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42 - Hiram n.2/2016<br />
grandeoriente.it<br />
tive, prima individuali o nomadi, poi stabilmente organizzate. Ed<br />
è probabile che dall’intersezione tra pratiche religiose e ricerca di<br />
risorse economiche nacque l’agricoltura, una tecnica di adattamento<br />
culturale che favorì l’organizzazione di insediamenti permanenti<br />
e la crescita economica delle prime società. Se il primo<br />
ordine normativo-sociale fu di tipo religioso, è stata la religione a<br />
introdurre l’idea di cose come norme sociali o condotte morali, e<br />
quindi l’idea della politica come tecnica di stabilizzazione di società<br />
ordinate dalla religione. La religione avrebbe quindi un primato<br />
genetico sulla politica: semplicemente, ne è la causa.<br />
Tolleriamo valori altrui diversi dai nostri? L’oggetto della tolleranza<br />
è un valore? No. Noi tolleriamo fatti, non valori. Da questa affermazione<br />
apparentemente radicale ma in realtà del tutto ovvia, discendono<br />
tre conseguenze non banali. (1) Tolleriamo fatti che<br />
hanno un significato importante per chi li realizza: qualcuno potrebbe<br />
anche e persino chiamare questi fatti “valori”, ma il discorso<br />
non cambierebbe, perché in realtà non sono valori, e a dire il vero<br />
non si vede come un valore – se fosse tale – potrebbe (e dovrebbe)<br />
essere oggetto di ponderazione sociale. (2) I valori sono sempre<br />
plurali, sono pratiche sociali degne della massima importanza in<br />
una società. Dunque sono cose valide secondo la legge. Quindi,<br />
non ha senso nemmeno porsi la domanda se ciò che dovremmo<br />
essere chiamati a tollerare sia un valore. Se lo è, non sarà vietato,<br />
sarà permesso. (3) In buona sostanza, qui non si tratta di stabilire<br />
che cosa sia un valore, né di cercare un criterio per qualificare qualcosa<br />
come un valore, poiché tale criterio introdurrebbe una gerarchia<br />
di valori e genererebbe una lista di valori sociali praticabili,<br />
escludendone inevitabilmente altri sulla base di un metro meramente<br />
qualificativo.<br />
Pertanto, multiculturalismo e tolleranza non sono altro che condizioni<br />
necessitate dallo scontro per la sopravvivenza. Per rispondere<br />
alla domanda “se è possibile tradurre libertà e valori in diritti”, abbiamo<br />
visto che la politica dà una risposta approssimativa e non<br />
sufficiente in termini universalistici: se gli esseri umani non raggiungono<br />
un accordo, si scontrano. E dal momento che i principi<br />
di natura e sopravvivenza governano anche quelle che sono chiamate<br />
regole sociali e politiche, non esistono libertà e diritti che<br />
possano valere sempre e universalmente.<br />
I risultati elettorali in Europa negli ultimi dieci anni hanno fatto<br />
emergere due cose: il minimo storico di affluenza alle urne ha evidenziato<br />
il massimo scetticismo nei confronti dell’attuale politica<br />
dell’Unione; la generale affermazione del centro-destra e dei partiti<br />
nazionalisti e regionalisti ha reso chiara l’esigenza di considerare<br />
prioritarie le urgenze della difesa europea come una difesa<br />
degli europei. La disaffezione alla tanto celebrata cittadinanza europea<br />
attesta il fatto che i diritti degli europei si devono garantire<br />
più dei diritti in Europa, e con maggiore sicurezza anziché con<br />
maggiore libertà.<br />
Il problema dei diritti in Europa si traduce oggi più che mai nel<br />
problema della garanzia dei diritti degli europei. La crisi dei diritti<br />
in Europa riguarda soprattutto il conflitto tra il senso di appartenenza<br />
a un’identità e il senso di appartenenza a un’istituzione. Il<br />
conflitto è stato probabilmente generato, e irrobustito, da un atteggiamento<br />
dell’Unione insufficiente o miope rispetto all’obiettivo<br />
di creare una simmetria, o una equivalenza, tra il senso di<br />
appartenenza identitaria e il senso di appartenenza istituzionale.<br />
Ciò che si è verificato è la diffusione di una crisi dell’opinione pubblica<br />
europea, che sorge e si manifesta in forme comunitarie distinte,<br />
ma convergenti nell’esprimere un rifiuto deciso di un<br />
sistema che non funziona. È un comunitarismo che può essere silenzioso,<br />
astensionista, persino qualunquista, o che porta all’espressione<br />
di un consenso mirante a strategie di sicurezza dei<br />
consociati, ovvero dei cittadini europei, più che alla tutela dei diritti<br />
di tutti i residenti. È sicuramente l’esito di un processo storico prodotto<br />
da scelte troppo impegnative, o troppo al di sopra degli strumenti<br />
e delle risorse da allocare. Ed è l’inizio di una nuova epoca<br />
di crisi, che però vuole evitare la perdita del senso di avere una<br />
cultura, dato che è solo attraverso la cultura che le realtà significative<br />
possono essere veramente sentite. La richiesta che affiora brutale,<br />
nettamente percepibile pur senza esser detta, è il non voler<br />
perdere la mia cultura: un insieme di abilità e conoscenze scientifiche<br />
che caratterizzano la grammatica semantica degli individui<br />
legati alle loro tradizioni e alle loro forme di vita. Paradossalmente<br />
ma comprensibilmente, i diritti che si rivendicano oggi nella crisi<br />
istituzionale europea non sono i diritti universali. Non sono i diritti<br />
umani, ma qualcosa come i diritti fondamentali degli europei. A<br />
rigore, ciò che oggi gli europei rivendicano è principalmente il diritto<br />
di esistere e quindi di resistere. Gli elettori hanno capito che<br />
la politica dell’Unione ha fallito puntando sulla cittadinanza come<br />
il requisito della salvaguardia dell’identità europea. La cittadinanza<br />
formale non risolve il problema dei conflitti culturali.<br />
Che senso ha parlare di pluralismo in questo caso? Il pluralismo è<br />
possibile solo come coesistenza di valori reciprocamente praticabili<br />
in un determinato contesto. Il problema ineludibile è che società<br />
culturalmente affini tendono a coesistere, società culturalmente<br />
non affini tendono a evitarsi. Si spiega così ad esempio la sopravvivenza<br />
culturale di costumi irriducibilmente fondamentalisti da<br />
parte di membri di comunità islamiche nel Regno Unito. Cittadini