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Totò. Il Principe Fratello 29<br />
assaggia il caffè; annuisce in segno di approvazione, si alza, si<br />
toglie la vestaglia, indossa un tight (questa volta non logoro) e<br />
dice al cameriere: “andiamo”. Si scopre così che è il<br />
maggiordomo a capo della servitù della magione della<br />
corpulenta marchesa (Ada Dondini). Passa in rassegna la servitù<br />
e, davanti alla nuova procace addetta al guardaroba che gli viene<br />
presentata, reinserisce una mini gag di antica data, attivando un<br />
movimento macchinico dal basso in alto ed esclamando, dopo<br />
aver visionato seno generoso e serico mapillario: «Addetta al<br />
guardaroba? Guarda che roba!» e, serissimo, prosegue nel suo<br />
severo lavoro ispettivo. L’isolamento dell’espressione allusiva e<br />
ovviamente trivia ha l’effetto, pur divertendo, di cristallizzare quel<br />
momento, impedendo alla presunta “scivolata” – secondo le<br />
fobie trattatistiche precedentemente citate – di trascinare<br />
semanticamente la dimensione narrativa in un unicum<br />
espressivo. Anzi, il gioco di contrasto fra la battuta improvvisa –<br />
che pare fermare il tempo nella zona aliena e remota del Pappus<br />
atellano – e la serietà aristocratica di un maggiordomo più<br />
aristocratico dei suoi padroni, enfatizza l’effetto comico e annulla<br />
la tracimazione puramente istintuale (comunque da noi non<br />
stigmatizzata). Questo gioco sottile di tasselli di mosaici<br />
dell’espressività, non necessariamente destinati a realizzare una<br />
forma completa, è il perno operativo dell’arte e della mimesi di<br />
Antonio de Curtis.<br />
L’assemblaggio per frammentazione è la caratteristica formante<br />
dell’avanspettacolo, un po’ più strutturato e qualificato nel<br />
Varietà, comunque composto di numeri. È il vero mondo che<br />
genera Totò e nel quale si muove come il pesce nell’acqua. Il<br />
cinema gli offrì un nuovo strumento d’espressione. Che pose<br />
alcune nuove necessità e ridusse, ovviamente, alcune<br />
componenti spettacolari della attività di palcoscenico, anche se<br />
la Maestria di Totò, in alcuni casi, seppe reintrodurle e adattarle.<br />
Per questo si veda Totò a colori regia di Steno, 1952 e, in specie,<br />
la sequenza della “banda danzante” e la riproduzione della<br />
“corsa dei bersaglieri” con cui spesso, negli spettacoli chiudeva<br />
la “passerella”, scena con cui termina anche il corto per la RAI Il<br />
grande Maestro (regia Bruno Corbucci, 1967).<br />
Nel lungimirante e acuto saggio dal titolo Cinema e Poesia con<br />
cui Pasolini introduce la sceneggiatura del suo film che ebbe<br />
protagonista Totò, con Ninetto Davoli, il poeta-regista sviluppa<br />
una interessante riflessione sul particolare sistema semantico<br />
del cinema, che contiene dei paradossi. Insiste sul fatto visivo<br />
capace di alterare il significato stesso delle parole. Tale fatto, poi<br />
viene potenziato sul piano evocativo-simbolico, data la<br />
“oggettiva” – altro paradosso – fantasmaticità del cinema, rispetto<br />
al Teatro che è, certo in senso fortemente trasfigurante, luogo di<br />
corpi presenti. D’altro canto, il grande massmediologo Marshall<br />
McLuhan, pioniere e profeta, bene ebbe a precisare la natura<br />
diversa, in senso espressivo e comunicativo dei vari media con<br />
la celebre distinzione – certo ora perfettibile ma valida nella<br />
sostanza – di media caldi e freddi. I primi destinati a consentire<br />
allo spettatore, in ragione di una potente quantità informativa e<br />
particolare strutturazione del segno, poca possibilità integrativointerpretativa<br />
(all’epoca McLuhan individuava così la televisione)<br />
e i secondi a fornire invece ampie possibilità di tale tipo (in<br />
primis la fantasmaticità della radio). Il cinema non solo si pone<br />
in un territorio ambivalente – in ragione della dimensione<br />
squisitamente narratologica del film – ma si presta a enfatizzare,<br />
ingigantendo di fatto, aspetti di dettaglio e dunque prossemici.<br />
La sua “fantasticità” – un volto “grande” anche 9 metri per 4! –<br />
gioca a favore di una sorta di dilatazione mitica del visibile e del<br />
piccolo, che diventa enorme.<br />
È evidente che, in tal senso, la maschera conosce nuova stagione<br />
e nuova propulsione. Se poi la maschera assume funzione<br />
oracolare allora è facile capire come la straordinarietà dei mezzi<br />
espressivi di Totò divenne foriera di una potenza comunicativa<br />
mai esperita prima.<br />
Sul linguaggio Totò compì un’operazione che va ben al di là della<br />
celia sulla sua capacità di equivocare e/o deformare lo stereotipo,<br />
mirando a colpire spesso un lessico perbenista e fortemente<br />
piccolo-borghese, specchio di una “italietta” ricca di tic<br />
comportamentali. L’operazione di sordida fuorvianza ha almeno<br />
due caratteristiche base: una è di tipo iconico e tende cioè a<br />
cristallizzare forme idiomatiche in modo improprio dove lo<br />
slittamento nell’assurdo, nel surreale è più spesso<br />
metasignificato quale “E parli come badi!” e “Signori si nasce e<br />
io, modestamente, lo nacqui!” per tutte; l’altra ha invece carattere<br />
interlocutorio, mirato a portare nella confusione l’alter ego<br />
utilizzando i suoi stessi mezzi, sorta di arte marziale passiva fatta<br />
con il Logos: si fa cadere l’avversario sfruttando la sua carica<br />
aggressiva e il suo peso reale (la gag con l’onorevole Trombetta-<br />
Mario Castellani in Totò a colori, che viene portato a dire cose<br />
assurde “trasformando” sue affermazioni o la scena con<br />
l’ispettore delle dogane Mastrillo-Nino Taranto cui “rilancia”<br />
l’accento barese generando equivoci in Totò contro i quattro,<br />
regia di Steno, 1963). Naturalmente velocità, spirito<br />
d’improvvisazione, inclemente senso del ritmo sono alcuni<br />
strumenti che organizzano sequenze di questo tipo.