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mata “Etruria”, erede cioè della tradizione etrusca<br />

e comprendente anche parte dell’Umbria e<br />

del <strong>La</strong>zio. Gli scambi culturali tra Etruria e Padania<br />

erano in quei secoli sicuramente intensi<br />

(più che tra Etruria e terre italiche), tuttavia,<br />

sul piano linguistico-letterario non si può negare<br />

una certa differenza di impostazione e comunicazione,<br />

riconducibile soprattutto alla<br />

non-celticità della Toscana stessa.<br />

Dobbiamo dunque definire “capolavoro della<br />

letteratura toscana” la Divina Commedia (e capolavoro<br />

al tempo stesso della letteratura mondiale,<br />

senza dimenticare comunque che fu ideata<br />

e in parte scritta in Padania durante l’esilio<br />

dantesco); quanto a Dante poi non si può non<br />

riprendere in esame il suo De Vulgari Eloquentia<br />

per sottolineare pregiudizi e arroganza di<br />

valutazione nei giudizi espressi nei confronti<br />

dei linguaggi padani. Se l’Alighieri giudicò inadeguati<br />

alla parlata italiana volgare il milanese<br />

ed il bergamasco, foneticamente insopportabili<br />

i dialetti veneti, gravati da una “zeta” troppo<br />

aspra i genovesi, praticamente stranieri i vernacoli<br />

di Torino, Trento ed Alessandria, troppo<br />

gutturali i dialetti ovest-emiliani, con conseguenze<br />

negative per le rispettive culture letterarie,<br />

lo si deve ad una visione un po’ forzata<br />

dell’italianità, basata unicamente sul modello<br />

tosco-bolognese e già pesantemente votata ad<br />

una sorta di neutralizzazione culturale delle<br />

terre poste ad ovest dell’Enza e a nord del Po.<br />

D’altra parte il senso di estraneità provata da<br />

un famoso toscano nei confronti di queste ultime<br />

conferma le profonde differenze tra Continente<br />

e Penisola, che a quei tempi solo una minoranza<br />

di abitanti della penisola stessa voleva<br />

cancellare.<br />

E veniamo ai tempi umanistico-rinascimentali.<br />

<strong>La</strong> Padania trova nei reggiani Boiardo e<br />

Ariosto due grandi interpreti dell’epos cavalleresco,<br />

due autori che a sud dell’Appennino non<br />

potrebbero mai esser fioriti. Forte è infatti l’eco<br />

della cultura francese e decisamente continentale<br />

la capacità di far viaggiare il lettore in ogni<br />

parte dell’universo assieme ai vari paladini, senza<br />

contare lo spirito di ironico ottimismo che<br />

nulla ha a che fare col sarcasmo toscano, il fatalismo<br />

italico ed il tragico (o farsesco) pessimismo<br />

siciliano. In Etruria il mondo di Orlando<br />

ha trovato solo la goliardica presa in giro di<br />

un Pulci ed in Sicilia ha fornito materia per il<br />

tragicomico teatrino dei pupi, senza ispirare<br />

altro tipo di letteratura.<br />

Alle spalle dei due reggiani ci fu la corte fer-<br />

rarese, magnifico esempio di cultura padana in<br />

grado di rielaborare il meglio di tutta Europa<br />

sia in ambito letterario che in ambito artistico,<br />

apportandovi con gran classe lo spirito fattivo<br />

degli “eridani”, la capacità per certi aspetti inimitata<br />

di tradurre la cultura in ricchezza e la<br />

ricchezza in nuova cultura, senza mai dimenticare<br />

l’ispirazione popolare.<br />

E a Ferrara predicava Gerolamo Savonarola,<br />

un frate di grandi qualità retoriche e letterarie,<br />

che ebbe non a caso per primo il coraggio di<br />

condannare la corruzione romana, rifacendosi<br />

ad un’altissima moralità.<br />

Ma il meglio della cultura padana tra Quattrocento<br />

e Cinquecento sta forse tra Mantova e<br />

Venezia, le due capitali del 1996.<br />

Il mantovano e il padovano di cui “menar vanto”<br />

sono Teofilo Folengo e il Ruzzante, ma anche<br />

il veneziano Bembo merita una rivalutazione<br />

quanto a padanità.<br />

Folengo scrive in una lingua macheronica che<br />

mischia latino e linguaggio padano in un impasto<br />

di straordinaria freschezza e incisività: con<br />

questo strumento in codice che sa tanto di critica<br />

nei confronti di un italiano imposto dalle<br />

classi più abbienti (in qualche modo traditrici<br />

della sanguignità popolare della “Bassa”), ci racconta<br />

il mondo contadino della pianura padana<br />

in tutta la sua realistica generosità e spontaneità,<br />

in barba a quegli intellettuali cinquecenteschi<br />

d’Italia, d’Etruria e in parte della stessa<br />

Padania che cominciano a far credere che non<br />

esista più.<br />

Il Ruzante, specie nella commedia Betìa, mette<br />

in gioco istinti ancor più animaleschi, usando<br />

direttamente il dialetto, un patavino schietto<br />

e ruspante capace di rappresentare perfettamente<br />

la forza dei sentimenti dei più umili, di<br />

un popolo padano che di fronte alle angherie<br />

dei potenti risponde con la manifestazione ingenua<br />

e limpida delle sue gioie e dei suoi dolori.<br />

Di fronte alla primitività del contado sta la<br />

speculazione filosofica dell’aristocrazia veneta,<br />

in parte già piegata agli interessi delle altre aristocrazie<br />

italiane ed europee, plagiata da quelle<br />

forze che iniziano a reclamare l’Unità a tutti i<br />

costi.<br />

Così un Pietro Bembo, costretto dal padre ambasciatore<br />

a respirare l’aria prima di Firenze e<br />

successivamente di Messina, torna a Venezia e<br />

scrive un saggio, Prose della volgar lingua<br />

(1525), in cui esalta la lingua letteraria toscana,<br />

proponendola come modello per tutti gli<br />

Anno III, N. 9 - Gennaio-Febbraio 1997 Quaderni Padani - 29

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