Greci per costruire il cavallo di<br />

Troia.<br />

Secondo Virgilio, il colore rosso avrebbe origine dall’uccisione di Polidoro<br />

figlio di Priamo. Il giovane poco prima che Troia cadesse fu inviato dal padre, con<br />

un tesoro, presso Polinestore re della Tracia. Il sovrano, particolarmente avido,<br />

uccise il giovane per averne i suoi beni. Sulla tomba di Polidoro crebbero alcuni<br />

cornioli. Enea nel suo viaggio, giunto in Tracia tentò di strappare le piante,<br />

ignorando che fossero cresciute sulla tomba di Polidoro, per fare un sacrificio.<br />

La pianta cominciò a gemere :<br />

Non estraneo a te è il sangue che vedi non sgorga dal legno.<br />

Oh, fuggi terre crudeli, fuggi un avido lido<br />

Son Polidoro.<br />

Persiani prima, Greci e Romani poi, lo usarono per costruire aste di giavellotti.<br />

Scagliarne uno in territorio nemico significava per i Romani dichiarare guerra.<br />

Ciliegio selvatico. Il patrono di Monza, Gerardo Tintore, festeggiato il 6 giugno, è<br />

conosciuto anche come il Santo delle ciliegie e l’affresco di Bernardino Luini nel<br />

duomo della città lo ricorda insieme ai frutti.<br />

Era accaduto che San Gerardo volesse rimanere una notte di dicembre a<br />

pregare in duomo, ma i custodi non glielo volevano consentire. Allora, per<br />

convincerli, disse che all’indomani avrebbe donato a ciascuno di loro un cesto di<br />

ciliegie. Una promessa che parve assurda considerando la stagione.<br />

La mattina successiva però ciascun guardiano ricevette dal Santo un cestino<br />

ricolmo di frutti.<br />

In Giappone dove la pianta ha entusiasti estimatori, il fiore è ritenuto simbolo<br />

di Cortesia, Grazia e Moralità.<br />

Una delicata poesia così lo ricorda<br />

Cadono i fiori di ciliegio<br />

Sugli specchi d’acqua della risaia<br />

Stelle<br />

Al chiarore di una notte senza luna.<br />

La pianta, sarebbe giunta nel Lazio portata dalle milizie di Lucullo, nel primo<br />

secolo avanti Cristo, di ritorno dalla guerra nel Ponto. <strong>Parti</strong>colarmente frequentata<br />

da beccafichi, capinere, storni, merli, passeri ed altri uccelli, aveva, secondo gli<br />

antichi, virtù medicamentose.<br />

Per guarire l’ernia si spaccava in due un tronco di ciliegio e vi si faceva passare<br />

il malato quindi si ricongiungevano le due parti ricoprendole con concime per<br />

522


accelerarne la saldatura in modo che anche la guarigione fosse rapida. I medici<br />

della Scuola Salernitana lo apprezzavano<br />

La ciliegia assai purga il grave stomaco<br />

Ei i suoi noccioli scacciano la pietra<br />

Ed essa ancor fa nelle vene ottimo sangue.<br />

Ciliegio canino. Un tempo le drupe, grosse non più di un pisello, gialle quando<br />

sono ancora acerbe poi rosse ed infine, mature, nere, erano raccolte per fabbricare<br />

liquori ed i noccioli venivano utilizzati in profumeria. La pianta è frequentata da<br />

tordi, merli, codirossoni e capineri.<br />

Ginepro. Produce bacche gradite a molti volatili ed usate anche per render più<br />

saporose le carni o in farmacopea. Vengono anche utilizzate in miscele per cibare<br />

turdidi.<br />

Un tempo si era soliti, la sera di Natale, bruciare alcuni rami utilizzando poi la<br />

cenere sulle ferite. Le bacche contengono sostanze dilatatrici dei bronchi e sono<br />

anche utilizzate sulle ferite per ottenere una rapida cicatrizzazione. Sono inoltre<br />

usate per rendere ancor più aromatici alcuni distillati e liquori e fra questi il più<br />

noto è il gin.<br />

Il nome in greco significa “che respinge i pericoli” ed infatti rami di ginepro<br />

erano collocati davanti alle abitazioni per tener lontani gli spiriti malvagi. In<br />

alcune campagne della toscana era d’uso mettere un ramo di ginepro fuori dalla<br />

porta perché le streghe, prima di entrare, avrebbero contati gli aculei, ma alla fine<br />

si sarebbero sbagliate sul numero rinunciando quindi a superare la porta. .<br />

Rosa. E’ il fiore dei sospiri e dell’amore, il più usato nel suggestivo linguaggio di<br />

petali e colori. Fino al secolo scorso c’era un linguaggio, in cui ciascun tipo di<br />

fiore aveva un suo preciso significato. Le rose si sono poi moltiplicate ed oggi se<br />

ne contano centinaia di tipi.<br />

Nel limitato vocabolario antico se bianca significa silenzio, discrezione,<br />

innocenza, variegata amore tradito, borraccina bellezza capricciosa, canina,<br />

indipendenza e poesia, cappuccina, pompa e splendore, cannella maturità precoce,<br />

se originaria del Bengala, compostezza e misura.<br />

La rosa della Cina viene inviata per far nuovamente pace, qualora però si tratti<br />

di rosa doppia significa dispetto. Infine la rosa Tea vuol rimarcare la gentilezza<br />

dell’amata e la muschiata invita alla prudenza perché la bellezza è passeggera.<br />

Nei diversi tipi selvatici offre riparo ed occasione di cibo a numerosi volatili,<br />

sia granivori che insettivori che si cibano di farfalle ed altri minuscoli animali<br />

attratti dall’intenso profumo o per impollinare i fiori.<br />

La rosa canina è la più comune e con le congeneri divide la vita breve vivendo<br />

anche lei come scrisse Francoise de Malerbe in un verso oramai da tutti<br />

conosciuto e dedicato ad un amico a cui era morta la giovane figlia<br />

Rosa, ella ha vissuto ciò che vivono le rose,<br />

Lo spazio di un mattino.<br />

523


“La forma concentrica”, nota Cattabiani, “ha evocato anche l’idea della ruota,<br />

simbolo del tempo che scorre, dell’eterno ciclo vita-morte-vita. E non per caso<br />

l’oculo a raggiera aperto nelle facciate delle chiese medievali, che gli storici d’arte<br />

chiamano rosa o rosone, è detto propriamente rota”.<br />

In antico divenne anche simbolo di segretezza perché nasconde con i suoi<br />

petali l’interno del fiore tanto che sui confessionali era scolpita una rosa.<br />

In alcune locande erano dipinte sul soffitto delle rose ad indicar che quanto si<br />

diceva nella sala non doveva essere confidato.<br />

In un epigramma infatti è scritto<br />

Rosa, fiore di Venere, Eros ti donò ad Arpocrate<br />

Perché sia segreto ciò che la madre ordisce.<br />

Per questo l’oste la rosa sul tavolo appende<br />

Perché quel che sotto di essa è detto l’ospite saggio taccia.<br />

Le rose divennero anche simbolo delle fiammelle dello Spirito Santo come è<br />

scritto nel vangelo di Luca: “Apparvero loro lingue di fuoco che si dividevano e si<br />

posarono su ciascuno di loro ed essi furono pieni di Spirito Santo e cominciarono<br />

a parlare altre lingue come lo Spirito Santo dava loro il potere di esprimersi”.<br />

Fino alla seconda metà del secolo scorso a Pentecoste, chiamata anche “Pasqua<br />

rosa”, si portavano rose in chiesa e durante la processione si gettavano i petali<br />

dalle finestre.<br />

In antiche illustrazioni una rosa contiene il cuore di Gesù trafitto da una freccia<br />

e sormontato da un crocefisso. Un emblema che venne fatto proprio anche da<br />

Martin Lutrero il quale lo adottò come suo sigillo.<br />

Per i Greci era il fiore di Afrodite, dea dell’amore, e il mito ritorna nella tela<br />

del Botticelli, La Nascita di Venere in cui è dipinta la dea che sorge dal mare fra<br />

un nugolo di rose.<br />

Nel Medioevo e nei secoli seguenti la rosa assunse anche, relativamente<br />

all’amore, un significato meno platonico con le espressioni “cogliere la rosa”,<br />

“entrar nella rosa”, “strappare la rosellina”.<br />

Poliziano se ne fa interprete con una serie di maliziose allusioni.<br />

Quando la rosa ogni sua foglia spande<br />

Quando è più bella, quando è più gradita<br />

Allora è buona a mettere in ghirlande<br />

Prima che sua bellezza sia fuggita;<br />

sì che, fanciulle, mentre è più fiorita,<br />

cogliam la bella rosa del giardino.<br />

Il fiore divenne anche simbolo della Madonna nella rielaborazione dei<br />

significati della Natura fatta dal 1100 dai filosofi della scuola di Chartres. Così<br />

Madre natura di Bernardo Silvestre, Teodorico di Chartres e Guglielmo di<br />

Conches divenne la Madonna a cui le dee dell’Olimpo cedettero tutte le loro<br />

prerogative positive ed i loro simboli, dalla colomba alla conchiglia, dalle stelle<br />

524


del mattino a quelle della sera e persino le piante che erano proprie delle dee<br />

ebbero nomi che evocavano la Madonna. Ecco perché il manto di Venere<br />

(Pallium Veneris) divenne il mantello della Madonna, il Piede di Cipria, diventò<br />

la Pianella della Madonna il Capelvenere fu mutato in Capelli della Madonna e la<br />

rosa diventò il fiore di Maria.<br />

In onore della rosa, che nella simbologia rappresenta la Madonna, si recita il<br />

rosario che, alle origini, cioè nel 1100, conosciuto come Salterio Mariano, era la<br />

ripetizione per 150 volte del saluto dell’Angelo a Maria. Veniva recitato in<br />

particolare nelle comunità fondate da San Pietro da Verona .<br />

La denominazione di Rosario della beata Vergine (Rosarium significa rosaio. E<br />

pregare vuol quindi dire costruire un rosaio in onore della Vergine) cominciò ad<br />

entrare nell’uso verso il 1200. Furono i Frati Certosini di Treviri a dargli la<br />

struttura ancor oggi in vigore di 150 Ave Maria divise in 15 decine intercalate<br />

ciascuna dalla recita di un Pater Noster, di un Gloria e dalla meditazione di uno<br />

dei 15 misteri, gaudiosi, dolorosi e gloriosi della redenzione.<br />

I rosari, ispirati a corone di fiori, venivano fatti proprio con legno di rosa. Nel<br />

Paradiso di Dante i beati sono disposti in forma di rosa.<br />

In forma dunque di candida rosa<br />

Mi si mostrava la milizia santa<br />

Che nel suo sangue Cristo fece sposa.<br />

Agrifoglio. Acrifolium, cioè con foglia (folium) acuta (acer), dà il nome ad una<br />

delle più famose località nel mondo, Hollywood che significa letteralmente, bosco<br />

di agrifogli.<br />

E’ noto anche come Pungitopo maggiore (il vero pungitopo che sostituisce<br />

l’agrifoglio a cui somiglia) perché i suoi rami con le foglie spinose venivano<br />

utilizzati per proteggere le carni essiccate dai topi. Produce frutti velenosi per le<br />

persone, ma particolarmente appetiti dagli uccelli.<br />

Gli antichi sostenevano che mettendo a dimora una pianta vicino ad una casa si<br />

impetrava la buona sorte e si tenevano lontani i maligni e le streghe.<br />

In Inghilterra simboleggiò la Madonna e lo ricorda un’antica canzone.<br />

L’agrifoglio è germogliato<br />

Giglio bianco è il suo colore<br />

Da Maria Cristo è nato<br />

Egli è il nostro Salvatore<br />

Una bacca ci ha donato<br />

Rosso sangue è il suo colore<br />

Da Maria Cristo è nato<br />

Per guarire il peccatore.<br />

Frassino. Triste destino il suo. Un tempo era impugnato dagli eroi, ed Achille fu<br />

tra loro, come asta per la lancia ed attualmente è ritenuto pianta selvatica ed<br />

inutile. Tenuto in gran considerazione dagli antichi per la durezza del suo legno,<br />

venne in seguito usato per costruire alcuni oggetti da caccia e, dov’era cresciuto<br />

525


igoglioso, usato come pianta da “capanno”, su cui appendere gabbie con i<br />

richiami.<br />

Fu per i Nordici l’albero del mondo, con le fronde che toccavano il cielo e le<br />

tre radici che raggiungevano gli inferi. Una era nel regno degli dei, gli Asi, e<br />

nascondeva una sala in cui stavano tre fanciulle che donavano la vita agli uomini,<br />

ne condizionavano il destino e alimentavano l’albero.<br />

Un’altra giungeva fino alla terra dei giganti della brina proprio vicino alla<br />

sorgente della conoscenza e la terza infine era nel cielo, così ampia da esser sede<br />

del tribunale degli dei.<br />

Sacro a Poseidone, Dio dei terremoti, fu utilizzato da Giove, scrisse Esiodo, per<br />

creare una generazione di uomini durissimi<br />

E Zeus padre creò una terza stirpe di uomini mortali<br />

Di bronzo per niente simile a quella dell’argento<br />

Dal frassino spaventosa e violenta: a loro cari erano<br />

Le gesta funeste e i crimini di Ares, e non si cibavano<br />

Di pane, ma avevano un intrepido animo d’acciaio.<br />

Esiodo racconta poi che il frassino veniva utilizzato per fare i manici delle<br />

lance. Ne avevano una così Aiace Telamonio, sovrano di Salamina, e Achille.<br />

[Patroclo] prese due forti lance adatte alla sua mano<br />

Ma non prese l’asta dell’Eacide perfetto<br />

Grande, pesante, solida: nessuno dei Danai poteva<br />

Brandirla tranne Achille: frassino del Pelio<br />

Che Chitone donato aveva a suo padre.<br />

E proprio con questa asta Achille uccise Ettore in un duello epico che ha ancor<br />

oggi un fascino tremendo.<br />

Qui Achille glorioso lo colse con l’asta mentre infuriava<br />

Dritta corse la punta attraverso il morbido collo;<br />

ma il greve frassino non gli tagliò la strozza<br />

così che egli poteva parlare, scambiando parole.<br />

I Celti li consideravano magici e capaci di fare guarire chi avesse l’ernia. Poco<br />

prima del sorgere del sole la persona malata doveva passare attraverso la fenditura<br />

di un vecchio frassino accanto all’incisione praticata in un tronco giovane. Si<br />

chiudeva poi la ferita con argilla e la si legava. Se l’albero guariva anche il malato<br />

sarebbe tornato sano. I familiari del malato però dovevano vegliare la pianta:<br />

qualora fosse stata abbattuta il loro congiunto sarebbe morto per l’aggravarsi della<br />

malattia.<br />

Nell’alfabeto arboreo celtico, indica il mese che precede l’equinozio di<br />

primavera, cioè marzo, ed in Francia fino al secolo scorso si accendeva il primo<br />

fuoco di primavera con legno di frassino convinti che propiziasse le piogge.<br />

526


Per gli antichi le foglie costituivano un efficace rimedio contro il morso dei<br />

serpenti.<br />

Secondo Plinio il Vecchio, i frassini avevano un potere tale che “i serpenti non<br />

ne sfiorano l’ombra, neppure al mattino o al tramonto, quando essa è più lunga, e<br />

ne fuggono lontano. Possiamo affermare, avendone fatto esperienza, che se si<br />

forma con rami di frassino un cerchio entro il quale si chiudano un fuoco acceso e<br />

un serpente, quest’ultimo si getterà nelle fiamme piuttosto che cercare scampo fra<br />

i rami del frassino”.<br />

Quercia. La sua imponenza, le chiome folte, hanno da sempre attratto numerosi<br />

volatili. Per i Romani era il simbolo della forza tanto che robur in latino significa<br />

non soltanto vigore ma anche la pianta che nella classificazione è chiamata<br />

Quercus robur.<br />

Alla medesima famiglia appartengono il Rovere (Quercus petraia), il Cerro<br />

(Quercus cerris) tutte a foglie caduche mentre il leccio (Quercus ilex), il sughero<br />

(Quercus suber) e il fragno (Quercus macedonia) sono sempreverdi.<br />

Producono ghiande che furono cibo fino al secolo scorso: macinate<br />

diventavano farina per il pane.<br />

Tale alimento contiene 18% di acqua,13% di cellulosa, 22% di sostanze<br />

amidacee, l8% di zuccheri, il 14% di sostanze azotate, il 15% di minerali.<br />

Sostanze presenti nella farina di ghiande della quercia<br />

Elementi %<br />

Acqua 18%<br />

Cellulosa 13%<br />

Sostanze amidacee 22%<br />

Zuccheri 18%<br />

Sostanze aoztate 14%<br />

Minerali 15%<br />

La quercia proprio perché alta consente una diffusa illuminazione del suolo, le<br />

foglie marciscono in fretta e accanto a lei crescono altri alberi fra cui noccioli e<br />

frassini.<br />

Secondo gli antichi erano abitate da ninfe chiamate Deiadi ed Amadriadi. Le<br />

prime, se la pianta veniva abbattuta, potevano allontanarsi, le altre no. Ecco<br />

perché i boscaioli prima di tagliare un tronco chiamavano i sacerdoti affinché<br />

propiziassero l’abbandono da parte delle Deiadi. Le Amadriadi invece morivano<br />

con la pianta. Ronsard riprendendo questa credenza scrive<br />

Ascolta boscaiolo, ferma il braccio<br />

Legno solo non è quello che abbatti<br />

Non vedi il sangue sgorgare dalle ninfe<br />

che vivono nei tronchi dalla dura scorza<br />

I Romani le consideravano sacre ed una corona di foglie di quercia cingeva la<br />

fronte dei generali vincitori o di soldati particolarmente valorosi.<br />

527


Secondo Plinio infatti aveva diritto ad una corona di foglie di quercia chi aveva<br />

“salvato la vita di un cittadino, ucciso un nemico, compiuto l’azione in un luogo<br />

che quel giorno era occupato dal nemico. Chi aveva meritato la corona la portava<br />

per sempre: se entrava in un teatro il pubblico, appena lo vedeva si alzava in piedi<br />

in segno di omaggio”.<br />

Singolare il “destino” della pianta per i Cristiani. I primi evangelizzatori<br />

nell’Europa centrale, san Bonifacio e san Martino, fecero sradicare interi boschi di<br />

querce perché venerate dai “pagani”, ma nel 1400 la Madonna cominciò ad<br />

apparire su querce al punto che, vicino a Viterbo, si trova il santuario della<br />

Madonna della Quercia ispirato da un’icona di Maria.<br />

Olivo. E’ la pianta della pace e della serenità, di una composta bellezza e<br />

dell’invito a tutti a guardare ogni altra persona come un amico. Gli antichi ne<br />

tagliavano rami, all’inizio della primavera, per portarli in processioni in segno di<br />

festa per la ritrovata primavera. Consideravano l’olio un alimento prezioso e dai<br />

significati sacri.<br />

Le caratteristiche della pianta, su cui peraltro è vietato sparare, apprezzate dai<br />

volatili, sono fin troppo note. Nei giorni di maturazione dei frutti gli oliveti sono<br />

frequentati non solo da merli e tordi, ma anche da storni e numerosi altri volatili.<br />

L’olivo originario dell’Asia minore fu diffuso in Grecia da Eracle Dattilo che<br />

istitituì le Olimpiadi in onore del padre Zeus.<br />

Dalla settima olimpiade i vincitori cingevano una corona di rami di olivo<br />

tagliati con una falce d’oro.<br />

Il ramo di olivo è considerato da Cristiani, Ebrei e Mussulmani simbolo di pace<br />

e di rigenerazione. Noé, quando l’arca si posò sul monte Ararat, segno che le<br />

acque si stavano ritirando dalla terraferma, lasciò liberi una colomba ed un corvo.<br />

Tornarono quasi subito perché non avevano trovato dove posarsi senza pericoli di<br />

morire per annegamento.<br />

Dopo sette giorni liberò una colomba che rientrò con un ramo di olivo.<br />

Trascorsi altri sette giorni la liberò nuovamente e non tornò più, segno che le<br />

acque si erano ritirate lasciando il posto alla terra.<br />

Il ramo di olivo simboleggia anche Cristo che si è sacrificato per salvare gli<br />

uomini, ecco perché nella Domenica delle Palme, che precede la Pasqua,<br />

sostituisce una foglia di palma.<br />

Molti pittori senesi, nelle loro tele che ricordano l’Annunciazione, utilizzano<br />

l’olivo come ramoscello in mano all’angelo in sostituzione del giglio. Fra i più<br />

noti Simone Martini (Uffizi, Firenze), Taddeo, Bartolo e Francesco Di Giorgio<br />

(Pinacoteca di Siena).<br />

Alcuni Santi sono raffigurati con accanto l’olivo o viene loro attribuito.<br />

Bernardo Tolomei è il fondatore del convento di Monte Oliveto e dell’Ordine<br />

degli Olivetani.<br />

Un’antica cerimonia, oramai dimenticata, era chiamata “Delle croci di<br />

maggio”. I Contadini in processione portavano una croce fatta con rami di olivo<br />

piantandola poi in un campo per chiedere abbondanza di raccolti.<br />

528


Il mercoledì delle ceneri il sacerdote traccia una croce sulla fronte del fedele<br />

con cenere di un ramo di olivo e dice le parole: “Memento homo quia pulvis eris<br />

et in pulverem reverteris”.<br />

Anche nel Corano l’olivo ha un importante significato.<br />

Nella Sura della Luce Maometto dice: “Dio è la luce dei cieli e della terra. La<br />

sua luce è come quella di una lampada, collocata in una nicchia entro un vaso di<br />

cristallo simile a una scintillante stella, e accesa grazie a un albero benedetto, un<br />

olivo che non sta a oriente né a occidente, il cui olio illuminerebbe anche se non<br />

toccasse fuoco. E’ luce su luce. E alla sua luce Iddio guida chi vuole. Così Iddio,<br />

che sa ogni cosa, propone similitudini agli uomini”.<br />

La nicchia secondo un’interpretazione, sarebbe la sensibilità umana, la<br />

lampada lo spirito profetico, il fuoco quello divino.<br />

Dio solo è luce.<br />

Dalle olive si ricava l’olio sacro rigenerante e, ricorda l’Antico Testamento, era<br />

utilizzato per consacrare re e sacerdoti.<br />

L’angelo appare a Samuele e gli ordina di andare nella casa di Jesse a<br />

consacrare il futuro re e sacerdote di Israele.<br />

Dice: “Allora io ti dirò quello che dovrai fare e tu ungerai chi ti dirò”.<br />

Appena compare Davide il Signore ordina a Samuele “Alzati e ungilo: è lui”;<br />

in tutto l’Antico Testamento l’unzione introduce alla sfera divina, simboleggia la<br />

presenza del Signore.<br />

Giacobbe, al quale il Signore è apparso durante il sonno, spande l’olio sulla<br />

pietra che gli è servita come guanciale per testimoniare la presenza di Dio”.<br />

(Cattabiani).<br />

L’unto per eccellenza per i Cristiano è il Messia, Christòs in Greco. “Dio, il tuo<br />

Dio”, è scritto nel salmo 44, “ti ha consacrato con olio di letizia”.<br />

Il sacerdote nel battesimo unge con l’olio dei catecumeni ed indica la<br />

liberazione dal peccato originale. Il vescovo unge con un olio particolare detto<br />

crisma, perché mescolato a profumi, il cresimando.<br />

Infine si somministra olio benedetto (estrema unzione) agli infermi .<br />

Gabriele d’Annunzio così ricorda l’olivo.<br />

Laudato sia l’ulivo nel mattino<br />

Una ghirlanda semplice, una bianca<br />

Tunica, una preghiera armoniosa<br />

A noi son festa.<br />

Chiaro e leggero è l’arbore nell’aria<br />

E perché l’imo cor la sua bellezza<br />

Ci tocchi, tu non sai,noi non sappiamo,<br />

non sa l’ulivo.<br />

Esili foglie, magri rami,cavo<br />

Tronco, distorte barbe, piccol frutto,<br />

ecco, e un nome ineffabile risplende<br />

nel suo pallore.<br />

529


Vite. La vite ha una simbologia profonda ed è una delle piante preferite dagli<br />

uccelli. Gli antichi la adoravano convinti fosse una dea e addirittura il simbolo<br />

dell’esistenza. I Sumeri la chiamavano l’Erba della vita e adoravano una dea<br />

chiamata Madre Vite.<br />

Gli Arabi facevano sacrifici al dio della vite e gli Ittiti pregavano una divinità<br />

che reggeva in una mano un grappolo d’uva.<br />

Secondo l’Antico testamento Mosè, appena uscito dall’arca, piantò una vite che<br />

germogliò.<br />

Nell’Antico Testamento la vigna messa a dimora simboleggia il popolo di<br />

Israele che il Signore ha piantato e dai cui attende buoni frutti.<br />

Nel Nuovo Testamento Gesù si definisce vite e nell’Ultima Cena dice agli<br />

Apostoli “Io sono la vera vita e il Padre mio è il vignaiolo. Ogni tralcio che in me<br />

non porta frutto lo toglie e ogni tralcio che porta frutto lo pota, perché porti più<br />

frutto. Come il tralcio non può far frutto di se stesso se non rimane nella vite, così<br />

anche voi se non rimanete in me.<br />

Io sono la vite, voi i tralci.<br />

Chi rimane in me e io in lui fa molto frutto perché senza di me non potete far<br />

nulla.<br />

Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi lo<br />

raccolgono e lo gettano nel fuoco e lo bruciano.<br />

Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi chiedete quel che volete e<br />

vi sarà dato.<br />

In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molti frutti e diventiate miei<br />

discepoli”.<br />

Il vino simboleggia il sangue di Cristo ed è suggestivo rileggere nel Vangelo di<br />

Luca l’istituzione dell’Eucarestia .<br />

“Quando fu l’ora prese il posto a tavola e gli apostoli con lui, e disse: Ho<br />

desiderato ardentemente mangiare questa Pasqua con voi prima della mia<br />

passione, perché vi dico: non mangerò più finché essa non si compia nel regno di<br />

Dio”<br />

E preso un calice rese grazie e disse ‘Prendetelo e distribuitelo tra voi perché vi<br />

dico: da questo momento non berrò più del frutto della vite, finché non venga il<br />

regno di Dio”.<br />

Poi preso un pane , rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo “Questo è il<br />

mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me”.<br />

Allo stesso modo dopo aver cenato, prese il calice dicendo “Questo calice è la<br />

nuova alleanza nel mio sangue, che viene versato per voi”.<br />

Edera. E’ particolarmente apprezzata dai volatili fra cui tordi, merli, capinere, che<br />

si nutrono delle sue bacche. Era considerata sacra dagli antichi e cara a Bacco,<br />

insieme alla vite, ed il dio ne portava il nome, Kissos, a ricordo d’esser stato<br />

salvato da lei mentre le fiamme stavano distruggendo la casa in cui era appena<br />

nato.<br />

530


Walter Friedrich Otto, dopo una serie di difficili ricerche, ha dato una<br />

spiegazione suggestiva del perché le due piante, così diverse, siano consacrate alla<br />

medesima divinità.<br />

“La vite e l’edera sono sorelle e pur essendo sviluppate in direzioni opposte<br />

non possono celare la loro parentela. Entrambe portano a termine una<br />

meravigliosa metamorfosi. Nella stagione fredda la vite giace morta e nella sua<br />

rigidità somiglia ad un inutile tronco fino a quando, sotto il rinnovato calore del<br />

sole,sprigiona un rigoglioso verdeggiare e un incomparabile succo infuocato.<br />

Non meno sorprendente è quanto accade all’edera: la sua crescita mostra un<br />

dualismo che può benissimo ricordare la doppia natura di Dioniso.<br />

Dapprima essa produce i cosiddetti germogli ombrosi, i tralci rampicanti con le<br />

ben note foglie lobate. Più tardi però appaiono i germogli luminosi che crescono<br />

dritti, le cui foglie hanno una forma affatto diversa, ed a questo punto la pianta<br />

produce anche fiori e frutti.<br />

Il suo fiorire e il suo ricoprirsi di frutti stanno peraltro in un singolare rapporto<br />

di corrispondenza e di opposizione rispetto alla vite. L’edera fiorisce infatti in<br />

autunno quando per la vite è tempo di vendemmia e produce frutti in primavera.<br />

Tra i suoi fiori e i suoi frutti sta il tempo dell’epifania dionisiaca nei mesi<br />

invernali.”<br />

Vite ed edera sono inoltre simili perché “la loro affinità è radicata nell’essenza<br />

stessa del dio dalla duplice figura: luce ed oscurità, calore e freddezza,ebbrezza di<br />

vita e soffio di morte che tutto inaridisce”.<br />

L’edera infatti ha una particolare simbologia della vita nel sua manifestazione<br />

meno calorosa, simile a quella che si trova nel serpente che è un simbolo di<br />

Dioniso, e sangue freddo all’opposto del sangue del caprone e del toro.<br />

E’ considerata anche la pianta della passione che induce ad un abbraccio eterno<br />

simile a quello che costringe la pianta ad avvinghiarsi al tronco. Per gli antichi<br />

una corona d’edera allontana gli effetti del troppo vino. Utilizzata anche come<br />

decorazione, veniva appesa sulle case, in particolare nei Paesi nordici, perché si<br />

credeva allontanasse i folletti e, in Scozia, proteggesse le vacche da latte.<br />

Fico. Albero particolarmente importante un tempo per il cacciatore che vi si<br />

appostava nelle vicinanze in attesa di merli, storni, rigogoli, beccafichi ed altri<br />

minuscoli volatili oggi in gran parte protetti dalla legge, ha origini antichissime e<br />

fu a lungo oggetto di riti perché ritenuto salvifico e simbolo della Resurrezione.<br />

Secondo alcuni l’albero indicato nella Genesi, e da cui Eva prese il frutto<br />

proibito, era proprio un fico. La spessa specie quindi di quello a cui si sarebbe<br />

impiccato Giuda Iscariota dopo aver tradito Gesù.<br />

Sarebbe stato creato da Gea, la dea della terra che trasformò in albero il figlio<br />

Sykeos (sykè in greco significa fico) inseguito da Giove che voleva ucciderlo.<br />

Secondo Pausania, invece (cfr. Guida della Grecia), la dea Demetra, ospitata in<br />

una casa vicino ad Eleusi, donò la pianta in segno di gratitudine.<br />

Qui il sovrano eroe, Fitalo, accolse un tempo la veneranda<br />

Demetra quando per la prima volta ella mostrò<br />

531


Quel frutto dell’estate avanzata<br />

Che il genere dei mortali chiama sacro fico<br />

E da allora onori che non invecchiano toccarono alla stirpe di Fitalo<br />

Sempre la fantasia popolare ha avvicinato il fico alla sessualità: nel frutto i<br />

Greci vedevano l’immagine dello scroto e del monte di Venere e l’atto offensivo<br />

di fare le fiche, cioè chiudere il pollice fra indice e medio e mostrarlo al<br />

contendente, fa parte di questo simbolismo. Lo stesso Dante gli fa riferimento<br />

nell’Inferno<br />

Alla fine de le su parole il ladro<br />

Alzò mostrando amendue le fiche<br />

Gridando “togli, Dio, ch’a te le squadro.<br />

Nelle Falloforie, processioni in cui si celebrava Dioniso e si chiedeva che<br />

donasse fertilità alla natura, veniva esposto un grosso fallo intagliato nel legno di<br />

fico.<br />

La parola sicofante (etimologicamente significa “rivelatore del fico”), che nel<br />

nostro linguaggio è passato ad indicare per estensione un calunniatore ed una spia,<br />

deriva proprio da “fico” ed era colui che denunciava chi rubava i frutti considerati,<br />

nell’antichità, particolarmente preziosi. In Grecia i libri giudicati dannosi<br />

venivano bruciati in roghi fatti con rami di fico, mentre a Roma, con simili roghi,<br />

venivano inceneriti i mostri.<br />

Il caprifico, cioè il fico selvatico, era ritenuto in Grecia dannoso e inutile. A<br />

Roma era considerato sacro e utilizzato, come accade ancor oggi in alcune zone<br />

del Meridione, per fecondare le piante di fico domestico.<br />

Un imenottero, il Blastophaga psenes, è attratto dal caprifico. In maggio e<br />

giugno venivano appesi alcuni rami di caprifico alla pianta di fico domestico: gli<br />

insetti impollinavano quindi anche i fiori di quest’ ultimo. Secondo Plutarco il<br />

cesto in cui erano stati posti Romolo e Remo figli di Rea Silvia, la vestale, si<br />

arenò accanto ad un albero di fico selvatico. Il luogo fu consacrato a Rumina, dea<br />

dell’allattamento, e l’albero venne denominato ficus ruminalis.<br />

La pianta accanto, a cui si era arenato il cestino, era accudita da sacerdoti e<br />

quando dava segno di malattia o vecchiaia era subito sostituita perché si riteneva<br />

che, se fosse seccata, Roma avrebbe subito gravi disgrazie.<br />

Gli Egiziani consideravano il fico albero della vita affermando che gli dei se<br />

ne cibavano.<br />

Il frutto di Eva. Il frutto proibito sarebbe un fico e non una mela come invece era<br />

credenza comune nel Medioevo. Secondo la Genesi il fico sarebbe proprio<br />

l’albero proibito da cui Eva prese il frutto.<br />

“Il serpente era la più astuta di tutte le bestie selvatiche create dal Signore. Egli<br />

disse alla donna ‘E’ vero che Dio ha detto: non dovete mangiare nessun albero del<br />

giardino?’<br />

532


Rispose la donna al serpente: ‘dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo<br />

mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto ‘Non<br />

ne dovete mangiare e non lo dovete toccare altrimenti morirete’.<br />

Ma il serpente disse alla donna ‘Non morirete affatto. Anzi, Dio sa che se voi<br />

ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il<br />

bene e il male.’ La donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli<br />

occhi e desiderabile per acquisire saggezza, prese del suo frutto e ne mangiò, poi<br />

ne diede anche al marito che era con lei e anch’egli ne mangiò. Allora si aprirono<br />

gli occhi di entrambi e si accorsero di essere nudi: intrecciarono foglie di fico e ne<br />

fecero cinture”.<br />

Numerosi i modi di dire ispirati dal fico.<br />

“Oggi fico è diventato nel gergo giovanile sinonimo di ragazzo bello, forse con<br />

una trasposizione al maschile di un complimento volgare che si esprime<br />

sull’avvenenza di una donna” (Cattabiani). In Toscana dire “Non fare tanti fichi”<br />

significa invitare una persona alla serietà e smetterla di essere lezioso. “Attaccare<br />

il collare al fico” significa spretarsi efa riferimento al tempo in cui i preti avevano<br />

un collare di plastica bianco. “Far fico” significa impresa fallita. Per indicare una<br />

cosa per noi irrilevante si dice “non m’importa un fico”. “Celebrar le nozze coi<br />

fichi secchi” vuol signifcare sminuire un avvenimento importante.<br />

Castagno. Il nome deriva da Castanis, l’antica città dell’attuale Iran, dove<br />

cresceva rigoglioso ed i suoi frutti furono tanto apprezzati da essere definiti “le<br />

ghiande di Zeus”. Scarsamente considerate da Plinio il Vecchio (“Esse sono<br />

protette da una cupola irta di spine, ed è veramente strano che siano di così scarso<br />

valore dei frutti che la natura ha con tanto zelo occultato”), erano cotte nelle<br />

minestre proprio come fossero un legume.<br />

Furono così descritte da Bovesin de la Riva: “Appaiono poi le castagne quelle<br />

comuni e quelle nobili vendute per l’intero corso dell’anno in quantità<br />

immensamente abbondante tanto ai cittadini quanto ai forestieri. Cucinate in<br />

diverse maniere esse rifocillano abbondantemente le nostre famiglie. Si fanno<br />

cuocere verdi sul fuoco e si mangiano dopo altri cibi al posto dei datteri”.<br />

Tali frutti erano creduti anche il cibo dei morti, ecco perché, fino ad alcuni<br />

decenni or sono proprio, nei giorni dei defunti, i ragazzi avevano al collo corone<br />

di castagne infilzate in filo da cucire.<br />

A Marsiglia un’antica credenza raccomanda di metterne alcune nel letto per<br />

tener lontani gli spiriti. In Piemonte venivano mangiate nei giorni dei morti e per<br />

san Martino ed un proverbio lo ricorda: “Oca, castagne e vino, tieni tutto per san<br />

Martino”. In Brianza si mangiavano sia per la ricorrenza dei defunti che nella<br />

Festa della Giubianna del giovedì grasso.<br />

Erano vendute sin dall’antichità dagli ambulanti. Una scritta del 1500 ricorda<br />

alcuni cartelli appesi dai venditori ai loro carretti ed altro non erano se non i nostri<br />

attuali slogan pubblicitari:<br />

Maron francesi delicati e buoni<br />

Mangiarli dopo il pranzo sono buoni<br />

533


Ecco castagne arrosto cotte adesso<br />

Chi le vuol calde mandi presto il messo.<br />

E di giorno e di notte vado e torno<br />

Vendendo castagne cotte al forno.<br />

Chi vuol mangiare dopo il pasto marroni<br />

Mangi dei miei che son tutti buoni.<br />

Le castagne, proprio perché di uso comune e quindi da tutti conosciute, hanno<br />

dato origine anche a diversi proverbi e modi di dire.<br />

“Prender in castagna” significa cogliere in fallo, “Cavar le castagne dal fuoco<br />

con le zampe del gatto” indica esporre altri al rischio. La “castagna” di un<br />

pugilatore può mettere k.o. l’avversario. Infine per “castagnola” si indica un<br />

petardo.<br />

Marrone è una castagna particolare, schiacciata da una parte perché nel riccio<br />

ce n’è una sola. Ha dato anche il nome al colore che ne imita la tinta del guscio<br />

ed origine ad alcuni modi di dire: “smarronare” significa far errori, “marronata” è<br />

un errore.<br />

Così Giovanni Pascoli in una poesia poco nota celebra l’albero.<br />

Per te i tuguri sentono il tumulto<br />

Or del paiolo che inquieto oscilla<br />

Per te la fiamma sotto quel singulto<br />

Crepita e brilla<br />

Tu, pio castagno, solo che tu, l’assai<br />

Doni al villano che non ha che il sole<br />

Tu solo il chicco, il buon di più, tu dai<br />

Alla tua prole<br />

Ha da te la sua bruna vaccherella<br />

Tiepido il letto e non desìa la stoppia<br />

Ha da te l’avo tremulo la bella<br />

Fiamma che scoppia.<br />

Scoppia con gioia stridula la scorza<br />

De rami tuoi co’ frutti tuoi la grata<br />

Pentola brontola. Il vento fa forza<br />

Nell’impannata.<br />

Cipresso. E’ il rifugio di molti volatili, dal passero al cardellino, al verzellino ed<br />

al verdone, che a primavera lo prediligono per costruirvi il nido e, durante<br />

l’inverno, per andarvi a dormire.<br />

E’ considerato, ad eccezione della Toscana e del Veneto, un albero proprio dei<br />

cimiteri per la compostezza della sua chioma, il costante verde cupo e la solennità<br />

del profilo che pare una colonna che si innalza verso il cielo. I versi di Giosuè<br />

Carducci, studiati da tutti, lo ricordano così<br />

534


I cipressi che a Bolgheri alti e schietti<br />

Van da San Guido in duplice filar<br />

Quasi in corsa giganti giovinetti<br />

Mi balzarono incontro e mi guardar.<br />

Ed il Foscolo fa riferimento al triste simbolismo<br />

All’ombra dè cipressi e dentro l’urne<br />

Confortate di pianto, è forse il sonno<br />

Della morte men duro?<br />

Nel Medio Oriente era simbolo di amante, mentre per i Persiani simboleggiava<br />

il fuoco proprio per la sua forma che somiglia ad una fiamma verso il cielo. Un<br />

tempo la tintura di cipresso era usata come infuso per guarire da flebiti e varici e<br />

l’essenza dei rami per fare uno sciroppo contro la tosse.<br />

La pianta, scrive Ovidio nelle Metamorfosi, sarebbe in realtà un giovinetto,<br />

Ciparisso, che viveva in compagnia di un cervo dalle corna d’oro, domestico e<br />

benvoluto da tutti. Un giorno il giovane mentre si divertiva con un giavellotto,<br />

colpì a morte, inavvertitamente, l’animale. Disperato voleva uccidersi e chiese ad<br />

Apollo di farlo morire.<br />

Il dio lo trasformò invece in un cipresso.<br />

Ed ecco le sue membra ormai esangui per gli infiniti gemiti<br />

A tingersi cominciarono di verde<br />

Ei i capelli che spiovevano sulla nivea fronte<br />

Si tramutarono in ispida chioma<br />

Che irrigidita svetta con gracile cima<br />

Verso stellato cielo.<br />

Salice. Pianta un tempo diffusissima, proprio per l’uso dei suoi rami (vimini), in<br />

agricoltura e per costruire cesti ed altri oggetti, è da sempre il simbolo della<br />

tristezza e del dolore senza fine tanto che si dice di persona che soffre: “Sembra<br />

un salice piangente”. Vi si rifugiano molti tipi di uccelli e alcuni passeriformi lo<br />

prediligono per farvi il nido.<br />

Conosciuta fin dall’antichità, era nota anche ad Omero il quale la ricorda nel<br />

saluto e nelle ultime raccomandazioni di Circe ad Ulisse che si avvia verso il<br />

mondo dei morti.<br />

E quando con essa (la nave) l’Oceano avrai attraversato<br />

Ecco la costa bassa e le selve di Persefone<br />

Ecco gli alti neri pioppi e i salici che perdono i frutti.<br />

L’ultimo verso fa riferimento alla credenza secondo cui i salici non portavano<br />

mai a maturazione il frutto che altro non è se non una capsula che contiene alcuni<br />

semi. In realtà la maturazione è rapidissima. L’albero quindi, secondo i Greci,<br />

535


proprio per questa sua particolarità simboleggia la terra che in un ciclo perpetuo<br />

dà la vita e se la riprende.<br />

Plinio il Vecchio a questo proposito scrive: “Improvvisamente il salice perde il<br />

suo seme ancor prima che questo abbia raggiunto una qualche maturità. Perciò<br />

Omero lo chiama il distruttore del frutto”. E proprio questa credenza fece sì che il<br />

salice fosse anche considerato simbolo di carestia raffigurata in una “donna<br />

macilenta e mal vestita, nella destra mano tenga un ramo di salice, nella sinistra<br />

una pietra pomice, e a canto haverà una vacca magra” (Cesare Ripa, Iconologia).<br />

In Grecia l’albero era sacro alla dea Luna anche perché cresceva in prossimità<br />

dell’acqua e sui suoi rami costruivano il nido i torcicollo, volatili prediletti dalla<br />

dea. Presso i Celti i sacrifici umani venivano fatti dai sacerdoti in cesti di vimini .<br />

Proprio perché dedicato alla luna, fu anche considerato l’albero delle streghe.<br />

In Inghilterra ancor oggi è comune sentir dire che la scopa della strega è costruita<br />

con un manico di frassino, alcuni rami di betulla e legacci di salice<br />

I Romani lo chiamavano Vimen viminis e ne utilizzavano i rametti per costruire<br />

cesti e panieri o lacci. Molti i luoghi dove la pianta era coltivata ed ancor oggi il<br />

Viminale a Roma ricorda l’uso di quei luoghi.<br />

Secondo Plinio le foglie, “triturate finemente e assunte in pozione, contengono<br />

l’intemperanza erotica, ma se prese troppo spesso, sopprimono il desiderio<br />

sessuale”.<br />

Un tempo il salice veniva usato in medicina per curare le febbri da umidità e<br />

contro i reumatismi. Le foglie infatti contengono la salicina che attualmente è<br />

costituita dall’acido acetilsalicilico che costituisce l’aspirina.<br />

Pino. Preferito da molti uccelli per nidificare, e fra questi cardellini, verzellini,<br />

fringuelli e verdoni, suscita, per la sua caratteristica di albero sempreverde,<br />

immagini di tranquillità.<br />

Gli antichi, che lo avevano consacrato a Rea, la Grande Madre, lo credevano la<br />

ninfa Pitis trasformata in albero per fuggire al dio Pan che la stava corteggiando.<br />

Secondo un’altra leggenda invece Pitis era contesta fra Pan e Borea, vento del<br />

nord, e preferì il primo. Borea allora la sospinse verso un precipizio, ma proprio<br />

mentre Pitis stava cadendo, Rea la trasformò in albero ed il dio Pan per esserle<br />

vicino si adornò la fronte con un a corona di suoi rami. Ecco perché, proprio<br />

quando soffia Borea, cioè nell’inverno e scuote i rami, le pigne cominciano a<br />

“distillare”, come fosse un pianto, lacrime di incenso.<br />

I Romani celebravano dal 15 al 28 marzo feste in onore di Cibele e Attis che<br />

avrebbero dato origine, secondo un’altra versione mitologica piuttosto complicata,<br />

al pino.<br />

I Greci ritenevano la pianta sacra e degna di vincitori tant’è che consegnavano<br />

una corona di fronde di Pino ai trionfatori dei “giochi istimici” che si svolgevano<br />

ogni quattro anni.<br />

Plinio il Vecchio ricorda il Pino per alcune sue caratteristiche: “Tuttavia<br />

l’albero che desta più stupore è il pino: reca contemporaneamente un frutto in via<br />

di maturazione, uno che arriverà ad essere maturo l’anno seguente e uno che lo<br />

sarà dopo due anni. Nessun altro albero è così inesauribilmente generoso: nel<br />

mese stesso in cui si raccoglie una pigna un’altra viene maturando; c’è una sorta<br />

536


di distribuzione regolata in modo che tutti i mesi vi siano pigne in via di<br />

maturazione”.<br />

Dal pino si ottiene la resina (rasa, in sanscrito significa frutto) che esce<br />

naturalmente dal legno per essudazione. Per ottenerne in grande quantità occorre<br />

praticare nel tronco un’incisione, profonda circa un centimetro e larga dieci, che<br />

resta aperta da marzo a ottobre e da cui la resina esce abbondante.<br />

Un tempo serviva per produrre la trementina, la pece molle mediante<br />

riscaldamento e la pece dura per distillazione, usata per incatramare le navi, ma<br />

anche a scopo medicamentoso ed in particolare per guarire dal catarro e chiudere<br />

le piaghe provocate da alcuni serpenti non velenosi.<br />

In Grecia veniva aggiunta, come accade ancor oggi, al vino.<br />

In Germania si usa la cosiddetta “lana della foresta”: non sono altro che aghi di<br />

pino bolliti e posti nei materassai di persone che soffrono di reumatismi.<br />

Considerato per lungo tempo albero dei pagani, venne in seguito rivalutato.<br />

Una leggenda racconta che Abramo camminava lungo il Giordano quando vide<br />

un pastore che si rammaricò con lui per un grave peccato. In segno di espiazione<br />

gli ordinò di piantare tre tizzoni e d’annaffiarli tutti i giorni. Dopo quaranta giorni<br />

i tre pezzi di legno erano germogliati diventando un cipresso, un cedro ed un pino.<br />

Quest’ultimo era simbolo del Padre, il cipresso del Figlio e il rimanente dello<br />

Spirito Santo.<br />

Un’altra leggenda racconta che “il pino si tiene in molta stima perché fornisce<br />

l’incenso per le funzioni religiose e richiama Gesù Bambino. Raccogli una pigna,<br />

sgusciane il frutto, tagliane verticalmente il gheriglio. Se tu vi guardi bene dentro<br />

vedrai qualche cosa che somiglia a una mano, è quella del Bambino in atto di<br />

benedire. E’ da sapere che nella fuga in Egitto la sacra Famiglia non avendo di<br />

che adagiarsi, incontrò per via un lupino e vi si accostò. A quei tempi il lupino,<br />

come il tameriggio, era un bell’albero e squisito assai.<br />

Il lupino egoista si rifiutò di accogliere sotto di se i poveri fuggitivi e strinse e<br />

raccolse i suoi larghi rami, sicché essi rimasero allo scoperto e dovettero<br />

proseguire, tra la stanchezza e il panico, il doloroso viaggio, ma visto indi a non<br />

molto un pino e sotto di esso ricoveratisi, il pino allargò i suoi bei rami ed<br />

amorosamente nascose nel suo frutto il Bambino.<br />

Da quel giorno in poi ebbe il favore della mano del Bambinello e prosperò<br />

sempre, e il lupino maledetto fu condannato a non sollevarsi una spanna sulla terra<br />

e il suo frutto ad essere amaro quale oggi si trova” (Angelo de Gubernatis).<br />

Pioppo. Ha sempre un aspetto provvisorio anche quand’è immenso e si porta<br />

addosso decine e decine d’anni. Perché siamo abituati al pioppo come albero che<br />

viene coltivato per produrre carta. Così pare un “oggetto” d’uso, niente di più, che<br />

cresce in boschi più simili ad orti e campi coltivati che selve. E’ preferito da molti<br />

volatili, fra cui cornacchie, gazze, averle, verdoni, cardellini e fringuelli, che<br />

fanno il nido fra i suoi rami.<br />

Ci fu un tempo che ognuno dei tre primitivi tipi di pioppo (nero, bianco,<br />

tremulo) aveva le sue leggende e le sue particolarità, i suoi estimatori ed anche i<br />

riferimenti al sacro.<br />

537


Il primo fu testimone del lungo viaggio di Ulisse nel mondo dei morti. L’eroe<br />

raggiunge ed attraversa il bosco di Persefone formato da salici e pioppi neri. I due<br />

alberi infatti sono spesso ricordati come silenziosi compagni dei defunti e non<br />

raramente compaiono vicini nei cimiteri.<br />

Secondo la mitologia, il pioppo nero, che si riconosce da quello bianco per il<br />

colore della corteccia, non sarebbe altro che la sorella del figlio del dio del sole,<br />

ucciso da Giove affinché non incenerisse la terra e sconvolgesse l’universo. Era<br />

accaduto che il giovane Fetonte ottenesse dal padre di guidare il carro del sole nel<br />

cielo per un giorno. I cavalli gli presero la mano e si avvicinarono tanto alla terra<br />

che rischiò di incendiarsi per il calore.<br />

Gli astri dell’universo, spaventati, si rivolsero a Giove che con una saetta<br />

uccise il giovane inesperto conduttore del carro facendolo cadere nel fiume<br />

Eliano.<br />

Le sorelle, le Elidi, fecero i funerali e piansero tanto che Giove commosso le<br />

trasformò in pioppi neri lungo la riva del fiume in modo che potessero sempre<br />

vegliare il fratello. (Virgilio, nella sesta egloga, afferma invece che le sorelle<br />

furono mutate in ontani, piante che crescono anch’esse in riva ai fiumi).<br />

Il pioppo bianco si distingue a prima vista per il colore chiaro e la faccia<br />

inferiore della foglia color argento e quindi in netto contrasto con quella superiore<br />

verde.<br />

Secondo un’antica leggenda bretone le foglie non sono altro che anime di<br />

bimbi in attesa della resurrezione e la parte argentea è un segnale agli uomini per<br />

indicare dove, vicino all’albero, si trova un tesoro che sarà proprietà soltanto di<br />

chi, il venerdì notte, si troverà in quel luogo illuminato dalla luna.<br />

Il pioppo tremulo ha invece foglie caratteristiche verde cenere e tondeggianti<br />

che in autunno prima di cadere diventano giallastre e appese ad un lungo<br />

peduncolo che ad ogni minimo soffio di vento si muovono, cozzano tra di loro e<br />

fanno un leggero rumore. Secondo una leggenda accade perché il pioppo, vedendo<br />

passare i primi evangelizzatori, non si inchinò. Un proverbio russo ricorda questa<br />

leggenda affermando “c’è un albero maledetto che trema anche quando il vento<br />

non soffia”.<br />

Giovanni Pascoli in una sua poesia ricorda questa caratteristica<br />

Il giorno fu pieno di lampi<br />

Ma ora verranno le stelle,<br />

Le tacite stelle. Nei campi<br />

C’è un breve gre gre di ranelle.<br />

Le tremule foglie dei pioppi<br />

Trascorre una gioia leggera.<br />

Nel giorno che lampi, che scoppi!<br />

Che pace la sera!<br />

Il tremolio delle foglie sarebbe salutare per i malati guarendoli dalla febbre. In<br />

Francia alcuni guaritori raccomandano ai malati di febbri persistenti di salire su un<br />

pioppo, aggrapparsi al tronco, succhiarne la linfa e dire “Tremolo, trema più forte<br />

di quanto tremo io”. Forse in questa credenza c’è un minimo di verità perché un<br />

538


decotto fatto con la corteccia del pioppo seccata si rivela curativo per infezioni,<br />

pessima digestione e per i malati di bronchiti e nevralgie. Inoltre è anche<br />

febbrifugo.<br />

Nella danza del sole dei Sioux Dakota, il pioppo simboleggia l’asse del mondo.<br />

Uno dei capitribù, Alce Nero, spiegando i diversi significati del pioppo ed il<br />

perché veniva considerato tanto importante, scrisse fra l’altro “Il grande Spirito ci<br />

ha mostrato che se si taglia uno dei rami superiori di quest’albero, sulla sezione<br />

del fusto si vede disegnata una perfetta stella a cinque punte che per noi<br />

rappresenta la presenza del Grande Spirito. Poi avrai notato che la voce del pioppo<br />

è udibile anche con la brezza più leggera: noi crediamo che quello sia il suo modo<br />

di pregare il Grande Spirito perché, non soltanto gli uomini, ma tutti gli esseri<br />

viventi lo pregano continuamente in modi diversi”.<br />

Leccio. Ha sempre avuto significati così tanto cupi che una leggenda tramanda<br />

che fu l’unico albero ad offrire il proprio legno per la croce di Cristo. Si racconta<br />

infatti che tutti gli alberi, riuniti in assemblea poco prima che Gesù fosse preso dai<br />

Romani, decisero di non fornire il proprio legno ai carnefici per la croce. Così<br />

quando alcuni boscaioli cominciarono a tagliare i tronchi questi si spezzarono in<br />

minuscoli frammenti inutili per costruire la croce. Soltanto il leccio rimase<br />

integro.<br />

Il beato Egidio, terzo compagno di san Francesco ed autore dei “Detti”,<br />

afferma che il leccio fu preferito da Cristo perché unico albero ad aver compreso<br />

come il sacrificio della croce fosse necessario per riscattare gli uomini.<br />

Le ghiande venivano utilizzate fino al tardo Medioevo per fare una farina da<br />

impastare e cuocere come pane.<br />

Plinio scrive che, nell’antica Roma, la corona con cui si cingeva la fronte degli<br />

eroi era fatta con rami di leccio.<br />

“Poi trovò maggior favore quella di foglie di farnetto, pianta sacra a Giove, e,<br />

in alternativa, quella di rovere: solo la ghianda fu mantenuta quale emblema di<br />

onorificenza mentre la specie particolare usata era quella disponibile secondo i<br />

luoghi”.<br />

Ontano. E’ la pianta preferita dai lucherini e da altri minuscoli volatili che si<br />

cibano dei suoi semi e sostano a lungo fra i rami nodosi che conferiscono<br />

all’albero una originale forma piramidale. Un tempo numerosissimo e coltivato<br />

per diversi usi. Oggi è ritenuta pianta spontanea e selvatica. Ma, nonostante<br />

questo, restano i suoi significati suggestivi.<br />

Perché, a dir la verità, sembra proprio un albero magico a causa di una serie di<br />

circostanze che lo rendono diverso da tanti altri.<br />

Cresce lungo i fiumi e nei terreni umidi. Ha foglie che rimangono sempreverdi<br />

anche in procinto di cadere in autunno. Quando tutti gli altri alberi sono spogli<br />

produce fiori che continuano a svilupparsi da novembre e si aprono già dai primi<br />

di febbraio proprio mentre le sue gemme si ingrossano.<br />

Se si taglia un ramo il legno, che appare subito giallastro, diventa gradualmente<br />

arancione e rosso e, visto da lontano, par di osservare un albero che ha sangue<br />

sulla sua ferita.<br />

539


Nell’acqua resiste per secoli e fu utilizzato sia dai Romani per costruire strade<br />

su terreni paludosi sia nel Medioevo nelle fondamenta per cattedrali erette su terre<br />

umide. Inoltre era coltivato perché dal suo legno si ottenevano tre colori, il rosso<br />

dalla corteccia, il verde dai fiori ed il marrone dai rami, simboli del fuoco,<br />

dell’acqua e della terra.<br />

Il legno, che si intaglia facilmente, serviva per costruire zoccoli (proprio questa<br />

sua prerogativa ha dato il nome al capolavoro di Olmi, L’Albero degli zoccoli) e<br />

manici di scopa. Mentre con la segatura si affumicavano pesci e carni.<br />

Molte le sue proprietà medicinali al punto che è anche denominato “china<br />

italiana”.<br />

Fra l’altro guarisce dalla febbre e facilita la cicatrizzazione delle ferite.<br />

540


Parte seconda<br />

Le catture<br />

541


542


Introduzione:<br />

Migrazioni degli uccelli e roccoli, metodi antichi per moderni scopi<br />

L’Italia, per la sua posizione geografica al centro del Mediterraneo e per la sua<br />

conformazione fisica, è un autentico trampolino di lancio per le schiere di<br />

migratori che abbandonano in epoca tardo-estiva e autunnale le aree riproduttive<br />

poste nei Paesi del Nord-Est ed Est dell’Europa per recarsi in territori più ospitali<br />

ove trascorrere i mesi più freddi dell’anno, con maggiori disponibilità di fonti<br />

alimentari e condizioni climatico-meteorologiche generalmente favorevoli, che<br />

consentiranno loro di trascorrere il periodo dello svernamento con significative<br />

possibilità di sopravvivenza. Poi, con l’incremento delle ore giornaliere di luce<br />

(fotoperiodo) e l’addolcirsi delle condizioni climatiche, dal finire dell’inverno e<br />

alle soglie della primavera, lo stimolo della riproduzione spingerà tutti questi<br />

uccelli a compiere il percorso inverso per riguadagnare quelle aree che avevano<br />

abbandonato mesi innanzi, ove una volta giunti daranno il via alle parate nuziali,<br />

agli accoppiamenti e alla costruzione dei nidi, con successivo allevamento della<br />

prole, fino a giungere al momento di “rifare le valigie” e raggiungere il Sud.<br />

Il ciclo si sarà in tal modo compiuto. Gli adulti e i giovani, ala contro ala<br />

oppure con tempistiche diverse a seconda della specie, rinnoveranno questa sorta<br />

di miracolo della natura che per millenni ha tenuto gli uomini con il naso all’insù<br />

e del quale tanti studiosi e intellettuali si sono interessati nel tempo: a cominciare<br />

dal filosofo greco Aristotele, per il quale le rondini in inverno scomparivano<br />

perché si nascondevano in letargo nella fanghiglia dei fondali di specchi d’acqua,<br />

riemergendone poi in primavera. Oppure come facevano gli aruspices romani che<br />

dall’osservazione dei voli degli uccelli traevano presagi. Si arriva poi a più<br />

moderni studiosi come lo svedese Carl von Linné, che nella sua opera, Systema<br />

naturae, siver tria regna naturae systematicae proposita per classes, ordines,<br />

genera et species del 1735, mise per primo ordine nella classificazione sistematica<br />

di tutte le specie viventi allora conosciute, avifauna ovviamente compresa, in<br />

maniera tanto efficace da giungere sino a noi. Infine si ricordano i contemporanei<br />

come l’austriaco Konrad Lorenz, che proprio dalle indagini sugli uccelli ha<br />

ricavato fondamentali assiomi della moderna etologia.<br />

Attualmente, molte specie di avifauna sono ritenute tra i più rilevanti indicatori<br />

ambientali, ossia indice e sintomo dello stato di conservazione degli habitat<br />

naturali da esse frequentati.<br />

Quello delle migrazioni degli uccelli, oltre a essere stato ed essere ancora<br />

innanzitutto un imponente e affascinante evento naturale, è pure senza dubbio un<br />

fenomeno che si è mescolato indissolubilmente con la cultura rurale delle nostre<br />

genti, ove l’aspetto culturale è dato dalle molte attenzioni ad esso dedicate<br />

dall’uomo, a fini alimentari, ricreativi e tecnico-scientifici.<br />

Un’attenzione che nell’intero bacino del Mare Nostrum ha collegato e collega<br />

come un filo rosso le popolazioni delle regioni che ne fanno parte, comunanza che<br />

si ritrova con grande immediatezza ad esempio nelle forme linguistiche spesso<br />

543


affini utilizzate per definire certe specie o nelle similari metodologie di cattura<br />

escogitate nel corso dei secoli.<br />

In Catalogna, Valencia e Aragona, per esempio, il Tordo bottaccio (Turdus<br />

philomelos) nelle lingue locali viene chiamato “tord”, mentre in castigliano (che è<br />

la lingua spagnola ufficiale) si definisce “zorzal commun”. In questo caso, balza<br />

subito all’evidenza l’affinità di quel dialetto con la lingua italiana. Il Tordo<br />

sassello (Turdus iliacus), nei medesimi dialetti iberici, è detto “malviz”, quasi<br />

identico foneticamente al francese “mauvis”, in luogo del castigliano “zorzal<br />

alirrojo”.<br />

Per una spiegazione esauriente non dobbiamo naturalmente dimenticare il<br />

coagulante che fu costituito dalla dominazione di Roma, che non solo esportò<br />

ovunque all’interno dell’Impero il diritto, le forme linguistiche e artistiche,<br />

l’organizzazione civile e militare, ma anche i propri usi e consuetudini popolari,<br />

tra cui le tradizioni culinarie e, dunque, i piatti a base di uccelli, ampiamente<br />

dominati dai tordi: il pranzo di Trimalcione docet, nel quale Petronio Arbitro ci<br />

descrive la moltitudine di questi volatili vivi fuoriuscita dal ventre dei cinghiali<br />

arrostiti, per essere poi catturata con reti dagli schiavi e trasferita in cucina per la<br />

preparazione di pietanze saporite.<br />

Un vero coup de thêatre che entusiasmava i convitati alle mense del celebre<br />

aristocratico romano, rendendole tra le più ambite dell’intera Roma tanto da<br />

meritarsi un posto in letteratura.<br />

Noi però dobbiamo per ovvii motivi restringere il campo d’osservazione,<br />

limitando la nostra analisi delle connessioni tra migrazioni degli uccelli e strategie<br />

di cattura elaborate dalle popolazioni rurali alle Alpi e Prealpi lombarde, pur se<br />

potremo permetterci qualche rapido excursus oltre frontiera. Se dunque dall’alto<br />

potessimo spaziare con lo sguardo lungo i crinali e i versanti alpini e prealpini,<br />

come fossimo dei viaggiatori alati, presto constateremmo l’esistenza di particolari<br />

architetture vegetali, di forma semicircolare o a ferro di cavallo, situate nei punti<br />

più esposti dei rilievi montuosi. Queste sono i roccoli, antichi impianti fissi per<br />

l’esercizio dell’uccellagione, (ossia la caccia agli uccelli con le reti, in questo caso<br />

verticali) i quali giocoforza, con il trascorrere delle epoche e con i relativi<br />

mutamenti legislativi e delle sensibilità più diffuse, si sono trasformati in preziosi<br />

siti per l’inanellamento degli uccelli a scopo scientifico oppure in impianti di<br />

cattura degli stessi a scopo di rifornimento di richiami vivi ai cacciatori da<br />

appostamento.<br />

Il roccolo di per sé è una struttura arborea originata dall’intreccio fecondo<br />

dell’opera dell’uomo con quella della natura, che si concretizza in anni e anni di<br />

assiduo e sapiente lavoro per modellarne le forme e renderle attrattive al massimo<br />

per gli uccelli in transito. Esso si connota così non solamente per la sua<br />

funzionalità immediata bensì anche quale elemento caratterizzante i paesaggi<br />

montani e collinari di gran parte della nostra regione, nei quali il suo elegante<br />

boschetto si inserisce in maniera armonica e in effetti, sulla scorta di questo<br />

ragionamento, in anni recenti ne è stata sancita l’elevata valenza paesaggistica<br />

anche relativamente al dettato della Convenzione europea del Paesaggio del<br />

Consiglio d’Europa, entrata definitivamente in vigore nel marzo del 2004. Sulle<br />

sue origini molte sono state le ipotesi formulate: la più accreditata le farebbe<br />

544


isalire all’abate di San Pietro d’Orzio, piccolo comune della bergamasca nella val<br />

Brembana, che a cavallo tra il XIV e il XV secolo, spinto dalla necessità di<br />

ovviare a una forte carestia, lo avrebbe ideato per riuscire a integrare le misere<br />

diete dei “villani” con le proteine derivate dall’avifauna in transito.<br />

Tuttavia, nelle antiche fonti documentarie si sono reperite anche molte altre<br />

indicazioni, che trattano della Brianza comasca, dell’Alto Milanese e di diverse<br />

altre aree collinari o montane come zone di nascita del roccolo.<br />

Peraltro, la relativa incertezza sulle origini del roccolo è attestata pure<br />

dall’etimologia dello stesso termine: forse dal gallico roc, che indicava un sito<br />

collegato a una rupe e dunque posto in alto; o forse da rocchio, oggetto cilindrico,<br />

che si ricollegherebbe alle forme tondeggianti tipiche del roccolo; o ancora da<br />

rocco, nel senso di torre e perciò di una costruzione sovrastante la campagna e a<br />

suo presidio.<br />

Indipendentemente dalle pur appassionanti questioni filologiche, l’importanza<br />

storica del roccolo per la peculiarità dei nostri territori affiora in maniera chiara e<br />

convincente anche dalla sua citazione in moltissimi cabrei comunali e privati,<br />

nonché nelle cartografie storiche come le mappe del Catasto Teresiano del XV<strong>II</strong>I<br />

secolo, in cui ogni roccolo esistente nelle differenti proprietà del Lombardo-<br />

Veneto venne accuratamente riportato. E non a caso, poiché ciò che il roccolo<br />

significava ai fini dell’alimentazione dei popolani, trovava altrettanto contraltare<br />

nella sua natura di eletto passatempo per aristocratici, esponenti dell’alto clero e,<br />

successivamente, dell’alta borghesia. Basti del resto pensare a Messer Niccolò<br />

Machiavelli, il quale cita espressamente nei Discorsi sopra la prima deca di Tito<br />

Livio la sua passione dell’andare in una sua uccellanda nei pressi di Firenze, ove<br />

catturava “el meno dua, el più sei tordi”, con questo “badalucco” distraendosi<br />

momentaneamente e piacevolmente dalle sue fatiche intellettuali e ritemprandosi<br />

per nuovi cimenti letterari: una testimonianza che attesta oltretutto della diffusione<br />

raggiunta in Italia da questo metodo di cattura degli uccelli, dall’arco alpino ai<br />

crinali appenninici liguri, tosco-emiliano-romagnoli e marchigiani.<br />

Una dislocazione non casuale, in quanto il roccolo di per sé deve trovarsi in un<br />

luogo sopraelevato, comunque dominante poiché è di là che i migratori transitano<br />

maggiormente seguendo la conformazione orografica del territorio, lungo le<br />

montagne e attraverso i loro valichi per poi sciamare sulle pianure. E per sapere<br />

dove innalzare e plasmare un roccolo, occorreva conoscere bene i luoghi, le<br />

abitudini delle diverse specie ornitiche, i loro flussi migratori attraverso le<br />

generazioni, la botanica e le arti della potatura: un bagaglio complesso e<br />

complessivo, sicuramente non appannaggio di chiunque.<br />

Ma come sono fatti allora questi roccoli? Si diceva del tracciato semicircolare o a<br />

ferro di cavallo, definito da una doppia parete vivente, perché costituita da due<br />

filari di carpino nero (Ostrya carpinifolia) o bianco (Carpinus betulus) che<br />

delimitano il cosiddetto corridoio. Per visualizzarne la descrizione, si pensi di<br />

osservare il corridoio di un edificio, sostituendo alle pareti e al soffitto di cemento<br />

due pareti e un soffitto vegetali, fatti dei rami dei carpini che si allacciano gli uni<br />

agli altri. La funzione di tali pareti, alte fra i tre e i quattro metri, è quella, duplice<br />

e indispensabile allo stesso tempo, di sorreggere le reti nonché di camuffarle<br />

all’acuta vista degli uccelli. L’area delimitata dai corridoi esterni, ossia interna al<br />

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ferro di cavallo, è mantenuta a prato e si chiama tondo. Al suo centro, vi sono<br />

delle piante d’alto fusto ed essenze arboree con frutti raccolte a boschetto, la cui<br />

varietà dipende dall’altitudine e dalla tipologia di terreno su cui il roccolo è<br />

sistemato: faggio (Fagus sylvatica), querce (Quercus spp.), castagno (Castanea<br />

sativa), bagolaro (Celtis australis), ciliegio (Prunus avium), pero selvatico (Pyrus<br />

pyraster) e il kaki (Diaspyras kaki) per citare i più comuni. Questi alberi fungono<br />

da piante di buttata, ossia servono come posatoio per gli uccelli che scendono nel<br />

roccolo attirati dal canto dei consimili, inciso su audiocassette nel caso dei roccoli<br />

utilizzati per l’inanellamento a scopo scientifico, oppure opera di soggetti da<br />

richiamo nel caso di roccoli che servano per la cattura di richiami vivi:<br />

naturalmente tali essenze arboree non sono lasciate libere di svilupparsi in altezza<br />

a loro piacimento, bensì vengono accortamente potate affinché non superino<br />

determinati limiti.<br />

In parole povere, tali alberi possono superare (non di troppo) l’altezza dei<br />

corridoi laterali, ma mai l’altezza di un’altra componente essenziale del roccolo: il<br />

casello. Quest’ultimo è una costruzione sviluppata verticalmente, in legno o in<br />

muratura, camuffata da vegetazione rampicante sempreverde, dentro cui trovano<br />

ricovero i roccolatori, ossia coloro che catturano gli uccelli, una volta a fini<br />

alimentari, oggi per altri scopi cui abbiamo già accennato e sui quali meglio ci<br />

soffermeremo più oltre. Dalle apposite feritoie ricavate nelle mura del casello, i<br />

roccolatori vigilano sull’intorno e sull’intero impianto, scrutando il cielo, il<br />

boschetto, il perimetro del roccolo, alla ricerca di un indizio che sveli la presenza<br />

di uccelli di passaggio. Allorché uno o più volatili, attratti dai canti e dagli arbusti<br />

con allettanti pasture (sorbo degli uccellatori Sorbus aucuparia, sorbo torminale<br />

Sorbus torminalis, fitolacca Phytolacca decandra, biancospino Crataegus<br />

monogyna, sambuco Sambucus nigra) disposti sui bordi e agli angoli del tondo,<br />

discendono sul boschetto, gli uccellatori si predispongono ad agire: una rapida<br />

valutazione della situazione e poi entrano in azione gli spauracchi, il cui scopo è<br />

quello di fare involare gli uccelli in direzione delle reti tese.<br />

Come avviene questo? Prima bisogna per un istante soffermarsi sulla<br />

spiegazione di cosa sia uno spauracchio. Come dice il nome, si tratta di qualcosa<br />

che serva a spaventare i volatili, affinché, appunto, si dirigano dalla parte giusta,<br />

cioè nelle reti.<br />

Esso consiste in un oggetto di forma molto simile a una paletta tipo quelle<br />

delle Forze dell’Ordine: una lunga impugnatura di legno con l’apice piatta e<br />

tondeggiante, di vimini o altro materiale intrecciato. Tale forma simula la<br />

silhouette di un rapace (corpo corto e raccolto, coda allungata) il nemico naturale<br />

di molte specie di avifauna. Tenendosi al riparo, i roccolatori lanciano lo<br />

spauracchio da una finestra aperta del casello al di sopra del boschetto (ecco il<br />

motivo per cui il boschetto stesso deve essere mantenuto più basso del casello), di<br />

modo che gli uccelli posati si vedano arrivare addosso dall’alto quello che<br />

ritengono essere un pericoloso predatore. La loro reazione istintiva è perciò quella<br />

di spiccare velocemente il volo per sottrarsi alla caccia nell’unica direzione che<br />

pare loro sicura, ovvero verso terra e verso i corridoi laterali. Lì giunti, trovano<br />

però le reti e vi si insaccano, come si dice in gergo.<br />

546


Altro tipo di spauracchio, comunque efficace, è costituito da un cavo metallico<br />

cui sono appesi barattoli, pezzi di latta, strofinacci o altri oggetti voluminosi, che<br />

in posizione di quiete sta poggiato sulle chiome degli alberi del boschetto. Esso è<br />

collegato a una leva o a una grossa corda che funge da tirante all’interno del<br />

casello. Allorché il roccolatore ritiene l’occasione favorevole, aziona con forza la<br />

leva o corda che sia e il cavo scatta repentinamente verso l’alto, sovrastando gli<br />

uccelli posati: il risultato che ne scaturisce, è il medesimo rispetto a quello<br />

provocato dal lancio dello “spauracchio-falco”. Naturalmente, ciò che facilmente<br />

si descrive è tutt’altro che semplice da attuarsi: sin dalla scelta dell’istante in cui<br />

lanciare lo spauracchio per passare al lancio vero e proprio, oppure di strattonare<br />

il cavo, il roccolatore deve operare con la massima decisione e tempestività, per<br />

riuscire a prendere la maggior quantità di uccelli in suo potere. L’esperienza gioca<br />

allora un ruolo di primissimo piano, come in tutte le attività umane, in particolare<br />

quelle che si svolgono nella natura le quali sono influenzate da numerose variabili<br />

indipendenti dalla nostra volontà. E’ solo grazie ad essa che si impara a<br />

riconoscere i diversi “stati d’animo” dei volatili da come si manifestano, sovente<br />

in differenti modi da una specie all’altra: se siano tranquilli oppure nervosi, vigili<br />

e sospettosi o placidi e curiosi, ed è proprio la correttezza o meno<br />

dell’interpretazione che si dà a ciò che si osserva il fattore determinante per la<br />

riuscita della cattura. Dopo che l’azione si è compiuta, gli operatori escono quindi<br />

dal casello e recuperano tutti gli esemplari, pochi o tanti che siano, liberandoli<br />

dalle maglie delle reti. Questa è la fase più delicata dell’intera operazione, per la<br />

quale si richiede adeguata capacità manuale affinché i movimenti e i tempi siano<br />

ridotti al minimo e non si arrechi alcun danno agli uccelli.<br />

Opportuno ricordare qui che gli operatori presenti nei roccoli sono tutti quanti<br />

abilitati a seguito di un esame teorico e pratico, che si tiene periodicamente presso<br />

l’INFS (Istituto Nazionale per la Fauna Selvatica), l’organo nazionale di ricerca<br />

deputato dalla legislazione vigente a svolgere consulenza nel settore faunisticovenatorio<br />

per lo Stato, le Regioni e le Province. Ciò significa che tutte le persone<br />

che prestano servizio nei roccoli, sono state riconosciute idonee alla bisogna con<br />

rilascio di relativo patentino e quindi in grado di ridurre il più possibile<br />

l’inevitabile stress che ogni uccello selvatico prova al momento della cattura.<br />

A partire da questa fase, le possibilità sono allora duplici: se l’impianto<br />

funziona a scopo scientifico, si procede a inanellare l’esemplare e a rilevarne tutte<br />

le misure denominate “biometriche”; se invece il suo scopo è quello di rifornire i<br />

cacciatori da appostamento di richiami vivi (ai sensi della legge n. 157 del 1992<br />

“Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo<br />

venatorio” e relativa legge regionale di recepimento n. 26 del 1993) i “presicci”<br />

(nome gergale dei volatili di cattura, nei roccoli esclusivamente appartenenti alla<br />

famiglia dei Turdidi) vengono ricoverati in apposite gabbie per le successive<br />

operazioni.<br />

L’inanellamento dell’avifauna è una delle metodologie più accreditate nel<br />

settore dell’indagine scientifica sulle migrazioni e i roccoli, siti massimamente<br />

vocati per catturare volatili, si prestano magnificamente alla bisogna. Come si<br />

procede? Al tarso di ogni esemplare catturato, una volta estratto delicatamente<br />

dalle reti, viene apposto un leggero anello in alluminio, sul quale è riportata la<br />

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sigla dell’INFS (Istituto Nazionale per la Fauna Selvatica) insieme a un codice<br />

identificativo della località d’inanellamento. In tal modo, vista l’ovvia rimessa in<br />

libertà del soggetto, in caso di sua ripresa o rinvenimento altrove, sarà<br />

immediatamente possibile risalire al luogo della precedente cattura, tracciandone<br />

così un percorso nel tempo e nello spazio, molto utile per la definizione della<br />

cronologia e del percorso migratorio. Dello stesso esemplare, prima del rilascio,<br />

vengono rilevati: peso, sviluppo dei muscoli pettorali, consistenza dello strato di<br />

grasso, misura della lunghezza dell’ala, del tarso e del becco, oltre al sesso se<br />

visivamente individuabile e all’età. In tal modo, durante i decenni si sono<br />

gradualmente ampliate delle banche dati di grande interesse, attraverso<br />

un’interconnessione oggi informatizzata di tutti gli osservatori ornitologici<br />

distribuiti sul continente europeo e tra loro coordinati nell’ambito del vasto<br />

programma Euring.<br />

Se si pensa che il primo ricercatore che si avvalse del metodo<br />

dell’inanellamento a scopo scientifico fu il danese Hans Christian Mortensen,<br />

nell’anno 1899, con la marcatura di 165 storni tramite un piccolo anello, possiamo<br />

tranquillamente affermare come gli studiosi nostrani abbiano potuto beneficiare<br />

grandemente dei roccoli per questo scopo, come infatti avvenne sin dal 1929 su<br />

primario impulso del prof. Alessandro Ghigi con la fondazione dell’Osservatorio<br />

ornitologico del Garda, diretto dal dr. Antonio Duse.<br />

Oggi, XXI secolo, uno degli Osservatori ornitologici regionali più belli, attivi e<br />

meglio conservati della Lombardia è senz’altro quello di Arosio, in provincia di<br />

Como, di proprietà della FEIN (Fondazione Europea Antonio Bana per la ricerca<br />

ornitologica sulle migrazioni e per la tutela dell’ambiente). Se ne trova traccia già<br />

nel succitato Catasto Teresiano del 1722 e vi si pratica l’inanellamento scientifico<br />

dal 1977: il 135.000° esemplare, una Capinera (Sylvia atricapilla), vi è stato<br />

inanellato nel settembre 2004. I suoi lunghi corridoi di carpini e le sue strutture<br />

sono meta annuale di visite di numerose scolaresche, di studiosi italiani ed<br />

europei, di appassionati e di rappresentanti istituzionali, i quali vi giungono per<br />

osservare, comprendere e, se del caso, imitare.<br />

L’altra funzione attuale dei roccoli che abbiamo sopra enunciata, ossia il loro<br />

impiego ai fini di cattura di richiami vivi, benché prevista dalle normative vigenti<br />

come sopra ricordato e sottoposta a regole severe, è sovente attaccata da<br />

ambientalisti e animalisti che vi ravvedono una maniera per proseguire nella<br />

pratica dell’uccellagione, in realtà vietata da molti anni. Non è qui il caso di<br />

addentrarci in inutili polemiche, perché ciascuno fa il suo mestiere, soprattutto<br />

davanti all’opinione pubblica o almeno a quella parte di essa che rinnova il<br />

proprio sostegno a fronte di determinati atteggiamenti: resta il fatto che la cattura<br />

di richiami vivi è un servizio, ne sono infatti titolari le Province, sottoposto a<br />

rigidi controlli e regole e amministrato sia nei quantitativi di uccelli catturabili,<br />

totali e per specie, che nelle modalità pratiche direttamente dalla Regione in<br />

collegamento con l’INFS per l’intero iter autorizzativo. Le specie a tale scopo<br />

prese nei roccoli sono quattro: Tordo bottaccio (Turdus philomelos), Tordo<br />

sassello (Turdus iliacus), Cesena (Turdus pilaris) e Merlo (Turdus merula),<br />

cacciabili non solamente per la legge italiana ma naturalmente, a monte, anche per<br />

548


la Direttiva 79/409/CEE “Uccelli” e tutte classificate in favorevole stato di<br />

conservazione a livello europeo.<br />

Il patrimonio di storia, cultura e architettura rappresentato dai roccoli e dalle<br />

bresciane ha perciò potuto sopravvivere grazie a questa doppia riconversione e<br />

intelligente adattamento dei loro scopi ai tempi nuovi, poiché il divieto<br />

dell’uccellagione (la caccia con le reti), intervenuto nel nostro Paese sul finire<br />

degli anni ’60 del XX secolo, ha determinato l’abbandono di moltissime di queste<br />

strutture. La natura le ha ricolonizzate nelle sue forme spontanee, i caselli sono<br />

andati in rovina sino a scomparire e le poche vestigia rimaste sono oggi<br />

individuabili solo da un occhio esperto. Guardando alla Lombardia, il calo è stato<br />

effettivamente marcato: da 1.072 roccoli funzionanti nel 1950, si è passati a 725<br />

nel 1968, 479 nel 1970, 288 nel 1978, sino ai 67 del 2002. Molto spesso, ove nel<br />

passato erano fisicamente presenti questi impianti, ne ritroviamo traccia nelle<br />

etimologie locali: aziende agrituristiche, aziende vitivinicole, ristoranti, ville,<br />

castelli e parchi, come il PLIS (Parco locale d’interesse sovracomunale) del<br />

Roccolo, situato a Nord-Ovest della provincia di Milano.<br />

Un’altra struttura molto simile al roccolo, la bresciana o bressanella, ha<br />

seguito un analogo destino di rarefazione. Essa si fonda sugli stessi principi di<br />

funzionamento del suo più noto parente, tuttavia se ne differenzia per alcuni<br />

aspetti: 1) la forma del perimetro delimitato dai corridoi, che è rettangolare; 2)<br />

l’interno del tondo (in realtà non più tale), ove non troviamo alberi d’alto fusto<br />

bensì un semplice prato punteggiato, verso gli angoli, da arbusti con bacche; 3) il<br />

posizionamento dello spauracchio, costituito da un cavo appoggiato sul terreno,<br />

cui sono appese latte, stracci, ecc. e che viene azionato al momento giusto dal<br />

casello tirandolo con forza e quindi facendolo sollevare repentinamente; 4) gli<br />

alberi di buttata, non più collocati al centro del tondo, ma ai bordi, lungo i corridoi<br />

laterali; 5) la sua ubicazione, in origine limitata alle aree pianeggianti, anche se<br />

nel tempo e a varie altitudini sono state create parecchie strutture miste roccolobresciana,<br />

allo scopo di accrescere le potenzialità di cattura dell’insieme riunendo<br />

le peculiarità dell’uno e dell’altra.<br />

549


550


Capitolo 3<br />

Le origini della cattura e dell’ornitologia<br />

Antiche tecniche di cattura<br />

E’ una storia che nasce con l’uomo e prosegue con la sostituzione ed il<br />

perfezionamento di tecniche e strumenti della sua prima arma, la mano. Sorge<br />

come necessità per continuare la vita, permea, nei secoli, costume e società,<br />

continua a rimanere fonte di sostentamento ma si manifesta anche in cerimonie e<br />

rituali tanto da esser parte integrante dell’arte e della politica, della sociologia e<br />

persino della religione. Perché ci fu un tempo in cui cacciatori facevano sacrifici a<br />

Diana, com’era in uso presso Greci e Romani, agli dei Cerunni, alla maniera dei<br />

Celti e, quando il Cristianesimo conquistò le Genti, a sant’Uberto.<br />

Alla caccia sono legate opere significative che raccontano di tecniche di cattura<br />

e insegnano come usare le armi, fabbricare le reti e tenere gli uccelli in gabbia. Ed<br />

è significativo che molti di quegli “ammaestramenti” su come far cantare gli<br />

uccelli, accudirli, tenerli in gabbie e voliere, siano in vigore ancor oggi a<br />

significare quanto vi sia di continuità nella tradizione. Perché se non sono mutati<br />

gli usi; sono invece cambiate, naturalmente in meglio, le diete ed i “rimedi” alle<br />

malattie.<br />

C’è stato, nei secoli, un progredire della cultura legata alla caccia e non solo<br />

come tecnica. In molti casi, da Brunetto Latini a Dante, a Francesco Petrarca e<br />

Giovanni Boccaccio , ci sono diretti riferimenti alla caccia.<br />

Vi sono autori che hanno “raccontato” la vita degli uccelli dando significato a<br />

superstizioni e credenze popolari e quindi trasferendole a noi come significativa<br />

testimonianza del “sapere” di un tempo.<br />

Autori, ben noti per opere che hanno impresso il loro nome nella letteratura,<br />

hanno raccontato, alla maniera dei cronisti, le tecniche di caccia ed il modo<br />

551


migliore di catturare i volatili. Altri ancora, infine, hanno messo in versi tali<br />

tecniche e la vita dei migratori in opere che hanno notevoli pregi. Tanti libri di<br />

autori minori fanno quindi parte della storia della letteratura sia per lo stile con cui<br />

sono scritti sia per le nozioni che testimoniano.<br />

Ed è indubbio che la storia della cattura degli animali, legata quindi alla<br />

costruzione delle armi, alla conquista dei territori ed al sorgere e successivo<br />

evolversi delle prime società, basate sulla ricerca di un bene, la preda, da dividere<br />

poi fra quanti vi avevano partecipato, costituisce un’originale storia dell’uomo.<br />

Perché questa è la caccia con le sue tecniche, i suoi significati allegorici e lo<br />

studio delle migrazioni è ad essa legato.<br />

Già i primi uomini si accorsero che l’arrivo e la partenza di ben precisi volatili<br />

erano determinati dai ritmi del tempo, proprio come le foglie agli alberi. E<br />

seguivano il ciclo dei cambiamenti meteorologici, la lunghezza del giorno che è<br />

come dire la vita della luce. Proprio per questo cominciarono ad adeguare alcuni<br />

sistemi di cattura, imparando quali erano le vie del cielo seguite, stagione dopo<br />

stagione, quali i “passi” alpini degli stormi, le valli preferite per brevi soste.<br />

Ciascun popolo seppe individuare i più idonei sistemi di cattura di uccelli che<br />

volavano nei suoi cieli.<br />

Le grotte di Valcamonica<br />

Le tracce di quei primi cacciatori sono nitide anche in Lombardia dove la caccia<br />

ha avuto uno sviluppo particolare secondo tecniche che furono poi esportate in<br />

gran parte della Penisola ed alle quali si piegarono tutti i popoli che ne divennero<br />

dominatori.<br />

E’ singolare che nelle caverne della Valcamonica e della Valle dell’Oglio si<br />

trovino graffiti in cui sono indicati uccelli in volo a significare il desiderio<br />

dell’uomo di catturarli. Perché le scene di caccia non sono solamente la cronaca<br />

dei giorni trascorsi, ma, piuttosto, l’invocazione alla divinità affinché consenta la<br />

cattura della selvaggina effigiata.<br />

Le zone di caccia erano vicino a costruzioni dette “tesa” dal latino tendo ed i<br />

lacci venivano chiamati “archetti”.<br />

“La caccia agli uccelli veniva eseguita con l’arco e le frecce oppure con reti o<br />

con lance. Nelle incisioni rupestri sono frequenti i riferimenti agli uccelli, anche<br />

se prevale l’indicazione del tipo di significato simbolico piuttosto che quello della<br />

caccia. L’antico nome ornitologico è “pet /pit” da una radice che in greco da<br />

origine al verbo petomai, volo. Il nome ricorre a Pisogne proprio in vicinanza<br />

dell’acqua. In primo luogo a Pitighello, proprio al confine con Costa Volpino. Si<br />

tratta di un’area con costruzioni fortificate, ma che, anticamente, proprio alla foce<br />

dell’Oglio, era formata da paludi dove sostavano gli uccelli acquatici e quindi la<br />

caccia era particolarmente fruttuosa. Un’altra località con lo stesso toponimo si<br />

trova a Pontasio e viene detta Petenghino. Anche in questo caso si tratta di uccelli<br />

acquatici. Nella comunità di Fraine è ricordato il Dos del Dordo, il tordo, che<br />

richiama altri uccelli. Vicino ad esso infatti vi è un roccolo, una struttura per<br />

prendere gli uccelli” (Carlo Sabatti, La caccia nel Bresciano).<br />

552


I primi uomini, pur non rinunciando a predare gli uccelli, davano loro il<br />

significato di messaggeri degli dei. In tutto il primo millennio infatti gli abitatori<br />

delle vallate alpine, ed in particolare della Val Canonica, consideravano il volo<br />

determinante<br />

per prendere decisioni relative alla guerra o alla pace, o anche per decidere la<br />

fondazione di una città.<br />

“Per quanto riguarda la toponomastica è ricordato il dosso delle Taine, le<br />

pernici. Sono poi menzionate le rondini, in latino hirundines. Portano il loro nome<br />

la miniera Rondona e la località Rondena. L’arrivo delle rondini coincide con<br />

l’inizio della primavera mentre la loro partenza preannuncia l’autunno quando in<br />

alta montagna scende la neve e quindi non è più praticabile il trasporto a valle del<br />

prodotto scavato.<br />

Leonardo da Vinci, nel suo Bestiario, ricorda che il sangue della rondine era<br />

usato per preparare colliri con la celidonia, detta erba delle rondini.<br />

Vi è poi la Colomba il cui nome è richiamato dal monte Colombaro, dalla<br />

miniera Colomba a Loveno, da un’altra chiamata Colombina e dalla località<br />

Grasso della colombere” (F. Bontempi, Storia di Pisogne. Un grande mercato<br />

nelle Alpi).<br />

Hanno un ruolo misterioso anche i volatili che vengono chiamati gardene, (In<br />

italiano Cesene). La lettura dialettale è antichissima e si legge “gar”, canto e<br />

“deena”, dee. Quindi dee che cantano. E sono le parche che sovrintendono alla<br />

morte: “Il loro gracchiare è realmente un grido funesto. Essi abitano presso le<br />

miniere, ad occidente, considerato il luogo della sera” (F. Bontempi, La civiltà del<br />

ferro nelle Alpi).<br />

La caccia dei Longobardi<br />

I Longobardi, nel 569 scacciati, dai loro territori ungheresi, dagli Avari dilagarono<br />

nella pianura padana e Rotari, diciassettesimo re della stirpe dei Longobardi e già<br />

duca di Brescia, nel 643, all’ottavo anno del suo regno, “promulga, a Pavia, un<br />

editto assommando tutte le consuetudini che costituivano le regole generali della<br />

gens Longobardorum. Si trattava di regole solenni, la cui validità era garantita<br />

dalla loro antichità a dal loro sposarsi con una cornice storico mitica” (S.<br />

Gasparri. La memoria storica dei Longobardi).<br />

Continua a rimanere però il concetto della selvaggina come res nullius, bene<br />

cioè di cui ci si poteva appropriare e della caccia come attività per tutti.<br />

Le “regole” imposte sono minuziose e trattano delle diverse situazioni di<br />

caccia. Alcune sono così condivisibili che restano ancor oggi in vigore.<br />

Se un animale ferito provoca un danno ad una persona il cacciatore è tenuto a<br />

pagare. Non ha invece alcuna colpa se avrà abbandonato l’inseguimento<br />

dell’animale.<br />

Ed ancora: “Se un animale selvatico viene preso in una trappola o in una<br />

tagliola e provoca un danno ad un uomo o a del bestiame paghi chi ha messo la<br />

trappola”.<br />

553


Si stabilisce inoltre che un animale ferito può essere inseguito per 24 ore dal<br />

cacciatore che lo ha colpito. “Chi lo trova dopo che sono trascorse le suddette ore<br />

non sia colpevole, ma tenga per sé l’animale”.<br />

“Se qualcuno ruba un cane lo restituisca nove volte tanto”.<br />

Il regno dei Longobardi scomparve nel 774 quando Carlo Magno, re dei<br />

Franchi, espugnò Pavia. Nel Capitolare De Villis, del IX secolo, attribuito a Carlo<br />

Magno ed al figlio Ludovico il Pio si fa riferimento alle reti.<br />

In particolare si prescrive che “Ogni funzionario abbia presso di se dei buoni<br />

artigiani “ e fra questi sono compresi gli “uccellatori” e “ persone che sappiano<br />

fare le reti per la caccia, per la pesca e per gli uccelli” (Scipione Guarracino,<br />

Società e Storia).<br />

La Lombardia dei Visconti<br />

Tutti gli interventi del legislatore riguardavano la caccia a grossa selvaggina<br />

mentre, in genere, gli uccelli venivano scarsamente considerati: la loro cattura era<br />

libera per il popolo. E questo accadeva anche perché la pratica venatoria aveva il<br />

carattere di cerimonia che mal si attagliava alle tecniche di agguato che si<br />

completavano con l’uso di qualsiasi altro genere di trappole compreso il vischio.<br />

Nel 1335 Bernabò Visconti, signore di un vasto territorio che oggi può grosso<br />

modo essere identificato con gran parte della Lombardia (escluso il Mantovano),<br />

promulga uno statuto che riguarda la caccia e prevede in particolare anche il<br />

prezzo della selvaggina.<br />

Per evitare il bracconaggio stabilisce fra l’altro, per quanto riguarda Brescia,<br />

che “tutti i polli, le oche, le anitre, tutti gli uccelli domestici e del bosco, tutte le<br />

bestie e tutte le selvaticine di qualunque specie e condizione siano, che debbano<br />

essere venduti, siano condotti, portati, scaricati e venduti soltanto alla piazza<br />

maggiore dell’assemblea del Comune di Brescia e non altrove nella città”.<br />

Proprio in questo periodo, secondo alcuni, sorsero i primi roccoli, cioè<br />

impianti per la cattura con le reti.<br />

Le nuove tecniche di cattura presuppongono l’uso di richiami vivi, cioè di<br />

volatili che, tenuti in gabbia, cantino in modo da richiamare i congeneri.<br />

La caccia come topos letterario<br />

Gli autori più significativi nei secoli<br />

Tutti i piumati però non cantano per l’intero anno ma solamente nel periodo degli<br />

amori ed ecco la necessità di fare in modo che tali giorni siano posticipati, con<br />

particolari tecniche, in modo che i “richiami” cantino proprio quando sono di<br />

passaggio i migratori e come se quel periodo fosse per loro quello della<br />

riproduzione. Tale tecnica viene indicata in gergo come “chiusa”. Consiste nel<br />

554


tenere gli uccelli al buio in appositi locali in modo che abbiano la convinzione<br />

d’essere in inverno o, comunque, in una stagione diversa da quella della<br />

riproduzione. Lentamente poi, da maggio, si ridà luce al locale e quindi si provoca<br />

nel piumato la sensazione che sia giunta la primavera e quindi comincia a cantare.<br />

E’ un periodo particolarmente favorevole per la caccia che diventa anche il<br />

tema preferito per molti rimatori.<br />

Nei Sonetti dei mesi, di Folgore da San Gimignano, si descrivono le sontuose<br />

cacce dei patrizi con particolare riferimento all’uso delle mute di cani e dei rapaci<br />

addestrati dai falconieri. E’ proprio in questo periodo che vengono composte le<br />

cosiddette poesie di caccia.<br />

L’immagine di tipo venatorio serve a mascherare altri desideri d’amore. Ed<br />

alcune poesie diventano tanto note che loro versi fanno addirittura parte, come<br />

proverbi della saggezza popolare, come quello “a buon intenditor poche parole”.<br />

Ecco la poesia che lo contiene.<br />

Gridavan li pastori.<br />

Gridavan li pastor per la campagna:<br />

Al lupo, al lupo! Con loro mazze in collo<br />

Correan tutti scalzi alla montagna.<br />

Ed io, che sparverava a piè d’un monte,<br />

pastorella trovai che si bagnava<br />

le gambe per lo caldo in una fonte.<br />

Tant’era bella quanto luce ‘l sole<br />

A buon intenditor poche parole.<br />

In altre poesie invece si fa riferimento a delusioni d’amore proponendo<br />

l’immagine di un rapace che si avvicina ad una pernice che riesce a sfuggirli.<br />

Sì forte vola<br />

Sì forte vola la pernice bella<br />

Che ‘l mio sparvero, che la vuol pigliare,<br />

la punga perde seco del volare.<br />

E l’ale tende sopra li albuscelli<br />

E, quando presso a sé giugner la vede,<br />

si mette in fuga e non gli tien mai fede.<br />

Così dolente, assai più invaghito,<br />

con l’ale basse tornasi smarrito.<br />

E’ il periodo in cui nasce il trattato di Pietro de Crescenzi (1230-1320) dove,<br />

per la prima volta, si cerca di delineare un corretto rapporto di equilibrio fra<br />

caccia ed agricoltura.<br />

L’autore si dilunga sulle tecniche di cattura e di ammaestramento dei rapaci,<br />

ma dedica poi un capitolo all’uso di gufi e civette (caccoveggie): si tratta di<br />

volatili che, posti su un trespolo, attraggono altri uccelli che possono quindi essere<br />

facilmente catturati.<br />

555


“Gli uomini dunque veggendo gli altri uccelli volare al gufo e alla civetta e<br />

quegli con molto desiderio ragguardare, pensarono ingegni per li quali pigliassero<br />

quelli, li quali al gufo o caccoveggia rozzamente s’appressano. Non dunque gli<br />

nutriscono perché gli altri uccelli piglino, ma perché per la loro presenza piglino<br />

quegli che gli vengono a vedere, con vischio, con reti e con altri ingegni”.<br />

Raccomanda, a chi costruisce un capanno di lasciare minuscole aperture<br />

affinché i volatili non s’accorgano della presenza del tenditore e infine “per lo<br />

foro non mandar fiato quando nel luogo son gli uccelli”.<br />

Insegna anche come costruir gli archetti, ma anche il modo di tirar con la<br />

freccia nel branco di volatili, “Anche quando saetta dee guardar non alla prima né<br />

all’ultima ma a quelle di mezzo acciocché se la saetta va o più qua o più là, come<br />

spesso avviene, che la prima o l’ultima ferisca, acciocché invano non saetti”.<br />

E’ diffusa la cattura dei volatili con il vischio. S’impaniano verghe di olmo con<br />

il vischio che si fa fluidificare con olio di oliva. D’inverno, per evitare che geli, si<br />

miscela con olio di noce.<br />

“E queste verghe piccole impaniate”, è scritto in testi dell’epoca, “si ficcano<br />

lievemente nelle verghe de palmoni, che son pertiche grandi di rami d’arbori<br />

verdi, e massimamente quercia, aventi sul capo superiore quattro o cinque verghe<br />

un poco elevate nelle quali si ficcano le verghe sottilissime impaniate”.<br />

Accanto al palmone, posto sempre lontano dalle piante in modo che costituisca<br />

l’unico posatoio, vengono collocate le gabbie con i richiami. Passeri, fringuelli ed<br />

altri uccelli erano catturati anche con funi invischiate collocate nei luoghi di<br />

pastura e in quelli di abbeverata dove veniva lasciato un piccolo spazio accanto<br />

all’acqua con le funi spalmate di vischio e tutti gli altri accessi erano impediti con<br />

frasche.<br />

Il trattato di Piero Angeli da Barga detto Il Bargeo (1517- 1596), edito nel<br />

1566, L’uccellatura a vischio o l’uccellagione dimostra quando sia praticata la<br />

caccia ai migratori. Il testo, in latino, davvero pregevole, fu tradotto e copiato da<br />

numerosi autori. Giovanni Pascoli (definì il trattato “Elegante, vero, vivo, tutto<br />

odoroso di campagna e di selve”) ne diede una versione particolarmente accurata<br />

come dimostrano i versi 1018-1069.<br />

Che se a’ tordi insidie tendi<br />

E per quel fine un verde bosco ombroso<br />

T’allevi e cresci, basta allora,<br />

in colle di pendio dolce, una selvetta cinta<br />

di nero bosso, fertile di lecci;<br />

donde libero l’occhio intorno esplori;<br />

né sia troppo ampia, ma né suoi confini<br />

misuri in tutto le trecento braccia.<br />

Quivi, allorché dal limitar di Libia<br />

lo Scorpione accoglie il sol, si appiatta<br />

l’uccellatore fra frondosi rami,<br />

quando la stella del mattino sgombra<br />

fredda le nebbie ed apre il dì futuro.<br />

Di lì fingendo amiche di volanti<br />

556


voci, egli fischia e nelle chiuse gabbie<br />

invita a sibilare, a cinguettare,<br />

a fare a tempo il verso, i suoi richiami.<br />

Che se alcun tordo acutamente strida,<br />

non esitar a frangergli il cervello<br />

poi ch’esso avverte di tirar di lungo<br />

gli altri e cercare più sicura plaga<br />

il traditore! E pasci invece e dona<br />

di coccole e di dolci acini d’uva<br />

qualunque vedi con soave gola<br />

modular il suo canto e, quando scorga<br />

la civetta, balzare e strepitare,<br />

che i migratori dell’aerea via<br />

sempre in cerca di nuova esca seduce.<br />

Avidi, ciechi volano giù, dove<br />

La nota voce a sé li chiama, rapidamente<br />

Calano e posano sul leccio<br />

Sul leccio pieno di recise verghe<br />

Che li,legano col glutine lento<br />

Incauti!A piè dell’albero la terra<br />

È tutta piena dei caduti tordi.<br />

Agostino Gallo, nato a Brescia nel 1499, compila un piacevole trattato che<br />

intitola Le dieci giornate della vera agricoltura e piaceri della villa dove, sotto<br />

forma di conversazione, vengono indicati anche i diversi tipi di cattura degli<br />

uccelli sia con il vischio che con l’uso della civetta come richiamo.<br />

I cantori in gabbia<br />

Ma è nel 1575 che a Milano viene stampato, da Pacifico Ponzio, l’opera<br />

Ammaestramenti per allevare, pascere e curare gi uccelli, li quali s’ingabbiano<br />

ad uso di cantare, di CesareManzini .<br />

Si tratta di uno studio fondamentale per l’ornitologia, al quale attinsero poi<br />

tutti gli ornitologi dei secoli successivi e fra questi anche Antonio Valli da Todi e<br />

l’abate Giovan Pietro Olina di Novara.<br />

Accurate le descrizioni dei diversi uccelli, in particolare dell’usignolo di cui<br />

Cesare Manzini insegna come prelevare i piccoli raccomandando che “dal nido<br />

non si torrano i rossignuoli, finché non abbiano spuntate fuor le penne e che quasi<br />

tutti coperti siano di piume, acciò che più facilmente s’allevino, tendendoli in<br />

luoghi remoti e solitari.<br />

Il loro cibo sarà cuori di castroni netti e freddi”.<br />

Qualora però si catturino adulti dovranno essere accuditi in modo diverso e<br />

Manzini lo indica.<br />

Di ogni volatile poi enumera le caratteristiche e come tenerlo in gabbia in<br />

modo che viva a lungo ed in salute.<br />

557


Ciascuno inoltre ha proprie particolari necessità e così, afferma Manzini, “nel<br />

mutar (cambiamento delle penne ndr.) che fa il cardello l’aiuterete con qualche<br />

sbuffamento di vino per farlo mutar presto e questo è anco buono quando avesse<br />

pidocchi; dopo il sbuffamento di vino lo porrete al sole, tenendolo fin tanto sia<br />

quasi asciutto.<br />

Il rossignuolo patisce di grassezza; onde bisogna almeno due volte la settimana<br />

purgarlo, dandogli due o tre vermicelli di colombo per spazio di quindici giorni”.<br />

Dà anche numerosi consigli su come curare i volatili. Spiega poi come farli<br />

cantare in modo che al capanno possano attrarre i migratori. Indica quindi la<br />

tecnica di mettere i volatili in chiusa, cioè fare in modo che non si accorgano che<br />

sta giungendo la primavera e quindi venga differito l’estro. Quando rivedranno la<br />

luce cominceranno a cantare proprio come fosse la stagione degli amori.<br />

Si tratta della prima descrizione della chiusa. Sarà poi ripetuta da altri autori,<br />

nei secoli successivi, con lievissime modifiche al testo del Mancini che viene<br />

implicitamente riconosciuto come il più esatto.<br />

E’ importante notare come tale sistema sia in vigore ancor oggi per tordi ed<br />

altri volatili di cui è consentita la cattura da appostamento.<br />

“Dal principio di maggio purgarete quelli ch’anno da servire in simile mestiere<br />

dell’uccellare in tal maniera: prima gli darete suchio di bietole mescolato con un<br />

poco d’acqua pura;<br />

il giorno seguente gli darete una foglia della medesima erba; il terzo dì poi li<br />

serrarete in casa, ponendoli sopra la terra, acciò di quella mangino per spazio di<br />

dieci giorni, retirandoli ogni giorno a poco a poco dall’aria all’oscuro.<br />

E passati dieci giorni, di novo gli darete delle bietole, e reserrandoli in casa, in<br />

luogo tenebroso e rimoto.<br />

La sera gli governerete a lume di lucerna: il qual lume fate che l’uccelli lo<br />

vegghino per spazio di due ore, nel qual tempo medesimamente gli potrete nettare<br />

il bevetoio e mutarli ogni otto giorni il canapuccia dandogli ancor la foglia di<br />

bietole ogni quattro dì, e il succhio ogni venti giorni, specialmente a frenguelli che<br />

facilmente diventano ciechi.<br />

Questo dunque si deve fare sino alli dieci d’agosto, doppo il qual tempo gli<br />

repurgarete di nuovo nell’istesso modo ch’avete inteso, facendoli a poco a poco<br />

vedere l’aria, per insino alli venti del medesimo”.<br />

Cesare Manzini nel suo trattato indica anche, ed è la prima volta, quanto<br />

campano gli uccelli in gabbia. L’usignolo ad esempio vive da tre a cinque anni.<br />

Ma vi sono casi in cui, afferma Mancini, vivono persino otto anni o più. A<br />

quell’età però non hanno un canto armonioso e continuo.<br />

I capineri vivono circa tre anni, i passeri solitari due di più.<br />

“Li cardelli campano chi dieci e chi quindici e chi venti anni, più o meno<br />

secondo la loro complessione, e sempre sono di buona disposizione e cantano per<br />

sino all’ultimo giorno della loro vita”. I fanelli vivono al massimo cinque anni.<br />

“Li fringuelli vivono poco per essere soggetti ad accecarsi; chi campa un anno, chi<br />

duoi, chi quattro. Le calandre, lodole, uccellette, tutte hanno quasi una medesima<br />

vita; chi vive tre anni, chi cinque”.<br />

L’opera di Cesare Manzini contribuisce a far conoscere le tecniche di cattura<br />

dei migratori ed a suscitare interesse anche nel mondo dei letterati. Così nei<br />

558


castelli si continuano ad organizzare battute di caccia, ma anche a discutere dei<br />

diversi sistemi di aucupio, cioè di uso delle reti.<br />

Uomini di cultura discutono di caccia e soprattutto danno alle stampe opere che<br />

hanno un loro particolarissimo pregio letterario oltre che un notevole valore di<br />

testimonianza. Tali libri vengono letti nelle diverse corti dove la caccia diventa un<br />

punto di riferimento importante per i nobili.<br />

“Chi ben comincia”<br />

Così nel castello di Valvasone, in Friuli, Erasmo (1523-1593) feudatario letterato<br />

dà alle stampe la traduzione in versi della Tebaide di Stazio, coglie consensi per<br />

quella dell’Elettra di Sofocle, ma raggiunge la notorietà con il poema La caccia<br />

stampato nel 1591. Si tratta di una pregevole opera in cinque canti di cui il primo<br />

tratta dell’origine della caccia, il secondo dei cani e dei cavalli, il terzo di streghe,<br />

malocchio e religiosità del cacciatore, il quarto è incentrato su consigli ad un<br />

giovane che voglia diventare cacciatore ed il quinto infine agli uccelli di rapina.<br />

Un’opera che viene presto letta nelle diverse corti ed è considerata un importante<br />

“galateo” della caccia intesa non solo come cattura dei selvatici, ma cerimonia<br />

mondana e dimostrazione di fasto e di potenza del dominatore.<br />

Scrive Erasmo di Valvasone nel prologo<br />

Veggio di reti circondar le selve<br />

E ‘l cacciator, che di cinghiali ed orso<br />

Le spoglie appende e i sacri tempi inchina<br />

E’ una delle prime volte in cui in un libro di caccia si fa riferimento alla<br />

religione ed alla sua importanza per il cacciatore che, prima di cominciare le<br />

catture, dovrebbe rivolgere i suoi pensieri a Dio ed alla Madonna.<br />

Ma chiunque si sia che pregio stima<br />

Tornar di nuovo preda altero e grave<br />

Non esca alla campagna egli se prima<br />

I prieghi suoi mandati al ciel non have<br />

E negli anni seguenti il riferimento sempre più pressante a Dio ed alle<br />

preghiere, ritenute importanti ai fini del successo nella caccia, dà origine ad un<br />

detto entrato nell’uso.:<br />

Chi ben comincia è alla metà dell’opra<br />

A divulgarlo, l’autore è Giovan Battista Guarini (1538-1612), fu Francesco<br />

Birago, milanese, proprietario di tenute in Lomellina e autore del Trattato<br />

cinegetico overo: della caccia.<br />

In tarda età decise di scrivere di pratica venatoria “con l’animo almeno di dar<br />

opera alla caccia”.<br />

559


E’ il primo a consiliare al cacciatore di leggere libri che riguardano la sua<br />

attività “acciocché, leggendo vari scrittori, possa meglio imparare la natura degli<br />

animali e la forma di cacciargli”.<br />

Raccomanda di non andare a caccia “il giorno festivo, almeno la mattina,<br />

perché quello è tempo di spender in sentir li Divini Uffici; gli altri giorni poi non<br />

feriati, non montare a cavallo senza aver fatto prima un poco d’orazione”.<br />

Ricorda infine quanto ebbe a scrivere Guarini nel Pastor Fido (atto I scena I.<br />

vv. 22-26)<br />

Bernardo Davanzati (1529-1606)<br />

Noi Linco andiam a venerar gli Dei<br />

Con più sicura scoprta<br />

Seguirem poi la destinata caccia<br />

Chi ben comincia ha la metà dell’opra<br />

Né si comincia ben se non dal Cielo.<br />

Nella letteratura viene ricordato come fine latinista e per aver tradotto in maniera<br />

esemplare gli Annali di Tacito, con un linguaggio così essenziale da essere<br />

ritenuto da Giacomo Leopardi “padrone assoluto di quella onnipotente lingua<br />

fiorentina”.<br />

In Toscana, coltivazione delle viti e delli arbori, descrive minuziosamente la<br />

“ragnaia” per catturare i beccafichi ed indica anche quali sono le piante più adatte.<br />

Una descrizione minuziosa della ragnaia e di come funziona viene operata anche<br />

da Antonio Popoleschi (1551-1608).<br />

Dalle scoperte dei primi ornitologi ai moderni studi sulla<br />

migrazione.<br />

Nasce la moderna ornitologia<br />

L’autore che impresse una svolta all’ornitologia fu Antonio Valli da Todi con Il<br />

canto degli Augelli, stampato, per la prima volta a Roma, nel 1601, da Nicolò<br />

Muzii.<br />

E’ un trattato completo sui diversi modi di caccia con particolare riferimento<br />

alla cattura dei migratori.<br />

Contiene anche riferimenti ad alcune tecniche bizzarre, ma che l’autore,<br />

riferendole come un diligente cronista, ritiene efficaci qual è quella di prendere i<br />

passeri con un canestro costruito a mo’ di nassa in modo che gli uccelli possano<br />

entrare e non uscire. Sono attratti all’interno da granaglie e da un nido con passeri<br />

non ancora in grado di volare, ma che si lamentano perché vogliono essere cibati.<br />

560


Indica anche come fare la chiusa sia ai tordi che alle quaglie ed inoltre come<br />

fabbricare il vischio.<br />

La tecnica è la medesima che era ancora in uso fino alla seconda metà del<br />

secolo scorso, quando il vischio vegetale fu sostituito da particolari colle vendute<br />

come prodotti per catturar topi ed altri animali dannosi.<br />

Fra i vari consigli c’è anche quello del “modo di far cantar gli ucelli”.<br />

“Tutti gli uccelli sogliono mutar le penne di agosto per tutto settembre e per<br />

questo lassano il loro canto infin a tanto che non hanno purificato il loro sangue<br />

per causa della muta. E’ bene assicurargli le penne con sbruffarli di vino, non<br />

troppo fumoso e sciuttandole al sole, causarà tanto prima a qual si voglia a<br />

repigliar il canto; e volendono sforzar, seme di lino, pugnoli, zaffarano doi o tre<br />

fila in beveratorio, uno di questi per volta e erba verde continuo che si rallegri di<br />

maniera”<br />

Inoltre indica anche quali sono i volatili da tenere nell’uccelliera “La nizola di<br />

pantano (migliarino di palude), pispola, occhi cotti (occhiocotto), capocecera<br />

(sterpazzola), graulo (rigogolo), codozinzole (ballerina). La rondinella canta assai,<br />

ed è mediocre canto, questo non si suol allevare né mantenere in gabia”.<br />

Giovan Pietro Olina, tra scienza e caccia<br />

L’autore che più condizionò nei secoli successivi l’ornitologia e che gode ancor<br />

oggi di indubbio prestigio e fama, dovuta al gran numero di notizie, ai singolari<br />

sistemi di caccia descritti ed anche ad una certa arguzia, è l’abate Giovan Pietro<br />

Olina. La descrizione che fa dei volatili è precisa, il riferimento al loro modo di<br />

vivere esatto e, in alcuni casi, elenca anche particolari abitudini o come, gli<br />

appassionati, devono tenere e far cantare gli uccelli.<br />

Nato nel 1587 da famiglia nobile ad Orta Novarese, divenne abate con l’ufficio<br />

di “Sub Economo regio a Novara” dove morì a 57 anni. Scrisse L’uccelliera.<br />

Un’opera ripetutamente stampata nei secoli. Bacchi della Lega dimostrò che<br />

molte parti erano state riscritte dai testi di Antonio Valli da Todi, ma, in verità,<br />

occorre dire che, come nota acutamente Giuliano Innamorati in Arte della caccia:<br />

“la coscienza etico giuridica che abbiamo noi moderni del plagio è assai diversa<br />

da quella che se ne aveva nel XV<strong>II</strong> secolo così come è verissimo che tante accuse<br />

di furto letterario imbastite sia dai contemporanei sia dai posteri e che<br />

segnatamente divennero nell’età del positivismo, quasi una moda dell’agir critico,<br />

sono cadute o quanto meno si sono mostrate male imbastite” Piero Chiara in una<br />

prefazione al testo dell’Olina scrive che “lavorò con bella foga , forse facendo sua<br />

senza troppi riguardi la materia, ma impiegando un linguaggio proprio, sbrigliato<br />

e umoroso, sul quale si vuol richiamare l’attenzione del lettore come su uno dei<br />

caratteri maggiori dell’opera”.<br />

“Settantanove capitoli, la dedica al cavaliere Cassiano dal Pozzo, un proemio<br />

intitolato al lettore, formano questo trattato che descrive soprattutto gli uccelli<br />

conosciuti in Italia al tempo dell’Olina e i diversi metodi di aucupio, sulla<br />

falsariga del libro del Valli. Alcuni capitoli sono ricchi di appassionate<br />

osservazioni e classificazioni, attenzioni e delicatezze per gli uccelli canori,<br />

561


mentre altri freddamente e necessariamente spietati verso gli stessi nel consigliare<br />

come ingrassarli per farne piatti prelibati” (Giuliano Innamorati, Arte della<br />

caccia).<br />

Nell’introduzione, dedicata “al lettore”, Giovan Pietro Olina, spiega il perché<br />

della sua opera che fa riferimento ai volatili “nei quali si specchia la grandezza di<br />

Dio”.<br />

Le meraviglie dell’ universo<br />

“Se tutte le belle arti recano piacere per la vaghezza, novità ed altezza del soggetto<br />

intorno a cui travagliano, la contemplazione della natura e proprietà degli uccelli<br />

contiene ogni piacere sparso nell’altre contemplazioni delle meraviglie<br />

dell’universo”.<br />

Ed ancora “E’ certo che se nell’uomo vediamo compendiato il meglio<br />

dell’universo, nella specie degli uccelli mirasi quanto di buono è disperso in tutte<br />

l’altre specie degl’animali”.<br />

La descrizione dei diversi uccelli è essenziale: il nome, comune e latino, i<br />

riferimenti a come viene chiamato in diverse regioni, le abitudini di vita, la<br />

riproduzione e l’allevamento della prole. Si dilunga poi nei diversi sistemi di<br />

cattura. Molti sono particolari e se n’è perso l’uso proprio perché un tempo erano<br />

giustificati dalla grande abbondanza di volatili. Il riferimento ad alcuni volatili<br />

serve ad esempio di come questo grande autore trattò la complessa materia ed<br />

anche in che modo influì sugli studi successivi in particolare in Lombardia, dove<br />

la cattura degli uccelli si svolgeva con specifiche tecniche. Nelle descrizioni dei<br />

medesimi volatili e del modo di catturali, contenute in altra parte della ricerca,<br />

sono infatti evidenti le tracce lasciate dall’abate di Novara.<br />

La lodola<br />

“Questo nome di lodola, latinamente detto alauda, come generale comprende<br />

diverse spezie dell’istesso uccello che si distinguono poi con gl’aggiunti di<br />

cappeluta, maggiore, minore e simili”. “Il suo canto”, scrive poi, dopo aver<br />

indicato come vive e si riproduce e dato consigli per catturar i piccoli togliendoli<br />

dal nido prima che abbiano le piume ben sviluppate perché altrimenti<br />

fuggirebbero, “è dilettevole per esser vario, pieno di gorgheggi e e sminuimenti<br />

diversi; canta d’ordinario la mattina a ciel sereno, rare volte per terra. Nel suo<br />

volare va in giro continuamente, salendo cantando, pigliandosi gusto di tant’in<br />

tanto, con un moto aggiustato d’ale di sotenersi in aria, di dove poi caland’a poco<br />

a poco, in fine scende con tanta furia che più si precipita che cala”.<br />

562


Lo storno<br />

Fra i diversi modi per catturar gli storni con le reti o con altri sistemi Olina indica<br />

anche quello, affatto particolare di usarne uno per prender tutti gli altri mentre<br />

volano. Si lega uno spago invischiato ad uno storno e ci si avvicina ad un branco,<br />

poi quando gli uccelli volano, si lascia libero lo storno con lo spago legato ad una<br />

zampa: volando fra i congeneri “studiandosi l’invischiato d’assicurarsi della<br />

libertà col mettersi in mezzo a compagni ne verrà impaniando molti, che non<br />

potendosi tenere verranno con piacevole spettacolo a terra, dove giunti bisogna<br />

essergli addosso prontamente con un mazzo di frasche, quasi abbacchiando acciò<br />

non si riabbino”.<br />

Il tordo<br />

A proposito dei tordi, dopo averne descritto le caratteristiche afferma che “è da<br />

notare che, nel mangiar di questi uccelli, oltre la delicatezza del sapore v’è ancoro<br />

beneficio particolare della sanità, perché dall’alimento pigliano qualità e come lo<br />

storno è quasi infame per il pasto della cicuta, così questi e per la mortella”.<br />

Descrive con precisione le “tre spezie”, dando anche notizie sulla loro<br />

presenza.<br />

“La prima è del maggiore e chiamasi viscivorus poiché per lo più si vede su<br />

alberi dove fa ‘l visco ed è vago di quelle coccole: questo in italiano<br />

comunemente si dice tordela e in Lombardia chiamasi “dressa”, è grande poco<br />

meno della ghiandaia e più scuro de gl’altri”.<br />

L’Autore fa poi riferimento sia a quanto scrissero i latini “turdus sua necem<br />

cacat” ricordando in questo modo come, cibandosi di bacche di vischio la tordela<br />

elimina i semi mentre è sugli alberi e contribuisce alla propagazione della pianta<br />

parassita da cui si produce poi il vischio stesso usato anche per catturarla.<br />

Ricorda infine a questo proposito quanto ebbero a scrivere Giulio Cesare<br />

Scaligero di Riva del Garda (1484-1589) medico, naturalista e critico, e Ulisse<br />

Aldovrandi ( 1522-1605) che contestarono l’affermazione latina.<br />

La seconda specie “è del tordo mezzano, latinamente detto pilaris, che è il<br />

tordo ordinario, benchè in Toscana si chiami bottaccio, e questa è quella spezie<br />

che vien detta tordo nostrale perché è ferma in queste nostre parti trovandosi<br />

l’estate nelle montagne e alla frescura”.<br />

La terza spezie è del minore, latinamente detto iliacus perché è segnalatamente<br />

macchiato né fianchi e sotto l’ale di rossiccio. Questo comunemente per l’Italia<br />

dicesi tordo sassello e sul comparir allo scorto degl’altri”.<br />

La beccaccia<br />

Descrive anche una maniera tutta particolare per catturare le beccacce dette<br />

pizzarde “dal pizzo che vale tanto quanto dir becco, onde dicono impizzare per<br />

imbeccare, dicesi anco beccaccia similmente dal becco, perché l’ha<br />

563


straordinariamente lungo. In Toscana chiamasi aleggia, in Lombardia gallinaccia,<br />

latinamente scolopax o vero perdix rustica maior. E’ uccello assai noto”.<br />

La caccia si praticava facendo ampi solchi nei prati frequentati dalle beccacce e<br />

ponendo a breve distanza l’uno dall’altro dei lacci “L’uccello essendo assai<br />

balordo, entrandovi, e usando entrato che v’è, di scorrere da un capo all’altro, vi<br />

dà dentro senz’accorgersene, restando preso”.<br />

Il colombaccio<br />

Indica con minuzia di particolari il tipo di caccia a questo selvatico che “dicesi, a<br />

Roma, piccione da ghianda, in Toscana, Colombaccio, in Lombardia, colombo<br />

avaro, in latino, palumbus maior”. “Sta nelle selve e boschi dove cova una volta<br />

l’anno facendo due sole uova;dura nel covar due settimane. Suol pascersi di<br />

ghiande e fave, in mancanza di che,mangia biade diverse e legumi. Si pigliano in<br />

più modi ma particolarmente impaniando diligentemente nel tempo del loro<br />

passaggio un opiè (piantone, ndr) d’ulivo o quercia che sia poco lontano da<br />

altr’alberi, in cima del quale vi si mette un colombaccio cigliato (accecato, ndr)<br />

che stia a lieva, e vedendo l’uccelatore dal capannello passarne , zimbella con<br />

esso che così calano , restando presi”.<br />

Si fa poi portavoce di alcune credenze affermando fra l’altro: “non è mai più<br />

grasso di quando ha mangiato la gianda, per la cui causa credesi che l’uso della<br />

sua carne piutosto reprima che stimoli la sensualità; onde come il colombo<br />

domestico è, per il fomento che a quello dà, ascritto a Venere, questo, per<br />

contrario, fu dedicato a Proserpina” .<br />

Anselmo Boezio (medico fiammingo morto verso il 1434, ndr) nella sua<br />

Istoria delle pietre pretiose, s’accorda con gl’altri a dire che “né ventrigli di<br />

quest’uccelli, massime delle palombelle, si trovin spesso molte pietruzze che<br />

faccin miracoli per la cura della renella”.<br />

La capinera<br />

La capinera, latinamente atricapilla, “fra gli altrui uccelli da gabbia è di natura<br />

allegra, di canto soave e dilettoso, di vista vaga e graziosa per il comportamento di<br />

chiaro e scuro che si vede in tutto il suo corpo”. Aggiunge quindi che i giovani<br />

appena catturati possono esser nessi a scuola da uccelli di altre specie e ne<br />

imparano il canto. “Faranno”, scrive, “il verso boschereccio e piglieranno altre<br />

sorti di versi di fanelli imparati, ovvero d’altri uccelli, imparando i nidiacei tutto<br />

quello che gli viene insegnato”. Infine fa alcune notazioni fra cui quella che la<br />

capinera impara presto a riconoscere il padrone e “dandone di questo particolare<br />

segno con una maniera di cantare differente dall’altra quando scorge il padrone<br />

attorno alla gabbia”.<br />

564


Il merlo<br />

A dir la verità ha dato a simbologia e storia ben pochi contribuiti. Aristotele, e<br />

numerosi naturalisti, lo ricordano per il canto melodioso. Alcuni perché vi sono<br />

anche merli albini che peraltro vivono ben poco essendo più facilmente vittime<br />

dei predatori. Secondo una leggenda però, i merli erano un tempo tutti candidi.<br />

Accadde un giorno a fine gennaio (nel calendario del tempo il mese aveva 28<br />

giorni) che una merla con i suoi piccoli dileggiasse il mese affermando che<br />

essendo oramai alla fine non avrebbe più potuto nuocergli con il suo freddo<br />

intenso. Gennaio si indispettì, chiese tre giorni a febbraio che glieli concesse<br />

rimanendo da allora con 28 e subito mutò il tempo con neve, grandine, bufere e<br />

temperatura sottozero. La madre con i piccoli si rifugiò in un camino, ma il fumo<br />

fece diventar loro nere le penne che da allora non riacquistarono più il colore<br />

originale. Ecco perchè i tre giorni di fine gennaio, considerati i più freddi<br />

dell’anno, vengono chiamati da allora “i giorni della merla”. Dal Medioevo,<br />

complice Richard de Fournival che nel suo “Bestiario d’amore” scrisse per primo<br />

che il merlo era brutto, non si guardò all’estetica del volatile considerandolo non<br />

degno di essere paragonato ad altri uccelli dal piumaggio colorato. Nel Bestiario<br />

infatti è scritto: “La voce ha tante virtù da far dimenticare tante cose sgradevoli.<br />

Come succede nel caso del merlo: per quanto sia il più brutto fra tutti gli uccelli<br />

che si tengono in gabbia e canti soltanto per due mesi all’anno, lo si tiene più<br />

volentieri di qualunque altro uccello per la melodia della sua voce”. E’ fra i primi<br />

a cominciare a cantare proprio mentre il freddo sta per finire e lo ricorda un<br />

proverbio “quando canta il merlo siamo fuori dall’inverno”. Nella società<br />

contadina alcuni filastrocche ricordano proprio quel primo canto di primavera<br />

Canta la calandrina<br />

E canta il merlo<br />

Me nn’ foto sor paron<br />

bel Che xe fora l’inverno<br />

Ed un’altra ricorda il contadino che col ritorno del bel tempo non deve più<br />

chiedere aiuto al proprietario della casa in cui è alloggiato<br />

Sifola el tordo<br />

Canta el merlo<br />

Fora l’inverno<br />

In culo al paron<br />

Il vocabolo ha per lungo tempo significato, e continua a significare in alcune<br />

regioni, persona poco accorta. Tuttavia non ha alcun riscontro nell’indole del<br />

merlo. In Modi di dire proverbiali e motti popolari italiani, Ludovico Passarini dà<br />

una spiegazione precisa di come son nate tali dicerie sull’ingenuità del merlo. In<br />

Toscana infatti dire “Fo il merlotto” significa faccio il semplice, il credulone e<br />

“merlotto” sta per merlo giovane, uscito da pochi giorni dal nido, credulone e,<br />

quindi, facile preda. “La voce ‘merlotto’ si prende figurativamente d’uomo<br />

565


semplice, grossolano e corrivo, come pure le voci cucciolo, cucciolotto, pippione,<br />

allocco, tordo, pollastrotto. Perché quando i merli son giovani si lascian prendere<br />

facilmente. Laddove son cresciuti e possono volare divengono più accorti e<br />

acquistano qualche sorta di furberia, per questo d’un uomo che non è più semplice<br />

e balordo suol dirsi “Il merlo ha passato il rio” come appunto disse il Petrarca<br />

nella Frottola. Ci sono anche altri modi di dire fra cui “Non è così merlotto come<br />

vuol far credere”. In araldica il merlo compare senza becco, lingua, unghie e con<br />

ali attaccate al corpo. Un altro proverbio “Il merlo ha passato il Po” sta a<br />

significare la perdita di ogni speranza e ne dà una spiegazione acuta Alessandro<br />

Tassoni: “Direi ch’essendo il merlo uccello che non muta mai clima, né fa gran<br />

volo, come quello che si va di albero in albero riparando e che agevolmente si<br />

conosce tra le fronde per esser di piuma nera, perciò la sua caccia non sia<br />

malagevole molto, se non se il cacciatore, non valendosi del tempo, si lasci<br />

condurre al passo di qualche rio, o di qualche fiume, di là dal quale volandosene il<br />

merlo, egli perda l’occasione di più arrivarle. E perchè vi sono de’ fiumi e dè rii,<br />

che pur anche il cacciatore potrebbe passarli, e seguirlo, quando è si dice ch’egli<br />

ha passato il Po, ch’è il maggior fiume d’Italia, e si vuole dire che la speranza e<br />

l’occasione è spedita affatto”. Tale proverbio, secondo il Dizionario della Crusca,<br />

“dicesi per lo più di donna che per età sia mancato il fior della bellezza”.<br />

Il torcicollo<br />

Il nome greco sta a significare non solo il volatile, ma anche una maga esperta nei<br />

filtri d’amore che un particolare strumento utilizzato per far talismani erotici.<br />

Aristotele ne dà una descrizione precisa: “E’ un po’ più grande del fringuello, il<br />

suo piumaggio è macchiato, ha come caratteri particolari la disposizione delle dita<br />

e la lingua che assomiglia a quella dei serpenti: la distende in effetti su una<br />

lunghezza che può giungere fino a quattro dita e la ripiega poi su se stessa. Inoltre<br />

gira il collo all’indietro mentre il resto del corpo rimane immobile, come fanno i<br />

serpenti. Ha le unghie grandi che somigliano a quelle delle taccole. Emette piccoli<br />

gridi acuti”. Proprio questo suo particolare modo di girare la testa e guardarsi<br />

intorno avrebbe significato per gli antichi la onniveggenza ed il Pascoli la ricorda<br />

Ma il torcicollo, a cui nulla si cela<br />

Avanti o dietro, e che giamai non erra<br />

Pindaro lo chiama anche uccello del delirio perché susciterebbe passioni amorose<br />

a cui non si può resistere.<br />

Il picchio<br />

C’è una leggenda che lo pretende trasformato in uccello da Circe a cui negò<br />

amore per fedeltà alla sposa. Una suggestiva storia ricordata da Ovidio. Pico era<br />

566


un re dell’Ausonia famoso per il suo fascino. Innamoratosi della ninfa Canens,<br />

figlia di Giano, nota per la sua bellezza e la voce la sposò. Un giorno andò con i<br />

suoi cavalieri a caccia di cinghiali . Aveva un mantello rosso fermato da una spilla<br />

d’oro ed era bellissimo. Circe, figlia del sole, si trovò sul suo cammino e rimase<br />

subito colpita dalla bellezza del sovrano. Fu amore a prima vista o, come si suol<br />

dire, un autentico colpo di fulmine. Subito la maga mise in atto un inganno. Creò<br />

un fantasma simile ad un cinghiale e lo fece correre davanti al re che lo inseguì.<br />

Subito dopo Circe fece giungere una tempesta ed il corteo di cavalieri si<br />

scompigliò e disperse. Appena il re rimase solo Circe gli comparve supplicandolo<br />

di amarla ma il re le rispose<br />

Già sono schiavo d’un’altra e prego<br />

Di restarlo per lunga vita<br />

Né per un altro amore il patto violerò<br />

Che con lei mi legò finché il destino<br />

Mi serberà la figlia di Giano, Canens<br />

Circe allora mise in atto un suo incantesimo trasformando il giovane in un<br />

uccello, il picchio<br />

Egli fugge, ma si stupisce di correre<br />

Più veloce del solito; e vede crescere sul sul corpo<br />

Piume e indignato di volare, nuovo uccello<br />

Nelle selve del Lazio, col duro becco sforacchia<br />

Le selvatiche querce, e stizzito infligge<br />

Ferite ai lunghi rami. Sul purpureo mantello<br />

Le penne prendono il colore. L’oro che borchia<br />

Era prima e mordeva la veste, piuma diventa:<br />

E il collo si cinge del giallo dell’oro.<br />

E di quel che era solo il nome resta: Pico<br />

Il sovrano trasformato in uccello era anche un augure, ecco perché i Romani<br />

considerarono il picchio uccello importantissimo per i vaticini. Ricorda a questo<br />

proposito Plinio il Vecchio “Non posso passare sotto silenzio un presagio fornito<br />

da essi. Sulla testa del pretore urbano Elio Tuberone, mentre amministrava la<br />

giustizia nel foro davanti al tribunale, si posò un esemplare in maniera così<br />

tranquilla che si lasciava prendere in mano. Gli indovini risposero che se si fosse<br />

lasciato andare avrebbe preannunciato la rovina dello Stato, se invece fosse stato<br />

ucciso la morte del pretore. Questi fece subito a pezzi l’uccello e non molto tempo<br />

dopo il funesto presagio si compì”. Gli Umbri lo ritenevano di buon augurio ed il<br />

tramite, con la quercia,fra l’uomo e gli dei. C’è una leggenda che spiega perché il<br />

picchio con il suo verso ripetuto annuncia la pioggia. Quando Dio creò il mondo<br />

chiese aiuto ai volatili con il becco grosso ed appuntito per scavare gli alvei dei<br />

fiumi e dei torrenti. Tutti collaborarono ad eccezione del Picchio. Il Creatore<br />

decise di punirlo e disse “non potrai più bere neppure una goccia d’acqua che<br />

abbia toccato il terreno”. Ecco perché, quando il picchio ha sete, comincia a<br />

567


chiedere a Dio, tramite il verso ripetuto, che mandi la pioggia in modo da potersi<br />

dissetare. Può accadere che venga ascoltato subito o addirittura dopo un giorno. Il<br />

picchio proprio per la sua abitudine di cercare i vermi nascosti nei tronchi fu<br />

paragonato nel Medioevo a Cristo che combatte in ogni luogo contro il Diavolo.<br />

Nel 1897 padre Guedon scriveva “Guardate questo uccello, egli ama gli alberi<br />

come fanno tutti gli uccelli della terra, e persino più di quanto li amino molti di<br />

loro, come la rondine, la pernice, la quaglia, l’allodola,i quali raramente traggono<br />

vantaggio dalla loro ombra; e nonostante ciò egli li colpisce duramente con il suo<br />

becco aguzzo, li ferisce, li lacera. Egli lo fa solo per farne uscire i vermi perniciosi<br />

e le larve che li minano e li rodono dentro; poi uccide immediatamente quei<br />

parassiti. Anche nostro Signore agisce spesso a nostra insaputa: egli ci ama e<br />

nonostante ciò ci colpisce nel corpo, nello spirito e nel cuore con prove spesso<br />

penose. Ma è per renderci migliori che ci infligge queste prove e per liberarci<br />

dalle larve del vizio che si agitano in noi e sono opera di Satana.<br />

Dobbiamo perciò saper restare impassibili, come l’albero, o quanto meno<br />

essere pazienti sotto le prove che ci attendono e che, nonostante la loro durezza,<br />

hanno più la funzione di cure di medicazione spirituale che di colpi inflitti per<br />

castigo”.<br />

Il colombo<br />

C’è un equivoco da dissipare. Sia nei miti che nei Bestiari del Medioevo si scrive<br />

Colomba anche quando ci si riferisce al maschio, cioè al colombo oppure al<br />

piccione. Si tratta comunque del genere Colomba di cui fanno parte sia il<br />

colombaccio che la colombella ed il colombo terraiolo. Il nome è un derivazione<br />

del latino Columbus, piccione, invece, è una trasformazione del vocabolo tardo<br />

latino Pipio, pipionis.<br />

Il miele e i semi di melone<br />

Giovan Pietro Olina indica alcuni rimedi per guarire le malattie degli uccelli.<br />

Molti ornitologi avranno modo di constatare come alcune malattie vengono ancor<br />

oggi curate come un tempo, oppure, che alcune sostanze medicamentose utilizzate<br />

dalla moderna veterinaria sono contenute in quei prodotti che vengono indicati<br />

come rimedi necessari a guarire.<br />

Qualora gli uccelli abbiano posteme sulla testa occorre prendere “un ferro della<br />

grossezza dell’occhio dell’uccello, o poco meno, infuocandolo e toccando con<br />

quello il luogo affetto, che se sarà acquoso si asciugherà, se gassoso si consumerà;<br />

e devesi fatta detta cauterizzazione, ungere con sapone nero liquido ovvero olio e<br />

cenere calda”.<br />

Aggiunge poi che, inizialmente, tale postema è più piccola di un seme di<br />

canapa e diventa poi grossa come un cece ed è in questo caso è opportuno, prima<br />

di ricorrere al fuoco, purgarli “con sugo di bieta nell’abbeveratoio invece di<br />

acqua”.<br />

568


Tali posteme possono anche crescer accanto agli occhi ed è allora opportuno,<br />

consiglia Olina, prima di ricorrere alla cauterizzazione, di dare agli uccelli sugo di<br />

bieta unito ad un po’ di zucchero: qualora l’uccello non guarisca si bagni la<br />

postema con “latte di fico o con scorza di melarancio o agresto, ovvero si bagnerà<br />

con l’acqua nella quale sia bollito elleboro o acquavite”.<br />

Vi sono volatili che hanno piccole ulcere sul palato: la guarigione si ottiene<br />

mettendo “nell’abbeveratoio seme di mellone mondo e dissoluto nell’acqua per tre<br />

o quattro giorni, toccandogli leggermente il palato con una penna intinta in miele<br />

rosato il quale sia inasprito con un poco d’olio di zolfo”.<br />

Può accadere che diventino rochi o comunque abbiano una diminuzione della<br />

voce e quindi anche il canto non sia più efficace.<br />

“Vi si rimedierà col fargli decotto con giuggiole, fichi secchi, liquorizia pesta<br />

e acqua comune; dandogli di quest’acqua con un poco di zucchero per duoi giorni<br />

e seguendo poi per due o altri tre giorni con sugo di bieta”.<br />

Gli uccelli come maestri<br />

Vincenzo Tanara, nobile di Bologna (1600-1667) divenuto da uomo d’arme fine<br />

letterato con qualche eccessiva velleità di ricercatore e narratore, in un<br />

originalissimo libro sull’ornitologia ritrovato da un manoscritto e pubblicato per<br />

interessamento di Bacchi della Lega, cerca di dimostrare che gli uccelli non solo<br />

insegnarono agli uomini tutti i mestieri e le arti, ma, al tempo dei Romani, erano<br />

padroni dei destini del mondo. E questo perché allora non si cominciava<br />

un’azione importante collettiva o individuale, dalla guerra al matrimonio, senza<br />

aver consultato gli indovini che traevano vaticini proprio dal volo degli uccelli.<br />

Tanara, autodidatta autentico, convertitosi alla cultura solo in media età, riporta<br />

anche numerose credenze ed alcuni bizzarre riflessioni che si ritroveranno poi<br />

sparse, fino all’Ottocento, in numerosi lombardi. “L’unione e reciproca fatica con<br />

cui vivono le Grue, onde n’è venuto la parola congruere, dà a conoscer agli<br />

amministratori della repubblica che non deono intraprendere né comandare, se<br />

non cose congrue, e decenti”.<br />

Gli uccelli, sempre secondo Tanara, hanno insegnato agli uomini anche la<br />

coltivazione dei campi “L’agricoltore non solo ha imparati dagli uccelli<br />

l’innestare, il seminare e il piantare , come ben noto a tutti,ma tutto il giorno cava<br />

dal loro arrivo non solo avvertimenti del tempo di seminare, di vendemmiare , del<br />

potare e dell’arare ma anche presagi delle piogge, delle mutazioni, della<br />

lunghezza o brevità delle stagioni.”.<br />

Infine gli uccelli gli uccelli avrebbero suggerito agli uomini diverse “arti” fra<br />

cui la pittura perché questi imitarono il colore del piumaggio e la scrittura<br />

servendosi proprio delle penne per scrivere, la strategia militare perché vagano nel<br />

cielo “con schiere ordinate”. Infine continuano a dar esempio di valore.<br />

“La poiana non cade né alla prima né alla seconda ferita, e se bene avrà<br />

ricevuto colpo mortale, col piede s’afferra nondimeno al tronco dove si trova, per<br />

dare a conoscere al soldato l’intrepidezza che dee avere egli in conservare il posto<br />

insino alla morte”. Ma questi sono gli esempi più palesi. Gli uccelli, infatti,<br />

569


sempre secondo Vincenzo Tanara, continuano ad insegnare la gratitudine, ed alle<br />

donne la “verecondia e l’amor maritale”.<br />

“L’usignuolo subito che conosce essere nati i suoi figli, mai cessa di cantare,<br />

per insegnar loro quanto gli renda riguardevole il canto. Di questo esempio le<br />

donne sono ammonite a principiar presto, e per tempo ad educare i figli né buoni<br />

costumi, ed in quelle virtù delle quali l’età di mano in mano gli rende capaci,<br />

acciocché riescano veri uomini.”<br />

Fra le tante virtù di cui con tingano ad essere esempio vi è anche quella del<br />

silenzio.<br />

“Ritrovasi tale di natura tanto loquace che alcuna volta il molto ragionare gli<br />

apporta danno. Gli omini possono pigliar esempio dalle oche, le quali nel passare<br />

sopra il monte Tauro, dove abitano molte aquile ad esse nemiche, portano una<br />

pietra in bocca per astenersi dal natural gracchiamento, col quale sveglierebbero le<br />

aquile con lor danno”<br />

Continuando nell’indicare i volatili ad esempio agli uomini, ne descrive<br />

minuziosamente la biologia indulgendo a credenze e dicerie “Il cardello, col<br />

cercaresi il cibo tra spini, cardi figura agli uomini valenti e virtuosi i quali col<br />

mezzo della fatica e virtù acquistano il vitto e la gloria perpetua”.<br />

570


Capitolo 4<br />

La storia nella rete<br />

Le aste, i fischi, le reti gli zimbelli<br />

Le furberie, le belle imprese io canto<br />

Che sono al tempo che passano gli augelli<br />

Dal polo ai caldi climi e giovan tanto.<br />

Filippo Pananti<br />

La storia del roccolo<br />

E’ storia labile e contraddittoria quella dei roccoli, forse perché scritta sulla rete.<br />

O forse perché mescola vicende di patrizi e povera gente e li eguaglia nello<br />

zirlo del tordo o in uno sguardo nel cielo alla ricerca di migratori.<br />

Ha la voce del vento e il volto delle lontane stagioni quando gli uomini, prima<br />

di sedersi a tavola, facevano il segno di croce davanti alla polenta, come fosse una<br />

grazia di Dio ritrovata. Raccontano di gesti che si son mantenuti eguali nei secoli,<br />

con le reti intessute, i tordi che continuano a ripetere il solito verso, i fringuelli<br />

che par cantino il salterio e le mille voci di tanti altri “richiami”.<br />

Ed è rimasta intatta la sapienza della preparazione dell’appostamento, il modo<br />

di custodire gli ingabbiati, la maniera di collocarli, ciascuno al suo posto e proprio<br />

e sempre lì perché sono sufficienti poche decine di centimetri da una parte o<br />

dall’altra per renderli muti.<br />

Gli anni, i secoli sarebbe meglio dire, hanno portato qualche modifica, ma non<br />

sostanziale. E’ come se roccoli, paretai, boschetti ed altri tipi di impianto fossero<br />

isole dimenticate dall’attualità e scivolate in un angolo buio, e insieme<br />

privilegiato, della storia.<br />

Solo nella seconda metà del secolo scorso le leggi hanno cominciato ad imporsi<br />

in una pratica che fino alla seconda parte del secolo scorso poteva far prede su<br />

decine di razze ed eguagliava, nelle catture, cince e fringuelli, tordi dalle carni<br />

saporite e fanelli dal verso dolcissimo. E insieme a loro tanti altri, a far meno<br />

povera la mensa.<br />

Oggi ci sono limitazioni in numero e specie, esistono regole per la vendita e la<br />

custodia dei pennuti, restano salvi da reti ed altri “inganni” tutti i minuscoli<br />

volatili, dai cardellini, che quando sono in branco sembrano fuggiti<br />

571


dall’arcobaleno, ai lucherini, che giungono e se ne vanno tutti insieme e cantano<br />

con quel loro verso che pare un trillo di gioia scagliato contro le nuvole.<br />

Vi è poi la schiera degli strillozzi che se ne volano al tramonto e all’alba, la<br />

famiglia delle cince, i frosoni, che paiono guerrieri invincibili per via del becco, e<br />

invece sono fra i più creduloni e prima di calar nella rete stanno a lungo sulle<br />

pertiche e si stagliano contro l’azzurro quasi ci si volessero specchiare.<br />

Infine ci sono anche i codibugnoli, leggeri come una piuma, che quando<br />

giungono paiono portati da un rabbuffo di vento e se rimangono nelle reti devi<br />

correre a toglierli subito e donarli all’aria prima che s’intrighino con le piume e la<br />

lunga coda fra le maglie.<br />

Un tempo il roccolo pareva un inesauribile vaso delle fate, capace di contenere<br />

tutte le meraviglie del cielo perché i migratori cominciavano a giungere già dalla<br />

metà di agosto e continuavano fino “ai Morti” o qualche giorno dopo nelle ultime<br />

ore dell’estate di san Martino. E ciascuno significava un po’di fame in meno o<br />

addirittura, se la stagione di caccia era andata bene, i soldi per far studiare un<br />

figlio o curare un malato o vivere un poco meglio.<br />

Oggi dal roccolo si portano via soltanto uccelli vivi da cedere ai capannisti ed è<br />

la continuità di una caccia antica.<br />

Una pagina diversa, se si vuole, della storia, ma anche l’unico modo di farla<br />

rimanere nell’attualità e lasciare ancora un brivido del suo fascino primitivo.<br />

“La storia dell’umanità”, come scrisse Alberto Moravia, “non è che un lungo<br />

sbadiglio” oppure, alla maniera di C. A. Clerel de Torqueville, “una galleria di<br />

quadri dove ci sono pochi originali e molte copie”?<br />

Meglio dunque cercare personaggi che costruiscono (o s’illudono di costruire)<br />

il mondo o guardare alle opere di milioni di altri che s’accontentano di vivere<br />

nella fortuna o nella malasorte senza mai conquistare la cornice di un minimo di<br />

notorietà?<br />

La risposta che giunge dai roccoli non è casuale.<br />

A guardarli ci si rende conto di quanto siano individuali, di come assommino in<br />

loro tante realtà e in che modo ciascuno sia un proprio universo.<br />

Paiono fuori dal tempo e dal vivere di ogni giorno, non conoscono il ritmo<br />

indiavolato di casa-lavoro-casa.<br />

Si direbbe che qui si avvera quanto ebbe a scrivere, tanti, tantissimi anni fa, il<br />

quasi dimenticato, eppur grandissimo, Fabio Tombari: “nel silenzio della caccia<br />

t’accorgi che non c’è più alcuna differenza fra un magistrato ed un sambuco”. O<br />

Epaminonda, comandante dei Greci in un’epica marcia verso la sopravvivenza,<br />

nel suo Cinegetico, 400 anni avanti Cristo: “La caccia è un dono degli dei”.<br />

Ciascun impianto ha una sua fisionomia, un aspetto tutto particolare, piante che<br />

la natura fa crescere e l’uomo contribuisce a “costruire” affinché siano finalizzate<br />

anch’esse all’uso delle reti. Così è stato per secoli, così, dicono, sarà ancora per<br />

tanto altro tempo.<br />

Ma la voce diventa flebile, perde sicurezza perché le case che avanzano<br />

conquistano anche i terreni che furono, in un’epoca non remota, dominio dei<br />

roccoli che vegliavano sulle valli come originali ed improbabili castelli di piante e<br />

reti.<br />

572


Il cerchio e la collina<br />

Roccolo deriva da “rocol”: nasce dal latino rotulum, che a sua volta evoca la ruota<br />

ed indica quindi un impianto tondeggiante, circolare, anche se alcuni hanno voluto<br />

leggere nella parola il significato di rocca, cioè di costruzione in un luogo elevato<br />

da cui si poteva vedere lontano.<br />

Osserva Giovan Battista Angelini (La discrizione dell’uccellare col roccolo,<br />

1724): “Non saprei dire se la denominazione del Roccolo sia ricavato o dalla<br />

parola Roccia che significa un’erta e scoscesa rupe, per essere anch’egli per lo più<br />

situato in monti selvosi ed erti colli, o dalla parola Rocchio con cui si chiama un<br />

pezzo di qualsivoglia materia ch’abbia la figura cilindrica, atteso che il Roccolo è<br />

pure figurato in forma rotonda; o dalla parola Rocco, che propriamente significa il<br />

bastone vescovile che è ritorto in cima come anche il roccolo si gira in doppio<br />

cerchio, o dalla figura Rocco qual è una delle figure con cui si gioca a scacchi,<br />

detto così perchè a guisa di torricella sta sulla scacchiera”<br />

In alcune zone si usa anche il sinonimo di ragnaia, che deriva dal latino aranea,<br />

cioè “ragno” ma anche “ragnatela”; un vocabolo che indica immediatamente quale<br />

sia lo strumento usato per la cattura dei volatili: una “ragnatela”, appunto, ma<br />

costruita dall’uomo e tesa in modo da imprigionare gli uccelli.<br />

Già nel 1500 la “ragnatela” era considerata una sorta di patrimonio delle ville;<br />

Giovanni Antonio Popoleschi (1551-1616) nel suo “Del modo di piantare e<br />

custodire una ragnaia e di uccellare a ragna” scrive: “Dico dunque che la ragnaia<br />

per mia opinione è una delle più belle e migliori comodità che possa avere una<br />

possessione di qual si voglia gentiluomo”.<br />

Così Antonio Tiraboschi (1838-1883) descrive il sistema:<br />

Rocco è detto, e quasi rocca s’erge<br />

Con mura di smeraldo inverso al cielo<br />

Dove un bel colle mansueto inchina<br />

L’Erbosa schiera. E fa piegando ad arco<br />

Picciola valle perciocché e più spesso<br />

Sogliono ivi passar fuggendo l’erte<br />

Il roccolo avrebbe avuto origine in Valle Brembana nel 1500 inventato dai<br />

monaci di san Pietro d’Orzio che intendevano catturare uccelli per distribuire alla<br />

gente. Che il roccolo fosse invenzione bergamasca è testimoniato da Agostino<br />

Gallo (1499-1570), scrittore bresciano autore fra l’altro di Venti giornate<br />

dell’agricoltura; nel capitolo “del pigliare i tordi con le reti, con la civetta e col<br />

zufolo a settembre e parte l’ottobre”, egli afferma che “fra gli altri modi che si<br />

usano per pigliare questi uccelli in vero non è da biasimare quello che i<br />

Bergamaschi chiamano roccolo”.<br />

Anche Antonio Valli da Todi, nel suo libro Il canto degli augell” (1601), indica<br />

il “modo di uccellare con la ragna”, così come, una trentina di anni dopo, Giovan<br />

Pietro Olina ne fa menzione nel suo Uccellier” e Giovan Battista Angelini (1690-<br />

1767) in Descrizione dell’uccellare col roccolo indica anche il modo le reti<br />

avrebbero dovuto essere tese. La sua è una descrizione attenta, che nasce dalla<br />

573


passione e dalla curiosità di comprendere e spiegare una pratica di caccia<br />

originalissima che si andava via via perfezionando.<br />

Secondo Antonio Tiraboschi (1838-1883) autore de L’uccellagione i roccoli<br />

sorsero addirittura nel 1300. Esiste, infatti, un documento del 4 dicembre 1376<br />

con cui il notaio Ubertino da S. Vigilio nel Bergamasco attesta che i fratelli<br />

Cominzono ed Antonio ricevono in deposito dal castellano Jacomolo da Perego<br />

due “tremaglia a roquello” per catturare volatili con corde, anelli ed altre cose<br />

necessarie nelle stesse reti e tremaglie sul monte S. Vigilio, “dal giorno del<br />

predetto contratto fino a Natale impegnandosi a consegnare nella predetta<br />

solennità sei belle filze di tordi. In altri atti del secolo XIV, che pure si riferiscono<br />

alla bergamasca, appare che in un contratto di affitto di terre si stabiliva anche la<br />

consegna di un certo numero di viscarde e tordi, mentre un documento del 1396<br />

cita un bosco con sopra un “rochullo” nella Vicinia di Borgo Canale e<br />

un’investitura del 1416 riguardò il diritto di infiggere un roccolo o più roccoli e di<br />

tendere reti e tremaglie sul territorio di Muzzo”.<br />

Ben presto il numero degli impianti con reti e, di conseguenza, quello delle<br />

testimonianze storiche aumentano e addirittura nel 1389 viene indicata una<br />

località chiamata de thezijs, cioè “delle tese” nei pressi di Collio. “Il toponimo<br />

soggetto indicante la contrada settentrionale di Collio e derivante dall’antica<br />

presenza di tese, nella parlata locale è Tesh malamente storpiato nell’improbabile<br />

Tizio, ivi nel 400 sorgerà la chiesa detta S. Maria delle Tese. In Historia della<br />

Riviera di Salò di Bongiani Grattarolo nel 1587 vi è un’ulteriore testimonianza<br />

dell’uso delle reti e soprattutto della loro diffusione. L’autore parte dall’assunto<br />

che la riviera di Salò sia “il Paradiso d’Italia come si dice che l’Italia è il paradiso<br />

del mondo”; ed afferma poi: “Ha nelle sue montagne paschi per le gregi e per gli<br />

armenti. I contadini ci allevano qualche porco, ci pigliano uccelli di passaggio,<br />

tordi, quaglie, pernici, starne e altri con reti a mano e da sacca, con copertoni, con<br />

lacci e con giochi che si fanno con vischio, sopra gli alberi alti, posti in luogo<br />

rispettabile”.<br />

Gli autori che scrivono di caccia con particolare riferimento alle tecniche di<br />

cattura sono sempre più numerosi e fra questi emerge nel 1621 Eugenio Raimondi<br />

di Gavardo che pubblica nel 1621 il libro Caccie delle fiere armate, e disarmate, e<br />

degli animali quadrupedi, volatili ed acquatici, aggiuntovi il modo di ben allevare<br />

i bigatti, ovvero Cavalieri della seta. Nel volume è indicato anche il modo di<br />

cacciare i piccoli volatili fra cui tordi, beccafichi, usignoli ed altrui uccelli.<br />

Un’ isola fra le reti<br />

Per capire il roccolo occorre fare uno sforzo mentale capovolgendo nozioni che<br />

fanno oramai parte del nostro patrimonio culturale e di vita: la costruzione è<br />

secondaria, il luogo, gli alberi e la vegetazione in genere sono fondamentali. Un<br />

po’ come se, osservando una villa, si considerassero le mura e tetto come<br />

accidentali e, invece, il giardino come la parte fondamentale. Solo in apparenza,<br />

infatti, la costruzione è quanto di più semplice vi possa essere. Si consideri che in<br />

un roccolo le strutture in muratura e tavole sono accidentali. Contano, invece, il<br />

574


luogo, gli impianti arborei, il modo con cui sono collocati gli alberi, la maniera in<br />

cui sono “regolati”, potati, guidati, anno dopo anno a formare un disegno sapiente<br />

e completo, un progetto, anche questo ha il suo fascino, che non avrà mai fine e<br />

continua nel tempo come un’eredità preziosa da lasciare in dote a chiunque sia<br />

capace di conservarla.<br />

La scelta del luogo è determinante: dev’essere proprio sulla linea di passo dei<br />

volatili in modo da agevolare al massimo il “lavoro” dei richiami e rendere<br />

l’impianto il più funzionale possibile. Giambatista Fabris, autore del 1800, lo<br />

raccomanda in un suo originalissimo componimento in versi:<br />

Tra l’alto monte e il piano in giusto mezzo<br />

Sia dunque il loco che tu scegli e prendi<br />

Che se bosco ivi sia verso oriente<br />

Che il declinar copra del monte, o valle<br />

Fertil d’acque, e da colli intorno chiusa<br />

Che non ispiani il suol? che non estendi<br />

Ivi le reti? Il miglior loco è questo.<br />

Ma perché l’aja ai voti tuoi risponda<br />

Qual si debba apprestar sono leggi e norme.<br />

Guardi (sia prima legge) il sol che sorge<br />

Potrai così lunge mirar le schiere<br />

Dei volator per l’alto cielo e tutte<br />

Tentar facil vie, l’arti e gli inganni.<br />

Per cui scendendo a te fermino il volo.<br />

La costruzione è quanto di più semplice vi possa essere. Il roccolo è costituito<br />

da un “casello” che ha forma di torre ed è mascherato da rampicanti o<br />

sempreverdi che crescono in modo da lasciar spazio a minuscole aperture da cui il<br />

tenditore può scorgere i migratori e l’intero impianto. Il roccolo, cioè la parte che<br />

dà il nome al tutto, è il tondo, e costituisce l’ossatura fondamentale dell’impianto.<br />

Gli alberi sono “coltivati” in modo che le estremità possano essere legate fra di<br />

loro per dar vita ad una originalissima galleria, “fatta di rami distesi e frondosi”<br />

annota il Tiraboschi. C’è quindi l’intelaiatura costituita da piante e che regge le<br />

reti. Infine fra il casello ed il tondo vi è un boschetto di roveri, sorbi , faggi o<br />

carpini.<br />

“Visto frontalmente il tondo (il ritratto suggestivo è opera di Vittorio Mora)<br />

presenta alberi distanziati di qualche metro l’uno dall’altro e d’altezza intorno ai<br />

quattro metri o poco più. Il più frequente è il carpine in quanto si può ben operare<br />

su di esso nell’espansione e direzione dei rami. Anche a mezzo si tende a far<br />

congiungere i rami degli alberi del tondo: non si attacca ad essi la rete; servono a<br />

mascherare la rete stessa e creare delle grandi finestre. Tali rami congiunti a<br />

mezzo sono detti “strass” o anche “traerse”. Poiché la rete non giunge per lo più<br />

fino a terra, si fa correre lungo il cerchio d’alberi una piccola siepe di 25-30 cm<br />

d’altezza, ma spesso si usano ramaglie verdi”.<br />

Dal roccolo, guardandolo da una certa distanza, si vede anche un alberello<br />

secco di solito formato da rami di frassino o di noce, detto il “braccio”; esso viene<br />

575


utilizzato come posatoio temporaneo per quei volatili che di solito sostano su rami<br />

spogli.<br />

Il casello non è altro che un ricovero, di solito in muratura e legno, alto e stretto<br />

a forma di torre: al piano terreno vi è la stanza degli uccelli, il locale sovrastante è<br />

la camera dell’uccellatore e l’ultima stanza è quella da cui l’uomo fa funzionare<br />

l’impianto e interviene per la cattura.<br />

La rete<br />

Un tempo era intessuta a mano e i suoi orli sono detti armature e fatti di filo<br />

dentro cui viene inserita e distesa sugli alberi del tondo a formare la galleria: nella<br />

parte alta ha gli attacchi costituititi da anelli. Diversi i tipi di reti a seconda dei<br />

volatili che si intende catturare.<br />

Un tempo si usavano reti, con maglie di 18 mm., per i volatili di piccole<br />

dimensioni o maglie di 19 e 20 mm per uccelli leggermente più pesanti. Proprio<br />

perché le maglie sono “anomale” viene anche detta rete bastarda. A proposito del<br />

colore, sempre Giambatista Fabris annota in versi<br />

Chiedi poi qual color abbian le reti?<br />

Quel della terra. Nè cercar fia d’uopo<br />

Erba o succo stranie: buccia può darlo<br />

Di noce, che però dalle radici<br />

Sia svelta, e bolla entro caldaja ardente<br />

Attualmente si usano reti con maglie di 21 mm per la cattura di fringuelli,<br />

peppole e simili e maglie di 28 mm per tordi e in genere altri uccelli del medesimo<br />

peso. Le gabbie un tempo erano di legno con sbarre di fil di ferro: attualmente<br />

sono in gran parte di plastica e nella misura indicata dalla legge.<br />

Fra le attrezzature del roccolo vi sono anche i fischi, detti “sifuli” in<br />

bergamasco, che vengono utilizzati per sollecitare i richiami.<br />

Lo zufolo non è altro che uno strumento per richiamare i volatili, “suonato” da<br />

chi sta in appostamento. Deve imitare alla perfezione il canto dell’uccello che si<br />

vuol attrarre nella rete altrimenti si ottiene lo scopo contrario.<br />

“Debbe pure (ecco un’altra dote indicata dall’Angelini) esser pratico d’imitare<br />

col suono del zufolo il canto del tordo in primavera, come anche con altri zufoletti<br />

accordarsi al canto delle tordine, uccelli che in guisa del tordo hanno le penne sul<br />

collo e petto nocciolate”.<br />

La tecnica del roccolo come forma d’arte<br />

Tender le reti è una vocazione, ma non basta. Occorrono alcune doti particolari e<br />

la prima è una completa dedizione, così accadeva un tempo, al proprio impianto.<br />

576


Giovam Battista Angelini a questo proposito scrive: “L’uccellatore debbe avere<br />

buon occhio, acuto orecchio, mano pronta, lingua muta, piede fermo ed alle volte<br />

sollecito e spicciato, paziente speranza, non soverchia avidità”.<br />

Angelini enumera anche i difetti, che sono tutto l’opposto delle doti: “Il tedio<br />

impaziente fa che per avventura si perda l’occasione di grossa presa d’uccelli che<br />

capitano fuori di tempo e di speranza. Il cicalare, ridere, rumoreggiare ne’ roccoli<br />

è lo stesso che bandire gl’augelli, che ogni altro leggiero rumore s’allontanano,<br />

essendo l’attenzione e il silenzio la prima regola dell’uccellagione. Il non udire a<br />

tempo lo zirlare de tordi, detto in lingua nostra zippare, o di ferma o di passata, ed<br />

il canoro vario bisbiglio degli altri augelli, che travalicano a volo è mancanza che<br />

non di rado toglie la preda”.<br />

Un’ “orchestra” in gabbia<br />

Un tempo il roccolo era anche una sorta di “orchestra” tristemente chiusa in una<br />

gabbia. Oggi si son ridotti i musici, anche se permane lo strano fascino di questa<br />

tecnica. Cantavano capineri e merli, tordi e beccafichi, fringuelli e verzellini,<br />

verdoni e frosoni e volatili di tante altre specie. Ciascuno di essi, affannandosi<br />

istintivamente per stabilire un dialogo con i propri congeneri, liberi li attirava, suo<br />

malgrado, nell’insidia della rete.<br />

Alcuni di questi “cantori” o “muicisti” avevano più “stagioni”, erano cioè<br />

invecchiati in gabbia e tenuti in “chiusa”, che è una particolare tecnica per<br />

ritardare il canto di primavera, periodo in cui i maschi conquistano il territorio e lo<br />

fanno sapere, cantando, alle femmine. Altri invece erano stati catturati da pochi<br />

giorni.<br />

Si trattava di una vera e propria “scienza” tramandata di generazione in<br />

generazione; se ne trovano testimonianze in antichi autori, che ammaestrano su<br />

come tener in gabbia i volatili, ma anche farli cantare.<br />

E vi sono indicate specie da tempo oramai protette dalle leggi e questo indica<br />

come il legislatore italiano, sia pure in alcuni casi con qualche ritardo, abbia<br />

tenuto e continui a tener conto dei mutamento della natura e delle opportunità di<br />

salvaguardare le forme di vita che sono in pericolo.<br />

Nel 1575 a Milano venne stampata l’opera di Cesare Manzini Ammaestramenti<br />

per allevare, pascere e curare gli uccelli, li quali s’ingabbiano ad uso di cantare.<br />

Il libro, scarsamente noto, fu saccheggiato da Antonio Valli da Todi nel “Canto<br />

degli augelli” e successivamente questi fu copiato da l’abate Giovan Pietro Olina<br />

in Uccelliera.<br />

Nel capitolo XXXI Manzini indica le età degli uccelli.<br />

L’usignolo, scrive, “è di vita, cioè chi campa tre anni, chi cinque, per insino<br />

otto campano e cantano” ed aggiunge poi “li capineri per essere soggetti alla<br />

podagra campano poco, cioè tre o quattro anni, li passari solitari campano in<br />

perfezione fino a cinque anni. Li cardelli campano chi dieci e chi quindici e chi<br />

venti anni, più o meno secondo la loro complessione. Li fanelli chi vive duoi anni,<br />

chi tre, alcuni cinque. Li verdoni campano chi cinque chi ott’anni, per la loro<br />

577


uona complessione, per non essere soggetti all’infermità come gl’altri uccelli. Li<br />

fringuelli vivono poco, chi campa uno,chi duoi,chi quattro”.<br />

Enumera, inoltre, diversi altri volatili fra cui la calandra, la lodola ed il<br />

verzellino; indica, infine, le diverse diete sia a seconda della stagione che del tipo<br />

di volatile fra cui tordo (“è uccello noto a tutti, non men buono a cantare che a<br />

mangiare”), passeri solitari, lodole e fanelli.<br />

Antonio Valli da Todi in Il canto degli augelli dopo aver descritto le diverse<br />

tecniche di cattura indica anche come far cantare i richiami affermando fra l’altro<br />

“ tutti gli uccelli sogliono mutar le penne di agosto per tutto settembre e per<br />

questo lassano il loro canto infintanto che non hanno purificato il loro sangue per<br />

causa della muta.<br />

E’ bene assicurargli le penne con sbruffarli di vino, non troppo fumoso<br />

(alcolico ndr) e asciugandole al sole causerà tanto prima a qualsivoglia a repigliar<br />

il canto; e volendolo sforzar, seme di lino, pignoli, zafarano doi o tre fila in<br />

beveratoro, uno di questo per volta e erba verde continuo, che si rallegri di<br />

maniera, che con saldezza di dentro, con erbe loro naturali”<br />

Poi così continua “alli uccelli da pasta se costuma tenere il beveratore fuora de<br />

la gabia ; su costuma bene metergli alle volte dentro alcuni baratoli con acqua ,<br />

acciò si possino lavare.<br />

La nizola di pantano (migliarino di palude), occhi cotti (occhiocotto),<br />

capocecera (sterpazzola), graulo (rigogolo) codopzinsole (ballerina) tutti questi<br />

cantano poco”.<br />

In un curioso volumetto dal titolo L’uccellagione dei fringuelli, Giovambatista<br />

Fabris ricorda il modo di collocarli:<br />

Or tosto quel fringuel che tutti gli altri<br />

Vince nel canto, abbia quell’alta cima<br />

Contesta intorno di fronzuti rami<br />

Gli alberi abbiano loco entro la siepe ombrosa<br />

Lungo le reti,e sien distanti e soli,<br />

perché congiunti armonioso e alto<br />

Negano il canto.<br />

Oggi le specie sono fortemente ridotte e quindi anche la varietà dei richiami è<br />

limitata.<br />

Indi le gabbie de’ cantori poste<br />

Sotto frondosi rami asconder devi<br />

( fuor ch’una o due lasciate in luogo aperto<br />

A specular da lunge i pellegrini<br />

E darne avviso con subite note)<br />

Sicchè il tersuol malvagio giù dall’alto<br />

D’improvviso non piombi ad adugnarli<br />

O gli altri nel vederli imprigionati<br />

Non valgano a fuggir indietro il volo<br />

Né si turbin vedendoti passare<br />

578


Tra pianta e pianta con gridori acuti<br />

Avvisino i stranieri di loro prigione.<br />

Tale tecnica di cattura viene anche indicata come “aucupio” dal latino capere,<br />

“catturare”, e avis , “uccello”.<br />

La Brescianella: “Sulle collinette, siano essere boscose o coltivate a vigneto a<br />

giù giù, sino alla pianura al roccolo si sostituisce la brescianella, quasi sempre<br />

rettangolare, talvolta col lato di fondo arcuato. Oasi attraente anch’essa, simulante<br />

un ben tenuto boschetto con fondo a praticello, a terreno lavorato, ricco di<br />

cespugli e di pianticelle di bacche”.<br />

Il paretaio: consta di due reti che si chiudono quando vengono azionate<br />

mediante particolari tecniche imprigionando gli uccelli che si sono posati nella<br />

superficie interna.<br />

In uso fin dall’antichità, richiede minor attenzioni del roccolo e viene così<br />

descritto dall’abate Giovan Pietro Olina (Dell’uccellare al frascato o sia paretaio,<br />

1612): “Il nome delle reti che in questa caccia s’adoperano, che chiamansi Pareti,<br />

ha dato alla medesima titolo di “paretaio” e, a Roma, da quel poco boschetto che<br />

si suol fare in mezo d’esse composto di frasche e rami d’alberi l’han chiamato<br />

“frascato”. […] Il spazio che verrà capito attorno dalle reti, tese che sono, va<br />

ricoperto d’una posta di pianticelle tutte d’una sorte, non più d’una spanna e più<br />

tosto meno,fatta di spigo o lentiggini o bosso o mortella o ginepro la qual serve di<br />

coprire le funi dè lati delle reti”.<br />

Filippo Pananti (Il paretaio, 1924) mette in versi tutte le situazioni descritte da<br />

Olina e da altri:<br />

La piazza d’un perfetto paretaio<br />

sia d’ogni sasso e d’d’ogni sterpo nuda<br />

E piana come un bel pallottolaio<br />

Largo cerchio di bossoli la chiuda<br />

Né fatto a caso il vago cerchio sia<br />

ma in buone leggi di geometria<br />

Acciò dell’aria il variopinto figlio<br />

Più lieto scenda ove ode il canto scorre<br />

Puoi qualche spiga sollevar di miglio.<br />

Antonio Tirabosco, sempre ne L’uccellagione (1775) ne indica le tecniche<br />

d’uso ed i volatili che si possono catturare. I versi, sia pure ingenui, e non<br />

potrebbe essere altrimenti essendo nel caso specifico obbligati dalla tecnica,dagli<br />

strumenti e dalle finalità che devono descrivere sono piacevoli e che hanno<br />

un’originalissima efficacia.<br />

E’ il paretaio atto a pigliar diversi<br />

Augei ponendo le veloci reti<br />

E i richiami e i zimbelli accortamente<br />

A vigne presso ovvero a piante ombrose<br />

Con tale ingegno in qualche aperto piano<br />

579


I fanelli, le pispole, i bravieri<br />

E vie più ch’altri uccei le Lodolette<br />

Che van radendo a stormi il suol tra via<br />

Fermerai sol che il punto cogli e traggi<br />

A te ratto le funi allor che giunte<br />

Vicin le miri alla seconda rete<br />

che se prima facessi ovver dappoi<br />

Vuoto il colpo m’andrebbe e le vedresti<br />

Salve il volo afferrar da te lontano<br />

E’ però necessario scegliere un luogo idoneo proprio perché altrimenti ogni<br />

fatica del tenditore risulterà vana così come vano sarà il canto di tutti gli uccelli<br />

tenuti in gabbia. Anche in qusto caso raccomanda il Pananti.<br />

Non piantar bosco, non rizzar capanna<br />

Se pria la tesa non sarà provata;<br />

E visto se tal via gli uccelli fanno<br />

E se vi hanno il rigiro e la buttata<br />

Indica anche come deve essere costruito il capanno entro cui trova posto il<br />

tenditore: né troppo piccolo né eccessivamente grande ed inoltre in che modo<br />

occorre collocare le gabbie con i “richiami”<br />

Desidero ogni gabbia larga e bassa<br />

Né troppa ombra la copra e la contristi<br />

Sicchè vedan gli augei l’augel che passa<br />

,e quei di gabbia possano esser visti<br />

Girolamo Guarinoni, in Uccellatura (1760), dà consigli in versi dimostrando<br />

quanto tale pratica fosse diffusa.<br />

Ma tra quante son caccie d’Uccelli<br />

Nessuna nel diletto eguaglia quella<br />

Onde appiattando sul terren le reti<br />

S’avvolge e opprime al suol l’aerio armento<br />

lunghe, col paretaio insidioso<br />

Questo suol farsi in più modi secondo<br />

La diversa natura degli Uccelli.<br />

580


Un lungo viale fiancheggiato da carpini<br />

La geometria segreta dei roccoli<br />

Un lungo viale fiancheggiato da carpini sembra quasi ci conduca verso figure<br />

modellate da mano sapiente in forme ben definite … Ci addentriamo… Il carpino,<br />

essenza resistente ed adatta a frequenti potature, si presta ottimamente a tutto<br />

questo…<br />

Così doveva presentarsi, in un tempo ormai passato, l’ingresso di una delle molte<br />

dimore signorili che, sparse in un vasto contado, erano rispondenti alle esigenze<br />

del governo delle terre e, più tardi, permetteranno alla ricca aristocrazia di<br />

distrarsi dagli affanni e dalle trame della politica proprie della vita cittadina. La<br />

caccia, considerata nelle sue molteplici forme sia come fonte di reddito che come<br />

occasione di spasso, non era quindi disgiunta dalle varie attività della villa e,<br />

queste splendide dimore, accoglievano al loro interno strutture appositamente<br />

dedicate alla cattura di uccelli migratori. La disposizione dei perimetri vegetali era<br />

l’esatto completamento dei giardini, frutto di interventi di progettazione unitari a<br />

quelli dello stesso edificio. Forse, le architetture vegetali per l’aucupio erano state<br />

elevate a importanti componenti del vivere in villa anche per la loro bellezza, per<br />

le loro geometrie capaci di attirare l’attenzione di antichi e sapienti progettisti. Un<br />

patrimonio, al pari delle opere d’arte, destinato ad essere tramandato di<br />

generazione in generazione, progettato dopo uno studio attento delle pendenze del<br />

581


terreno, dei tempi di vegetazione sia delle piante che degli arbusti impiegati, delle<br />

abitudini delle specie autoctone, dell’orientamento dei venti e delle direzioni di<br />

provenienza dei migratori. Il tutto era corredato da libri delle catture, con la<br />

precisa indicazione degli esemplari, delle specie e dei tempi di passaggio dei<br />

migratori, che venivano tramandati e aggiornati al pari degli altri patrimoni<br />

familiari.<br />

Come si era arrivati a tutto questo? Bisogna fare qualche passo indietro…<br />

Qualche passo indietro<br />

I roccoli e le uccellande in genere hanno origini più antiche: questo sistema di<br />

cattura sembra si sia sviluppato alla fine del secolo XVI per diffondersi<br />

prevalentemente nel Veneto, nel Friuli e nella Lombardia. Alcuni documenti della<br />

fine del ‘300 testimoniano l’esistenza della caccia al roccolo 1 che prese<br />

ispirazione da ancor più antichi impianti di uccellagione con reti; le ragne, già<br />

comuni al tempo dei romani 2 . E’ della seconda metà del ‘500, lo scritto di Gio<br />

Antonio Popoleschi: “Del modo di piantare e custodire una ragnaia e di uccellare<br />

a ragna” che precede l’Uccelliera dell’abate Giovanni Pietro Olina (1622) 3 opera<br />

che, anche in ragione delle dettagliate tavole dovute a pregevoli incisori quali il<br />

Tempesta e il Villamena, costituisce la pietra miliare riguardo agli strumenti ed<br />

alle tecniche di cattura dei volatili.<br />

1<br />

Calegari S, Radici F., Mora V. (1985). I roccoli della Bergamasca. Grafica e Arte<br />

Bergamo.<br />

2 La caccia con le reti ha origini antichissime al punto che è raffigurata in alcune pitture<br />

murali egizie come il tempietto annesso alla tomba del principe Chnun – Hetep <strong>II</strong> a Beni<br />

– Hassan della X<strong>II</strong> dinastia.<br />

Lo stesso Senofonte, discepolo di Socrate, quattro secoli prima di cristo ha posto nelle<br />

prime pagine del suo famoso trattato “Il Cinegetico” tutte le istruzioni per la preparazione<br />

e l’uso delle reti.<br />

3<br />

La pubblicazione dell’Olina, come osservato anche dal Bacchi della Lega (1892) nel suo<br />

Caccie e costumi degli Uccelli silvani, può considerarsi una versione modificata di un<br />

testo precedente di Antonio Valli da Todi Il canto de gli augelli, pubblicato a Roma nel<br />

1601.<br />

582


Allo stesso tempo non sembra del tutto chiaro il momento di passaggio dalla più<br />

semplice ragnaia al roccolo: “Circa centocinquant’anni si contano, che in<br />

Bergamo si rinvenne questa forma di uccellare, ma resta incognito il di lei primo<br />

autore” è quanto si legge ne “La descrizione dell’uccellare col roccolo” del<br />

bergamasco Giovan Battista Angelini di Strozza datato 1725. Riguardo all’origine<br />

del roccolo è interessante quanto scritto dal Ghidini 4 : “Prima del Roccolo e prima<br />

della Brescianella la rete ragna od a borsa, non si usava che per le ragnaie, dalle<br />

quali evidentemente s'originò il Roccolo. Infatti la rete della Ragnaia e del<br />

Roccolo, è la stessa, campo di uccellagione è un boschetto tanto nell'una come<br />

nell'altro. Il bastone con attaccate alla sua estremità delle ali di falco o simile<br />

sparacchio e che si agita al di sopra della ragnaia evidentemente ha dato luogo al<br />

pezzo di legno con le ali di metallo o di vimini che si lancia dall'alto del roccolo. I<br />

rumori che i battitori fanno per spingere gli uccelli che si trovano nella ragnaia ad<br />

incappar nelle ragne, hanno il loro riscontro nel fischio o sordino e negli<br />

schiamazzi che l'uccellatore del roccolo emette e produce dall'alto del ballatoio.<br />

Evidentemente il lancio dello spauracchio dall'alto, fatto nel roccolo, ha il<br />

vantaggio di eliminare le fughe dal basso all'alto (a campanile) degli uccelli. […]<br />

Anticamente la ragnaia era costruita da un boschetto espressamente piantato, più<br />

lungo che largo, posto in direzione nord-sud. Il boschetto era composto di lecci,<br />

allori, corbezzoli, rovi, ginepri, lentaggini, sanguini, salici, sambuchi, mortelle,<br />

viti, fichi. Il boschetto aveva un viottolo centrale ed uno che girava tutt'attorno al<br />

boschetto fra il terzo e quarto filare d'alberi. Ottima cosa era quella di condurre un<br />

rivoletto d'acqua lungo il viottolo centrale. Poste le reti ragne, alcuni uccellatori<br />

partendosi dal lato opposto a quello ove trovansi le reti, chi tenendo il palo col<br />

finto falco attaccato in cima, ed agitandolo, chi battendo le mani, chi battendo con<br />

un bastoncello sui rami delle piante, vanno avvicinandosi alle reti sospingendo gli<br />

uccelli sino a quando son costretti ad incapparvi”.<br />

4 L. Ghidini (1925): Il libro dell’uccellatore.<br />

583


Roccoli e passate nati quindi come perfezionamenti dell’uccellare con la ragna,<br />

prima di essere integrati in ville signorili, furono strutture costruite e gestite<br />

collettivamente da comunità così come richiedeva quel tipo di caccia. Il passaggio<br />

dalla ragnaia al roccolo fu pertanto conseguente alla sperimentazione di maggiore<br />

efficacia nell’utilizzo di differenti disposizioni. Ma perché proprio quella forma?<br />

Perché non il rettangolo o il quadrato?<br />

Racchiudere l’area maggiore a parità di perimetro<br />

Senza ombra di dubbio i primi costruttori di queste splendide strutture venatorie si<br />

posero un interessante problema: Come racchiudere la maggiore area possibile<br />

utilizzando una data quantità di reti. Nello specifico si trattava di ottimizzare<br />

l’efficacia delle tecniche di cattura. Il problema, visto in senso più generale, è<br />

quello di racchiudere l’area maggiore a parità di perimetro 5 e, dal punto di vista<br />

matematico, rientra nella categoria dei cosiddetti problemi isoperimetrici 6 . Si<br />

tratta di problemi classici della matematica, che consistono nel determinare, sotto<br />

determinate condizioni, la figura piana di area massima avendo a disposizione un<br />

perimetro fissato 7 . Gli stessi matematici greci, differentemente da quello che<br />

poteva essere il senso comune, avevano ben chiaro che, il perimetro e l’area di<br />

una figura geometrica, dovevano essere guardate come grandezze distinte ed ad<br />

uno stesso perimetro potessero corrispondere aree differenti.<br />

Molti secoli dopo, lo stesso Galileo, in uno dei suoi libri ammoniva sul fatto<br />

che, spesso, tra la gente comune (almeno al suo tempo) vi fosse molta confusione<br />

tra i due concetti matematici e due figure dello stesso perimetro potessero avere<br />

area diversa: “Quelli che non hanno nozioni di geometria, se devono determinare,<br />

come spesso accade, la grandezza di diverse città, intera cognizione gli par<br />

d’avere ogni volta cha sanno la misura dei loro recinti, ignorando che può essere<br />

un recinto uguale a un altro, ma la piazza contenuta da questo assai maggiore<br />

della piazza contenuta da quello”.<br />

Passare dalla ragna al roccolo era quindi passare il passaggio da problemi nei<br />

quali contava esclusivamente la lunghezza delle reti, quindi il perimetro, a precise<br />

valutazioni tra le relazioni di area perimetro e determinazione del massimo; nel<br />

roccolo infatti gli uccelli devono soffermarsi in una determinata area. L’esempio<br />

dalla considerazione di come varia l’area di rettangoli con perimetro fissato ci può<br />

aiutare a comprendere quanto detto. Nello specifico consideriamo il caso di<br />

rettangoli di perimetro 100 m. Nella tabella seguente sono indicati alcuni casi<br />

5 Nel nostro caso leggasi lunghezza delle reti.<br />

6 Iso = stesso, quindi stesso perimetro.<br />

7 Il primo accenno ai problemi isoperimetrici si trova nella leggenda di Didone, regina<br />

della dalla città di Tiro dalla quale fuggi dopo che suo fratello, per impadronirsi del regno<br />

le uccise il marito. Con una piccola flotta Didone approdò in Libia dove il re Iarbas,<br />

affinché potesse fondare un nuovo regno le concesse tanta terra quanta fosse riuscita a<br />

circondare con una pelle di bue. A strisce sottilissime e al sapiente uso della geometria è<br />

ricondotta l’origine di Cartagine.<br />

584


particolari pur essendo evidente che, di tali rettangoli, ne esistono infiniti; basta<br />

infatti considerare tutti i numeri, non necessariamente interi, compresi tra 0 e 50.<br />

A ciascuno di questi corrisponde la lunghezza di una possibile base. Nella figura<br />

successiva (diagramma cartesiano) possiamo vedere come gli infiniti “vertici<br />

liberi” di questi rettangoli si dispongano su di una retta che, dal punto di vista<br />

cartesiano, ha equazione: x + y = 50.<br />

base altezza perimetro Area (bxh)<br />

(metri) (metri) 2x(b+h) (metri) m 2<br />

5 45 100 225<br />

10 40 100 400<br />

15 35 100 525<br />

20 30 100 600<br />

25 25 100 625<br />

30 20 100 600<br />

35 15 100 525<br />

40 10 100 400<br />

45 5 100 225<br />

Nella tabella è possibile osservare la diversità delle aree e constatare come l’area<br />

massima sia raggiunta in corrispondenza del quadrato; nel caso nostro specifico il<br />

quadrato di lato 25 m. che deve essere visto come un particolare rettangolo.<br />

Guardando il diagramma cartesiano possiamo vedere come l’area di questi<br />

rettangoli vari tra 0 e 625 m 2 . Nel caso di area 0 abbiamo due rettangolo degeneri<br />

(casi limite): il primo con due lati (altezza) lunghi 50 m e due lati (base) lunghi 0,<br />

l’altro con altezza 0 e base 50 m.<br />

La regolarità e la simmetria con cui dall’area 0 (del rettangolo degenere) si torna<br />

in modo continuo nuovamente all’area 0 (dell’altro rettangolo degenere) ci<br />

garantisce l’esistenza dell’area massima 8 .<br />

8 Si tratta del Teorema del Massimo: Ogni funzione reale continua, definita in un<br />

intervallo chiuso e limitato ammette un valore massimo ed un valore minimo.<br />

Nel nostro caso l’area può essere vista come una finzione continua ed anche derivabile di<br />

una sola variabile essendo base ed altezza legate attraverso l’invarianza del perimetro.<br />

Accade molto spesso che questo importante teorema dell’analisi matematica si presenti in<br />

forma intuitiva in considerazioni relative alla geometria elementare.<br />

585


Se passiamo alla più generale considerazione di figure geometriche, cioè non<br />

limitiamo il nostro problema isoperimetrico ai soli rettangoli, vediamo che non è<br />

il quadrato a risolvere il problema dell’area maggiore a parità di perimetro.<br />

Prendiamo ancora una volta in esame il caso di un perimetro fissato pari a 100 m.<br />

e, considerando poligoni regolari con un sempre maggior numero di lati, vediamo<br />

come varia l’area.<br />

Poligono<br />

Numero lati Lunghezza lato (metri)<br />

Perimetro<br />

(metri)<br />

Costante del poligono Area<br />

(m 2 )<br />

quadrato 4 25 4X25=100 1 625<br />

pentagono 5 20 5X20=100 1,72 688<br />

esagono 6 16,7 6X16,7=100 2,598 725<br />

ettagono 7 14,3 7X14,3=100 3,634 743<br />

ottagono 8 12,5 8X12,5=100 4,828 754<br />

ennagono 9 11,1 9X11,1=100 6,182 762<br />

decagono 10 10 10X15=100 7,694 769<br />

Aumentando il numero dei lati si può osservare un corrispondente aumento<br />

dell’area fino ad arrivare al cerchio che, fra le figure piane è quella che, a parità di<br />

perimetro racchiude l’area massima. I greci erano riusciti a dimostrare questo per<br />

via elementare.<br />

586


Vediamo, come esempio, quale area ha un cerchio la cui circonferenza è pari a<br />

100m. Ricordando la nota formula per il calcolo della lunghezza della<br />

circonferenza:<br />

Crf =2 π r<br />

sapendo che nel nostro caso questa lunghezza è 100 m possiamo prima di tutto<br />

ricavare il raggio del cerchio corrispondente:<br />

100 = 2 π r da cui r = 100 / 2π e quindi r ≈ 15,93 (avendo approssimato π<br />

con 3,14).<br />

A questo punto è possibile calcolare l’area del cerchio:<br />

A= π r 2 ≈ 796 m 2<br />

Osserviamo che l’area di questo cerchio supera di gran lunga l’area del quadrato<br />

di pari perimetro (che abbiamo precedentemente visto essere pari 625 m2). Ed è<br />

proprio alla forma circolare che sono giunti i nostri uccellatori.<br />

Come realizzare tale forma?<br />

Il metodo è molto semplice e si basa sull’utilizzo di un ramo, di un filo o una<br />

corda. Basta infatti fissare un estremo della corda e spostare l’altro in modo che la<br />

corda sia sempre ben tesa. Così fanno anche oggi i giardinieri per tracciare aiuole<br />

circolari servendosi del più semplice tipo di compasso. Questa costruzione risale<br />

ai primordi della civiltà (probabilmente è proprio il cerchio la prima figura<br />

geometrica che è stata costruita) e sfrutta il fatto che tutti i punti di una<br />

circonferenza hanno la stessa distanza dal centro.<br />

587


Dal latino rotulum<br />

La forma circolare è quindi quella che meglio si addice a queste strutture e, la<br />

stessa etimologia del termine roccolo, usato nell’italia settentrionale sembra<br />

derivare 9 dal latino rotulum, diminutivodi rota, che ricorda la forma circolare di<br />

questi impianti di uccellagione 10 .<br />

9 Calegari et alii., op. cit.<br />

10 Altre possibili derivazioni sono dal gallico “roc”: rupe, roccia per la posizione<br />

preminente nella quale veniva posto; da rocco inteso come torre per la presenza del<br />

casello che si eleva dal terreno circostante.<br />

Ecco quanto scrive l’Acanti (1754): “lo non credo però ingannarmi asserendo che il<br />

termine di Roccolo, onde da ogni altro uccellatoio questo nostro distinguersi derivato sia<br />

da rocco, significante la Torretta ch'è uno de'pezzi inservienti al giuoco degli scacchi,<br />

detto già da' Latini Rocca de' ladroncelli, e quindi propissimamente adattato ad esso, che<br />

appunto è come una piccola rocca, la quale si pianta o sopra il dorso di qualche aprica<br />

collina, o ne' fertili piani di qualche aperta campagna.”<br />

588


Ed ecco ancora da “La descrizione dell’uccellare col roccolo” dell’Angelini<br />

(1725):<br />

“Si pianta il Roccolo in figura rotonda o più che mezzo lunare, d'arbuscelli<br />

frondosi verdeggianti doppiamente circolari, cioè di quercia od altra sorta, l'uno<br />

dell'altro due o tre o quattro braccia disgiunto sicché il cerchio esteriore delle<br />

piante sia più largo dell'altro cerchio, che interiormente su'l medesimo ordine<br />

dirimpetto e col numero stesso delle piante corrisponda all'esteriore, ma con più<br />

ristretta circonferenza, per ragione dello spazio di due passi andanti di distanza fra<br />

l'uno e l'altro circolo; affinché detto spazio fra loro abbia capacità d'accogliere<br />

entro a sé una scala portatile, di cui si serva l'uccellatore per arrivare alla sommità<br />

della rete e riscuoterne dalla medesima gli presi augelli. Queste piante con tal<br />

circuito regolare doppiamente disposte e cresciute all'altezza d'otto e più braccia si<br />

curvano nelle loro cime, quali scambievolmente piegate al disopra ed insieme<br />

avvinte formino in guisa di travi frondosi una verde coperta sopra la vacuità<br />

frapposta d'ambi i cerchi, la quale coperta in lingua nostra chiamasi ‘cigalerio’ .<br />

[…] La larghezza poi d'entrambi questi cerchi si può formare più e meno capace a<br />

tenore del genio e dell'idea ed a conformità del sito. L'ordinario circuito però è di<br />

quaranta in cinquanta o sessanta cavezzi, ciascuno de' quali porta la misura di<br />

cinque braccia. Si nota che per la semplice uccellagione de' piccoli uccelli è più<br />

adatto quel Roccolo che è di minore circuito e di piante più raro; e per<br />

l'uccellagione semplice de' tordi è più adatto quello che è più largo di<br />

circonferenza e d'alberi più denso e frondoso; e per l'uccellagione poi degl'augelli<br />

grossi e piccoli insieme debbe essere il Roccolo che si chiama « bastardo », di<br />

mezzana figura piantato, il cui tondo non sia né con troppa varietà né con troppa<br />

spessitudine di piante e fronde; avvertendo che un Roccolo per tordi sia solo<br />

589


dilatato tanto che lo ‘sborratore’ gettato arrivi compiutamente ad ogni parte del<br />

cerchio”.<br />

Nello spazio di detto cerchio o sia nel ventre del tondo, detto l' ‘imboscatura’,<br />

si piantano alquanti arbuscelli di varia sorta per ordine retto, l'uno dell'altro<br />

distante tre passi o più o meno, conforme all'idea del Roccolo che si vuol formare<br />

più o meno denso, con un regolato filare loro per lungo e per traverso disposto.”<br />

Anni dopo (1754) l’Acanti scriveva: “Il roccolo, in questi ultimi nostri tempi<br />

inventato, specialmente usato nel fioritissimo e fertilissimo Dominio Veneto, è un<br />

boschetto piantato ad arte di circa quaranta pertiche di circonferenza, intorno cui<br />

con giusto e vago ordine disposte, e tra eguali spazi distinte in rotonda figura,<br />

girano doppie arcate coperte a guisa di loggia, o dir vogliamo di galleria, larga una<br />

pertica ed alta due, formata di verdi carpini, sotto la quale una sottilissima rete<br />

intorno si stende.”<br />

Che la forma circolare fosse la più adatta per questo tipo di strutture è evidenziato<br />

anche dal fatto che sono molto pochi roccoli di forma differente. La forma<br />

rettangolare si ritrova prevalentemente in roccoli ricavati da precedenti strutture<br />

per l’uccellagione quali i boschetti 11 per la tesa con vischio o le lacciaie 12 .<br />

Roccolo di forma rettangolare<br />

Nei boschetti e nelle lacciaie la forma più utilizzata sembra essere quella<br />

rettangolare: in entrambi i casi non è tanto importante l’area entro la quale attirare<br />

i migratori quanto, piuttosto, il perimetro nel quale tendere le insidie.<br />

11 Il “boschetto” (o uccelliera o uccellanda) era un luogo preparato per la tesa con il<br />

vischio. Il tipo più semplice era formato da sette a dieci alberi tenuti bassi e riuniti<br />

mediante potatura. Gli uccelli, attirati con l'uso di fischi o per mezzo di richiami, si<br />

posavano sulle panie (bacchette di legno cosparse di vischio) collocate ad arte sulle piante<br />

e, invischiati, venivano catturati. S’incontrava principalmente in zone collinari coltivate a<br />

vigna e ulivi. In certi casi l’appostamento veniva completato da una civetta. In alcune<br />

località veniva chiamato frasconaia o uccelliera da tordi. Questa tesa, infatti, era dedicata<br />

principalmente alla cattura di tordi e merli anche se era possibile catturare altri uccelli<br />

come fringuelli, peppole …<br />

12 La “lacciaia” era un luogo preparato per tendere lacci fatti con crini di cavallo (penere);<br />

questi l’uno a contatto dell’altro e tenuti da un sottile filo di ferro, erano posti sulle<br />

bacchette del boschetto. Il luogo, così preparato, era molto simile a quello per la tesa con<br />

il vischio. Anche questa forma d'aucupio era rivolta principalmente a tordacei che<br />

venivano attirati mediante l’uso di congeneri ingabbiati.<br />

590


Olina, Uccelliera<br />

Tavola “dell’uccellare al boschetto”<br />

Ed è così la storia de cerchio, iniziata forse con l’osservazione del rotolamento di<br />

tronchi, con la costruzione delle prime abitazioni sia per i vivi che per i morti (che<br />

sembra siano state a forma e di pianta rotonda), continuata durante tutta la storia<br />

dell’umanità, si arricchisce di un piccolo capitolo dove trova posto anche la<br />

caccia. L’uomo scoprì il cerchio perché ne aveva bisogno; poi il cerchio, nato per<br />

alleviare le fatiche dell’uomo, entrò a far parte del mondo dell’arte. Oggi, allo<br />

stesso modo, ciò che resta dei roccoli, merita di essere conservato a memoria di<br />

quella che, un tempo, fu vera arte con propri momenti di gloria e squisiti poeti che<br />

ne cantarono le lodi quali il Pananti, il Tirabosco, il Guarinoni.<br />

La cattura con il vischio<br />

Il vischio ha, per il cacciatore, il significato della memoria che ritorna.<br />

Veniva usato in Lombardia fino alla seconda metà del secolo scorso da quanti<br />

non avevano l’opportunità o la possibilità di avere un roccolo o comunque un<br />

impianto fisso o mobile per la cattura di volatili. Costava poco, non aveva<br />

necessità alcuna di manutenzione, era sufficiente aver pochi uccelli da richiamo e<br />

solo di quelle specie che si intendeva catturare.<br />

Lo praticavano, a dir la verità, autentici appassionati che consideravano la<br />

caccia con il vischio come l’unica capace di dare fortissime emozioni, ma si<br />

591


trattava di poche persone, tanto che quella tecnica di cattura si potrebbe definire,<br />

almeno per la Lombardia e con un’espressione moderna, “di nicchia”.<br />

Col trascorrere degli anni la pratica cadde in disuso e fu proibita per legge fra<br />

poche proteste, in particolare in Veneto e Friuli dove aveva ben altro carattere ed<br />

altre dimensioni, e altrettanto rari consensi: ancor oggi se viene attuata da qualche<br />

bracconiere ha più il significato di nostalgia che di sistema di caccia ed i prelievi<br />

sono, rispetto ai grandi numeri, non significativi.<br />

Utilizzato per la cattura dei migratori il vischio venne descritto da molti autori<br />

che ne indicano anche il sistema per farlo e le tecniche per metterlo in opera.<br />

Fra i primi Antonio Valli da Todi che evidentemente fa riferimento a tale<br />

pratica proprio perché allora era diffusissima e non occorreva alcun nulla osta<br />

essendo la minuscola selvaggina lasciata dai feudatari e dai proprietari dei terreni<br />

al “popolo”.<br />

Giovan Pietro Olina ne indica diversi tipi dando anche notizie particolari fra<br />

cui quella che un determinato tipo di vischio veniva importato dalla Turchia e<br />

indicando la tecnica per ottenerlo dalle bacche.<br />

“Si raccolgono numerosi frutti della pianta che cresce sulle querce e su altri<br />

alberi e si pongono in una zona umida e con un velo d’acqua in modo che<br />

comincino a marcire, quindi la poltiglia dovrà essere battuta con un bastone per<br />

separare dal liquido incolore e gelatinoso gli involucri delle bacche. Si tratta della<br />

colla che deve essere posta in recipienti dove si conserva a lungo. Per fare il<br />

vischio si prende parte del liquido mettendolo in una pignatta, scrive Olina<br />

rifacendosi in gran parte ad Antonio Valli da Todi, ponendovi per ogni libbra di<br />

pania un’oncia d’olio che va incorporato e unito ad essa a fuoco, e vedendo fatta<br />

buona unione e che sia divenuta come un unguento, levando dal fuoco vi si<br />

aggiungerà mezz’oncia di trementina, incorporandovela bene, e così si potrà<br />

adoperare”.<br />

Non tutti i tipi di vischio però erano considerati ottimi: la loro qualità<br />

dipendeva dalla pianta che era stata parassitata.<br />

Scrive in fatti a questo proposito Pier Angeli da Barga:<br />

Non però d’ogni visco è fido l’uso<br />

Avendovi di quel che teme l’acqua<br />

Ottimo è lo staccato dalla quercia<br />

E dal cerro e dall’elce cavo e ancora<br />

Dal rovere nocchiuto; ma non cura<br />

Quello che distillato dalla scorza<br />

Del verde pino e del sublime abete<br />

Spaniati augeli hannosi preso a beffe.<br />

In Lombardia venivano usate non solo le bacche bianche del vischio (Viscum<br />

album) ma anche parti interne dell’agrifoglio (Ilex agrifolium) lasciate fermentare<br />

in locale umido per una ventina di giorni e quindi amalgamate ad olio.<br />

In Italia nel 1600 venivano importate gran quantità di vischio, in particolare<br />

dalla Turchia ed era una pasta, precisa Olina, “di color verde, assai pesante,<br />

592


attacca fortissimo,non regge però all’acqua né alle tramontane o freddi secchi<br />

perché fa crosta. Serve per l’uccellare della mattina a buon ora e della sera, ma<br />

resta offeso dal sole ardente, dura due anni in sua bontà o poco più, dopo si fa<br />

nero e non tiene”.<br />

Un altro tipo di vischio, anche quello di provenienza turca era detto “soprano”<br />

e giungeva dalla Turchia a Marsiglia dove ne esisteva un deposito da qui smistato<br />

in Europa. Aveva color giallo o verde, era duro. Altri tipi di vischio erano<br />

importati da Smirne e dalla Spagna.<br />

La caccia si svolgeva secondo particolari tecniche sia da appostamento<br />

ponendo cioè alcuni volatili in gabbia e accanto a loro palmoni (quando erano di<br />

piccole dimensioni e potevano esser trasportati da un luogo all’altro eran detti<br />

panioni) cioè alti pali articolati nella parte inferiore in una morsa in modo da<br />

poterli alzare ed abbassare da una parte ad altezza d’uomo fino ad un appoggio su<br />

cui collocarli quando vi si ponevano le panie, cioè minuscoli bastoncelli spalmati<br />

di vischio detti anche verghe.<br />

Un particolare tipo di caccia per la cattura di pettirossi, cincie, passere<br />

scopaiole ed altri piccoli volatili, consisteva dell’uso della civetta e dei panioni.<br />

Filippo Pananti autore anche del poemetto La civetta, così descrive la caccia:<br />

Né tenderai la dove il pettirosso<br />

Immobilmente sul suo ramo stassi<br />

Né là pur dove ha lieve il volo mosso;<br />

Tendi più sotto venti o trenta passi,<br />

Che spesso per trovar la strada piana<br />

Convien prender le cose alla lontana<br />

Restin discoste e sian le panie tue<br />

Non dritte dritte, non lì per cadere;<br />

Una bassa,più alzate l’altre due.<br />

Basse alle Scopaiole e Capinere<br />

Una cosa di mezzo ai Pettirossi<br />

Altissime alle cincie e a’ Codirossi.<br />

Non tutti i luoghi erano adatti: occorreva conoscere gli habitat, sapere quali<br />

erano le campagne in cui i migratori erano più abbondanti perché vi trovavano<br />

cibo, soprattutto cercare quelle località in cui la vegetazione non era<br />

eccessivamente folta ed offriva ampi “slarghi” in cui porre il panioni. E<br />

suggerisce poi come attendere che la preda si avvicini ed indurla a posarsi<br />

sull’insidia. E par proprio di vedere il branchetto di cince che si avvicina alle<br />

verghe e vi si posa.<br />

Ecco le Cincie a quattro, a cinque, a sei<br />

Ir liete come a refettorio i frati,<br />

E far la sinagoga degli Ebrei<br />

Chi scende e sal, chi torna a’ luoghi usati,<br />

Chi stride sul panino , chi si sbatacchia,<br />

Ciondola,casca, e imbuca nella macchia.<br />

593


Può però accadere che si posino due uccelli insieme ed uno resti invischiato e<br />

l’altro, accortosi all’ultimo momento dell’insidia si allontani. E, nelle rime, il<br />

Pananti fa riferimento anche ad alcuni proverbi proprio per render ancor più<br />

popolare, e quindi adatta ad esser compresa da tutti, la sua poesia.<br />

Che se due si posar non andar piano<br />

E corri se uno pende e uno casca;<br />

Dice il proverbio, che fringuello in mano<br />

E’ migliore che tordo sulla frasca<br />

E un proverbio spagnol dice: “Un tu hai<br />

Val moltissimo più che due tu avrai”.<br />

594


Capitolo 5<br />

Le catture nella provincia di Bergamo<br />

L’uso del roccolo nella storia bergamasca<br />

I roccoli nella fascia delle Prealpi orobiche: elementi del paesaggio e<br />

componente tradizionale del territorio<br />

“Fra le molte maniere ritrovate dal genio d’uccellare la più usata in Bergamo è<br />

quella del roccolo, esercitata con tale vogliosa cura, che non solo ne monti, e<br />

piano del Contado si è distesa, ma nei Borghi, e nei sobborghi, ed entro la Città<br />

stessa vedonsi Roccoli piantati a passatempo come necessario a nostri abitatori<br />

per godere l’amenità dell’autunno e per divertire l’ozio Villereccio”. Così<br />

scriveva Girolamo Guerinoni nel 1760 nel suo poema “L’uccellagione”.<br />

All’inizio del Settecento la caccia al roccolo si era ormai affermata come<br />

pratica amatoriale, destinata al piacere dei ricchi signori prima che al guadagno e<br />

alla sopravvivenza.<br />

Così ancora il Guerinoni:<br />

I nobili calappi, che sui colli<br />

Ond’han dalla regina d’Adria ‘l freno<br />

In mille guide ad ogni Uccello e Fiera<br />

Tendon insidie” e “li splendidi Sozzi, che trovano<br />

In mezzo alla Città, tra gran palagi,<br />

Il modo di insidiare i scaltri uccelli<br />

Dalla campagna, fin nel cuore della città, il roccolo faceva ormai parte del<br />

panorama quotidiano e dell’esperienza ordinaria della gente. Ed inevitabilmente<br />

l’esperienza del roccolo lascia tracce linguistiche nelle espressioni e nei proverbi:<br />

e allora “oselà” (ma anche la forma italiana “uccellare”) significa tendere un<br />

imbroglio, proprio come l’uccellatore tende le reti e le nasconde agli incauti<br />

uccelli; zimbello è colui che si lascia muovere a piacimento altrui, come l’uccello<br />

595


da richiamo strattonato dall’uccellatore batte le ali attirando così congeneri, e<br />

“fare la civetta” significa atteggiarsi e muoversi per catturare l’attenzione, come la<br />

“sieta” si dà da fare per attirare gli altri uccelletti sulle panie invischiate o nella<br />

rete.<br />

Non solo i nobili, i possidenti o i loro uccellatori partecipavano<br />

all’uccellagione: intorno al roccolo ruotavano tutto l’anno attività rurali molto<br />

esigenti di manodopera: la potatura e l’impianto di nuovi alberi, la regolazione dei<br />

rami, il mantenimento degli uccelli da richiamo, richiedevano l’intervento di<br />

contadini esperti.<br />

Ad ogni buon conto, il periodo di maggiore attività del roccolo, iniziava a<br />

settembre, con la sistemazione delle reti, in tempo utile per il primo passo<br />

migratorio della stagione: “A San Maté recc in pé” (A San Matteo, il 17<br />

settembre, reti in piedi), perché “A San Maté il tord l’è lé” (Il tordo c’è). La caccia<br />

proseguiva tutto l’autunno “S. Brünù dùrcc a muntù” (A San Bruno, 6 ottobre,<br />

tordi a bizzeffe), e ancora “A santa Teresa, lodole a distesa” (Per Santa Teresa, 15<br />

ottobre, allodole in abbondanza). Durante questo periodo il roccolo si trasformava<br />

in abitazione dell’uccellatore e, per i giorni di maggior passo, del proprietario, che<br />

condivideva con i salariati un clima di cameratismo ricco di poesia.<br />

“Polenta noa, osèi de passada, ì de butiglia; l’è ona paciada”, polenta appena<br />

fatta, uccelli di passo e vino di bottiglia: che bella mangiata! “Polenta e ösei”,<br />

anche sulle cartoline postali dell’epoca, definisce, non solo dal punto di vista<br />

gastronomico, una particolarità dei bergamaschi.<br />

Accanto all’aspetto folcloristico dell’uccellagione, cantato da numerosi poeti<br />

vernacolari, non va dimenticato comunque un importante aspetto economico che<br />

aveva il suo culmine proprio nella stagione venatoria. Attorno al roccolo si<br />

raccoglievano infatti figure rurali tipiche della campagna bergamasca: uccellatori,<br />

commercianti di uccelli vivi e morti, commercianti di vino, di castagne e funghi,<br />

bergamini e cacciatori vaganti, in un appuntamento sociale di grande importanza<br />

per il suo carattere trasversale. Ampliando l’orizzonte economico, il roccolo aveva<br />

inoltre ricadute interessanti anche per altre attività connesse, come ad esempio la<br />

costruzione delle reti, di cui la Bergamasca ha una lunga tradizione, i richiami<br />

(famosi i “sifoi” valdimagnini, fischietti in legno o latta per l’imitazione del canto<br />

degli uccelli) e le sagre degli uccelli da richiamo. Nel 1934 veniva istituita la<br />

Fiera degli uccelli ad Almenno San Salvatore, proprio per dare spazio e riscontro<br />

economico ad una attività praticata in tutte le cascine del luogo, l’allevamento<br />

degli uccelli da richiamo, utilizzati nei capanni e nei roccoli della Lombardia e del<br />

Veneto. Tuttora esistente e viva più che mai, la fiera di Almenno San Salvatore<br />

rappresenta uno degli appuntamenti più seguiti dagli appassionati di gare di canto<br />

degli uccelli da richiamo, malgrado le recenti restrizioni legislative abbiano<br />

ridotto notevolmente il numero delle specie ornitiche commerciabili e dunque<br />

esponibili in gara.<br />

Caratteristico nel quadro folcloristico della sagra (che era e rimane un<br />

appuntamento importante soprattutto dal punto di vista economico) la gara del<br />

“chioccolo”, ossia una gara di imitazione a bocca libera o con fischietti del canto<br />

nuziale degli uccelli da parte di abilissimi uccellatori.<br />

596


I roccoli nelle valli bergamasche, elementi fissi del paesaggio e di lettura del<br />

territorio<br />

Nel 1950 in Lombardia erano in funzione 1072 roccoli, dei quali ben 340 nella<br />

bergamasca, nel 1968 erano già scesi a 725 (299 nella provincia orobica), nel<br />

1971, anno successivo alla legge che ha ridotto drasticamente l’uccellagione, i<br />

roccoli operanti in Lombardia erano 172 e nella Bergamasca 42. Si avviava<br />

rapidamente al declino l’epopea di una realtà rurale unica, ma non più aderente al<br />

pensiero comune del tempo, velocemente sostituita da altre realtà e nuovi<br />

stereotipi.<br />

Molti roccoli hanno finito con l’essere abbattuti, già nel 1929 Luigi Grumelli<br />

Pedrocca lamentava che molti roccoli erano andati distrutti per procacciarsi<br />

l’allora preziosissima legna da ardere; altri, in epoca più recente, sono stati<br />

sommersi dal bosco che avanza, dall’urbanizzazione dilagante o da pratiche<br />

agricole insensibili alla componente paesaggistica; altri ancora sono stati<br />

trasformati in seconde case. Di alcuni roccoli ne resta la memoria in<br />

numerosissimi toponimi sparsi per la provincia, a iniziare con il colle dei Roccoli<br />

e la località Roccolino nella stessa città di Bergamo, testimonianze di una<br />

presenza che aveva permeato l’intero territorio orobico.<br />

Per l’installazione di un roccolo, la scelta del dove non è mai stata casuale,<br />

bensì frutto di attenta osservazione del passaggio degli uccelli migratori, delle<br />

correnti ascensionali e discensionali del vento, della struttura della valle, del dosso<br />

o del valico. Normalmente i roccoli sono posizionati in corrispondenza di dossi,<br />

valichi o forcelle attraversate da quelle “strade invisibili” che gli uccelli migratori<br />

sembrano seguire con misteriosa precisione, mentre attraversano la fascia delle<br />

Prealpi Orobiche, caratterizzate da valli disposte per lo più da nord a sud.<br />

Tutti i roccoli sono posti in posizione dominante, con un ampio campo visivo<br />

orientato normalmente verso est, in modo da poter avvistare gli stormi di uccelli<br />

in arrivo e dare il tempo all’uccellatore di decidere quale tipo di tecnica utilizzare<br />

per la cattura. I roccoli forniscono una posizione di vedetta irrinunciabile, sfruttata<br />

anche dai partigiani nell’ultima guerra per individuare il nemico.<br />

L’insieme del roccolo con i suoi spazi aperti verso l’alto e verso la valle, sfrutta<br />

e si adatta alle condizioni del terreno modellandosi sull’ambiente e diventandone<br />

parte integrante.<br />

Isolato in una distesa prativa oppure circondato da boschi, il roccolo deve poter<br />

ingannare l’uccellame, presentandosi ai volatili ora come comodo rifugio, ora<br />

come offerta di cibo.<br />

Gli uccelli migratori, volando ad una altezza dal suolo che raramente va oltre i<br />

1500 metri di altitudine, non incappano copiosi nei roccoli d’alta quota, dove<br />

ragioni fito-climatiche si aggiungono ad obiettive difficoltà nel costruire e<br />

sistemare impianti arborei adatti. Sono invece la collina e la media montagna, con<br />

il loro andamento irregolare e il gioco di correnti, ad offrire i migliori punti di<br />

passaggio per gli stormi dei migratori, soprattutto in coincidenza di depressioni<br />

dei crinali,che obbligano il loro passaggio da una valle all’altra attraverso valichi<br />

denominati “forca”, “forcellino”, “forcella”.<br />

597


Una lunga teoria di roccoli si distende ancora lungo i crinali di alcuni colli,<br />

quelli della Maresana per esempio, dietro alla città, collegati tra loro da un<br />

reticolo di sentieri di comunicazione, che tracciati a debita distanza dalle passate e<br />

dai sottotondi sembrano avere lo scopo di evitare che il passaggio dei viandanti<br />

possa disturbare l’uccellagione. I roccoli ancora oggi fanno parte integrante del<br />

paesaggio rurale bergamasco tanto da diventare “segnalatori” topografici di<br />

indubbio pregio paesaggistico e storico-culturale.<br />

Entità del fenomeno migratorio<br />

Generalità sulla migrazione<br />

Sono letteralmente miliardi gli uccelli che migrano regolarmente su medie e<br />

grandi distanze, solitamente nei cambi di stagione due volte all’anno per spostarsi,<br />

in primavera in direzione nord, verso le regioni temperate dell’emisfero<br />

settentrionale, in autunno – aumentati di numero in ragione di tutta la progenie<br />

prodotta nella stagione riproduttiva – in direzione sud, per trascorrere la cattiva<br />

stagione nelle zone più favorevoli.<br />

In Lombardia, le specie certamente non migratrici sono soltanto una decina su<br />

380. La stragrande maggioranza delle specie della nostra avifauna migra, anche se<br />

i movimenti di ciascuna specie possono aver luogo su distanze di pochi<br />

chilometri, per esempio la Cincia dal ciuffo che, in pieno inverno, si limita a<br />

spostarsi verso quote più basse, oppure di molte migliaia di chilometri, come nel<br />

caso delle molte specie che svernano in Africa, a sud del Sahara nelle savane<br />

africane, e possono riguardare l’intera popolazione locale, per esempio il<br />

Codirosso, il Beccafico e il Rigogolo, oppure solo una parte di essa, per esempio<br />

la Capinera.<br />

Nel Vecchio continente, il flusso della migrazione presenta un andamento<br />

generale da nord-est verso sud-ovest in autunno e in senso contrario in primavera.<br />

Ciò è dovuto sia all’orientamento generale del continente europeo, sia al suo<br />

sfrangiamento, a occidente, in numerose penisole influenzate dal clima marittimo<br />

– atlantico e mediterraneo con l’elemento aggiuntivo della corrente del Golfo –<br />

che determina una distribuzione delle risorse con un gradiente orientato in<br />

direzione analoga. A seconda delle specie interessate, il passo autunnale si svolge<br />

da agosto a novembre, quello primaverile da febbraio a maggio. Pertanto, la<br />

migrazione ha luogo complessivamente per circa otto mesi all’anno cioè, almeno<br />

in qualche modo e per qualche specie, durante la maggior parte dell’anno, mentre<br />

i periodi in cui i movimenti degli uccelli sono più circoscritti e si possono definire<br />

come dispersioni o erratismi sono limitati alla piena estate (giugno-luglio) nonché<br />

al pieno inverno (dicembre-gennaio).<br />

Poiché i movimenti migratori primaverili si svolgono quando la caccia è<br />

chiusa, ai fini della cattura con reti nei roccoli veniva presa in considerazione<br />

598


esclusivamente la migrazione autunnale. Quest’ultima riguarda le seguenti<br />

categorie di uccelli:<br />

− popolazioni che hanno nidificato in qualche zona dell’Eurasia e si spostano a<br />

svernare in Lombardia;<br />

− popolazioni che hanno nidificato in Lombardia e si spostano a svernare altrove<br />

nell’ambito della nostra stessa regione o delle sue immediate adiacenze;<br />

− popolazioni che hanno nidificato in Lombardia e si spostano a svernare<br />

intorno al bacino del Mediterraneo;<br />

− popolazioni che hanno nidificato in qualche zona dell’Eurasia e si spostano a<br />

svernare intorno al bacino del Mediterraneo;<br />

− popolazioni che hanno nidificato in Lombardia e si spostano a svernare a sud<br />

del Sahara;<br />

− popolazioni che hanno nidificato in qualche zona dell’Eurasia e si spostano a<br />

svernare a sud del Sahara.<br />

Tutte queste categorie possono, in qualche misura, attraversare o lambire l’arco<br />

prealpino orobico per la migrazione ma, con ogni probabilità, le categorie<br />

maggiormente interessate sono quelle di cui ai precedenti punti 1, 4 e 6.<br />

Per quanto riguarda le modalità di passaggio dei migratori attraverso le Orobie<br />

bergamasche è possibile identificare cinque differenti strategie:<br />

− passaggio rapido (tordo sassello, tordo bottaccio)<br />

− passaggio seguito dallo svernamento di una parte ridotta dei migratori (passera<br />

scopaiola, cesena, lucherino, fringuello, peppola)<br />

− combinazione di movimenti tra popolazioni residenti e migratrici (merlo,<br />

capinera, cinciallegra)<br />

− predominanza di residenti (passero domestico, passera mattugia, verdone,<br />

cardellino)<br />

− movimenti invasivi irregolari (crociere)<br />

I picchi di migrazione, determinati specie per specie appaiono<br />

cronologicamente costanti da un anno all’altro, con eventuali differenze di una<br />

settimana in più o in meno con la sola eccezione del crociere).<br />

La migrazione diurna e notturna<br />

La migrazione degli uccelli si può svolgere di giorno o di notte. In linea di<br />

massima migrano di notte i migratori transahariani, altrimenti diurni, mentre<br />

migrano di giorno i migratori a breve e media distanza. I migratori notturni si<br />

muovono perlopiù intorno ai 1000 metri di quota in una rada “nuvola” continua<br />

che può anche contenere 100-200 individui per chilometro cubo, rilevabili<br />

soltanto mediante il radar o con sistemi particolari quali l’osservazione del loro<br />

transito sullo sfondo della luna piena. Di giorno, questi uccelli scendono a terra<br />

599


per nutrirsi e per prepararsi in tal modo alla tappa successiva. Sui valichi alpini e<br />

prealpini, i migratori transahariani si possono osservare solo in occasionale sosta,<br />

perlopiù in piccolo numero.<br />

Il passaggio a bassa quota sui valichi alpini riguarda soprattutto i migratori<br />

diurni, Questi uccelli si muovono principalmente dall’alba fino alla tarda<br />

mattinata e sostano nel pomeriggio per nutrirsi e di notte per riposare viaggiando,<br />

in tal modo, dall’Europa centro-orientale verso il Mediterraneo. L’attraversamento<br />

delle Alpi da parte di queste popolazioni è stato studiato in modo abbastanza<br />

dettagliato dai ricercatori della Stazione Ornitologica Svizzera. Le conclusioni<br />

elvetiche sono che almeno una parte dei migratori di tutte le specie attraversano le<br />

Alpi anche se in numeri diversi, muovendosi parallelamente ai contrafforti<br />

montuosi. La differenza tra le specie, nonché tra le diverse popolazioni della<br />

stessa specie è influenzata dalle diverse capacità di volo, riserve di grasso e<br />

direzioni di migrazione. L’effettivo comportamento di ciascun individuo dipende<br />

fortemente dalla località in cui esso incontra l’arco alpino e dalle condizioni<br />

metereologiche in quel particolare momento.<br />

I numeri dei migratori che attraversano le Orobie bergamasche<br />

Gli ordini di grandezza delle popolazioni dei migratori transahariani che in<br />

autunno attraversano il nostro continente sono di centinaia o almeno di decine di<br />

milioni di individui per ogni singola specie. Per calcolare quanti di questi uccelli<br />

passino attraverso la provincia di Bergamo possiamo procedere in un modo molto<br />

semplice, anche se indubbiamente alquanto approssimativo: confrontare il fronte<br />

di migrazione attraverso la provincia con il fronte complessivo di migrazione<br />

attraverso l’Europa.<br />

Poiché il fronte di migrazione europeo – dalla Scandinavia al Mediterraneo – si<br />

estende su circa 2500 chilometri mentre quello bergamasco si può valutare in una<br />

cinquantina di chilometri, nell’ipotesi semplicistica che gli uccelli migratori che<br />

attraversano la provincia di Bergamo non subiscano addensamenti o diradamenti e<br />

siano quindi il due per cento del totale (50/2500) si avrebbe un passaggio di circa<br />

100 milioni di uccelli Passeriformi con punte di 2-3 milioni per alcune specie più<br />

numerose. Questo totale va riferito unicamente a migratori transahariani perlopiù<br />

notturni e rischia comunque di costituire una forte sottostima. Lo sarebbe<br />

senz’altro se si volesse estenderlo ai migratori diurni dato che anche un ricercatore<br />

particolarmente accurato come lo svizzero Schifferli ha stimato in 100 milioni le<br />

sole peppole entrate in Svizzera nel corso dell’invasione del 1950-51. In effetti,<br />

con una densità di popolazione stimabile in 50 coppie per chilometro quadrato,<br />

l’entità del passo del fringuello e della peppola nell’intera Europa è stimabile, con<br />

criteri analoghi a quelli adottati da Moreau per i migratori transahariani:<br />

50 coppie + un minimo di 2 giovani per coppia = 200 individui per chilometro<br />

quadrato;<br />

200 ind./kmq x 2,5 milioni di kmq. = 500 milioni di individui migranti<br />

600


Il valore di 2,5 milioni di kmq è pari a metà dell’estensione della sola Russia<br />

europea e rappresenta soltanto 1/10 dell’area presa in considerazione da Moreau<br />

per i migratori transahariani. Fringuelli e peppole non vanno tanto lontano come i<br />

migratori transahariani e quindi è ragionevole supporre che non provengano<br />

neppure da regioni molto lontane. D’altra parte, ciò è confermato da quanto si sa<br />

sulla migrazione delle due specie e sulle zone di provenienza delle popolazioni<br />

migranti attraverso il nostro paese. La stima di 500 milioni di fringuelli è quindi<br />

da considerare come prudenziale. Non è facile dire quale percentuale di questi<br />

uccelli attraversi le Alpi e quale lo faccia sulle Orobie bergamasche. Un calcolo<br />

analogo a quello sopra effettuato per i migratori transahariani con l’equaizone: (x :<br />

500 = 50:2500), assumendo semplicisticamente che il passo sia uniformemente<br />

diffuso su un fronte europeo di 2500 chilometri, darebbe un totale di 10 milioni.<br />

In ogni caso, il totale minimo è dell’ordine di alcuni milioni di individui, il che<br />

appare ragionevole se si considera che la sola popolazione svernante in<br />

Lombardia del fringuello è stata censita nell’ordine di un milione e mezzo di<br />

individui.<br />

Altrettanto ingente dovrebbe risultare il numero di turdidi di grosse dimensioni<br />

che attraversano la provincia di Bergamo, sulla base della semplice<br />

considerazione che per l’insieme delle quattro specie cacciabili (merlo, cesena,<br />

tordo bottaccio, tordo sassello) il numero di individui abbattuti mediamente negli<br />

anni dal 1987 al 2004 nel territorio provinciale è stato circa 527.787, con punte di<br />

oltre 918.000 nel 1988, di cui 435.000 tordi bottacci (tab. 3.1).<br />

Tabella 3.1 – Numero di turdidi abbattuti nel territorio della Provincia di Bergamo<br />

dal 1987 al 2004<br />

ANNO Merlo Cesena Tordo bottaccio Tordo sassello TOTALE<br />

1987 65.373 11.899 176.767 61.513 315.552<br />

1988 176.121 143.574 435.404 163.644 918.763<br />

1989 175.456 93.972 491.103 55.272 815.803<br />

1990 180.704 112.704 400.607 85.470 779.485<br />

1991 119.318 37.282 308.294 57.917 522.811<br />

1992 114.443 6.282 226.764 51.134 398.623<br />

1993 139.643 48.737 254.099 111.251 553.730<br />

1994 83.670 47.701 178.938 54.525 364.834<br />

1995 98.750 45.354 269.456 38.320 451.880<br />

1996 100.218 44.622 268.902 62.382 476.124<br />

1997 95.312 54.488 263.245 43.403 456.448<br />

1998 90.445 50.502 294.216 146.415 581.578<br />

1999 91.869 118.739 257.979 56.319 524.906<br />

2000 56.686 11.923 206.113 34.105 308.827<br />

2001 75.730 36.044 216.411 85.315 413.500<br />

2002 88.520 39.139 256.781 60.310 444.750<br />

2003 97.862 14.906 379.834 60.419 553.021<br />

2004 79.831 208.945 268.378 62.386 619.540<br />

MEDIA 107.219 62.601 286.294 71.672 527.787<br />

Tutto ciò considerato, il numero di uccelli che attraversa il territorio della<br />

Provincia di Bergamo durante la migrazione autunnale deve essere dunque molto<br />

consistente, e valutazioni su eventuali “colli di bottiglia” appaiono importanti.<br />

Esistono anche indizi storici che fanno ritenere probabile il passaggio di<br />

numeri molto elevati di migratori. Gli impianti storici di uccellagione fissa con<br />

601


occoli o le bressane si trovano precisamente in Italia settentrionale e in<br />

particolare in Lombardia e Veneto, in maggioranza nei comuni prealpini e sono<br />

tutti situati lungo le direttrici del passo. Secondo Bassini (1958), le linee disegnate<br />

seguendo la distribuzione dei roccoli partendo dal Friuli coincidono con le rotte<br />

migratorie studiate e delineate dal Toschi. In particolare, in provincia di Bergamo<br />

“nel territorio di ogni Comune di montagna e di collina esistono impianti di<br />

roccoli; nel territorio di diversi Comuni di pianura esistono impianti di<br />

brescianelle e di quagliare”. L’autore ricorda anche che gli impianti fissi erano<br />

tanto numerosi da creare contrasti e problemi nei confronti dell’esercizio della<br />

caccia vagante.<br />

Dalla “Inchiesta preliminare sull’uccellagione” (Bassini, 1958) si evince anche<br />

la misura in cui la tradizione dell’aucupio era diffusa e radicata nella provincia di<br />

Bergamo: nel 1950 gli impianti fissi di uccellagione operanti nel territorio<br />

provinciale ammontavano a 340, su un totale di 1029 per le cinque province<br />

alpine (1071 per l’intera Lombardia e 2839 per tutta l’Italia). Questi numeri sono<br />

rimasti pressoché costanti per tutti gli anni ’50; considerando la sua superficie<br />

relativamente ridotta, ne deriva che la provincia di Bergamo era, nei tempi di<br />

uccellagione legale, quella con la maggiore densità di roccoli per chilometro<br />

quadrato di tutta la Lombardia.<br />

Un modo diretto di calcolare il totale dei migratori diurni sui valichi alpini<br />

potrebbe essere quello di effettuarne censimenti a vista su un campione<br />

significativo di questi punti di passaggio ed estrapolare al totale dei valichi<br />

esistenti sul territorio provinciale. In effetti, in corrispondenza di alcuni valichi, il<br />

passo è consistente e spettacolare. Passano soprattutto fringillidi, perlopiù alla<br />

spicciolata ma con flussi continui che, alla fine di una giornata, possono<br />

assommare a 5-10 mila individui su un fronte di 100 metri o poco più. Con una<br />

durata media di 2-3 settimane, il passo autunnale su un “buon” valico alpino<br />

interessa dunque un numero di migratori diurni dell’ordine delle centinaia di<br />

migliaia.<br />

Per la provincia di Bergamo non esistono simili conteggi ma su alcune decine<br />

di valichi alpini opportunamente orientati si potrebbe quindi arrivare a 2-3 milioni<br />

di migratori, una valutazione prudenziale, di un ordine di grandezza inferiore a<br />

quella ottenuta con la semplice proporzione geografica.<br />

E’ possibile quindi valutare che il passo autunnale dei soli migratori diurni<br />

intrapaleartici che attraverso le valli bergamasche si compongano di un numero di<br />

individui compreso tra 2-3 milioni e 20-30 milioni.<br />

Allo stato attuale delle conoscenze, simili stime quantitative valico per valico,<br />

forcella per forcella non appaiono raggiungibili se non attraverso l’esecuzione di<br />

censimenti appositamente preordinati. Ciononostante, poiché la migrazione<br />

attraverso l’arco orobico risulta essere un fenomeno ingente – noto e sfruttato da<br />

secoli dal punto di vista venatorio con i roccoli e da diversi anni anche oggetto di<br />

indagini dirette attraverso l’inanellamento di migratori presso stazioni<br />

ornitologiche.<br />

Validi indizi atti all’identificazione delle vie di migrazione di maggiore<br />

importanza si possono ottenere per via indiretta, dai dati di ricattura relativi a<br />

602


uccelli inanellati all’estero o dalla concentrazione delle attività umane legate allo<br />

sfruttamento della risorsa costituita dai migratori stessi.<br />

Gli appostamenti fissi e i roccoli<br />

L’esame della distribuzione degli appostamenti fissi di caccia per comune (3392<br />

in 246 comuni), divisi in classi di abbondanza, mostra che le più elevate<br />

concentrazioni di cacciatori dedicati al prelievo dal flusso migratorio si trovano<br />

lungo l’asse di entrata dei fringillidi e occupano principalmente la media e bassa<br />

Val Brembana. Allo sbocco della Valle le più elevate densità di suddividono in<br />

due percorsi, uno orientato nettamente verso la città di Bergamo e l’altro in<br />

direzione est sud-est, a incrociare in Val Seriana.<br />

Concentrazioni più ridotte ma comunque indicative si hanno anche lungo le vie<br />

orientali di ingresso a questa valle orientata, come le altre valli bergamasche, da<br />

nord a sud per quasi tutta la sua lunghezza.<br />

Tabella 3.2 - Comuni con le maggiori concentrazioni di appostamenti di caccia,<br />

tutti ubicati nella parte medio-bassa delle Valli Seriana e Brembana<br />

COMUNE CAPANNI ATTIVI<br />

Zogno 68<br />

San Giovanni Bianco 49<br />

Gandino 48<br />

Brembilla 46<br />

San Pellegrino Terme 45<br />

Taleggio 42<br />

Albino 37<br />

Nembro 30<br />

Clusone 29<br />

Scanzorosciate 28<br />

La distribuzione sopra descritta sembra indicare un netto legame tra caccia da<br />

appostamento fisso e passo di migratori diurni che si spostano in grossi stormi,<br />

quali sono appunto i quattro principali turdidi cacciabili.<br />

Indicazioni parzialmente diverse derivano dalla distribuzione dei roccoli storici,<br />

che esercitavano un tipo di prelievo meno selettivo, agendo su un più vasto spettro<br />

di specie, migratori diurni e notturni, a lungo, breve e brevissimo raggio. Del resto<br />

lo storico interesse degli uccellatori bergamaschi nei confronti di specie, ormai da<br />

tempo, protette quali il beccafico, il prispolone, la balia nera, è stato tanto<br />

importante da condizionare una diversa distribuzione dei roccoli rispetto agli<br />

appostamenti dissi, che sono necessariamente legati a particolari fenologie della<br />

migrazione.<br />

Dalla carta di distribuzione di circa 120 degli impianti di cattura che esercitavano<br />

l’uccellagione nei decenni scorsi, si osservano in effetti nell’area prealpina tre<br />

principali concentrazioni:<br />

una lunga teoria di roccoli lungo i versanti della media e bassa Val Seriana;<br />

− un nucleo localizzato in corrispondenza dei passi tra la Val Brembana e la Val<br />

Seriana;<br />

603


− un numero relativamente limitato di impianti di cattura alla confluenza della<br />

Val Taleggio nella Val Brembana.<br />

N.<br />

Tabella 3.3 – Prospetti delle catture negli impianti bergamaschi dal 2001 al 2004<br />

IMPIANTI<br />

AUTORIZZATI<br />

ANNO 2001<br />

COMUNE<br />

TORDI<br />

BOTTACCI<br />

604<br />

TORDI<br />

SASSELLI<br />

CESENE MERLI ALLODOLE TOTALI<br />

1 AL CANTO Sedrina 250 169 83 6 0 508<br />

2 BAGU’ Oneta 53 96 68 6 0 223<br />

3 BOSDOCCO Almenno S.B. 151 128 11 21 0 311<br />

4 BRASILE Villa di Serio 272 112 36 6 0 426<br />

5 CAVAGNOCOL Casazza 165 74 26 12 0 277<br />

6 CERESOLA Valtorta 125 115 77 5 0 322<br />

7 CIMA LONGA Almenno S.B. 294 215 74 3 0 586<br />

8 CLUSORINA Schilpario 126 93 49 7 0 275<br />

9 COSTA COLARINO Serina 80 122 19 4 0 225<br />

10 COSTA PALERA Lenna 105 114 80 3 0 302<br />

11 CROCETTE Oneta 86 134 40 11 0 271<br />

12 FONTANA Roncobello 94 70 149 11 0 324<br />

13 FOPPA SPESSA Dossena 49 71 39 10 0 169<br />

14 JONNY Dossena 117 185 100 6 0 408<br />

15 MAGRET Aviatico 184 126 93 4 0 407<br />

15 MESCHINO Roncobello 96 156 200 9 0 461<br />

16 MONTE CROCE Leffe 185 121 23 7 0 336<br />

17 MONTE FARNO Gandino 128 194 128 7 0 457<br />

18 ROCOL DEL MENEC Zogno 117 86 28 15 0 246<br />

19 S.GIORGIO Almenno S.S. --- --- --- --- 57 57<br />

20 SELVA D’AGNONE Valgoglio 65 91 152 8 0 316<br />

21 TAVERNELLE IN<br />

CASTAGNETA<br />

Bergamo 205 164 40 14 0 423<br />

22 ZEB Roncobello 126 118 256 17 0 517<br />

TOTALI 3073 2754 1771 192 57 7847<br />

N.<br />

IMPIANTI AUTORIZZATI<br />

ANNO 2002<br />

COMUNE<br />

TORDI<br />

BOTTACCI<br />

TORDI<br />

SASSELLI<br />

CESENE MERLI TOTALI<br />

1 AL CANTO Sedrina 350 176 55 19 600<br />

2 BAGU’ Oneta 114 95 56 17 284<br />

3 BOSDOCCO Almenno S.B. 199 83 13 29 324<br />

4 BRASILE Villa di Serio 355 122 28 22 527<br />

5 CAVAGNOCOL Casazza 268 63 65 26 422<br />

6 CERESOLA Valtorta 161 100 98 22 381<br />

7 CIMA LONGA Almenno S.B. 449 225 53 29 756<br />

8 CLUSORINA Schilpario 103 30 89 20 242<br />

9 COSTA COLARINO Serina 99 106 87 5 279<br />

10 COSTA PALERA Lenna 108 44 79 9 240<br />

11 CROCETTE Oneta 105 69 56 23 253<br />

12 FONTANA Roncobello 87 66 128 20 301<br />

13 FOPPA SPESSA Dossena 84 56 46 5 191<br />

14 JONNY Dossena 95 87 90 17 289<br />

15 MAGRET Aviatico 167 96 64 10 337<br />

16 MESCHINO Roncobello 83 65 218 12 378<br />

17 MONTE CROCE Leffe 196 138 26 27 387<br />

18 MONTE FARNO Gandino 183 163 73 19 438<br />

19 MONTE LURINO Sotto il Monte 338 138 60 31 567<br />

20 ROCOL DE PRISE Zogno 166 72 35 30 303<br />

21 SELVA D’AGNONE Valgoglio 72 51 124 12 259<br />

22 TAVERNELLE IN Bergamo 206 217 41 12 476<br />

CASTAGNETA<br />

23 ZEB Roncobello 103 79 150 50 382<br />

TOTALI 4.091 2.341 1.734 446 8.632


N.<br />

IMPIANTI<br />

AUTORIZZATI<br />

ANNO 2003<br />

COMUNE TORDI<br />

BOTTACCI<br />

605<br />

TORDI<br />

SASSELLI<br />

CESENE MERLI ALLODOLE TOTALI<br />

1 AL CANTO Sedrina 315 204 23 19 0 561<br />

2 BAGU’ Oneta 227 102 42 19 0 390<br />

3 BOSDOCCO Almenno S.B. 171 92 9 19 0 291<br />

4 BRASILE Villa di Serio 350 162 12 19 0 543<br />

5 CAVAGNOCOL Casazza 298 169 18 19 0 504<br />

6 CERESOLA Valtorta 269 143 116 19 0 547<br />

7 CIMA LONGA Almenno S.B. 410 250 22 19 0 701<br />

8 CLUSORINA Schilpario 211 48 24 19 0 302<br />

9 COSTA COLARINO Serina 154 134 18 19 0 325<br />

10 COSTA PALERA Lenna 62 44 52 19 0 177<br />

11 FONTANA Roncobello 179 60 59 19 0 317<br />

12 FOPPA SPESSA Dossena 161 93 11 14 0 279<br />

13 JONNY Dossena 210 117 42 19 0 388<br />

14 MAGRET Aviatico 277 181 32 19 0 509<br />

15 MESCHINO Roncobello 177 56 89 19 0 341<br />

16 MESSAGGI Oltre il Colle 175 74 19 19 0 287<br />

17 MONTE CROCE Leffe 303 114 2 19 0 438<br />

18 MONTE FARNO Gandino 185 147 23 19 0 374<br />

19 MONTE LURINO Sotto il Monte 346 194 26 19 0 585<br />

20 ROCOL DE PRISE Zogno 125 98 10 19 0 252<br />

21 S. ANTONINO Ponte S. Pietro 0 0 0 0 50 50<br />

22 SELVA D’AGNONE Valgoglio 116 82 69 19 0 286<br />

23 TAVERNELLA IN<br />

CASTAGNETA<br />

Bergamo 231 165 24 19 0 439<br />

24 ZEB Roncobello 294 105 114 19 0 532<br />

TOTALI 5246 2834 856 432 50 9418<br />

N. IMPIANTI AUTORIZZATI ANNO 2004 COMUNE TORDI TORDI CESENE MERLI TOTALI<br />

BOTTACCI SASSELLI<br />

1 AL CANTO Sedrina 241 105 40 20 406<br />

2 BAGU’ Oneta 175 32 50 15 272<br />

3 BOSDOCCO Almenno S.B. 170 52 7 20 249<br />

4 BRASILE Villa di Serio 382 89 19 19 509<br />

5 CAVAGNOCOL Casazza 240 56 20 24 340<br />

6 CERESOLA Valtorta 175 47 119 24 365<br />

7 CIMA LONGA Almenno S.B. 331 180 39 20 570<br />

8 CLUSORINA Schilpario 107 38 50 25 220<br />

9 COSTA COLARINO Serina 113 38 29 16 196<br />

10 FONTANA Roncobello 114 35 80 19 248<br />

11 FOPPA SPESSA Dossena 78 26 10 20 134<br />

12 MAGRET Aviatico 177 65 40 15 297<br />

13 MESCHINO Roncobello 144 45 100 20 309<br />

14 MONTE CROCE Leffe 207 52 17 19 295<br />

15 MONTE FARNO Gandino 210 76 30 20 336<br />

16 MONTE LURINO Sotto il Monte 300 128 38 20 486<br />

17 TAVERNELLA IN CASTAGNETA Bergamo 250 92 41 20 403<br />

18 a COSTA PALERA Lenna 9 26 70 6 111<br />

19 a SELVA D’AGNONE Valgoglio 3 26 100 4 133<br />

18 b ROCOL DE PRISE Zogno 129 8 5 9 151<br />

19 b SVALI' Oltre il Colle 166 5 2 17 190<br />

TOTALI 3721 1221 906 372 6220


Individuazione dei flussi di migrazione<br />

Nell’area alpina in generale, e quella orobica non fa eccezione, la migrazione è<br />

condizionata dalla morfologia del territorio. I contingenti di migratori che, anziché<br />

aggirare le Alpi, decidono di attraversarle, utilizzano quali linee di penetrazione i<br />

grandi solchi vallivi e si concentrano nelle strozzature costituite dai valichi alpini<br />

e montani. Questa strategia generale, per quanto riguarda le Alpi Orobie nella loro<br />

parte bergamasca, si traduce nell’aggiramento lungo la direttrice del lago di<br />

Como-Lecco a ovest e lungo la Val Canonica a est.<br />

Gli uccelli che scendono lungo il lago di Lecco si incanalano in parte lungo la<br />

valle Imagna- come dimostra la concentrazione delle ricatture e la presenza di alcuni<br />

roccoli – in parte lungo il solco che, da Cisano Bergamasco porta a Pontida,<br />

Ambivere e Bergamo lungo una linea di elevata concentrazione di appostamenti fissi.<br />

L’ingresso nella valle Imagna avviene da due valichi da sempre noti per l’intensa<br />

attività dei roccoli che qui erano concentrati, il Passo del Pertus e la Passata.<br />

Più a nord, un’altra via d’ingresso attraversa la Val Taleggio (Forcella di Bura,<br />

comune di Taleggio) portando un numero presumibilmente limitato di uccelli a<br />

incanalarsi in direzione della valle Brembilla o, meno verosimilmente, della Valle<br />

Brembana più o meno all’altezza di San Giovanni Bianco.<br />

Alcune ricatture sono sparse sull’intera lunghezza della val Brembana, con una<br />

concentrazione della zona di Piazza Brembana. Sembra transitare da qui un altro<br />

flusso di migratori provenienti da nord-ovest che fa il suo ingresso, a quanto<br />

sembra, dal Passo di Cà San Marco, raccogliendo gli uccelli provenienti dalla<br />

Valtellina.<br />

A conferma la Valle Brembana ospita una continua, elevata concentrazione di<br />

appostamenti fissi e di roccoli per tutta la sua lunghezza da San Giovanni Bianco<br />

fino a Zogno, dove il flusso di migratori sembra divaricarsi proseguendo da un lato<br />

verso la citta di Bergamo attraverso Sorrisole e Ponteranica percorrendo il valico del<br />

Canto Basso, dall’altro verso la Val Seriana attraverso i comuni di Nembro,<br />

Scanzorosciate e Albino con i loro numerosi appostamenti fissi di caccia.<br />

Lungo quest’asse è possibile individuare una serie di dossi, forcelle e valichi,<br />

molto noti per la ricchezza del passo, nei cui pressi sono stati anche localizzati<br />

impianti di cattura e inanellamento di particolare efficienza: da nord-ovest a sudest,<br />

il Passo della Crocetta (Serina), il Forcellino, la Forcella e la Forca (tra<br />

Gazzaniga e Aviatico).<br />

Questa corrente migratoria sembra incrociare la Valle Seriana e oltrepassarla<br />

perpendicolarmente verso la Val Cavallina su un fronte allargato che, da Gaverina<br />

Terme verso est, prende tutto il versante meridionale della Valle Seriana stessa.<br />

Lungo la Val Seriana scende invece un altro flusso proveniente da nord-est che si<br />

muove parallelamente ai versanti, come risulta anche da osservazioni dirette<br />

effettuate negli impianti di inanellamento. Questi uccelli confluiscono nella Val<br />

Seriana principalmente passando a nord di Sovere valicando il crinale in<br />

corrispondenza del passo di Campo d’Avena (testa della Valle Concossoi e della<br />

Valle Piana) dove si incontrano ancora ben cinque roccoli.<br />

Numerose ricatture, principalmente di fringillidi, si localizzano al centro valle e<br />

lungo i versanti da Gandino fino alla città di Bergamo. Contingenti assai più<br />

606


limitati di migratori sembrano scendere dal giogo della Presolana e dal Passo del<br />

Vivione in Val di Scalve.<br />

I due flussi di maggiore importanza convergono verso la città di Bergamo dove<br />

la concentrazione di ricatture (e del resto anche di osservazioni) è molto elevata.<br />

Nella parte planiziale del territorio bergamasco, dove gli uccelli si disperdono, le<br />

poche ricatture effettuate sono distribuite principalmente lungo le vie fluviali del<br />

Serio e dell’Oglio, già conosciute da tempo dagli uccellatori, che qui, fino<br />

all’immediato secondo dopoguerra avevano impiantato quagliare e bressane, una<br />

di queste è ancora visibile nei pressi del Castello di Malpaga.<br />

Le due principali stazioni ornitologiche bergamasche<br />

La stazione di cattura e inanellamento a scopo scientifico “La Passata”<br />

La stazione di cattura e inanellamento a scopo scientifico “La Passata”, ubicata<br />

nell’omonima località presso il comune di Zogno (BG) sopra l’abitato di Miragolo<br />

S. Marco, ha iniziato la propria attività di ricerca nell’ottobre del 1995.<br />

La scelta del luogo in cui installare l’impianto di cattura è stata raggiunta solo<br />

dopo un lungo lavoro di ricerca, con numerosi sopralluoghi e osservazioni<br />

effettuate in svariati valichi prealpini delle province di Bergamo e Brescia,<br />

potenzialmente interessati dal fenomeno delle migrazioni.<br />

La stazione è situata in un classico valico a sella con orientamento sudovest/nord-est<br />

ad una quota di 960 m s.l.m. in ambiente tipicamente prealpino<br />

dove, nei versanti sottostanti, dominano dal punto di vista vegetazionale ampie<br />

formazioni boschive di latifoglie caratteristiche dell’orizzonte montano inferiore<br />

(carpino, frassino, nocciolo).<br />

Dopo aver provveduto alla sistemazione della vegetazione che in precedenza<br />

copriva completamente il crinale del valico, veniva installato l’impianto di cattura<br />

con l’annessa sistemazione logistica. Le reti, di tipo mist-nets, sono montate su<br />

una struttura formata da due file parallele di pali metallici che raggiungono<br />

un’altezza massima di circa 7 m. e vengono manovrate attraverso un sistema di<br />

carrucole, che consente agli operatori di alzarle e abbassarle con grande facilità.<br />

Questo sistema è stato ideato dal geom. Maffeo Schiavi, responsabile<br />

dell’impianto e coordinatore del Gruppo Inanellatori “La Passata” (GIP).<br />

La Passata è stata scelta anche in base alle notizie fornite sia dai cacciatori che<br />

da anziani uccellatori del luogo sull’entità della migrazione autunnale,<br />

informazioni che hanno trovato pieno riscontro nelle catture effettuate dall’ottobre<br />

1995, confermando le grandi potenzialità offerte dal valico. Inoltre, ad un primo<br />

saggio nel periodo primaverile (dal 17 marzo al 5 aprile), si sono ottenuti dei<br />

risultati assolutamente inaspettati: infatti la media giornaliera delle catture in<br />

marzo, quindi sulla migrazione primaverile di ritorno, è stata addirittura superiore<br />

a quella del periodo autunnale. Questo perché in primavera gli uccelli, di ritorno<br />

dai quartieri di svernamento, confluendo da sud-ovest, devono superare il<br />

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dislivello dalla valle sottostante che è maggiore rispetto a quello affrontato in<br />

autunno, poiché provengono dalla direzione opposta (nord-est) e giungono sul<br />

crinale con maggiore difficoltà; valicando a pochi metri dal suolo facilitano così le<br />

operazioni di cattura.<br />

L’impianto è gestito da appassionati ricercatori del già citato GIP, autorizzati<br />

dalla Regione Lombardia e coordinati a livello nazionale dall’Istituto Nazionale<br />

per la Fauna Selvatica (INFS). A sua volta l’INFS è affiliato all’EURING, la<br />

banca dati europea sull’attività di inanellamento dei vari schemi nazionali, che<br />

permette di elaborare i dati delle ricatture a livello internazionale. Le ricatture<br />

hanno lo scopo di definire le rotte di migrazione, le aree di sosta, di svernamento e<br />

di riproduzione, fornendo quindi importantissime informazioni sulla biologia<br />

dell’avifauna.<br />

Per quanto riguarda le specie maggiormente rappresentative nel periodo<br />

analizzato, risalta l’elevato numero di frosoni Coccothraustes coccothraustes per<br />

il passo autunnale (1571 individui), mentre nel periodo invernale le catture<br />

effettuate hanno riguardato quasi esclusivamente le peppole Fringilla<br />

montifringilla (2973 individui), evidenziando un probabile fenomeno di<br />

pendolarismo tra le zone di foraggiamento della pianura e i dormitori montani. La<br />

specie che ha prevalso durante il passo primaverile è risultata essere il fringuello<br />

Fringilla coelebs, che ha raggiunto, con gli individui catturati nel periodo<br />

autunnale, un totale di 2558 individui.<br />

I dati raccolti vengono inseriti in un archivio informatizzato e, dopo opportune<br />

elaborazioni statistiche, possono fornire importanti indicazioni sul fenomeno<br />

migratorio, quali le variazioni numeriche dell’avifauna che si verificano nel<br />

tempo, il successo riproduttivo delle varie specie, l’individuazione delle differenti<br />

popolazioni geografiche da cui provengono gli uccelli in transito.<br />

Lo studio delle migrazioni e l’analisi dei dati necessitano inoltre di un<br />

campione molto ampio, che permetta un’analisi quanto più possibile accurata.<br />

Qualsiasi analisi dei dati a livello statistico implica inoltre un notevole<br />

impegno per assicurare la standardizzazione del metodo di raccolta dei dati, dei<br />

metodi e dei periodi di cattura, in modo da poter effettuare paragoni con i dati già<br />

noti nella letteratura ornitologica e con quelli delle altre stazioni di inanellamento.<br />

Il valico della “Passata” si rileva estremamente valido per questi studi, poiché<br />

permette di effettuare catture in modo passivo, senza utilizzare richiami di alcun<br />

tipo e senza influire sul naturale svolgimento delle migrazioni, consentendo di<br />

realizzare quindi quello che viene definito un campionamento di tipo casuale, una<br />

delle condizioni di partenza per qualunque studio sulle popolazioni.<br />

Tuttavia questi dati possono diventare significativi soltanto con progetti a<br />

lungo termine, che permettano confronti con i dati precedentemente raccolti. E’<br />

anche grazie alle ricerche compiute nelle stazioni di inanellamento che, attraverso<br />

un monitoraggio costante e un campionamento standardizzato, si possono ottenere<br />

delle ottime stime della dinamica delle popolazione delle singole specie, le quali<br />

possono permettere una migliore pianificazione nella gestione e conservazione del<br />

patrimonio avifaunistico.<br />

608


L’Osservatorio Ornitologico “Daniele Anesa”<br />

L’Osservatorio Ornitologico “Daniele Anesa” si trova in località Ganda (45°47’N<br />

09°48’E) nel comune di Aviatico, provincia di Bergamo, ad un’altezza di 1036<br />

metri sul livello del mare. L’impianto, situato nel distretto geobotanico prealpino<br />

delle Alpi Orobie, è collocato a ridosso della linea di spartiacque che separa la<br />

Valle Seriana dalla Valle Brembana, ed è posizionato in prossimità del limite<br />

superiore del bosco, in modo tale da creare un continuum con la vegetazione<br />

circostante. Infatti il Roccolo ha una sua composizione vegetazionale tipica che<br />

ben si associa con l’habitat naturale. L’area è caratterizzata da un suolo di tipo<br />

argilloso, con piccoli affioramenti di roccia calcarea, che favorisce la crescita e lo<br />

sviluppo delle piante tipiche di questa fascia vegetazionale.<br />

Dal 1991 al 2002 l'Osservatorio Ornitologico "Roccolo Ganda" (Aviatico-<br />

Bergamo) ha svolto un’importante attività di ricerca tesa a studiare la migrazione<br />

degli uccelli nelle Prealpi lombarde. Lo studio si è concentrato essenzialmente<br />

sulla migrazione autunnale, che è la più intensa, e, soltanto nel marzo 1992 anche<br />

su quella primaverile. Tale attività ha portato alla cattura di 97.371 uccelli, di cui<br />

sono stati rilevati dati biometrici, età, sesso e peso; circa il 15% è stato anche<br />

marcato individualmente tramite l’apposizione alla zampa di anello I.N.F.S.<br />

All’attività dell’Osservatorio hanno partecipato ospiti provenienti da numerosi<br />

paesi europei ed extraeuropei, tra questi USA, Russia e Israele, ornitologi italiani<br />

e stranieri, nonché studenti dell’Università di Milano e di Napoli.<br />

Tutti i dati raccolti sono stati riportati su schede prestampate e poi archiviati<br />

nella banca-dati del Gruppo Inanellamento Limicoli. L’analisi di queste<br />

informazioni può concorrere a chiarire molti degli interrogativi relativi alla<br />

migrazione che avviene attraverso le Prealpi lombarde: in particolare è possibile<br />

calcolare l’autonomia e la durata del volo, valutare, anno dopo anno, le variazioni<br />

di densità delle popolazioni, stabilire eventuali differenze nei tempi di migrazione<br />

relativamente all'età ed al sesso, determinare la composizione in classi d'età<br />

(rapporto giovani/adulti) e di sesso, individuare le aree dove si concentrano e che<br />

quindi è importante salvaguardare.<br />

La possibilità di condurre queste ricerche la si deve al lavoro inestimabile<br />

effettuato dal proprietario dell’impianto, l’architetto Daniele Anesa, che è riuscito<br />

a creare, partendo da un roccolo antico e tradizionale, una struttura che costituisce<br />

un esempio eccezionale di stazione ornitologica per lo studio delle migrazioni.<br />

Purtroppo, in seguito alla sua prematura scomparsa, l’Osservatorio non ha<br />

funzionato nell’autunno del 2003 e la sua assenza potrebbe determinare la<br />

definitiva chiusura di ogni attività; verrebbe quindi meno la possibilità di far<br />

conoscere uno dei più importanti ed antichi Roccoli della Lombardia, oltre<br />

naturalmente a causare una grave perdita per la ricerca scientifica. Pertanto, il<br />

Gruppo Inanellamento Limicoli, Associazione culturale di volontariato senza fini<br />

di lucro impegnata in attività di ricerca sull'avifauna selvatica, per non disperdere<br />

questo patrimonio e per assicurare una continuità alle ricerche avviate, si propone<br />

di gestire l’impianto per quanto riguarda l’attività scientifica e di costituire<br />

l'Osservatorio Ornitologico "Daniele Anesa".<br />

609


Lo scopo dell’Osservatorio ornitologico è il monitoraggio dei flussi migratori<br />

post-riproduttivi e l’esame di una serie di aspetti legati alla migrazione. Le catture<br />

effettuate permettono di ricavare dei trend attendibili dal punto di vista scientifico<br />

sulle variazioni di densità delle popolazioni migranti e di confrontarli, là dove<br />

possibile, con quelli accertati in altre stazioni d'inanellamento della Lombardia e<br />

più in generale dell'Italia settentrionale; nel roccolo è inoltre possibile:<br />

− definire gli andamenti stagionali delle diverse specie di migratori e studiare gli<br />

andamenti migratori giornalieri per definire la strategia usata (se di tipo "nonstop"<br />

o di tipo intermittente);<br />

− caratterizzare biometricamente le popolazioni migranti;<br />

− valutare la composizione delle popolazioni migranti per classi di sesso ed età<br />

per accertare eventuali fluttuazioni e valutare l’esistenza di differenze nei<br />

tempi di migrazione dei giovani e degli adulti (distribuzione temporale);<br />

− studiare la dinamica di popolazione e stimare l'entità dei flussi nell'area<br />

attraverso l'analisi dell'indice di flusso (numero uccelli inanellati per superficie<br />

reti moltiplicato per ore cattura);<br />

− indagare sull’origine geografica delle popolazioni che migrano attraverso le<br />

Prealpi lombarde;<br />

− esaminare le condizioni fisiche e le riserve di grasso degli individui catturati<br />

per calcolare l’autonomia potenziale di volo;<br />

− accertare i tassi di sopravvivenza e la fedeltà all’area di sosta (sulla base delle<br />

ricatture in anni successivi a quello dell’inanellamento);<br />

− confrontare la qualità delle catture effettuate mediante reti mist-nets e richiami<br />

acustici con i dati raccolti negli anni in cui sono state utilizzate reti a tramaglio<br />

e richiami vivi;<br />

− identificare i principali problemi incontrati dalle specie migratrici, in termini<br />

di qualità di habitat e di disponibilità alimentari, con particolare riguardo agli<br />

aspetti conservazionistici ed alla gestione dell'avifauna selvatica.<br />

Sulla base di eventuali collaborazioni con altri Istituti scientifici sarà inoltre<br />

possibile, in un prossimo futuro, avviare nel Roccolo di Ganda, oggi Osservatorio<br />

ornitologico “Daniele Anesa”, ulteriori ricerche, quali:<br />

- monitoraggio della presenza di radionuclidi nel Tordo bottaccio (Turdus<br />

philomelos);<br />

- presenza di acari nel piumaggio di avifauna migratrice (Turdidi e Fringillidi in<br />

particolare, eventuali altre specie da individuare successivamente);<br />

- presenza di metalli pesanti nel piumaggio;<br />

- presenza di composti cloro-organici (da pesticidi) nei tessuti muscolare, osseo,<br />

ecc.;<br />

- analisi di evidenti forme tumorali che possano colpire l'avifauna in generale.<br />

- monitoraggio della presenza di parassiti ematici nei Turdidi.<br />

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