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Racconti con colonna sonora - Sardegna Cultura

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bianchi, le botteghe degli importatori di té, e un’aria<br />

di vecchio porto di padroni di colonie. Le birrerie nere.<br />

Il profumo di kif. Vanno e vengono, dal Dam, sbronzi,<br />

o furtivi, o trascinati sul muro colla faccia viola, o<br />

immobili a dondolare sul marciapiede cogli occhi rossi<br />

e puntati su un vuoto qualunque, bianchi e neri.<br />

Non ha vent’anni. Giovane nero, forse marocchino.<br />

Mi sfiora il braccio e mi guarda <strong>con</strong> occhi che non sanno<br />

ancora esattamente cosa pensare, “Hash?” Forse, lo<br />

guardo troppo a lungo. “Cocaìn?” Gli ho stretto il<br />

braccio <strong>con</strong> tutta la forza che ci ho ancora nella mano<br />

destra. Mi ha guardato <strong>con</strong> una smorfia di stizza, prima<br />

di fuggire.<br />

È tornato Tetuàn. Ero giovane, allora. Avevo dormito,<br />

col kif. Un gran sonno dolce in una bottega pidocchiosa.<br />

È dolce, la vocina che sussurra: “papparino?”<br />

Mani tese sul ventre. Dal muro buio alle spalle, uno<br />

mi viene sul gomito, e l’altro mi prende col taglio<br />

della mano, fuori misura, sulla scapola. Un maledetto<br />

piede volante mi arriva alla nuca. Sono caduto su<br />

una banda di maledetti karateka. Li ha portati il negretto.<br />

Ho mosso i pugni per aria, pesanti e inutili.<br />

Accovacciato sul marciapiede, Warmoes Straat, colle<br />

spalle sul muro, scivolo. Pestano, al buio. Sono troppi,<br />

tutti assieme, cinquantotto, cinquantotto anni,<br />

tutti assieme dietro gli occhi.<br />

Mi hanno costretto, a guardare: Mostefa Ben Boulaid<br />

ha sezionato il torace, di Hans. Piccoli riquadri di<br />

pelle. Li infilava in uno spiedo. Cubi di montone, ben<br />

tagliati. Un fellah c’era, colla grande barba bianca, forse<br />

non aveva trent’anni, che soffiava su un fuoco di<br />

sterpi. Hans ha urlato abbastanza, prima di crepare.<br />

Era capace, Mostefa Ben Boulaid, col coltello. Ha<br />

tagliato le palle, di Hans, e la lingua. I coglioni, li ha<br />

gettati sulla graticola. Cotti, Scéf. Li ha inghiottiti<br />

senza masticarli, li ha vomitati sulle mie scarpe. Vaia,<br />

taliano, e ra<strong>con</strong>ta.<br />

Tre notti ho vissuto, <strong>con</strong> Hans che imputridiva al<br />

sole. Le mosche hanno fatto banchetto: il più grande<br />

banchetto di Orano e dintorni, milioni di mosche nere<br />

che mangiavano il sangue nero e secco. Quando mi<br />

hanno trovato, non c’era altro, nel simùn, che l’eco<br />

del canto di morte di una bambina algerina di nove<br />

anni, e Hans era nero di formiche.<br />

Deliravo. Il capitano Salàn, mio salvatore, mi ha<br />

chiuso nel carcere di Rehreh. Mi ha torturato dieci<br />

giorni, e dieci notti ha lasciato che gelassi. Ho imparato<br />

a danzare colle lucertole. A cantare colle capre, attaccato<br />

alle pietre gelide. Salàn, alla frusta, aveva la<br />

grazia di un ballerino di tango. Una grazia tutta parigina.<br />

Insultava, e frustava.<br />

Stronzo, Salàn, se Mostefa Ben Boulaid avesse domandato,<br />

qualcosa, qualunque cosa, caimarata taliano<br />

rac<strong>con</strong>tava, scriveva, spiegava. Tutto. Mi sarei venduto<br />

al prezzo più basso. Avrei cantato il rosario dei miei<br />

giorni, per la pelle. Invece non hanno domandato,<br />

Salàn stronzo. Non hanno domandato.<br />

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