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Per questa ragione si sta cercando di mettere in piedi una cooperativa, cosa che va a rilento. Importante per ora è che si è riuscito a tutelare il bovino autoctono chiamato ‘Cik’, prova ne sia anche la società nata con questo scopo. Ma parliamo di cose più allegre, ha continuato Sodja, la nostra è una festa vera e propria conosciuta in tutta l’area dell’Alpe Adria. Vedete anche voi quanti ospiti dalla Croazia, dall’Austria e dall’Italia abbiamo. L’offerta è ricca sia per quanto riguarda quella gastronomica, con in primo piano il formaggio e la ricotta fatte in casa, sia nel campo dei souvenir e simili. La gente viene qui per diver- Aspettando la sfi lata, una carezza per calmarle Il bovino Cik La razza slovena Cik è un genotipo locale, bestia molto docile, ideale per il pascolo, longeva, che fornisce molto latte. Nata nel XIX secolo dall’incrocio di diverse razze, oggi è identifi cabile soprattutto dal colore rossastro. Quasi estinta, è stata salvata dagli allevatori di Bohinj e Tolmino che hanno deciso di tutelarla ed allevarla. Nel 2002 è nata la Società per la tutela del bue autoctono che ha cercato in tutta la Slovenia il Cik: presso 167 allevatori sono stati trovati in tutto 312 esemplari di pura razza, dato che in altri allevamenti le mucche si erano incrociate con altre. Si è deciso quindi di metterla sotto tutela. Dal successivo censimento, effettuato nel 2006, è risultato che nella Gorenjska ci sono in tutto 510 mucche di pura razza presso 269 allevatori, il che signifi ca che è in continuo aumento il numero di coloro che si si adoperano a mantenere in vita la specie. ● tirsi, per gustare prodotti di qualità, ma anche per trascorrere una giornata all’aria aperta magari approfi ttando dell’occasione per fare una puntata alla pittoresca cascata della Savica raggiungibile con molta facilità dato che si trova a meno di tre chilometri da qua. I nostri operatori turistici, i produttori e i venditori hanno capito presto che questa manifestazione attirava tantissima gente e quindi era ottima dal punto di vista della promozione commerciale. Con gli anni nel programma abbiamo incluso anche i gruppi folkloristici che hanno riscosso un grande successo. Quest’anno la 54.esima edizione del Ballo ha regi- Reportage I tanti vitellini testimoniano gli sforzi per la tutela della razza strato un numero record di capi di bestiame: 103 mucche in tutto, fra cui, come avete potuto vedere tantissimi vitellini, il che è garanzia della continuità della razza. Quindi abbiamo raggiunto lo scopo principale: far sì che il ‘Cik’ non sparisca. L’incontaminata natura del circondario, il fi ume Savica e la vicinanza del lago di Bohinj hanno contribuito a far sì che gli alberghi della zona siano pieni proprio in questo periodo. Non sarà solo per il ‘Ballo delle mucche’, ma la manifestazione certamente contribuisce a far venire la gente a Bohinj, magari per un fi ne settimana. Tutto fa turismo, ha concluso Sodja. ● Panorama 33
34 Panorama Letture Lo scorso giugno sono stati attribuiti i Premi della XLI edizione del concorso Istria Nobilissima, che hanno dato una nuova conferma dei potenziali creativi del gruppo nazionale italiano nei campi dell’arte e della cultura. Ritenendo che di tali potenziali debba fruire il maggior numero di lettori nelle pagine riservate alle letture, “Panorama” propone le opere a cui siano stati attribuiti premi o menzioni. Nella sezione “prosa in lingua italiana” la giuria ha assegnato la menzione onorevole a ROBERTA DUBAC di Castelvenere. Il titolo del racconto, di cui pubblichiamo l’ultima parte, è “Terra B”. Saba e Mitz L’altipiano dell’Alto Buiese è incastonato nel verde smeraldo di pini, abeti, cipressi ed ulivi, e macchiato a tratti da una più tenue sfumatura del fogliame di castagno e acacia. L’aria qui è mordace, ma salutare. Contiene profumo di vecchio e di nuovo, e l’altitudine è ideale per mantenere le braccia forti, un bel colorito del viso, polmoni d’acciaio e l’animo irrequieto. Al sorgere di un sole primaverile della metà degli anni Sessanta del ventesimo secolo, giù per un sentiero del colle più alto, scendevano due esseri. Scendevano, uno di fi anco all’altro, scuri, emaciati, con un fare rassegnato e lievemente ciondolante, come senza meta o senza basi. Erano un uomo ed il suo asino. SABA: Sono Saba Ludovich e quello lì è Mitz, il mio asino. Siamo scappati di casa. In verità, l’abbiamo abbandonata la nostra casa. Abbiamo lasciato la famiglia, le altre bestie e tutti i beni che valgono qualcosa a questo duro mondo. Abbiamo compiuto un faticoso cammino che termina qui, credo, perché davanti a noi non c’è più niente da scoprire. Ci è stata rivelata ogni cosa e ne siamo grati, appesantiti ed addolorati. Le nostre gambe e i nostri zoccoli non ce la fanno più a proseguire. Le risorse si sono prosciugate, il nostro fi ato è secco. Fa molto caldo e non vedo alcun luogo ove poter riposare le membra ed i pensieri. Poter staccare almeno quelli, ci toglieremo un gran carico. Ma il pensiero è una sostanza che non ne vuole sapere di staccarsi dalla pelle. Ci ho provato. Mitz ne è testimone. Ma per quanto arduamente abbia cercato di sfogliarmi da loro, si sono riattaccati tutti i miei più oscuri e pesanti pensieri. MITZ: Saba, il mio padrone, m’aveva tirato fuori di stalla facendomi tutto un discorso che non ero riuscito a seguire. Un discorso spettinato. M’aveva tirato fuori e portato lontano da casa, mentre tutto ancora dormiva, e poi, con la sua solita e monotona solennità, m’aveva detto: “Partiamo”. Avevo fatto qualche passo indietro, sputato i fi ori che masticavo, e mi ero guardato intorno, in cerca di una scusa per non partire. Ma non avevo trovato nulla. ”Andiamo su, devi fare buon viso a cattivo gioco” aveva detto Saba, il mio padrone. “Proprio come ho fatto io, con quella banda di anime pigre”. Ero contrariato, come sempre. Sono un animale lento a capire. Glielo spiegai con i miei passi all’indietro ed i miei sputi. E lui lo sapeva, il mio padrone, e capiva che non volevo, e lo capiva da come giravo la testa di lato evitando di guardarlo. ”Forza, Mitz! Ti piacerà la libertà”. Era suonata come una promessa e allora mi ero mosso, insieme a lui. Avevamo raggiunto la cima della collina, poi eravamo scesi dal versante più ricco e verde che il mio padrone chiama l’”occidentale”. Camminava veloce, Saba. Lui è molto alto e quando cammina pare debba andare in battaglia, armato fi no ai denti, nell’animo, ma con niente nelle mani. Questo è il mio padrone. «Terra B» Non sapevo cosa gli frullasse in testa, ma mi pareva tremendo quel frullio. Ed ora sono qui, accanto a lui e guardo questa cosa grande che non capisco. Si muove, quest’immensità, e mi spaventa, e spero, me lo auguro con tutto il cuore, che Saba, il mio buon padrone, non voglia portarmici dentro. SABA: Per me era il primo giorno di vita dopo la rottura con la mia famiglia: i Ludovich e i Vernin, gli unici abitanti del borgo più alto del Carso, ovvero i miei fratelli, sorelle, zii e nipoti, per quello che vale il grado di parentela. Il giorno innanzi, distaccato e convinto, aveva reciso ogni legame con loro. Erano accorsi dinanzi al portone e si erano disposti in coro davanti a me, con gli occhi sgranati e pieni di meraviglia. Maledetti! Fan sempre così quando alzo la voce e fanno fi nta di non capire perché l’ho alzata. Insomma, il giorno prima gliele avevo cantate sonore, scovando fuori a ognuno la sua pecca, ed avevo trovato infi ne, un concetto con il quale bastonarli tutti. ”Mi vergogno per voi!” gli avevo urlato. Che non è la stessa cosa di ‘Mi vergogno di voi’. Erano comunque la mia famiglia, il mio sangue, facevo parte anch’io di quella tribù. E non sarebbe stato esatto né onesto dire che mi vergognavo “di loro”. Però era stravero. Provavo vergogna “al posto loro” e glielo dissi. “Credete che il mondo giri intorno ai vostri battibecchi. I soldi dell’eredità potete fi ccarveli in tel cul, tanto neanche tutto l’oro del mondo riuscirebbe a levarvi la miseria che c’avete in testa!” Ed era vero. Loro non ci riuscivano, non ce la facevano a capire a quale vergogna mi riferivo, e a quali sentimenti invisibili mi stavo richiamando. Il giorno dopo ero partito, scendendo dal colle assieme al mio asino. Scendendo mi sentivo trionfante, accanto al quel testardo del mio Mitz. Andava tutto bene. Ogni cinque passi maledicevo il dolore al collo e dentro all’orecchio, ma per il resto, la vita ora era perfetta. Non dipendevo da niente e da nessuno. Non avrei più faticato come un mulo nei campi, né avrei curato il bestiame e amministrato il letame, cosa che nessun altro lassù (che Dio li aiuti) aveva mai voglia di fare. I lavori grossi e quelli più ingrati sono sempre toccati a me, fin da ragazzino. Ma è una tradizione su questa terra: è il prezzo che si paga da queste parti per essere l’ultimogenito e il più sveglio in famiglia. Mia madre, che Dio se ne guardi, mi diceva che ero nato burbero. E burbero sono rimasto, saggiamente, così come, con saggezza (stoltezza a sentir loro) avevo preso la decisione di rimanere celibe, perché non avevo voluto sfruttare l’occasione vigliacca che mi avevano posto davanti al naso: quella piccola morlacca gracile ed impaurita. Me l’avevano spinta davanti come si fa con un nespola acerba quando non è rimasto nient’altro e bisogna pur mangiare. Me l’avevano pure intrufolata, in una notte senza luna, di nascosto, in camera mia, una settimana dopo la morte di mamma Natalia Ludovich, nata Vernin.
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